LA RIFORMA
GREGORIANA
Presento qui
le lezioni, che tenni negli anni 1975-1982, pertanto la bibliografia è molto
datata.
Ovviamente
feci riferimento a tutti i manuali di Storia della Chiesa allora disponibili.
Inoltre:
A.
FLICHE, La reforme
gregorienne, 3 volumi, Louvain-Paris 1924/1937
H. - X. ARQUILLIERE, Saint Grcroire VII. Essai sur sa conception du pouvoir pontifical,
Paris 1931
G. TELLENBACH, Libertas. Kirche und Weltordnung im Zeitalter des Investiturstreites,
Stuttgart 1936
R. MORGHEN, Gregorio
VII, Torino 1942
G. MICCOLI, Pietro Igneo. Studi sull’età gregoriana,
Roma 1960
G. MICCOLI, Chiesa
gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, Firenze 1966
Ricordo
infine che su Gregorio VII e sui problemi della sua epoca abbiamo una
monumentale raccolta di studi iniziata nel 1947 ad opera di G.B. Borino:
Studi gregoriani per la
storia di Gregorio VII e della riforma gregoriana, 7 volumi, Roma 1947-1961.
E’
aperta una discussione tra gli storici a proposito del carattere innovativo o
tradizional-conservatore della riforma gregoriana:
A.
FLICHE, op. cit.: attribuisce alla riforma gregoriana una impronta
tradizionalista, in quanto non farebbe altro che situarsi in continuità con la
linea della politica papale, che risale ai primi secoli della Chiesa.
E. CASPAR, Gregor VII in seinen Briefen : Historische
Zeitschrift
130 (1924), 1-30: sostiene invece che Gregorio VII fu un innovatore.
N.
F. CANTOR, Church, Kingship,
and Lay Investiture in England 1089-1135 , Princeton 1958, 6-9: ritiene che la riforma del secolo XI debba essere
considerata una delle quattro grandi rivoluzioni mondiali.
B. TIERNEY, The
Crisis of Church and State, 1050-1300, Prentice-Hall 1964, 47-48: sostiene che alla base
della riforma c’è un atteggiamento conservatore, che si rifà alla tradizione
antica della Chiesa, tuttavia l’applicazione di questa visione – anche se non
del tutto compresa – ad un’epoca diversa ebbe implicazioni rivoluzionarie per
quei tempi.
Il fenomeno di riforma, che segna il
trapasso dalla fase della coesione alla fase di diastasi, viene convenzionalmente
qualificato come “riforma gregoriana''. E’ evidente che si fa riferimento a
papa Gregorio VII, ma con ciò non si vuole affatto affermare che l'azione
riformatrice si è espressa esclusivamente
durante questo pontificato e in virtù dell'opera di questo papa soltanto: è
certo che i primi passi di tale trasformazione furono compiuti parecchio tempo
prima che Gregorio VII salisse sulla cattedra di Pietro ed è altrettanto certo
che la conclusione fu raggiunta qualche decennio dopo la morte di Gregorio VII.
Si deve pertanto concludere che questa riforma è “gregoriana'' perché ha in Gregorio VII il suo emblema.
1 - I primi passi della riforma gregoriana nel secolo X
La storiografia ha assegnato al secolo X l'etichetta
di secolo di ferro: a nostro avviso si tratta di un giudizio piuttosto sommario
e riduttivo. Non c’è dubbio che la società cristiana occidentale si presentò
all'inizio del nuovo millennio in situazione di grave decadenza. Non c’è dubbio
che la vita ecclesiale era gravemente compromessa dalla ingerenza padronale
della nobiltà, che aveva introdotto usanze e mentalità difformi dalla regula
canonica della Chiesa primitiva: il nicolaismo e la simonia del clero ne erano la
prova più evidente! Tuttavia si deve senz'altro riconoscere che non si può
ridurre tutto a questo denominatore comune di decadenza: un po' in tutti i
settori cominciavano ad apparire chiari segni di ripresa (si pensi alla
renovatio imperii, ai fenomeni di rinnovamento monastico, canonicale e
laicale). Proprio questo rilievo ci consente di dire che nel secolo X si ebbe
non solo il decomporsi di un certo ordine di cose, ma anche il primo timido
configurarsi di quella riforma, che caratterizzerà il secolo successivo: e
ancora una volta si può notare che nella storia non si dà mai una cesura
radicale tra un'epoca e l'altra.
I
primi cenni di riforma, che riscontriamo nel corso del secolo X presentano un
carattere piuttosto settoriale e morale.
La settorialità consiste prima di tutto
nel fatto che i vari tentativi di riforma non si spinsero oltre l'ambito
particolare, in cui si produssero (i monaci pensarono solo alla riforma della
vita monastica, i canonici si preoccuparono solo della riabilitazione della
vita canonicale); in secondo luogo la settorialità è data dal fatto che i vari
fenomeni di riforma interessarono solo alcune aree geografiche e non tutta la
realtà occidentale; infine la settorialità sta nel fatto che mancò un'autorità che
dirigesse e coordinasse tutta l'azione riformatrice.
Si
deve poi rilevare che la riforma del secolo X non fu istituzionale, ma
soltanto morale, in quanto la volontà di una maggiore purezza di vita portò a
combattere i vizi, ma ancora non si impegnò nella ricerca degli elementi
strutturali, che di tali vizi erano la causa.
Non
deve sfuggire che tra i circoli riformatori del secolo X ve n'era uno che, timidamente, mostrava dì spingere verso il
superamento della riforma meramente settoriale e morale: si trattava di Cluny.
Certo, Cluny non si preoccupò che della riforma monastica, ma ciò fece mettendo
in circolazione intuizioni nuove.
Per esempio Cluny perseguì la libertas monasterii,
ricorrendo alla donazione del fondo terriero a San Pietro, in quanto per tale
via si impediva agli elementi extra-monastici di intervenire nella vita
monastica a titolo di proprietà: ebbene, questa trovata non giungeva affatto a
mettere in discussione la globale relazione feudale, però era già qualcosa che
andava oltre la semplice riforma morale.
Altro esempio: Cluny perseguì la libertas
monasterii, introducendo nella vita monastica la pratica dell'esenzione e
della centralizzazione, fondate su un legame diretto con il Papa: anche qui si
trattava di una iniziativa che rimaneva nell'ambito monastico, però già
esprimeva un'esigenza di coordinamento sotto l'autorità della Sede Apostolica.
2 - L'azione di riforma nella prima metà del secolo XI
Le
intuizioni cluniacensi non trovarono applicazione più vasta nei primi decenni
del secolo XI, in quanto il papato, asservito agli interessi prima della
famiglia dei Crescenzi e poi dei Tuscolani, non poté coltivare più ampi
interessi di riforma.
Una certa azione di riforma fu invece promossa
dall'imperatore Enrico II (1002-1024). Grazie ad Enrico II la Riforma trovò
modo di superare la settorialità e frammentarietà del secolo X: tuttavia rimase
riforma soltanto morale, in quanto un sovrano tedesco, che fondava il suo
potere politico soprattutto sul legame feudale degli ecclesiastici, non poteva certo
promuovere una riforma strutturale. Espressione significativa di questa attività
riformatrice di Enrico II fu il sinodo di Pavia del 1022: l'imperatore insieme
con il papa Benedetto VIII si scagliò contro la piaga del nicolaismo,
disponendo la deposizione degli ecclesiastici che osavano passare al
matrimonio. Nel valutare questo provvedimento si tenga presente che esso non fu
primariamente suggerito da preoccupazioni di carattere spirituale, ma piuttosto
dall'esigenza di impedire che il patrimonio ecclesiastico cadesse nelle mani
dei figli dei preti.
Enrico II morì senza lasciare figli e pertanto il
nuovo re tedesco fu scelto non più tra i membri della dinastia sassone, ma tra
quelli della dinastia di Franconia o Salica.
Il
nuovo imperatore Corrado II sotto il profilo politico fu un sovrano di notevole
valore, ma sotto il profilo ecclesiastico fu assai meno apprezzato del suo
predecessore: preso dall’esigenza di consolidare sempre più il potere politico,
Corrado II non esitò a subordinarvi l’aspetto ecclesiastico, giungendo per
esempio ad imporre agli ecclesiastici un forte relevium in occasione
dell’investitura. Di per sé questo modo di procedere non si configurava come
una vera e propria pratica simoniaca, poiché il relevium non era in relazione
con l’ufficio spirituale in quanto tale, ma con le regalie e il dovere di
servitium, tuttavia in quel tempo lo spirito di riforma era così acceso da non
sopportare in nessun modo l’uso di denaro in connessione con l’elevazione ad un
ufficio ecclesiastico e perciò gli ambienti riformatori considerarono Corrado II
un avversario, un simoniaco. In verità anche questa esperienza negativa non fu del
tutto superflua, infatti fece maturare la convinzione che il coordinamento
della riforma, se affidato al solo potere imperiale, non aveva sufficienti
garanzie di continuità e di durata.
Fu
sotto Enrico III (1039-1056) che trovò attuazione l’esigenza di superare la
settorialità mediante un coordinamento, che
non si limitasse al solo potere
imperiale. Enrico III sentiva profondamente la sublimità della monarchia
sacrale e perciò non si limitò
soltanto a procurare saldezza al potere politico, ma anche si dedicò ad un'opera
di rinnovamento morale: introdusse nel governo dell’impero l’idea della pace di
Dio; nella elezione dei vescovi intervenne non solo per assicurarsi un fedele
subalterno, ma anche per garantire la scelta di una persona moralmente degna; a
parecchi monasteri garantì la libertas dalle ingerenze della nobiltà locale,
sottomettendoli alla protezione regia; infine abolì il relevium richiesto da
suo padre in occasione dell’investitura di benefici ecclesiastici.
Questo
spirito di riforma morale, con cui interpretava il carattere sacrale della sua
missione regale, portò Enrico III ad interessarsi della decadenza del papato e,
per questa via, giunse ad associare il papato nell’azione di riforma.
3 - Gli
avvenimenti dell'anno 1046
Nel
1012, alla morte di Giovanni III Crescenzio, in Roma il potere era passato
nelle mani della famiglia dei Tuscolani, capeggiata dal conte Alberico di
Tuscolo. A questo puntò il papato divenne praticamente un bene di famiglia: nel
1012 Alberico fece eleggere come papa il fratello Teofilatto, che assunse il
nome di Benedetto VIII; nel 1024 assicurò il papato ad un secondo fratello di nome
Romano, che divenne papa Giovanni XIX; infine nel 1032 Alberico portò sulla
sede romana il figlio Teofilatto, che assunse il nome di Benedetto IX e che si è
iscritto nella storia, del papato come una delle figure peggiori.
Parecchie
fonti ci fanno sapere che Benedetto IX divenne papa in giovane età: Rodolfo
Glabro afferma che Benedetto IX doveva avere allora circa dodici anni (RODOLFO
GLABRO, Historiarum sui temporis libri
quinque IV, 5; V, 5 : PL CXLII coll. 611-98; MGH SS VII, pp. 51-72).
Storici più recenti (L. POOLE, Benedict IX and Gregory VI : Proceding of the British Academy 1917-18,
pp. 199-235 e S. MESSINA, Benedetto
IX Pontefice Romano, Catania 1922) a partire dai delitti che
furono ascritti al giovane Teofilatto, preferiscono attribuire al nuova papa un’età
di trenta anni circa, in quanto un bambino non avrebbe potuto osare tanto! Il
potere di Benedetto IX divenne precario verso il 1044, quando il giovanissimo e
debolissimo papa tuscolano, rimasto senza l’appoggio politico-militare del
padre Alberico, morto in quel frattempo, si trovò a fronteggiare una ribellione,
che fu dettata non da motivazioni morali, cioè dal disgusto per la sua vita perversa (tesi di
Bilmeyer-Tuecle), ma da ragioni di natura politica in quanto fu provocata da
alcuni movimenti di opposizione, che facevano capo ad una linea laterale dei Crescenzi
(gli Ottaviani), che aveva la sua roccaforte in Sabina e voleva sbarazzarsi dei
Tuscolani. Non per nulla nel settembre 1044 quando Benedetto IX fu costretto ad
abbandonare Roma, venne eletto come nuovo papa un vescovo della Sabina, Giovanni,
che assunse il nome di Silvestro III. Ma dopo poco più di un mese Benedetto IX
riuscì a riprendere il potere. Silvestro III se ne tornò in Sabina e pare che
non abbia mai più avanzato pretese in
ordine al papato. Benedetto IX dal canto suo cominciò a convincersi che in
quelle condizioni l'ufficio papale era piuttosto un peso e pertanto giunse a
maturare l'intenzione di dimettersi, ponendo una sola condizione: chiedeva che
gli venissero versati mille talenti d'oro a titolo di compenso per le spese che
la sua famiglia aveva dovuto affrontare nel 1032 per finanziare la sua
elezione.
Il
desiderio di accantonare un papa così indegno spinse subito alcune persone a
trattare con Benedetto IX e a versargli la somma richiesta: faceva parte del
gruppo un certo Graziano, pio arciprete della Chiesa di S. Giovanni di Porta
Lata e padrino di battesimo di Teofilatto stesso. Questo Graziano, appunto, fu poi scelto come
nuovo papa col nome di Gregorio VI (1045). Per due anni circa Gregorio VI poté
godere del riconoscimento sia degli ambienti riformatori, sia della stessa
corte imperiale: ciò che si conosceva del papa, la sua integrità morale, entusiasmava:
ciò che invece poteva suscitare una qualche perplessità, la questione dei mille
talenti d'oro, per molto tempo rimase nel segreto. Però verso l’autunno del
1046 una qualche voce cominciò a trapelare e sia gli ambienti riformatori
italiani, sia lo stesso Enrico III, che si trovava allora in Italia per recarsi
a Roma a cingere la corona imperiale, iniziarono a diffidare di Gregorio VI e
a pensare che forse era il caso di sbarazzarsi completamente della situazione
carica di ambiguità, che si era creata a Roma negli anni dal 1044 al 1046, per
dare avvio ad un nuovo corso moralmente indiscutibile.
Enrico
III passò all'attuazione di queste intenzioni: il 20 dicembre riunì a Sutri un
sinodo per giudicare la questione del papato.
In genere si dice che allora vi erano tre papi,
in realtà questa affermazione non ha nessun fondamento storico, in quanto
Silvestro III si era ritirato completamente dalla scena ed anche Benedetto IX,
una volta rassegnate le dimissioni, non aveva recato disturbi a Gregorio VI,
che pertanto nel 1046 era il solo papa effettivamente in carica.
Il sinodo di Sutri decise di deporre papa
Silvestro III e papa Gregorio VI; tre giorni dopo un nuovo sinodo procedette
alla deposizione di Benedetto IX e passò alla elezione del nuovo papa. Su
suggerimento di Enrico III venne eletto Suigero, vescovo di Bamberga, che
assunse il nome di Clemente Il. Il nuovo papa ricevette la consacrazione il
giorno di Natale e poi compì l'incoronazione imperiale di Enrico III. Gli avvenimenti che abbiamo
sinteticamente presentato pongono alla critica storica varie e assai dibattute
questioni.
La prima riguarda l'accusa di simonia
mossa a Gregorio VI, che fu la ragione della sua deposizione. Diversi storici,
per dimostrare che la deposizione fu ingiusta, si sono messi ad indagare se Gegorio
VI sia veramente incorso nel crimine formale di simonia. Alla fine sono giunti
a queste conclusioni: Gregorio VI non sarebbe incorso nel crimine formale di
simonia, prima di tutto perché non avrebbe preso parte personalmente alla
transazione pecuniaria (ma bisognerebbe anche dimostrare che non ne era al
corrente) ed in secondo luogo perché la stessa transazione pecuniaria non
sarebbe configurabile come simonia, come vera compra-vendíta del pontificato:
fu solo un rimborso spese. A noi pare che un tale modo di procedere sia del
tutto anacronistico: non si deve cercare se Gregorio VI sia incorso nel crimine
di simonia formalmente considerato, secondo una valutazione oggettiva, tecnica,
che prescinda dal contesto storico particolare in cui la questione fu
giudicata. Si tratta piuttosto di vedere che cosa allora, dalla mentalità
dominante in quel momento fosse considerato simonia: e noi sappiamo che in
quei tempi lo spirito di riforma era così acceso da considerare simoniaca ogni
operazione finanziaria, che avvenisse in connessione con un'elevazione. Lo
stesso Enrico III partecipava a questo clima, infatti si ricordi che lui pure considerò
simoniaco il relevium richiesto da suo padre Corrado II e lo abolì. Ebbene,
secondo questa mentalità Gregorio VI era un simoniaco: su questo punto le fonti
di quell'epoca sono concordi.
Una seconda questione: diversi storici ritengono
che la deposizione di Gregorio VI sia da considerarsi illegittima ex defectu
competentiae. Questa tesi aveva trovato sostenitori già ai tempi del Sinodo di
Sutri. Ad esempio il vescovo Vazone di Liegi dichiarò che il Sinodo era incompetente,
in quanto, secondo un principio delle decretali dello pseudo-Simmaco, “papa a
nemine iudicatur” (MGH SS VII, Gesta episc. Leod. c. 66 § 230). Anche l'autore,
forse francese, del trattato "De
ordinando pontifice" (MGH Lib. del Iite, p.14) sostenne l'incompetenza
di Enrico III, che praticamente a Sutri aveva imposto la sua volontà.
Un prete anonimo della Bassa Lotaringia riteneva
che Clemente II non doveva essere ritenuto papa, perché scorretta fu la
procedura della sua scelta. Fondandosi sulle decretali dello Pseudo-Isidoro, argomentava
che nessun laico ha il diritto di intromettersi nelle questioni ecclesiastiche.
Inoltre rimproverava a Enrico III di essersi mosso in base a motivi suoi
personali: sapendo che Gregorio VI non avrebbe riconosciuto il suo matrimonio
canonico irregolare, decise di scegliere un papa disposto a piegarsi alla sua
volontà (cfr Forschungen zur Detschen
Geschichte, XX, p. 570).
Noi riteniamo che non sia esatto accantonare
l'obiezione, adducendo il fatto che Gregorio VI avrebbe riconosciuto la sua
colpa e si sarebbe spontaneamente dimesso. Anche se testimoniata dalle fonti,
questa spontaneità non può non apparire sospetta, poiché è certo che Enrico III
non lasciò molti margini di libertà alla volontà di Gregorio VI. A noi pare che
l'obiezione di incompetenza del giudice possa essere rimossa per altra via. Si
deve ricordare che la tradizione recava non solo il principio “papa a nemine iudicatur”
ma anche il ricordo di vari interventi contro papi indegni. Non per nulla di li
a un secolo Graziano nel suo Decretum,
il testo fondamentale della canonistica, non si limitò solo a ricordare il
principio “papa a nemine iudicatur”, ma anche richiamò l'eccezione “nisi a fide
devius deprehendatur”. Gregorio VI, papa simoniaco e quindi in errore circa la
dottrina dello Spirito Santo, rientrava in questa situazione d'eccezione, che
poneva sotto giudizio un papa.
Rimangono
i problemi del come ci si dovesse comportare nei confronti del papa indegno,
del chi avesse la competenza per intervenire e del valore di un tale intervento,
ma non possiamo pretendere che nel 1046 su questi punti ci fosse una prassi
definita, se ancora ai tempi di Graziano non ci sarà chiarezza.
Già
nel 799, quando si era posto il problema del papa Leone III, vedemmo che
accanto ad una forte corrente, che si atteneva al principio “papa a nemine
iudicatur”, c'era un'altra corrente, che auspicava l'intervento di Carlo Magno:
ebbene nel 1046 la situazione dovette essere analoga. Solo che nell'800 a
Leone III, per mancanza di accusatori formali, riuscì di sottrarsi al giudizio
con un giuramento purificatorio; a Gregorio VI invece nel 1046 non fu possibile
fare ricorso a qualcosa di simile, data l'inequivocabilità dell'accusa. Una
terza questione riguarda la mentalità, che avrebbe sorretto Enrico III in tale
intervento. E' certo che Enrico III avvertiva vivamente il carattere sacrale,
quasi sacerdotale, del suo potere imperiale: tale convinzione spingeva Enrico
III a sentirsi responsabile della riforma morale di tutta la cristianità.
Enrico III, poi, fedele alla visione ecclesiologica altomedioevale, riteneva
che tale opera potesse compiersi solo attraverso la collaborazione tra potere
regale e potere sacerdotale. Ecco allora che, per garantirsi la collaborazione
di un papato riformatore, l'imperatore ritenne di dovere liberare il papato dal
dominio della nobiltà romana e di dover fare in modo che i papi fossero persone
disponibili alla collaborazione con l'imperatore.
In
questa prospettiva il monarca tedesco dapprima si liberò dei papi ambigui
creati dalla nobiltà romana poi con la persona del vescovo di Bamberga impose
un candidato aperto sia alle istanze di riforma, sia alle istanze di collaborazione;
infine per assicurarsi che ciò potesse accadere anche in futuro, si fece
attribuire quel titolo di patrizio che aveva consentito ai Crescenzi e ai
Tuscolani di controllare le elezioni papali: Enrico III di conseguenza stabilì
che prima di procedere alla elezione di un nuovo papa i Romani si rivolgessero
al patrizio-imperatore tedesco per ottenere il consensus a procedere e la
designazione del candidato.
Enrico III poté adire a tale prassi quattro
volte: con Clemente II, con Damaso II, con Leone IX e con Vittore II e sempre
si trattò di vescovi tedeschi.
Questo modo di agire ha portato alcuni storici a
ritenere che Enrico III abbia voluto trattare il vescovo di Roma alla stregua
di qualsiasi altro vescovo dell'impero tedesco, che, quale membro della Chiesa
statale germanica, dipendeva dalla signoria del monarca tedesco (P. Kehr). Con G.
TELLENBACH (Libertas. Kirche und Weltordnung im Zeitalter
des Investiturstreits, Stuttgart,
1936) riteniamo
che la tesi va un po’ ridimensionata, perché l'Enrico III, che controllava così
pesantemente l'elezione del papa, sapeva anche non interferire nello svolgimento
dell’ufficio papale, una volta che l'elezione era avvenuta e ciò per la
convinzione che il vescovo di Roma non era riducibile alla relazione feudale, che
invece legava gli altri vescovi tedeschi all'imperatore. Pertanto riterremmo
che l’intervento nell'elezione del papa, pur riproducendo la forma della scelta
di vescovi tedeschi, non debba essere ascritta anch’essa alla visione di
Chiesa imperiale, ma semplicemente vada considerata un dato della contingenza
storica: allora quello era l'unico modo per eliminare il dominio della nobiltà
romana e per garantirsi dei papi disposti a collaborare con l’imperatore
nell'azione di riforma morale.
4 – LA RIFOMA SOTTO I PAPI TEDESCHI (1046 - 1057)
Possiamo
fare subito due rilievi generali.
Primo
rilievo: con i papi tedeschi il papato venne ad assumere un ruolo di primo piano
nella conduzione della riforma, ruolo che però fu condiviso con l'imperatore.
Secondo
rilievo: data la mentalità di coesione, la riforma perseguita durante questa
fase fu ancora esclusivamente morale: la si pensò come un ritorno alla purezza
della Chiesa romana dei grandi papi: da qui i nomi assunti dai papi tedeschi:
Clemente II, Damaso II, Leone IX, Vittore II.
Fu prima di tutto riforma del clero, a partire dalla convinzione che la vita
religiosa di tutta la società cristiana dipende fondamentalmente dalla vita del
clero.
Veniamo
ora ad alcuni accenni sul singoli papi.
CLEMENTE Il
Resse
la Chiesa dal 25 dicembre 1046 al 2 ottobre 1047. Evidentemente in nove mesi
non poté svolgere una efficace azione di riforma; ebbe il tempo solo per
enunciare propositi di riforma: ciò fece in un sinodo tenuto a Roma il 5
gennaio 1047, cui prese parte anche Enrico III. In tale circostanza fu
pronunciato l'anatema contro gli ecclesiastici simoniaci, ma secondo un
orientamento moderato: infatti venne stabilito che gli ecclesiastici, che
consapevolmente si erano fatti ordinare da un simoniaco, potevano essere
reintegrati nel loro ufficio dopo quaranta giorni di penitenza.
Alla
morte di Clemente II fece ritorno sulla scena il deposto Benedetto IX, che continuò
vanamente ad avanzare pretese fino alla morte (1055).
DAMASO II
Nel Natale del 1047 Enrico III rese nota la sua
designazione: si trattava del tedesco Poppone, vescovo di Bressanone, che
assunse il nome di Damaso II: fu intronizzato nel luglio 1048, ma dopo ventitre
giorni di pontificato era già morto!
LEONE IX
Più importante fu il pontificato del terzo papa
tedesco. Bruno, allorché fu designato a succedere a Damaso II, aveva
quarantasei anni e reggeva da oltre
venti anni la diocesi lotaringia di Toul. Come sappiamo, la Lotaringia era terra
di riforma e Bruno ne aveva assorbito lo spirito. Lo dimostrò fin dall'inizio
del suo pontificato: accettò la designazione imperiale, ma a condizione che vi
facesse seguito l'elezione canonica da parte del clero e del popolo romano. Infatti
il 12 febbraio Bruno si presentò a Roma, indossando non le insegne pontificie,
ma l'abito dimesso dei pellegrini. Fu acclamato come papa Leone IX. Con Leone
IX finalmente il papato passò dai propositi di riforma alla attività di riforma.
Nella sua opera riformatrice Leone IX fece ricorso in particolare a quattro
strumenti.
Prima di tutto raccolse intorno a sé un gruppo
di collaboratori, provenienti da varie regioni dell’Europa ed animati da
autentico spirito di riforma.
Vi
si distinguono: Umberto, del monastero lorenese di Moyenmoutier, nominato da
Leone IX cardinale vescovo di Silva Candida. Federico, figlio del duca di
Lorena, arcidiacono della Chiesa di Liegi e nel periodo che va dal 1051 al 1055
cancelliere della Chiesa Romana; diventerà poi papa Stefano IX; Ugo Candido del
monastero lorenese di Remiremont e poi il cardinale presbitero Ildebrando,
romano, che aveva accompagnato in esilio il deposto Gregorio VI: Leone IX lo
ordinò suddiacono e gli affidò l’amministrazione del monastero di s. Paolo: sarà
poi papa Gregorio VII. Raccogliendo intorno a sé questi collaboratori, Leone
IX assicurò alla sua azione riformatrice la possibilità di continuare arche
dopo la sua morte. Inserendo alcuni di questi collaboratori nel gruppo dei
cardinali, Leone IX attribuì a questo collegio un nuovo compito: non doveva più
svolgere solo funzioni liturgiche nelle basiliche romane maggiori, ma d'ora in
poi doveva anche essere un organo, che affiancava il papato nell'amministrazione
della Chiesa. Infine la presenza, accanto al papa, di un gruppo internazionale
spinse sempre più la Sede Apostolica verso una mentalità e verso un'azione, che
andavano ben oltre le beghe delle casate romane.
Secondo
strumento di riforma approntato da Leone IX: i Sinodi romani quaresimali di
riforma. Con questo papa tali concili cominciarono ad essere celebrati con
frequenza annuale. Vi partecipavano non solo i vescovi della provincia
ecclesiastica di Roma, ma anche altri vescovi dell'Occidente invitati dal papa,
oppure presenti a Roma durante la riunione conciliare. La presenza di questi
vescovi attorno al papa non è da
leggersi come una affermazione della collegialità episcopale, responsabile
della cura omnium ecclesiarum, va letta piuttosto come un'espressione della
dipendenza dalla supremazia del papato, che in maniera monarchica rispondeva
alle esigenze di tutta la Chiesa, disponendo misure di riforma e comunicandole
ai vescovi, perché le avessero ad attuare nelle rispettive diocesi. I concili
generali medievali, in quanto non saranno altro che un allargamento di questi concili
romani quaresimali, esprimeranno questo singolare ruolo papale e perciò sono qualificati
dagli studiosi come concili papali.
Terzo
strumento: i viaggi. Quello di Leone IX fu un pontificato itinerante:
per tre volte il papa si portò oltre le Alpi, annualmente si recò nell'Italia Meridionale.
Spesso questi viaggi consentono al papa di rendere presenti anche fuori Roma
le decisioni prese nei Sinodi romani di Quaresima: ciò avvenne nel 1049 con i Sinodi
di Pavia, Reims e Magonza, nel 1050 con i Sinodi di Siponto ( Puglie) e
Vercelli, nel 1053 con il Sinodo di Mantova.
Questi viaggi ebbero un notevole valore per
l'autorità pontificia. L'idea che il papa fosse il capo di tutta la Chiesa
trovava concreta affermazione; il fatto poi che tanta gente potesse vedere con
i propri occhi un papa di indiscutibile virtù si traduceva in attaccamento al
suo ufficio. In connessione con questi viaggi si determinò una evoluzione importante
nella Curia papale. Prima di Leone IX per la stesura dei documenti la Sede
Apostolica non disponeva di un suo proprio gruppo di tabellioni, ma si serviva
dei tabellioni romani, ora Leone IX, dovendosi spostare da un luogo ad un
altro, si trovò nella necessità di istituire un gruppo di tabellioní al
servizio esclusivo della Sede Apostolica ed in grado di seguire la peregrinatio
papale: abbiamo qui i primi accenni di una vera e propria cancelleria papale.
Quarto
strumento: le collezioni canoniche. Le pratiche nefaste erano riuscite a
corrompere la vita ma non erano riuscite ad alterare i testi canonici. Così il
diritto cominciò ad apparire come l'immutabile guardiano della tradizione (A.
Fliche), a cui occorreva fare riferimento, se si voleva ridare alla Chiesa la
sua antica purezza. Del resto Leone IX nella sua lotta contro la simonia e il
nicolaismo dovette compiere vari interventi e quindi si trovò nella necessità di
mostrare il fondamento giuridico della sua azione. Nella stessa direzione fu spinto
anche dalla polemica con l'oriente circa il primato, polemica che sotto il
pontificato di Leone lX divenne particolarmente aspra. Ed ecco che sotto questo
papa, appunto, per rispondere a queste esigenze, fece la sua apparizione la
prima collezione canonica legata alla riforma gregoriana: la collezione “in 74
titoli” o “Diversorum Sententiae patrum”, talora attribuita a Umberto di Silva
Candida.
Vediamo
ora i contenuti della riforma promossa da Leone IX. L'attenzione rimaneva rivolta
al clero, la cui vita doveva essere liberata dalle due piaghe del nicolaismo e
della simonia. Tuttavia Leone IX introdusse in tale azione due novità. Prima di
tutto durante questo pontificato la Sede Apostolica venne ad assumere nella
riforma un ruolo deciso di conduzione: l’imperatore continuava ad essere
considerato un necessario collaboratore ma di fatto il suo ruolo divenne sempre
meno rilevante. In secondo luogo con Leone lX la Sede Apostolica avvertì quali
erano le possibilità effettive di azione e pertanto giunse a precisare una
strategia di riforma: comprese
infatti che il fronte su cui il papato doveva impegnarsi non poteva essere
quello del nicolaismo, in quanto questa piaga era diffusa soprattutto tra il
basso clero e qui la Sede Apostolica non poteva agire direttamente, ma doveva
piuttosto fare affidamento sull’intervento capillare del vescovo locale. Da qui
derivava che prima preoccupazione del papato doveva essere la riforma dell’episcopato,
che era corrotto soprattutto dal vizio della simonia. A questo punto siamo in
grado di capire come mai durante il pontificato di Leone IX gli interventi
contro il nicolaismo furono rari, di portata locale (praticamente contro i
nicolaiti della diocesi di Roma e della provincia romana): vi si stabiliva che
i fedeli dovessero disertare le celebrazioni presiedute da preti nicolaiti e
che le donne di tali preti dovessero essere ridotte al rango di schiave del
palazzo lateranense. Contro la simonia invece l'azione divenne notevolmente
decisa e a vasto raggio.
La
lotta contro tale vizio partiva da una preoccupazione di carattere dottrinale:
nella simonia si vedeva non solo una degenerazione morale, ma anche un
attentato diretto o indiretto contro la Fede.
Leone
IX su questo punto, simonia come attentato diretto contro la fede, quindi come
eresia, faceva propria quella posizione
radicale, che trovò espressione nei primi due libri dello “Adversus Simoniacos''
di Umberto di Silva Candida (PL 143, cc 1004-1212; MGH Lib de lite 1, 95-253).
Umberto
di Silva Candida prima di tutto assumeva un concetto molto ampio di simonia: in
continuità con s. Gregorio Magno (Homilia IV in Evangelia: PL 76, cc 1091-1092),
Umberto di Silva Candida per simonia intendeva non solo il traffico di cose
sacre attraverso prestazioni economiche, ma ogni tipo di prestazione umana che
mirasse a ottenere come ricompensa un bene spirituale. Perciò Umberto, come Gregorio
Magno, parlava di MUNUS A MANU (= dono in denaro o qualche altro vantaggio
temporale), MUNUS AB OBSEQUI0 (= prestazioni servili: quella che un servo rende
al suo signore), MUNUS AB ORE o A LINGUA (= adulazioni, lusinghe).
In
secondo luogo Umberto di Silva Candida conferiva alla simonia il carattere di
diretto attentato contro la fede. Secondo Umberto la simonia è una negazione
chiara della gratuità (grazia implica il concetto di gratuità) dei Sacramenti e
quindi una negazione della assoluta libertà dello Spirito, che agisce nei
Sacramenti: negare l'assoluta libertà dello Spirito è come negarne la divinità,
pertanto la simonia era una evidente eresia antitrinitaria.
Infine
Umberto dal carattere ereticale della simonia traeva l'affermazione della nullità
dei Sacramenti conferiti dai simoniaci. Il simoniaco, così argomentava Umberto,
quale eretico non appartiene più al Corpus Christi, ma al Corpus Diaboli e
pertanto non possiede lo Spiritus Christi, che produce gesti di salvezza, ma
possiede lo Spiritus Diaboli, che genera dannazione. Da ciò in primo luogo
consegue che le celebrazioni sacramentali compiute da simoniaci sono solo
sacramentum (= segno, rito, gesto esteriore), privo della virtus Sacramenti e
pertanto inefficace; in secondo luogo consegue che bisogna rifiutarsi di
prendere parte a queste celebrazioni, in quanto non solo non sono salvifiche,
non solo non aggregano al Corpus Christi, ma addirittura aggregano al Corpus
Diaboli, sono fonte di dannazione. Come si vede per Umberto di Silva Candida
l'astensione dai sacramenti celebrati da simoniaci non era una semplice misura
disciplinare, mirante a suscitare ravvedimento (come appunto si faceva coi
nicolaiti): era invece la conseguenza necessaria di una certa visione
dottrinale, che in tali sacramenti celebrati da eretici riconosceva dei gesti
incapaci di salvare e capaci invece di contaminare.
Ebbene
nel Sinodo romano quaresimale del 1049 Leone IX, a partire da una visione del
genere, tentò di affermare la nullità dei sacramenti celebrati da simoniaci e
più tardi, per ragioni di sicurezza, fece riordinare vescovi consacrati simoniacamente.
E’ chiaro che una siffatta visione dottrinale, connessa con un concetto molto
ampio di eresia, aveva pesantissimi riflessi a livello pratico: il numero dei
vescovi e dei sacerdoti validamente ordinati subiva una pesante riduzione e
quindi per moltissimi fedeli diventava praticamente impossibile accedere ai
sacramenti.
Per
questa ragione già al Sinodo del 1049 si espresse una tenace opposizione nei
confronti del proposito di Leone IX e questi dovette venire a più mite
posizione: sanzioni disciplinari sì, fino alla deposizione, se necessario, ma
pronunciamenti così radicali no!
L'opposizione alle tesi della nullità dei
sacramenti amministrati da simoniaci trovò espressione dottrinale in un'opera
di Pier Damiani: il “LIBER GRATISSIMUS”
(PL 145, col. 99-156; MGH lib. de lite I, p. 15-75).
S. Pier Damiani fonda la
tesi della validità delle ordinazioni simoniache su due tipi di considerazioni.
Prima di tutto s. Pier Damiani ritiene che la simonia non possa essere
considerata una vera e propria eresia, in quanto essa è degenerazione pratica
che
non si spinge direttamente contro verità di fede, ma le coinvolge solo
indirettamente. Pertanto, non essendo il simoniaco un eretico, non c'è ragione
di negare la validità dei suoi sacramenti, come di fatto non si nega la validità
dei sacramenti conferiti da nicolaiti.
In secondo luogo s., Pier Damiani ricorre al carattere
ministeriale del potere d’Ordine: il ministro del sacramento non è altro che un
canale, che trasmette la grazia di Cristo: colui che veramente opera nei
sacramenti è Cristo stesso.
(Per
inciso: l' “Adversus simoniacos, benché da noi citato prima dell'opera di Pier
Damiani, è stato scritto in risposta al Liber Gatissimus: noi l'abbiamo
anteposto per una ragione logica: l'Adversus simoniacos esprime la stessa
posizione dottrinale che Leone IX aveva tentato di imporre al Sinodo romano
del 1049 e che aveva suscitato la reazione di Pier Damiani).
La presenza delle due tesi contrapposte ci
mostra chiaramente il carattere ancora fluido della teologia sacramentaria del
tempo: tale fluidità era dovuta al fatto che la cultura di questo periodo era
in gran parte ripetitiva delle sententiae patrum, che su questo punto non erano
affatto univoche.
Si ricordi per esempio la controversia
battesimale tra Cipriano e papa Stefano, dove Cipriano sosteneva la tesi della invalidità
dei sacramenti conferiti da eretici e quindi le necessità del ribattesimo, che
invece da papa Stefano veniva negata. Si ricordi come Agostino nella
controversia Donatista avesse sostenuto la tesi della validità del sacramento
conferito da eretici. Si ricordi come, ancora nella seconda metà del sec. IX,
questo duplice e contrastante orientamento teologico si fosse espresso a
proposito delle ordinazioni conferite da papa Formoso. Dunque nel sec. XI
sopravviveva ancora questa esitazione.
Solo
nel corso del secolo XIII si giungerà ad
una chiarificazione, grazie alla elaborazione di nuovi concetti come il
carattere, la distinzione tra potere di Ordine e potere e giurisdizione, la distinzione
tra validità e liceità: allora la tesi della validità sarà vincente.
cfr. E. AMANN, s.v. Réordinations : D TH C XIII/2 col
2385-2431;
L. SALTET,
Les réordinations. Etude sur le
sacrement de l’Ordre, Paris 1907.
Leone
IX, mentre a livello dottrinale fu costretto alla prudenza, ebbe invece la
possibilità di far sentire la sua durezza a livello disciplinare sia in Francia
sia in Italia, dove promosse varie inchieste, che portarono a colpire parecchi
simoniaci con pene di vario genere ed in diversi casi giunsero anche alla
deposizione. In Germania Leone IX esercitò un'azione più blanda, in quanto in
tale zona preferì lasciare libero campo all'imperatore Enrico III, di cui
conosceva lo zelo riformatore.
Decisamente
sfortunata fu invece l'azione di Leone IX contro i Normanni del sud-Italia.
Diversi soldati normanni erano venuti nel
meridione per prestare la proprio opera a signori locali; nel corso del secolo
XI vennero così a formarsi in questa area della penisola degli insediamenti
normanni con notevole autonomia politica: il normanno Rainulfo si trovò
praticamente a governare il ducato di Aversa; mentre il normanno Guglielmo
Braccio di Ferro divenne il signore delle Pugile.
Di per sé il papato avrebbe potuto prendere un
atteggiamento filo-normanno e servirsi di questi alleati per strappare il sud
alla dominazione bizantina ed araba e quindi riportare queste terre sotto la
giurisdizione patriarcale romana. Ma le lamentele, che la popolazione indigena
levava contro le scorrerie e le devastazioni normanne, spinsero il papato ad
anteporre ai propri interessi di potere un vivo senso di umanità. Pertanto Leone
IX maturò il progetto di muovere militarmente contro i Normanni.
Per questa ragione nell'estate del 1052 Leone IX
si recò in Germania da Enrico III al fine di ottenere un appoggio militare, ma
non ottenne che un appoggio morale. Tuttavia non si scoraggiò: in Germania
raccolse alcune truppe, che furono accresciute da milizie italiane e poi
raggiunse un intesa con i bizantini, che avrebbero assicurato di intervenire
accanto al papa contro i Normanni
Nel maggio del 1053 Leone
IX si decise a guidare personalmente il suo esercito nella lotta: si diresse
verso Melfi, dove avrebbe dovuto congiungersi con i bizantini, ma non vi
riuscì perché presso Civita (in Calabria) subì una irreparabile sconfitta: era
il 18 giugno. Il papa stesso fu portato come prigioniero a Benevento.
Alla base di questa discutibile impresa militare
di Leone IX sta una convinzione religiosa: il papa ha il dovere di imporre sia
ai chierici sia ai laici il rispetto della legge morale e quindi il rispetto
della giustizia e della pace. Leone IX ritenne di dover raggiungere questa meta
cristiana facendo ricorso al mezzo della guerra che, data la finalità che si
proponeva, appariva al papa come una guerra santa. Questa mentalità, tuttavia, allora
non trovò il consenso di tutti: un Pier Damiani avverti chiaramente che il
mezzo della guerra era disdicevole all'apostolico, anche se il ricorso a questo
mezzo era suggerito da una finalità religiosa (PL 144, IV, epist. IX, 313-316).
Ci resterebbe da considerare un secondo
fallimento di Leone IX: la sua relazione con la Chiesa d'Oriente. I contenuti
di tale contrasto saranno da noi esaminati nel corso della tesi dedicata alla
trattazione di questo tema specifico: per ora limitiamoci a ricordare che la
delegazione papale inviata a Costantinopoli, concluse i lavori con la rottura
che si protrae tuttora (16 luglio 1054, Bolla di scomunica). Il fatto che questo
epilogo sia stato raggiunto alcune settimane dopo la morte di Leone IX (19
aprile 1054) ha portato recentemente a mettere in discussione la legittimità
di quella bolla di scomunica. Ma è - a nostro avviso - significativo che il
problema sia stato sollevato piuttosto recentemente a partire da
preoccupazioni ecumeniche: allora, invece, l'operato della delegazione papale
non suscitò perplessità; anzi Umberto da Silva. Candida e Federico di Lorena, membri
di tale delegazione, continuarono a
svolgere un ruolo di primo piano.
Nel
marzo del 1055, per designazione di Enrico III, Leone IX ebbe un successore
nella persona di Gebardo, vescovo di Eichstätt, cancelliere imperiale: assunse
il nome di Vittore II.
Vittore II: sotto il profilo
ecclesiastico continuò l'opera di riforma del predecessore, continuando a
servirsi dei suoi più stretti collaboratori, in particolare di Umberto di Silva
Candida. Questa azione ebbe la sua espressione più significativa nel concilio
celebrato a
Firenze nel 1055, che rinnovò le condanne della simonia e del nicolaismo.
Quale ex cancelliere di Enrico III, Vittore
II svolse anche da papa una rilevante azione politica, soprattutto al fine di
portare pace tra l'imperatore e Goffredo il Barbuto. Questi, già duca della
Lotaringia, si era poi unito in matrimonio con Beatrice di Toscana (vedova del
marchese di Toscana, Bonifacio) e per questa via aveva raggiunto una singolare
posizione di potere, che gli consentiva di agire piuttosto liberamente nei
confronti della politica imperiale.
Per
riportare la pace tra i due, Vittore II nel 1056 si recò in Germania: riuscì
nel suo intento, ma di lì a qualche settimana dovette assistere alla morte di
Enrico III (5 ottobre). A questo punto papa Vittore II si sentì investito di
nuovo del ruolo di cancelliere imperiale e pertanto rimase in Germania per regolare
la questione della successione: fece eleggere quale nuovo re di Germania Enrico
IV, figlio dell'imperatore defunto. Essendo il nuovo re un bambino di sei anni,
la reggenza fu affidata alla madre Agnese. Vittore II potò infine riprendere la
via del ritorno in Italia, dove praticamente giunse per chiudere i suoi giorni:
il 28 luglio 1057 infatti. Vittore II morì ad Arezzo.
5 - La
riforma sotto i papi lotaringio-toscani (1057-1073)
Stefano IX
L'elezione
fu celebrata nella forma canonica il 2 agosto 1057, pochissimi giorni dopo la
morte di Vittore II (28 luglio). Evidentemente non si fece ricorso alla corte
tedesca per ottenere il consenso a procedere e la designazione dell'eletto. A
fatti compiuti, invece, fu inviata in Germania una delegazione, capeggiata da
Ildebrando, che doveva informare la corona tedesca ed ottenerne l'adesione.
Quale significato si deve attribuire a tale gesto? Su questo punto gli storici
divergono: chi (F. KEMPF) non vuole esagerare la portata dell'evento e pertanto
lo considera una misura di emergenza, imposta dalle particolari circostanze
storiche del momento, altri (A. FLICHE), invece, vi vedono un autentico colpo
di mano, dettato dalla precisa volontà di liberare il papato dall'ingerenze
imperiali. Prima di esprimere un parere forse è il caso di passare ad un'analisi
sia delle circostanze storiche, sia delle idee che circolavano allora negli
ambienti riformatori romani.
Una
prima circostanza storica, che poteva suggerire di procedere prescindendo dalla
designazione della corte tedesca era rappresentata dalla situazione romana: le
varie casate romane da tempo aspettavano l'occasione propizia per rimettere le
mani sul papato. Nel passato il potere di Enrico III si era rivelato sufficientemente
forte da poter sventare i progetti delle baronie romane. Ma nel 1057 il potere
tedesco si trovava nelle mani di un bambino ,che difficilmente avrebbe potuto
far fronte alla nobiltà romana: da qui l'esigenza di battere in velocità una probabile
elezione dominata dalla nobiltà romana, rinunciando di ricorrere alla corte
tedesca, in quanto ciò avrebbe imposto una lunga attesa.
Una
seconda circostanza da valutare era rappresentata dalla situazione della corte
germanica: qui vigeva prima di tutto una situazione di debolezza. Il re bambino
era rimpiazzato da una reggenza (la madre Agnese) totalmente succube di alcuni
consiglieri, che erano in continua lotta tra di loro per guidare la politica tedesca.
La nobiltà feudale laica dal canto suo sfruttava
la debolezza della monarchia per sviluppare le proprie pretese di ereditarietà
e di autonomia.
Alla corte germanica in secondo luogo vigeva una
situazione di incertezza circa la riforma: abbandonata sempre più dalla nobiltà
feudale laica, la monarchia tedesca si trovava costretta a dipendere sempre più
dalla feudalità ecclesiastica, chiaramente avversa ad ogni discorso di riforma.
Ebbene, questa situazione della corona tedesca
dovette impensierire gli ambienti riformatori romani. Era infatti lecito
ritenere che una designazione del papa, fatta da quella corte tedesca dominata
dalla feudalità ecclesiastica, avrebbe potuto esprimere un candidato ostile
alla riforma. Dunque, se si voleva garantire un papato riformatore, occorreva
in quel frangente trasferire il diritto di designazione dalla corte tedesca
agli ambienti riformatori romani, che erano senz’altro più idonei a garantire
un futuro alle istanze riformatrici del defunto Enrico III. D'altra parte la
stessa debolezza politica della corte tedesca di quel momento spingeva a
cercare un appoggio per la riforma contro la nobiltà romana nel vicino e potente
Goffredo Barbuto, duca di Lotaringia e marchese di Toscana. Da qui l'elezione
fatta, prescindendo dalla corte tedesca, da qui l'elezione di Stefano IX e cioè
del cardinale Federico, fratello di Goffredo Barbuto.
Ma accanto alle circostanze storiche è necessario
considerare la mentalità delle persone, che vi si trovarono ad agire.
Sotto Enrico III, come dicemmo, prevaleva una
mentalità di collaborazione tra i poteri. Nel corso degli anni cinquanta però si
verificò negli ambienti riformatori romani questa soluzione: soprattutto
durante il pontificato di Leone IX, sia per sostenere l'azione di riforma a
raggio internazionale, sia per le esigenze di polemica con la Chiesa orientale,
il tema del primato romano aveva conosciuto un momento di notevole riflessione
e di affermazione dottrinale.
In tale contesto evidentemente si giunse anche a
ripensare la relazione papato e impero. Proprio su questo tema nell'ambito
degli ambienti riformatori romani si formarono due tendenze. La prima faceva
capo ad Umberto di Silva Candida, che anche sotto Stefano IX fu uno dei
personaggi più influenti della curia romana: la formulazione teorica di questo
indirizzo si ebbe nel terzo libro del trattato “Adversus Simoniacos” ( PL vol.
CXLIII coll. 1007-212; MGH Lib. De lite I pp. 100-253 ), che fu pubblicato
durante le ultime settimane del pontificato di Stefano IX, oppure durante i
primi giorni del pontificato di Niccolò II. In questo libro Umberto poneva sul
tappeto il problema delle investiture. In seguito ad un'analisi del tempo
carolingio-ottoniano, il nostro autore giungeva ad attaccare tale sistema su due
punti in particolare: riguardo all'elezione dei vescovi si faceva rilevare che
non era più opera del clero e non avveniva più sotto il controllo della
gerarchia ecclesiastica provinciale; per riportarla a piena libertà si auspicava
un ritorno alla prassi della chiesa primitiva, che concedeva la prima vox al
clero e non al re; riguardo all'investitura degli ecclesiastici dichiarava
apertamente che non era conciliabile con il diritto ecclesiastico, in quanto
con l'investitura veniva conferito non solo il possedimento temporale, legato
all'episcopato, ma anche si attribuiva l'ufficio ecclesiastico, cosa che stava
ben al di là delle capacità di un laico!
Come
si vede la posizione di Umberto di Silva Candida, enunciando per la prima
volta l’esigenza di un riforma
strutturale, minacciava una radicale distruzione del sistema imperiale tedesco.
C'era
però una seconda tendenza, che faceva capo a Pier Damiani, l’eremita che Stefano
IX chiamò a far parte dei riformatori romani,
creandolo cardinale vescovo di Ostia. Orbene Pier Damiani nella sua “Disceptatio
Synodalis” (PL 145, col.86; MGH lib.de lite I, pp. 76-79) riaffermò la vecchia
linea di collaborazione armonica tra i due poteri. A tale tendenza si trovava
legato anche Ildebrando, che divenne appunto l'addetto alle relazioni con la
corte tedesca.
A
questo punto ci pare di poter esprimere il nostro giudizio sulla elezione del
1057: tra i riformatori romani dovette esserci convergenza assoluta sulla
necessità di procedere all'elezione, prescindendo dalla corte tedesca, ma non
dovette esserci convergenza circa le motivazioni, che raccomandavano un tale modo
di procedere: la tendenza di Pier Damiani favorevole alla collaborazione tra i
due poteri, dovette fondare tale scelta unicamente sulle circostanze storiche
particolari; la tendenza di Umberto di Silva Candida invece a ciò fu spinta non
solo dalle circostanze storiche, ma anche da ragioni ideologiche.
Il
nuovo papa Stefano IX probabilmente cercò di barcamenarsi tra le due tendenze:
del resto di più non poté fare, in quanto il suo pontificato non durò che otto
mesi (+ 29 marzo 1058).
Prima
di morire, Stefano IX fece giurare ai cardinali ed al popolo romano, che non
avrebbero eletto un nuovo papa prima del ritorno di Ildebrando dalla Germania,
dove si era recato per rendere ragione dell'elezione del 1057 e ottenerne l’adesione.
Niccolò II
Alla
morte di Stefano IX i riformatori si attennero al giuramento prestato e stettero
ad aspettare il ritorno di Ildebrando dalla Germania. La nobiltà romana invece
sfruttò la situazione e passò velocemente all'elezione di un suo papa nella
persona di Giovanni Mincius, vescovo di Velletri, che prese il nome di
Benedetto X, chiara dimostrazione di dipendenza dalla casa tuscolana, la casa
di Benedetto VIII e di Benedetto IX.
Evidentemente
i riformatori si guardarono bene dal piegarsi di fronte all'accaduto. Benedetto
X, per farsi intronizzare, non poté godere del tradizionale intervento del
cardinale-vescovo di Ostia, che allora era Pier Damiani!
Al ritorno di Ildebrando, i riformatori
passarono all'elezione canonica del nuovo papa: la scelta cadde su Gerardo
vescovo di Firenze, oriundo della Borgogna francese, che assunse il nome di Niccolò
II. Trattandosi di un vescovo della Toscana si poteva ancora una volta contare
sull’appoggio del marchese Goffredo Barbuto.
Essendo un’elezione controllata da
Ildebrando, non poté mancare il consenso della corte tedesca (le fonti non ci
consentono di stabilire se il consenso fu anteriore o successivo all'elezione).
Forte di questi appoggi politici, Niccolò II poté facilmente imporsi, su
Benedetto X.
Del
pontificato di Niccolò II ricordiamo tre
aspetti
1.
il decreto di elezione del 1059,
2.
i decreti di riforma
3.
la politica nei confronti dei Normanni.
1)
Il decreto di elezione del papa del 1059
Il nuovo papa dovette subito affrontare due problemi:
regolarizzare la procedura eccezionale, con cui si era giunti alla sua elezione:
infatti Niccolò II non fu eletto a Roma, ma a Siena, e non fu eletto dal clero
e dal popolo romano, ma da cinque cardinali-vescovi, con la partecipazione di
alcuni laici vicini alla riforma; secondo problema: impedire per il futuro
colpi di mano da parte della nobiltà romana.
La soluzione dei due problemi
si ebbe nel decreto “In nomine Domini” per la elezione del papa, promulgato
dal sinodo romano quaresimale del 1059 (MGH Constit. imperat. l, 539).
Vediamo prima di tutto il contenuto di questo
decreto. L’elezione di un papa deve compiersi i tre momenti: il primo momento
si chiama “tractatio” ed è riservato ai soli cardinali-vescovi, che prenderanno
tutti i provvedimenti del caso, cioè praticamente sceglieranno il candidato. Il
secondo momento si chiama “accessus”: gli altri cardinali, convocati dai
cardinali-vescovi, accederanno al candidato prescelto dai cardinali-vescovi. Il
terzo momento è rappresentato dall'acclamazione dell'eletto fatta dal clero e
dal popolo romano.
Il decreto inoltre prevede delle misure
eccezionali, da seguirsi allorché diventi impossibile procedere ad una regolare
elezione in Roma: i cardinali-vescovi si raduneranno altrove, con alcuni
rappresentanti del clero e del popolo
romano, e lì procederanno all'elezione.
L'eletto, anche se non potrà essere immediatamente
intronizzato, eserciterà la sua giurisdizione fin dall'elezione.
Riguardo alla persona da eleggere il decreto
raccomanda che sia scelta tra il clero romano, ma se tra il clero romano
mancasse una persona capace, si concede la possibilità di cercare il candidato
altrove.
Circa il ruolo dell'imperatore tedesco
nell'elezione papale abbiamo una clausola molto concisa: "restano però
salvi l'onore e la riverenza dovuti al nostro diletto figlio Enrico, attualmente
re, ma presto speriamo imperatore per grazia di Dio e ai suoi successori, che
personalmente avranno ottenuto particolari poteri dalla Sede apostolica".
Tentiamo ora una valutazione del decreto.
Ciò che subito viene da rilevare è che tale
decreto consacra la prassi eccezionale seguita per eleggere Niccolò II. Si
tratta ora di vedere se il decreto dopo e la procedura elettorale applicata
prima, siano da ascriversi esclusivamente a ragioni di mera opportunità
pratica, oppure traducano una certa concezione teorica. A noi pare di poter
affermare che sia nell'eleggere Niccolò II, sia poi nello stendere il decreto,
i riformatori si ispirarono alle idee espresse da Umberto di Silva Candida nel
suo III libro del trattato "Adversus simoniacos” (probabilmente fu proprio
Umberto a comporre il decreto, di cui ci stiamo occupando). Citiamo un passo
dell' “Adversus simoniacos: "Ora invece tutto si compie in modo contrario:
i primi sono gli ultimi, e gli ultimi i primi. Il potere secolare é il primo
nella elezione e conferma; vengono poi, per amore o per forza, il consenso del
clero e del popolo ed infine, a concludere, la decisione del metropolita (MGH Lib. de lite III, 6).
Dal testo citato traspare che la prima vox
nell'elezione di un vescovo dovrebbe spettare al metropolita: in questa
prospettiva si dovrebbe ritenere che il decreto sull'elezione del papa
intendeva assegnare la prima vox ai cardinali-vescovi, che svolgerebbero il
ruolo di quasi metropoliti della Chiesa romana. Qui verrebbe alla luce una
particolare visione ecclesiologica: la Chiesa romana sarebbe una realtà
strutturata gerarchicamente secondo il potere d'Ordine: quando il papa è in
vita, nel papa avremmo il livello massimo della strutturazione gerarchica
secondo il potere d'Ordine. Durante la vacanza della Sede Apostolica il livello
più alto della strutturazione gerarchica secondo il potere d'Ordine starebbe
nei cardinali-vescovi e pertanto a loro viene riconosciuta la prima vox, cui
gli altri devono aderire con l'accessus e l'acclamazione.
Si rilevi poi come in questo decreto abbiamo il
primo passo verso la riserva dell'elezione papale al solo collegio
cardinalizio. Circa il ruolo dell'imperatore nella elezione papale abbiamo già
fatto rilevare la concisione dell'accenno: questa concisione non va intesa come
volontà di ridurre a vaghezza lo spazio imperiale, ma va intesa come un rapido
accenno ad un diritto che viene dato
come già noto. Pare abbastanza probabile che tale diritto dovesse consistere
nel riconoscere al re tedesco la facoltà dell'assenso: assenso nei confronti
del candidato prescelto dai cardinali-vescovi, prima che si concludesse il
processo elettivo, oppure assenso nei confronti del papa eletto? Il problema
non è rilevante: ciò che importa è che si affermi il principio che un'elezione
papale non possa prescindere dal parere del sovrano tedesco: a questo punto
possiamo senz'altro concludere che il decreto circa l'elezione papale, anche se
non fu - come sostiene il A. MICHEL, Papstwahl und Königsrecht oder das
Papstwahl-Konkordat von 1059, München 1936 - frutto
di un accordo con la corte tedesca, senz'altro nelle intenzioni degli ambienti
romani non voleva significare una rottura della collaborazione: se si vollero
ridurre dei margini di intervento, non fu nella direzione della corte tedesca,
ma nella direzione della nobiltà romana. Ancora una volta l'esigenza di
salvaguardare la libertà della Chiesa e di affermare la priorità del potere
spirituale nelle elezioni canoniche viene interpretata secondo lo spirito di
armonica collaborazione. C'è insomma la convinzione che le tesi di Umberto di
Silva Candida debbano essere accolte e portate avanti solo nella misura in cui
non determinano una tensione con la corte tedesca. Del decreto circa l'elezione
papale esiste anche un'altra versione (MGH Const. Imperat. 1,543). Vi si
rilevano due caratteristiche particolari: prima di tutto manca ogni accenno al
ruolo di primo piano riservato ai cardinali-vescovi: sia la tractatio, sia
l'elezione fuori Roma in caso di emergenza vengono genericamente ascritte a
tutti i cardinali; in secondo luogo il ruolo dell'imperatore non è più appena
accennato, ma viene invece precisato dettagliatamente nei termini seguenti: “i
cardinali procederanno alla nuova elezione e, affinché il veleno della simonia
non si infiltri sotto speciosi pretesti, l'elezione sarà fatta prima dal clero
d'accordo col nostro figlio Enrico e poi dagli altri”.
La critica storica è ormai d'accordo nel
qualificare questa versione come “versione imperiale”, si tratterebbe cioè di
una manipolazione operata dagli ambienti imperiali negli anni 1080-1084, per
legittimare l'elezione dell'antipapa Clemente III, che vide il concorso di
Enrico IV, ma non ebbe il conforto della presenza di nessun cardinale-vescovo.
2) I provvedimenti di riforma
Contro il nicolaismo nel sinodo del 1059 si ebbe
una riedizione del divieto di partecipare ai sacramenti conferiti da preti
nicolaiti, divieto già pronunciato da Leone IX nel 1049. A questa pars
destruens venne aggiunta una pars construens: si raccomandò ai chierici, che
prestavano servizio presso una stessa Chiesa, di condurre vita comune e
apostolica (cioè alla maniera della comunità apostolica, che viveva con un cuor
solo ed un'anima sola).
Contro i simoniaci il sinodo del 1060 stabilì la
deposizione di coloro che si erano fatti ordinare simoniacamente o da simoniaci
o anche da non simoniaci; per ragioni di opportunità pastorale vennero invece
tollerati nel loro incarico coloro che erano stati ordinati da simoniaci, ma
senza commettere a loro volta peccato di simonia.
Contro le investiture il sinodo del 1059 stabilì
che i chierici e i sacerdoti non dovevano più ricevere chiese dalle mani dei
laici, anche se ciò avveniva gratuitamente. Si rilevi che questo provvedimento
contro le investiture fu una mera enunciazione di principio, in quanto non vi
furono connesse sanzioni disciplinari, né si conosce una successiva azione di
Niccolò II per metterlo in atto.
3)
La politica papale nei confronti dei Normanni
Nell'estate del 1059, durante un viaggio nel Sud
Italia, Niccoló II accolse il vassallaggio di Riccardo di Aversa e Capua, e di
Roberto Guiscardo, duca della Puglie e della Calabria ed in cambio li investì
delle terre, su cui già si trovavano a dominare. L' intesa implicava la
promessa da parte dei due normanni di prestare il loro aiuto in caso di
elezione papale controversa, appoggiando “i cardinali migliori”, cioè i
cardinali-vescovi: dunque Niccolò II era riuscito a trasformare l'alleanza con
i Normanni in un appoggio politico per l'attuazione del decreto di elezione
papale, promulgato a Roma qualche settimana prima.
In sede di critica
storica ci si domanda in base a quale diritto il papa abbia investito i due
normanni delle terre del Sud Italia. Il Bihlmeyer Tuechle ritiene che Niccolò
II si sia fondato sulla falsa donazione di Costantino, che riconosceva nel papa
il signore delle terre d'Occidente. Però in proposito va rilevato che le fonti
non dicono nulla e che il riferimento alla donazione di Costantino non si
impone neppure per ragioni di necessità interne. Si deve piuttosto ritenere che
Niccolò II si sia fondato non su un diritto pontifico concernente le terre del Sud
Italia, ma su una spontanea decisione dei Normanni di assumere nei confronti
della santa Sede un atteggiamento vassallatico: ciò che premeva insomma alla santa
Sede non era l'affermazione di un suo diritto territoriale, ma era la
trasformazione della ostilità normanna in alleanza ed appoggio militare.
Questa iniziativa della
santa Sede non fu per nulla gradita alla Corte tedesca che, per il suo
carattere imperiale, avanzava pretese di signoria su quelle terre, che erano
appartenute all'impero romano. Si venne a produrre così una rottura tra
Germania e Roma: un sinodo di corte cassò tutte le decisioni prese dal papato
durante il pontificato di Niccolò II: la reggente Agnese si rifiutò di ricevere
il cardinale Stefano, inviato dal papa in Germania per chiarire la situazione.
Questa tensione peserà
gravemente quando, alla morte di Niccolò II (20 luglio 1061) si tratterà di passare
all'elezione del nuovo papa.
Alessandro II
Da
una parte la nobiltà romana tentò di vanificare il decreto sulla elezione del papa,
che appunto contro di lei era stato pensato: perciò mandò in tutta fretta una delegazione
presso la corte tedesca, per chiedere la designazione di un nuovo papa: e
nell'ottobre del 1061 la corte fece eleggere papa il vescovo di Parma, Cadalo,
che assunse il nome di Onorio II.
Dall'altra parte i riformatori romani nel
frattempo erano passati all'attuazione del decreto del 1059, eleggendo il 30
settembre 1061 come papa Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, che prese il nome
di Alessandro II.
L'elezione di Alessandro II era dovuta all’azione
di Ildebrando, che con la morte di Umberto di Silva Candida, era divenuto il
personaggio più influente tra i riformatori.
L'elezione
di Onorio II invece era dovuta fra l’altro all'azione dei vescovi di Piacenza e
di Vercelli, che erano notoriamente nicolaiti: ciò avrebbe fatto esclamare a
Pier Damiani: “Speriamo che essi nella scelta del supremo pontefice abbiano
portato quella sicurezza di gusto, di cui danno prova quando si tratta di
giudicare la bellezza delle donne” (cito da R. MORGHEN, Medioevo-cristiano,
Bari 1972 p. 101).
Del
pontificato di Alessandro II ricordiamo:
1)
il superamento dello scisma
2)
l'azione riformatrice
3)
la pataria milanese
1)
Il supermento dello scisma
Per alcuni mesi i due
pretendenti si affrontarono in vari scontri armati, che non ebbero esito
alcuno. Intervenne poi a svolgere azione di mediazione il marchese Goffredo Barbuto,
che ingiunse ai due contendenti di ritirarsi nelle rispettive diocesi in
attesa della decisione del re tedesco. Intanto nella politica tedesca si operò
un importante mutamento di indirizzo: una rivoluzione di palazzo accantonò la
reggente Agnese e sottopose il minorenne Enrico IV alla tutela di Annone,
Arcivescovo di Colonia, favorevole alla riforma. In conseguenza di ciò la corte
tedesca passò dall’appoggio incondizionato ad Onorio II ad un atteggiamento ai
neutralità, che faceva ben sperare al partito dei riformatori romani.
Nell'ottobre del 1062 si
riunì un sinodo ad Augsburg, che decise di procedere ad una inchiesta: il
risultato fu favorevole ad Alessandro II, che agli, inizi del 1063 poté rientrare
a Roma. La decisione di Augsburg fu definitivamente ratificata nella
Pentecoste del 1064 da un concilio riunito a Mantova, che pronunciò anche l’anatema
contro Cadalo, che tuttavia continuò a ritenersi papa legittimo fino alla
morte, avvenuta nel 1072.
2)
L’azione riformatrice
Alessandro II, che già si era distinto come
riformatore a Milano ed a Lucca, non concedendo tregua ai nicolaiti e ai simoniaci,
divenuto papa, continuò nella stessa
linea, che poi era quella già tracciata dai suoi immediati predecessori.
La caratteristica originale dell'opera di riforma condotta durante questo
pontificato è rappresentata dalla crescente centralizzazione, ottenuta
mediante interventi in tutto l'Occidente, operati dal papa stesso direttamente
o attraverso delegati papali.
In Francia: a partire dal
1063 il papato esercitò un azione continua, servendosi di delegati, che
celebrarono parecchi sinodi e processi contro vescovi indegni.
In Germania: allorché
Enrico IV incominciò a fare ricorso alle pratiche simoniache, Alessandro II non
mancò di intervenire con durezza nei confronti dei vescovi imperiali. Lo stesso
Enrico IV nella questione del suo matrimonio dovette piegarsi di fronte alla
volontà di Pier Damiani, legato papale: il re fu costretto a tenere con sé la
moglie Berta di Torino, recedendo dal proposito di ripudiarla.
In Inghilterra: il papa
intervenne nella questione della successione al re Edoardo il Confessore (1066).
Vi erano due pretendenti al trono: da una parte Aroldo, conte di Wessex,
dall'altra Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia e parente del re
defunto.
Non sappiamo se ci fu una richiesta di intervento
da parte di Guglielmo il Conquistatore, comunque sia, sta il fatto che Alessandro
II si pronunciò in favore del normanno, cui inviò un capello di s. Pietro ed il vessillo di s. Pietro. Come
mai Aroldo fu accantonato dal papa? Guglielmo il Conquistatore aveva accusato
il rivale di spergiuro, in quanto nel 1065 Aroldo aveva prestato a Guglielmo un
giuramento di fedeltà. Il papa però non si fondò su questa complessa questione
giuridica, ma considerò piuttosto l'attitudine morale di Aroldo: questi negli
anni precedenti aveva dato il suo appoggio ad un arcivescovo di Canterbury, che
dalla Santa Sede era considerato un usurpatore, in tal modo il conte di Wessex
aveva dimostrato di essere tutt'altro che incline alle idee riformatrici della
curia romana. In sede storiografica si tenta anche di chiarire il significato
della consegna del vessillo di s. Pietro. Nel sistema feudale la consegna del
vessillo significava la sottomissione feudale di un miles al titolare del
vessillo. In questo caso avremmo una pretesa pontificia di ridurre Guglielmo
il Conquistatore a vassallo della Sede Apostolica? E' una ipotesi da escludere,
in quanto la Sede Apostolica non vantava nessun diritto di signoria
sull'Inghilterra. Si volle piuttosto esprimere una specie di legame spirituale:
la sede apostolica con il vessillo di s. Pietro assicurava a Guglielmo il
Conquistatore l'assistenza del cielo, il normanno a sua volta si impegnava a
portare guerra ad un avversario di s. Pietro: in questa prospettiva la lotta di
Guglielmo il Conquistatore contro Aroldo non fu più soltanto una guerra
politica, ma fu anche guerra santa. Il 14 ottobre 1066 Aroldo fu sconfitto ed
ucciso nella battaglia di Hastings.
3)
Alessandro II e la pataria milanese
C. VIOLANTE, La
pataria milanese e la riforma ecclesiastica. Le premesse 1045-1057, I
vol., Roma 1955
G. MICCOLI, Per
la storia della pataria milanese : Bollettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medio
Evo e Archivio Muratoriano, 70 (1958), 43-123; (lo stesso studio era apparso
in Studi Gregoriani 5
(1956), 33-81.
Alessandro II, quand'era ancora Anselmo da Baggio,
aveva tenuto legami strettissimi con il popolare movimento di riforma, al punto
che alcuni lo ritengono uno dei fondatori. Spesso si sostiene che proprio per
questo suo legame, nel 1056, l'arcivescovo di Milano Guido da Velate pensò bene
di liberarsi del presbitero Anselmo, facendolo eleggere vescovo di Lucca:
promoveatur ut amoveatur.
Però storici molto accreditati (Cinzio Violante,
per esempio) ritengono che la nomina di Anselmo a vescovo di Lucca sia stata
voluta dall’imperatore stesso, che riteneva la famiglia da Baggio molto
affidabile: la nomina di Anselmo a
vescovo di Lucca quindi fu piuttosto un atto di fiducia da parte di un sovrano,
il quale intendeva ricoprire con una persona fidata e di sicuri intenti
riformatori la più importante diocesi del marchesato di Toscana, dominato dal
troppo potente duca Goffredo di Lorena.
Ma è opportuno accennare brevemente alla nascita
della pataria.
All'origine abbiano l'iniziativa
riformatrice di tre esponenti del clero ambrosiano.
Anselmo da Baggio, che
aveva studiato prima a Milano, alla Scuola del Duomo, e poi in Normandia, a
Bec, alla scuola di Lanfranco di Pavia: ritornato a Milano aveva iniziato a
sostenere idee di riforma.
Un diacono di nome
Arialdo, nato a Cucciago, presso Cantù, pure aveva completato i suoi studi di
arti liberali in Francia e, ritornato in diocesi di Milano, si era messo a
diffondere idee di riforma prima nella zona di Varese, poi a a Milano; poiché
il clero non prestava ascolto, Arialdo presto ritenne di dovere rivolgersi
anche ai laici.
Terzo esponente era un
chierico minore milanese, notaio della Chiesa ambrosiana, di nome Landolfo
Cotta, parlatore abile e affascinante, pure sostenitore di idee di riforma.
Verso la, fine del 1055 o
agli inizi del 1056 i tre decisero di associarsi e giurarono di portare avanti
insieme l'azione di riforma: in questo giuramento, emesso clandestinamente nel
cuore della notte, potremmo vedere l'inizio della pataria. Qual è il significato
di questo termine? E' una questione ancora irrisolta: alcuni vi vedono una
corruzione del termine catharos (pataro da cataro); altri lo fanno derivare dal
termine dialettale milanese patée,
con cui si indicava colui che vende e compera stracci: la pataria sarebbe
dunque un movimento di cenciosi; altri ancora fanno derivare pataria
dall'espressione dialettale milanese patèl, cioè cencio, che sarebbe il nome,
con cui gli avversari indicavano lo stendardo del movimento; altri ritengono
che pataria derivi dal fatto che o gran parte dei patarini proveniva dalla via
Pattari o in tale via il movimento aveva il suo centro; E. Werner infine, interpretando la pataria milanese
come una derivazione dalle sette orientali, pone all'origine del termine la città
di PATARA, situata in Lidia (E. WERNER, Pauperes Christi. Studien zu
sozial-religiösen Bewegungen im Zeitalter des Reformpapsttums., Leipzig 1956).
Come si vede , quasi tutte le ipotesi sottolineano il carattere
pauperistico del movimento: non si deve però concludere che la pataria fu un
movimento di classe, movimento di plebei. La composizione sociale del movimento
era molto varia (Anselmo, Landolfo Cotta, Arialdo erano non solo esponenti del
clero, ma anche membri della piccola e grande nobiltà feudale). L'accento
pauperistico va letto in prospettiva spirituale: rivivrebbe qui lo stesso
atteggiamento, che animava il movimento eremitico, cioè il desiderio di una Chiesa
dedita in maniera sempre più assoluta alle istanze spirituali. Evidentemente su
questo fondamento religioso si svilupparono anche altri temi di carattere
socio-politico: esigenza di promuovere una prassi di maggiore partecipazione
civica, riducendo il peso politico dell'arcivescovo; la speranza che dalla
lotta di riforma morale contro le classi dominanti derivasse anche una maggiore
prosperità economica. Il movimento venne decisamente alla ribalta il 10 maggio
1057, quando promosse una rivolta e per alcuni giorni controllò la città di
Milano. In un'assemblea, dominata da Arialdo, venne fissato un “pytacium de
castitate servanda”, che raccoglieva i canoni concernenti la vita del clero, in
particolare vi si faceva riferimento al dovere del celibato e alla condanna
della simonia. Tutti gli ecclesiastici, a partire dall'arcivescovo
Guido, avrebbero dovuto sottoscrivere il pytacium. Ecco appunto che i patarini
inscenarono una vera e propria caccia al prete: soprattutto se nicolaita o
simoniaco, lo strappavano dall'altare, presso cui stava celebrando, e lo
costringevano ad apporre la firma. Come si vede, la situazione a Milano era
diventata estremamente tesa e problematica, per cui ad un certo punto ambedue
le parti sentirono l'esigenza di raggiungere una chiarificazione decisiva.
L'arcivescovo Guido, in nome della tradizione ambrosiana, che non voleva essere
seconda a nessuna altra Chiesa ed aveva tinte di autocefalia, pensò di dover
risolvere la questione in maniera autonoma, riunendo un sinodo provinciale a
Fontaneto presso Novara, nel novembre 1057. Arialdo e Landolfo Cotta sarebbero
dovuti comparire davanti al sinodo, ma se ne guardarono bene sia perché sapevano
che l'arcivescovo, loro avversario, controllava vescovi suffraganei, piuttosto
scialbi, sia perché non riconoscevano agli ecclesiastici, ivi riuniti, alcuna
autorità , data la loro notoria degenerazione morale. Arialdo e Landolfo furono
pertanto scomunicati dal sinodo per contumacia. I due patarini invece, per
chiarire la situazione milanese, preferirono rivolgersi al papa Stefano IX, recandosi a Roma. Il papa, da un lato liberò i
due patarini dalla scomunica di Fontaneto, dall'altro, non volendo limitarsi
all'ascolto dei soli patarini, si astenne dal prendere immediatamente posizione
nei confronti dell'altra parte. Proprio in quei giorni Ildebrando e Anselmo da Baggio
si apprestavano a recarsi in Germania per ottenere il consenso circa
l'elezione papale del 2 agosto: il papa li pregò di sostare alcuni giorni a Milano
per raccogliere informazioni. Non fu Stefano IX, ma il suo successore Niccolò Il
a trarre le conclusioni dalle informazioni dei due legati; nel sinodo romano
quaresimale del 1059 il papa in fondo approvò i metodi patarini, affermando il
dovere di astenersi dai sacramenti celebrati dai nícolaiti e raccomandando ai chierici
la vita comune, che era appunto praticata da Arialdo nella cosiddetta “Canonica".
In seguito Niccolò II mandò a Milano una delegazione, formata da Pier Damiani e
da Anselmo da Baggio, per regolare in loco la situazione.
La delegazione operò in tre direzioni: prima
direzione: affermare il primato universale di Roma di fronte alle tendenze
autocefale di Milano: in questa prospettiva Roma rivendicò il suo ruolo di
guida della riforma; seconda direzione: affermare le istanze riformatrici,
sostenute dalla pataria, imponendo ai chierici di abbandonare le pratiche
nicolaite e simoniache; terza direzione: affermare la costituzione gerarchica
della Chiesa, per impedire che la pataria trasformasse la propria opposizione
al clero degenere di quel momento in un globale anticlericalismo o in una concezione
di Chiesa fondata esclusivamente sul merito, cadendo nella frequente
tentazione di costruire la Chiesa dei puri, dei santi: in questa prospettiva
Pier Damiani non volle colpire la gerarchia milanese con sanzioni pesanti e
deposizioni, ma preferì agire con moderazione, imponendo pene miti.
Ma di lì a poco a Milano le cose tornarono come
prima: da una parte il clero con le sue vecchie piaghe morali, dall'altra la pataria
più vigorosa che mai sotto la guida di Erlembaldo Cotta, fratello di Landolfo.
La situazione nel 1066 precipitò: Arialdo finì martirizzato nei pressi del Lago
Maggiore, l'azione dei patarini divenne più radicale e trovò consensi anche al
di fuori di Milano: a Cremona, a Piacenza. Ogni tentativo di pacificazione
aveva scarsa durata.
L'arcivescovo Guido cominciò a capire che per lui
le cose si mettevano male: nello scisma tra Onorio II e Alessandro II aveva giocato
tutte le sue carte sul papa imperiale, ma nel 1064 lo stesso Enrico IV si era
schierato definitivamente dalla parte d' Alessandro II, che, come nel passato
era stato molto vicino ai patarini, ora da papa continuava ad appoggiare tale
movimento, giungendo addirittura a concedere il vessillo di s. Pietro ad Erlembaldo.
A questo punto l'arcivescovo decise di rassegnare le dimissioni: restituì al re
pastorale ed anello e suggerì come suo successore il prete Goffredo dei
Castiglioni, una famiglia nobile provinciale, che aveva il suo centro in
Castiglione Olona. Enrico IV aderì alla richiesta, ma Goffredo non riuscì a
prendere possesso della sua sede per via della tenace opposizione dei riformatori,
che il 6 gennaio 1072 elessero quale arcivescovo il prete Attone.
Lo scisma milanese divenne causa di conflitto tra
Alessandro II ed Enrico IV.
Nel sinodo romano quaresimale del 1072 il papa si
pronunciò in favore di Attone, Enrico IV invece continuò a sostenere Goffredo.
La risposta di Alessandro II si ebbe nel sinodo quaresimale dell'anno seguente,
quando a cinque consiglieri del re fu comminata la scomunica. Il 21 aprile 1073
Alessandro II moriva, lasciando al suo successore questa situazione molto tesa,
dovuta al fatto che la parte imperiale nell'elezione dei vescovi continuava ad
ignorare la procedura canonica, che invece per il papa era divenuta conditio
sine qua non. A questo punto i termini del problema-riforma sono ormai chiari:
da una parte il sistema germanico dell'investitura, dall'altra il sistema
ecclesiastico romano-antico della elezione canonica. Si tratta ora di vedere se
la soluzione va cercata nella direzione del contrasto radicale, dell’l'aut
aut, oppure restano ancora margini per una conciliazione, per una
collaborazione.
Tentando di tirare le somme ci pare di potere
senz'altro rilevare che nel corso del periodo dei papi lotaringio-toscani la
riforma presentò due grosse novità.
Prima
novità: la sede apostolica si trova a portare avanti l’azione di riforma non
più in collaborazione con l'imperatore tedesco, ma da sola e secondo un respiro
più ampio. Ciò va ascritto prima di tutto ad una situazione di debolezza della
corona germanica, che spinge i riformatori a farsi carico esclusivo della
riforma ed a cercare un appoggio politico in signori temporali più vicini
(Goffredo il Barbuto e i Normanni del Sud).
Seconda novità: la posizione singolare della Sede
Apostolica comincia però ad essere intesa non solo come frutto di occasionalità
storica, ma anche come conseguenza di una certa visione di Chiesa, che trova
la sua identità non più nella tradizione germanica, dominata dal realismo, ma
nella vecchia tradizione romana, che faceva unità intorno al primato dello
spirituale. Si deve tuttavia rilevare che nel periodo dei papi lotaringio-toscani
questa esigenza ideale non è ancora interpretata come scontro frontale con il
sistema germanico: la riforma strutturale rimane una mera intuizione teorica:
sul piano pratico l'azione di riforma rimane sostanzialmente morale. Ciò è spiegato
dal fatto che l'intuizione teorica del primato spirituale era utilizzata solo
in funzione negativa, per limitare un potere laico eccessivo, affermando ciò
che il laicato non doveva essere nella
Chiesa.
Evidentemente il fatto che l'antagonista fosse un
potere laico tutt'altro che debole, costrinse i riformatori romani ad
interpretare continuamente l'intuizione teorica del primato spirituale, tenendo
conto della situazione reale. Si capisce pertanto come mai nel periodo dei papi
lotaringio-toscani non si sono forzati i tempi; si capisce anche come mai nel periodo immediatamente successivo
non si è giunti ad assolutizzare l'intuizione teorica del primato spirituale ed
a ridurre il potere laico al ruolo di instrumentum
sacerdotii.
6 – La riforma sotto Gregorio VII
a. La vita di Gregorio VII prima
dell’elezione papale
Nell'esporre gli
avvenimenti, che si sono verificati dopo il Sinodo di Sutri del 1046, ci siamo
varie volte imbattuti nella figura di Ildebrando: prima accanto a Gregorio VI,
poi accanto a Leone IX ed ai suoi successori. Sono invece rimasti in ombra gli
episodi, che precedono questo periodo. Si deve senz'altro dire che i primi anni
della vita di Ildebrando sono destinati a rimanere immersi in una nebulosa
vaghezza, poiché è praticamente impossibile discernere tra le varie notizie, che
le fonti ci hanno tramandato, quelle che non sono troppo segnate dalla
parzialità del narratore. Circa il luogo di nascita, pare probabile la notizia
che fa Ildebrando originario della Tuscia romana e più precisamente della non
identificabile località di Raovaco.
Quanto alla località di Soana,
si nutrono Invece notevoli incertezze, poiché viene accennata da una sola
fonte: il cardinale Bosone (Vitae dei
papi o Gesta pontificum
romanorum).
Circa la data di nascita si può dire ancora di
meno. Qualcosa si è tentato di arguire a
partire dalla data della sua
ordinazione suddiaconale, che si collocherebbe nel 1049. Siccome allora non si poteva diventare
suddiaconi prima del ventunesimo anno di età, si congettura che Ildebrando dovrebbe
essere nato non dopo il 1028.
Circa la sua famiglia si
sa soltanto che suo padre si chiamava Bonizone; le notizie sul carattere o
plebeo o nobiliare di tale famiglia sono sospette, poiché probabilmente sono dettate
o dalla volontà di denigrare il famigerato Gregorio VII, o dalla intenzione
opposta di attribuirgli le connotazioni tipiche celle vite dei santi medievali
[nella mentalità medievale, che poneva ogni
valore nell’antichità, l’appartenenza ad un casato nobile appariva come una
garanzia di onorabilità, perciò si tese a dare la qualifica di nobili ai santi,
anche se in realtà nobili non erano].
Circa la sua educazione
si può ritenere con certezza che si compi a Roma sin dalla più tenera età:
prima probabilmente ad opera di uno zio materno abate di Santa Maria
sull'Aventino e dopo tra le mura del palazzo lateranense. Qui il giovane
Ildebrando, che sentiva una viva propensione per la vita monastica, per
obbedienza al Papa si trovò indirizzato alla carriera ecclesiastica.
Come chierico della cappella pontificia segui poi
Gregorio VI nell’esilio in Germania (Colonia).
Alla morte del “suo
Papa” Ildebrando pensò di coronare la vocazione monastica, entrando nel
monastero di Cluny o in un altro monastero clunicense. [L. M. SMITH, Cluny e Gregorio VII
: Cluny (=Wege der Forschung
CCXLI), Darmstadt 1975, 37-38: mostra in maniera documentata che un passaggio
di Ildebrando nel monastero di Cluny è notizia data soltanto da BONIZIONE DI
SUTRI, Liber ad amicum, che
non gode di nessuna attendibilità storica. PAOLO von BERNRIED,
Vita Gregorii VII papae, dice
genericamente che Ildebrando soggiornò in Francia. Ottone di Frisinga poi
incorse in un fatale scambio di persona: ai tempi di Odilone un certo
Ildebrando viene ricordato come praepositus. Ottone di Frisinga, rifacendosi
alla notizia inattendibile di Bozone di Sutri, ritenne che potesse trattarsi
del nostro Ildebrando. L’editore della Bibliotheca Cluniacensis si spinse ben
oltre, trasformando l’ipotesi di Ottone di Frisinga in dato certo: a Cluny
sarebbe morto Gregorio VI e Ildebrando vi sarebbe rimasto, diventando “monachus
et prior cluniacensis”. I bollandisti poi si sarebbero accodati. Da questa
persuasione infondata sarebbe poi scaturita l’idea che Gregorio VII sarebbe
stato discepolo di Odilone e da lui avrebbe preso ispirazione per la sua
riforma].
Ma di lì a qualche mese
l'obbedienza al Papa Leone IX (questo, dell'obbedienza al Papa come obbedienza
a Dio, è un tema che sottende tutta l'esistenza di Ildebrando e diverrà il
cardine del suo sistema) lo riportò a Roma, dove poté continuare a seguire la
vocazione monastica in s. Paolo fuori
le mura, svolgendo però insieme il ruolo di collaboratore del papato riformatore.
Verso la fine del pontificato di Leone IX Ildebrando cominciò a diventare una
personalità di forte rilievo, finché sotto Niccolò II ed Alessandro II divenne
la figura di primo piano.
b. L'elezione
Il 22 aprile, mentre in s.
Giovanni in Laterano si stavano svolgendo i funerali di Alessandro II, il
popolo si mise ad acclamare Ildebrando come papa. Qualche ora dopo i
Cardinali-Vescovi si riunirono in s. Pietro in Vincoli insieme con gli altri
Cardinali e gli altri rappresentanti del clero e del popolo romano qui si
procedette alla regolare elezione. Ildebrando assunse il nome di Gregorio VII.
Poiché era ancora diacono, fu ordinato sacerdote nelle vicine tempora di maggio. La consacrazione episcopale fu
celebrata non il sabato 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, ma il giorno
successivo, in quanto allora I vescovi venivano consacrati di domenica.
A prima vista si direbbe che Gregorio VII sia
stato eletto secondo una modalità, che non rispettava il decreto del 1059, infatti
sembrerebbe che non furono i cardinali vescovi, ma il popolo romano ad avere la
prima vox. Nel valutare questi fatti occorre procedere con molta attenzione e con discernimento. Il moto di popolo non deve
essere considerato come il primo momento del processo elettivo: esso fu
un'iniziativa spontanea, che non mirava ad eleggere e ad imporre il nuovo Papa,
ma tendeva semplicemente a fare conoscere un desiderio. Si ha poi la chiara
impressione che il collegio cardinalizio, nel procedere all'elezione di Ildebrando,
non agì affatto sotto pressione morale, ma liberamente espresse un
orientamento, che coincideva con le speranze popolari. Pertanto si deve
considerare come elezione di Gregorio VII solo il convegno, che si tenne in s.
Pietro in Vincoli: e qui si rispettò senz'altro
il decreto del 1059.
E’ significativo il fatto che gli antigregoriani,
quando accusarono Gregorio VII di essere stato eletto irregolarmente, non
addussero come motivazione la prima vox popolare, ma la mancanza dell’intervento
del re tedesco, che invece era previsto dal decreto del 1059. Contrariamente a
quanto affermato da K. BIHLMEYER - H. TÜCHLE vol. II, p.I74, con ogni probabilità Gregorio VII
non comunicò la sua elezione alla corte tedesca. In ciò non si dove vedere una
contestazione di quell'onore e di quella riverenza, che il decreto del 1059
ancora riconosceva alla corte tedesca. Alla base di tale astensione c'era solo
un fatto contingente: Alessandro II nel Sinodo Romano del 1073 aveva
scomunicato cinque consiglieri di Enrico IV, che erano accusati di appoggiare
per la sede di Milano quel Goffredo, che la Sede apostolica considerava un
usurpatore. La scomunica comportava la totale rottura di rapporti con gli scomunicati: se uno violava l'interdizione,
veniva a sua volta coinvolto nella scomunica. Ebbene, Enrico IV aveva
continuato a collaborare con i cinque
scomunicati e pertanto si era a sua volta escluso dalla comunione ecclesiale.
Gregorio VII non dovette fare altro che prendere atto di tale situazione e
astenersi dalle relazioni con il re tedesco scomunicato (cfr G.B. BORINO, Studi Gregoriani, V (1956), 313-347).
c.
Gli orientamenti del nuovo papa: il Dictatus Papae
Per raggiungere una certa comprensione degli
orientamenti di Gregorio VII occorre prestare attenzione in maniera particolare
a due aspetti della sua vita, che confluiscono in una esaltazione della
autorità del papato.
Il primo aspetto è rappresentato dalla sua esperienza di
riformatore in stretta collaborazione con il papato. Qui maturò la convinzione
che la soluzione dei diversi problemi teologici-disciplinari posti alla riforma
e la sollecita attuazione di essa, passavano attraverso la riscoperta e la rivalutazione
di tutte le funzioni connesse con il primato romano (G. MICCOLI, s.v. Gregorio VII : Bibliotheca
Sanctorum, vol VII, Roma 1966, col. 307).
Importante in questo
senso fu senz’altro la polemica con la Chiesa bizantina; ulteriore stimolo
dovette venire dalla politica di centralizzazione seguita dalla Santa Sede a partire
da Leone IX, infine decisivo dovette essere il dibattito, che venne a prodursi tra
i riformatori romani intorno agli anni '60: problemi, che si ponevano con estrema urgenza di soluzione,
si arenavano in lunghe e insolubili discussioni teologiche (cfr il problema
delle validità delle ordinazioni simoniache, il problema della vita comune del
clero secondo povertà personale o no, il problema del ruolo da riconoscere al laicato
nell'azione di riforma del clero, il problema del ruolo da riconoscere al potere
temporale nelle elezioni canoniche...).
Di fronte all'urgenza delle soluzioni da una
parte e alla inestricabilità delle discussioni teologiche dall'altra, Ildebrando
dovette maturare la convinzione che ci volesse una autorità, che per forza e decisione
proprie intervenisse e desse disposizioni chiare.
Del resto Ildebrando non
doveva possedere una particolare inclinazione per la questioni teologico-dottrinali,
infatti nei dibattiti del suo tempo il suo contributo non fu rilevante come quello
di un Umberto di Silva Candida o come quello di un Pier Damiani. La sua preferenza
andava senz’altro al campo della vita vissuta: da qui I’insofferenza per i
ritardi, da qui la tendenza a fondare l’azione di riforma non tanto sulle
chiarificazioni
teologiche, ma piuttosto sul discorso di autorità, da qui la preferenza
accordata alle soluzioni giuridico-organizzative, da qui infine il rischio di
inquadrare e mortificare in un sistema troppo rigido le molteplici istanze, che
la riforma esprimeva. Vedremo poi come questa fretta di istituzionalizzare,
sacrificando la comprensione della complessità della situazione, porterà ad
esasperare la tensione tra spirito ed istituzione: tale tensione infatti
talora non riuscirà ad essere compresa in termini di reciproca correlazione e
pertanto si esprimerà in termini di insanabile contrapposizione.
Il secondo aspetto invece
è rappresentato da una visione profondamente mistica.
Punto di partenza è la
coscienza di Dio come unico Signore dell’universo. Da ciò consegue che le
singole esistenze e la totalità della realtà si trovano impegnate o nel
riconoscere la signoria di Dio, obbedendo al suo volere e accettando di
iscriversi nell'ordine divino, oppure nel ribellarsi a tale Signoria, iscrivendosi
nell'ordo diaboli.
Il riformatore Gregorio VII sentiva l'esigenza di
rendere l’ecclesia universalis conforme all'ordine divino, procedendo per via
d'autorità. Nel termine auctoritas dobbiamo scorgere due implicazioni:
auctoritas = Scrittura e Tradizione ecclesistica: secondo il carattere
compilatorio della cultura altomedievale, Gregorio VII riteneva che l'ordine
divino fosse reperibile solo attraverso un fedele accostamento delle
sententiae auctoritatum. Da qui il suo continuo limitarsi alla fonte biblica,
che è testimoniato dalle innumerevoli citazioni scritturistiche, che compaiono
nei suoi scritti. La sua conoscenza patristica è invece piuttosto limitata: che
Gregorio VII dipenda da Agostino è uno dei tanti luoghi comuni senza
fondamento: Agostino è citato una volta soltanto negli scritti di Gregorio VII.
E' invece chiara la sua dipendenza dalla tradizione romana ed in particolare da
Gregorio Magno.
Auctoritas = primato romano: dalla tradizione romana,
cui attingeva, Gregorio VII fu spinto a interpretare l'ordine espresso dalle sententiae
auctoritatum secondo un orientamento petrino-monarchico: da qui la vigorosa accentuazione
di Mt 16, 18-19, letto non come inizio del collegio episcopale, ma come istituzione
del potere monarchico e totale di legare sciogliere, che risiede in Pietro e
nei suoi successori. In questa prospettiva si deve dire che circa l'ordine
divino le sententiae auctoritatum danno una indicazione primaria e fondamentale:
il primato di Pietro e dei suoi successori nella sede di Roma; tutte le altre
indicazioni devono poi essere assunte in coerente riferimento a questa prima e
fondamentale indicazione.
A questo punto traspare chiaramente che per
Gregorio VII la conformità all'ordine divino tende a coincidere coni la sottomissione
al papa, con la dipendenza dal capo. Ciò Gregorio VII avvertì fortemente nella
sua vita personale, quando si trovò continuamente costretto ad accantonare l'inclinazione
monastica (si ricordi che Ildebrando continuò a vestire l'abito monastico anche
dopo l'elezione papale) per servire il papato: era convinto che nell'ordine
divino il papato stava al di sopra di ogni altro valore e lo autenticava:
anche la vita monastica, che secondo la mentalità del tempo era il massimo
della perfezione cristiana, cessava di essere tale, se veniva abbracciata e vissuta
contro il volere del papa. Gregorio VII inoltre applicò questo modo di vedere a
tutta la Chiesa: abbiamo una chiara dimostrazione di ciò nel “DICTATUS PAPAE”,
una raccolta non sistematica di 27 preposizioni concernenti le prerogative e i
privilegi della Chiesa romana e del papato (MGH Ep. Sel. II, 2, 201-208). Il
documento fu redatto nei primi mesi del 1075 e, secondo la tesi ormai
generalmente accolta, mirava a presentare un indice-canovaccio di temi, sui
quali si sarebbe dovuta raccogliere nell'ambito della tradizione ecclesiastica
una seria documentazione; alla fine si sarebbe ottenuta una specie di
collezione sulle prerogative e sui privilegi primaziali di Roma, collezione a
cui in futuro si sarebbe dovuto attingere, nel caso si fosse presentata la
necessità di giustificare tali prerogative di fronte ad eventuali obiezioni. Ma
vediamo il contenuto.
Abbiamo prima di tutto l'affermazione delle
prerogative fondamentali della Chiesa di Roma e del papa:
n.1: La Chiesa romana è
stata fondata soltanto dal Signore: tale affermazione pone la Chiesa romana al
di sopra delle Chiese più insigni, che vantano invece una fondazione apostolica;
n.23: il
pontefice romano, se è stato ordinato canonicamente, diventa indubbiamente
santo per i meriti di s. Pietro, secondo la testimonianza di s. Ennodio,
vescovo di Pavia, d'accordo in ciò con numerosi Padri, come si può vedere nel
decreto del beato papa Simmaco.
n.22:
La Chiesa romana non ha mai errato e, come attesta la Scrittura, non potrà mai errare.
Da ciò consegne in negativo:
n.26: chi non concorda con la Chiesa romana non è
considerato cattolico;
n.20: nessuno può condannare una decisione della
Sede apostolica;
n.19: il
Papa non può essere giudicato da nessuno;
n.18: la sentenza del
papa non può essere riformata da nessuno ed egli solo può riformare quelle di
tutti;
n.17: nessuna scrittura,
nessun testo possono essere ritenuti canonici senza la sua autorità.
In positivo invece consegue:
n.2: solo
il pontefice romano ha il diritto di essere chiamato Universale (affermazione
fatta evidentemente contro il patriarca di Costantinopoli);
n.11: il suo nome è unico
nel mondo;
n.10: egli è il solo, il
cui nome deve essere pronunciato in tutte le Chiese;
n.8: solo
il papa può usare le insegne imperiali [questa
disposizione non va messa in relazione con l’imperatore, quasi volesse negargli
il diritto ad usare le insegne imperiali; va invece letta nell’ambito della
gerarchia ecclesiastica, che tendeva ad attribuirsi prerogative imperiali.
L’arcivescovo di Benevento per esempio si attribuì l’uso del “regno sive thiara
ad modum Summi pontificis, quod hic camaurum vocatur”, uso che si protrasse
fino al XVI secolo. L’esclusiva papale per l’uso delle insegne imperiali
affermava il principatus della sede romana nell’intera Chiesa, conferendo a
questo principatus anche riflessi temporali: cfr W. KÒLMEL, Rom und der Kirchenstaat im 10. und
11. Jahrhundert bis in die Anfänge der Reform, BerlinGrunewald
1935, pp. 162-163)].
A questo carattere unico
e universale del pontefice romano si connette una potestà universale. Potestà
sui concili;
n.6:
nessun sinodo può essere chiamato generale senza suo ordine;
n.4: nei
concili il suo legato presiede a tutti i vescovi, anche se é di grado inferiore
ed egli soltanto può pronunciare contro di loro sentenza di deposizione.
Potestà
sulle chiese locali:
n.21: le
cause maggiori di ogni chiesa devono essere demandate al papa;
n.7: solo
il papa può stabilire, secondo le circostanze, nuove leggi, fondare nuove
diocesi, trasformare una collegiata in abbazia, dividere un vescovado ricco ed
unire quelli che sono poveri;
n.13: per
ragioni di necessità è consentito al papa di trasferire un vescovo da una sede
ad un’altra;
n.3: il
papa soltanto può deporre o assolvere i vescovi;
n.25: il
papa può deporre ed assolvere i vescovi anche senza concilio;
n.5: il
papa può deporre gli assenti;
n.14: il
papa può, se crede, ordinare una ecclesiastico di qualsiasi Chiesa;
n.15: chi
è stato ordinato dal papa può governare un’altra Chiesa, ma non servire né
ricevere da un altro vescovo un ordine superiore.
La potestà del papa si
estende anche ai singoli fedeli, principi e imperatori compresi:
n.9: il papa è l'unica persona
a cui tutti I principi baciano i piedi;
n.24: per ordine del papa e con l’autorizzazione
del papa è consentito ai sudditi di accusare i loro superiori;
n.27: il papa può sciogliere i sudditi dal giuramento
di fedeltà agli indegni;
n.12: al papa è consentito di deporre gli
imperatori;
n.6: non è permesso tra l'altro accompagnarsi con coloro
che sono stati scomunicati dal papa, né coabitare con loro.
Come si vede, il “Dictatus papae” assegna al
papato un inequivocabile ruolo monarchico all’interno dell’Ecclesia universalis
e sotto questo profilo non rappresenta una novità assoluta, in quanto non fa
altro che riaffermare i principi tipici della tradizione ecclesiastica romana.
La novità sta nel fatto che Gregario VII trae da tali principi conseguenze
giuridiche
di notevole ampiezza, che nessuno mai prima di
lui aveva espresso in tali termini. Ne risulta una Chiesa gerarchicamente ordinata
in assoluta dipendenza dal papato, secondo chiari criteri giuridici. E’ chiaro
che riconoscendo al papato una serie di diritti supremi e insindacabili
all'interno della chiesa il “Dictatus papae”
finisce con il creare un ambito di diritto proprio ed esclusivo del papato, in
cui il potere regale non può vantare nessun margine di competenza: e questa è senz’altro
una novità rilevante rispetto alla situazione altomedioevale, che tra i due
poteri non riconosceva distinzione di ambiti ma poneva solo una distinzione di
tipo funzionale. Questa serie di diritti esclusivi e supremi sottrae al potere
regale delle realtà che sono tipicamente spirituali come i concili, la
legislazione canonica, l'episcopato, le strutture ecclesiastiche locali e pone
tali realtà tipicamente spirituali in assoluta dipendenza dal papa.
Sotto questo profilo si
deve riconoscere che Gregorio VII sottrae al potere regale ogni connotazione
sacerdotale-sacrale: il re viene collocato tra i laici.
Ma si è pure notato che questa
serie di diritti esclusivi e supremi dei papato giunge a coinvolgere o
sottomettere il potere regale stesso. Per capire la cosa si deve prima di tutto
rilevare che Gregorio VII concepisce la Ecclesia universalis ancora come unità
della sfera religioso-spirituale e della sfera politico-temporale nel perseguire
l'unico fine religioso-politico.
Tuttavia Gregorio VII, diversamente da quanto
avveniva nell’Alto Medioevo, interpreta questa unità non più come compenetrazione indistinta,
ma come copresenza di due sfere distinte: l'esigenza di contrastare l’ingerenza
laicale lo spinge ad affermare l'ambito delle cose spirituali come specifico ed
esclusivo del potere sacerdotale. Poi, secondo la tradizione spiritualista
dell’agostinismo medioevale, Gregorio VII concepisce questa copresenza di due
sfere distinte, non come un accostarsi, un giustapporsi alla pari, ma come uno
strutturarsi gerarchicamente, dove il ruolo primario e paradigmatico spetta
alla realtà spirituale e quindi al potere sacerdotale. In proposito Gregorio
VII si riferisce frequentemente a Gregorio Magno, che affermava la superiorità
morale del potere sacerdotale, fondandosi sul dato biblico, secondo cui il
potere sacerdotale fu di diretta istituzione divina, mentre quello regale fu
una invenzione umana, cui Dio dette il suo consenso.
Secondo Gregorio VII questo ruolo primario del
potere sacerdotale all'interno dell'unità dell'Ecclesia universalis trova espressione
in colui che è il capo dei sacerdoti, il papa, che diventa appunto il criterio
di ordine per tutto ciò che appartiene alla Ecclesia universalis, realtà
temporale-politica compresa.
Per questa ragione un imperatore che non
armonizzi con tale criterio di ordine, fondato sul papa, viene a trovarsi estraneo
all'unità dell'Ecclesia universalís e pertanto viene dal papa dichiarato
scomunicato e quindi non può più essere seguito dai suoi sudditi cristiani, che
vengono sciolti dal giuramento di fedeltà e alla fine viene deposto dal papa.
Questa posizione di Gregorio VII viene spesso qualificata
come posizione ierocratica, in quanto – si dice – vi sarebbe un totale
asservimento del potere regale alla volontà del potere sacerdotale. A nostro
avviso questa interpretazione è affrettata e superficiale. Pretendere da parte
del papa di essere assunto dal potere regale come criterio di ordine e di
appartenenza all'Ecclesia universalis non vuol dire perciò stesso pretendere di
essere il principio direttivo di tutti gli aspetti della vita ed in particolare
della vita temporale in quanto tale.
Gregorio VII, esige prima di tutto che il potere
regale non si consideri nella Ecclesia universalis come il potere supremo, che
sottomette a sé l'ambito spirituale; in secondo luogo, trattandosi di re
cristiani, Gregorio VII esige che il potere regale nell'ambito spirituale stia
sottomesso al potere sacerdotale ed in particolare al papa: sotto questo
profilo il re è come ogni altro fedele; infine, secondo la mentalità spiritualista
dell'agostinismo medievale, Gregorio VII esige che il potere regale nel suo
agire rispetti la superiorità morale del potere sacerdotale e pertanto non
pretenda di occupare nella Ecclesia universalis una posizione paritetica o
contrapposta. A proposito dì quest'ultimo aspetto si deve dire che Gregorio VII
si attenne alla concezione di quel momento storico, che considerava il potere
regale come funzione intra-ecclesiale, agente in ordine ad un fine, che non era
temporale-politico, ma era religioso-politico. E' chiaro che, data la natura
religioso-politica di tale fine, toccava al papato valutare la rispondenza dei
mezzi e delle scelte regali a tale fine. Ma giudicare se il potere regale
rispetta il fine religioso-politico, non è affatto pretendere di determinare il
potere regale, imponendogli positivamente una condotta precisa.
Il potere regale, che nel corso dell'Alto Medioevo
aveva quasi sempre tenuto un primato di conduzione, non poteva accettare di
buon grado tale giudizio pontificio sul suo operato e perciò si trovò spinto da
tale situazione a rivedere il proprio carattere intra-ecclesiale, la propria
subordinazione all'unico fine religioso-politico: iniziò così per il potere
regale un processo di desacralizzazione, di ricerca di una nuova base politica
extra ecclesiale, di ricerca di un fine politico, che non fosse religioso; alla
fine di tale processo - grazie all'apporto del diritto imperiale romano e della
filosofia aristotelica - comparirà l'idea di stato moderno, fondato sulla
natura sociale dell'uomo e orientato verso un fine temporale-politico: il bene
comune della società terrena.
Si deve riconoscere che
Gregorio VII nel determinare le conseguenze di un giudizio morale negativo ha
camminato troppo; non si è limitato a sanzioni spirituali, quali la scomunica e
lo scioglimento del giuramento di fedeltà, ma è giunto ad affermare un proprio
diritto di deporre l’imperatore, spingendosi dal terreno della dipendenza
morale sul terreno della dipendenza giurisdizionale. In ciò Gregorio VII si
trovò isolato: anche un suo stretto collaboratore come Anselmo di Lucca
(nipote di di Anselmo da Baggio – Alessandro II) nel compilare una collezione
canonica non giungerà ad affermare un diritto-papale di deporre sovrani
indegni: ma non va ritenuto significativo il fatto che Gregorio VII parli di deposizione
dell’imperatore e non di deposizione dei re? Non si deve forse pensare che il
carattere particolarmente sacro dell'imperatore, quale defensor Romanae Ecclesiae,
ha spinto il papa ad affermare nei suoi confronti un potere di deposizione, che
invece non era previsto per gli altri re?
d.
Verso la lotta per le investiture
Divenuto papa, Gregorio VII, rivolse la sua attenzione
a tre problemi particolari:
·
guadagnare alla riforma i vescovi e i sovrani. Per ottenere ciò,
nel suo primo anno di pontificato Gregorio VII pensò di non radicalizzare
l’azione di riforma, evitando di spingersi fino all'aspetto strutturale. Ciò è
dimostrato dal primo sinodo quaresimale, tenuto da Gregorio VII nel 1074. Circa
la simonia ed il nicolaismo non fece altro che riaffermare le disposizioni del
1059; non troviamo nessun accenno alle investiture. Il nuovo papa mise in campo
invece una intensa azione di avvicinamento dell’episcopato e dei sovrani, sia attraverso
corrispondenza epistolare sia attraverso l'intervento di delegati pontifici.
Nei confronti dei sovrani Gregorio VII espresse la tesi della collaborazione
armonica, evitando lo scontro frontale. Tale atteggiamento trovò rispondenza in
Guglielmo il Conquistatore, che dai 1066 non aveva mai cessato di dimostrare
un lodevole zelo per la riforma, evitando ogni genere di simonia nel nominare
i vescovi ed agendo con rigore nei
confronti dei preti fornicatori. Buon esito, ma solo momentaneo, Gregorio VII
ebbe anche presso Filippo I di Francia, che parve per un attimo ravvedersi
delle sue pratiche simoniache e dei suoi abusi in campo ecclesiastico; ma la
cosa non durò molto! Più fortunata fu la relazione, che venne ad instaurarsi
con Enrico IV di Germania: questi,
avendo collaborato con i cinque consiglieri scomunicati da Alessandro II, si
era trovato a sua volta coinvolto nella scomunica e per questa ragione non
aveva ricevuto la comunicazione della elezione di Gregorio VII. Il nuovo papa
volle tuttavia lavorare per superare la tensione, facendo conoscere al re
tedesco la sua disponibilità a concedere l’assoluzione dalla scomunica nel caso
si fosse ravveduto sulla questione milanese (i due arcivescovi, Goffredo e
Attone). Enrico IV in quel momento venne
a trovarsi in serie difficoltà per via di una ribellione dei Sassoni,
che chiedevano maggiore autonomia e perciò dovette ritenere che una
riconciliazione con la Sede Apostolica gli avrebbe giovato sul piano politico.
Infatti tra il 24 e il 27 settembre 1073 il papa ricevette una lettera, in cui
Enrico esprimeva il suo pentimento, prometteva di dare soddisfazione al papa
circa la questione milanese e chiedeva con insistenza l'assoluzione dalla
scomunica. Commosso, Gregorio VII intervenne presso i Sassoni, pregando vescovi
e grandi di cessare ogni ostilità nei confronti di Enrico fino all'arrivo in
Germania di delegati papali. Questi
partirono da Roma subito dopo il sinodo quaresimale del 1074, trovarono ottima
accoglienza presso Enrico IV, che fece ammenda delle sue colpe ed ottenne
l'assoluzione dalla scomunica. L'azione presso l’episcopato ebbe invece
risultati tutt'altro che lusinghieri: già per se stessi poco inclini alla
riforma, furono ulteriormente spinti a prendere le distanze nei confronti del
papato da parecchi moti di ribellione da parte del basso clero, che non voleva
in nessun modo rinunciare alla donna: così in Francia, così in Germania, così
in Lombardia, così nello stesso regno anglo-normanno. Da parte del clero dunque
l’autorità romana non riusciva ad ottenere rispetto.
·
Problema: il progetto orientale.
In Oriente il Papa voleva raggiungere una riconciliazione
con la Chiesa bizantina ed insieme eliminare la presenza islamica. A questo progetto
lo spingeva anche il fatto che l'imperatore bizantino Michele VII gli aveva
fatto pervenire una lettera assai deferente nei confronti della Chiesa romana. Gregorio
VII cominciò a lavorare perché in Occidente si costituisse un esercito, che muovesse
contro gli Arabi nelle terre orientali; ma non ottenne un'adesione rilevante. Dunque anche
su questo punto Gregorio dovette registrare un fallimento.
·
Problema: la riconqiusta cristiana in Spagna:
Appena divenuto pepa
Gregorio VII ritenne di dovere continuare ad appoggiare l’organizzazione della
spedizione armata in Spagna, che aveva
ottenuto il consenso del suo predecessore. Ma presto sulla questione piombò una
fitta cortina di silenzio.
Alla fine del 1074 Gregorio
VII tirò le somme della sua azione nel primo anno di pontificato: dovette
rinunciare ai progetti orientali e di riconquista spagnola e insieme dovette
concentrare la sua attenzione sulla riforma: l'opposizione del clero da una parte
affermava l'urgenza di tale azione, dall'altra dimostrava la necessità di cambiare
metodo, poiché il papato non poteva attendersi la riforma dalla collaborazione del
clero che c'era, bisognava puntare sulla collaborazione del clero futuro ed in
questa prospettiva si imponeva la necessità di garantire un migliore
reclutamento del clero, bloccando in radice le pratiche simoniache: ecco il
decreto sull'investitura laica del sinodo quaresimale romano del 1075. Non ci
è pervenuto il testo del decreto promulgato in questo sinodo: ci è tuttavia
possibile ricostruirlo attraverso accenni successivi: doveva comportare fondamentalmente
due affermazioni:
+ proibizione ai
vescovi di ricevere l’ufficio dalle mani
di un laico;
+ proibizione ai
metropoliti di consacrare coloro che avessero ricevuto il loro ufficio
episcopale dalle mani di un laico.
Gregorio VII dunque riprese il decreto contro le
investiture del 1059, precisandolo meglio. Tuttavia si deve rilevare senz'altro
che non si ebbero determinazioni particolari sulla applicazione, sulle sanzioni
disciplinari da comminare. E ciò rispondeva ad una preoccupazione particolare
di quel momento: Gregorio VII avvertiva il carattere rivoluzionario di questo decreto
e pertanto preferì in un primo momento conferirgli il carattere di una nuova affermazione
di principio, da determinare nei risvolti pratici lentamente con estrema prudenza,
senza pregiudicare le buone relazioni, che si erano instaurate coi sovrani.
Per esempio Gregorio VII non ritenne di dover
insistere per una diffusione e applicazione di questo decreto nell’Inghilterra di
Guglielmo il Conquistatore, dove il sovrano praticava il sistema
dell'investitura, ma con una preoccupazione religiosa.
O ancora: Gregorio VII
farà applicare il decreto in Francia solo a partire dal 1077 e con una particolare moderazione: spesso si limitò a
colpire solo le elezioni sospette di simonia, chiudendo un occhio di fronte
alle elezioni avvenute gratuitamente, sia pure con la pratica dell’investitura.
Interessante infine
rilevare che alla fine del sinodo quaresimale del 1075 Gregorio VII si premurò di informare Enrico IV che sul
punto dell'investitura c'era a Roma la disponibilità a trattare con la corte
germanica per una azione moderata e concorde. Insomma nel sinodo quaresimale
del 1075 Gregorio VII dovette considerare la proibizione delle investiture non
come una condizione sine qua non, ma semplicemente come un mezzo, non assoluto
ma tra tanti altri, non prioritario, ma solo estremo, a cui cioè ricorrere solo
nel caso in cui non si fosse ottenuto nulla per altra via.
e. inizio della lotta
per l’investitura
Credo che sia il caso di mettere
in luce prima di tutto le motivazioni profonde di questo conflitto. Il decreto
contro le investiture del 1075 a due categorie dovette apparire come una grave
minaccia. La prima categoria era rappresentata dai vescovi imperiali: vi vedevano
un chiaro attentato alla loro posizione di prestigio nell’apparato statale
tedesco: Roma nell’imporre al vescovi tedeschi la sua autorità in fondo era
disposta a sacrificare il ruolo temporale, che il legame con l'autorità del re
tedesco assicurava all'episcopato tedesco.
La seconda categoria era
rappresentata dalla corte tedesca: questa usciva dalla fase della reggenza
notevolmente indebolita, soprattutto per le spinte autonomistiche della
feudalità laica e pertanto mirava a ricuperare forza sia appoggiandosi ancor più
saldamente alla feudalità ecclesiastica, ed in questo senso l’investitura ecclesiastica
era un mezzo necessario, sia limitando - a favore degli ecclesiastici - le
prerogative della feudalità laica.
Stante questa situazione, è chiaro che, per la
comunanza di interessi, da una parte avremo l'associarsi del re tedesco e dei
vescovi imperiali in un fronte antipapale e dall'altra avremo l'avvicinarsi
del papato alla feudalità laica in un fronte antienriciano. Finché non fu
sopita la ribellione sassone, Enrico IV preferì agire con estrema prudenza nei
confronti del papato. Ma dopo la vittoria sui Sassoni (9 giugno 1075) il re
tedesco ritenne giunto il momento di dare avvio con decisione al suo piano di
rafforzamento della corona germanica. La prova chiara di questo orientamento
si ebbe allorché in quell'autunno Enrico IV, contro la promessa fatta nel 1073,
fece nominare ed investire quale arcivescovo di Milano il suddiacono Tedaldo;
di lì a poco conferì l'investitura anche ai vescovi di Fermo e Spoleto.
Gregorio VII vide in questo modo di agire un
grave affronto, non perché veniva calpestato il decreto del 1075 (su questo
punto il papa era disposto a trattare), ma perché ancora una volta da parte tedesca
veniva ignorata e conculcata l'autorità del papa in quanto tale: si ricordi che
la Sede Apostolica si era già pronunciata in favore di Attone per Milano;
pertanto Enrico IV con la nomina di Tedaldo chiaramente accantonava la presa di
posizione papale; ancora si ricordi che le diocesi di Fermo e di Spoleto
facevano parte della provincia ecclesiastica romana; pertanto, disponendo unilateralmente
di tali episcopati, Enrico IV chiaramente passava sopra i diritti metropolitani
del Vescovo di Roma.
Per tutte queste ragioni Gregorio VII inviò ad
Enrico IV una lettera minatoria, in cui gli rimproverava di non aver mantenuto
le promesse; di aver apertamente violato l'ordinamento canonico, ma insieme si
dichiarava pronto a negoziare. I latori della lettera dovevano avvertire a voce
il re tedesco che, se si fosse ostinato nella sua posizione, sarebbe incorso
nella scomunica e nella deposizione: qui si vede che Gregorio VII voleva
trasferire una proposizione del “Dictatus papae" dal campo delle ricerche
canonistiche sul terreno dei fatti giuridici.
Enrico IV
credette di poter opporre al papa un atteggiamento di dura intransigenza: il 24
gennaio 1076 riunì a Worms un'assemblea dell'episcopato tedesco, che dichiarò
Gregorio VII deposto. I vescovi indirizzarono a Gregorio VII una lettera, in
cui venivano formulate le seguenti accuse: distruzione della pace, lesione dei
diritti dei vescovi, spergiuro (secondo i vescovi tedeschi alcuni anni prima
il monaco Ildebrando avrebbe giurato davanti alla corte tedesca che non avrebbe
mai accettato di diventare papa); elezione irregolare per violazione del
decreto del 1059, che prescriveva la partecipazione del re tedesco e pertanto
concludevano: “Io... vescovo di ... notifico ad Ildebrando che da questo momento
gli ricuso obbedienza e sottomissione, che non lo riconoscerò come papa, né più
gli darò questo titolo”,
A sua volta Enrico IV
inviò a Gregorio VII una lettera, in cui gli rimproverava di aver macchinato
contro i suoi diritti alla corona imperiale e al governo in Italia poi,
prendendo atto della sentenza di deposizione pronunciata dal vescovi, Enrico
IV, quale patrizio di Roma, ingiungeva al papa di abbandonare la sede romana,
che occupava abusivamente.
Enrico IV inviò una
seconda lettera a Roma; destinatari ne erano i cittadini romani: il re li
invitava a scacciare Ildebrando dalla Sede Apostolica e ad eleggere un nuovo
papa (i tre scritti sono reperibili in MGH Const I, 106-111).
L'assemblea di Worms ebbe
uno strascico anche in Italia: infatti a Piacenza si tenne una riunione dei
vescovi lombardi, che aderirono pienamente alla decisione dei colleghi
tedeschi.
Come mai Enrico IV osò
tanto? Per il fatto che sopravvalutò la debolezza di Gregorio VII ed insieme
sopravvalutò la propria forza. La notte di Natale del 1075 Gregorio VII era
stato fatto oggetto di un attentato, mentre stava celebrando la messa nella
basilica di santa Maria Maggiore: la cosa non ebbe gravi conseguenze, perché il
papa fu prontamente difeso dalla popolazione romana. Enrico IV dovette
ravvisare in tale episodio un segno dell'isolamento di Gregorio VII, quando
invece si era trattato soltanto di un gesto sconsiderato, dovuto al risentimento
personale di un nobile romano (Cencio, figlio del prefetto della città).
Quanto alla sua forza, Enrico IV dovette
annettere peso eccessivo all'appoggio dei vescovi, senza preoccuparsi di
considerare quale atteggiamento avrebbe assunto la feudalità laica e come
questa avrebbe influito anche sugli stessi vescovi. Per queste ragioni di lì a
un anno Enrico IV si troverà a Canossa.
Gregorio VII dal canto suo non si perse d'animo:
nel sinodo quaresimale del 1076 si espresse in questi termini: “Beato Pietro,
principe degli apostoli, ve ne supplico, porgetemi benevolo ascolto: state a
sentire questo vostro servo, che voi avete nutrito fin dall'infanzia, che voi
fino ad oggi avete sottratto dalle mani degli empi, che lo hanno odiato ed
ancora lo odiano per la sua fedeltà verso di voi. Siatemi testimone voi con la mia
regina, la Madre di Dio e il beato Paolo, vostro fratello fra i santi: la
vostra santa Chiesa Romana mi ha costretto, mio malgrado, a governarla: io
sono salito sulla vostra cattedra con mezzi onesti. Avrei certamente preferito
finire i miei giorni in abito monastico, anziché occupare il vostro posto per
la brama della gloria mondana secondo lo spirito di questo secolo. Perciò
ritengo che sia per grazia vostra e non per i miei meriti che il popolo
cristiano, che mi è stato particolarmente affidato mi obbedisce, perché il
potere di legare e sciogliere in cielo e sulla terra mi è stato rimesso da Dio,
su vostra richiesta, e lo eserciti in vece vostra. Forte della vostra fiducia,
per l'onore e la difesa della Chiesa, in nome di Dio onnipotente, Padre,
Figlio, e Spirito Santo, con il vostro potere e per vostra autorità
-
interdico al re Enrico, figlio dell'imperatore Enrico, che con
orgoglio insensato si è eretto contro la vostra Chiesa, di governare il regno
di Germania e d'Italia,
-
prosciolgo tutti i cristiani dal giuramento prestatogli
-
e proibisco a chiunque di riconoscerlo re.
E' giusto infatti che colui il quale intende
menomare l'onore della vostra Chiesa, perda ciò che sembra possedere. E perché
come cristiano si è rifiutato di obbedire, non è ritornato al Signore, che ha
abbandonato, avendo rapporti con gli scomunicati, accumulando le iniquità,
disprezzando gli ammonimenti, che gli ho rivolti per la sua salvezza – e voi ne
siete testimone - separandosi dal la vostra Chiesa e tentando di smembrarla, in
nome vostro
-
io lo colpisco di scomunica,
perché tutti i popoli della terra sappiano che su
questa pietra il figlio del Dio Vivente ha edificato la sua Chiesa e che le
porte dell'inferno non prevarranno contro di essa” (REG. III, 10 a).
In Germania da più parti si contestò a Gregorio
VII il potere di giudicare il re; ciò indusse il papa a precisare il senso del
suo intervento in una lettera indirizzata a Ermanno, vescovo di Metz (Reg. IV,
3). In tale lettera Gregorio VII fa ricorso a tre argomenti:
+
argomento storico: richiama alcuni precedenti storici, in cui il
potere sacerdotale compare come giudice del potere regale: l'esempio di papa
Zaccaria, che giudicò il merovingio Childerico III come non idoneo a regnare,
l'esempio di Sant’Ambrogio, che giudicò l'imperatore Teodosio;
+
argomento dogmatico-teologico: fondandosi su Mt 16,18-19
e su Gv 21,7, Gregorio VII sostiene che a Pietro è stato dato un potere di
legare e sciogliere, che ha estensione universale e comprende anche i re;
“Si è preteso che Dio, affidando la Chiesa a
Pietro con le parole: - Pasci le mie pecore - (Gv 21,17), abbia voluto
escludere i re. Perché non sostenere, o piuttosto non confessare arrossendo,
che Dio, il quale ha rimesso a Pietro in particolare il potere di legare e di
sciogliere in cielo e sulla terra, non ha fatto eccezione per nessuno? Chi
afferma di non potere essere vincolato dalla Chiesa, deve dichiarare pure di
non potere essere assolto da essa; ma così egli si separa da Cristo";
+
altro argomento dogmatico-teologico: Gregorio VII richiama
la superiorità del potere sacerdotale quanto ad origine: il potere
sacerdotale è di istituzione divina, mentre quello regale é invenzione umana;
quanto ad oggetto: il potere sacerdotale si esercita sulle cose
spirituali, mentre quello regale sulle realtà materiali: "Che se la S.
Sede, in virtù del potere conferitole da Dio, può giudicare le cose spirituali,
perché non dovrebbe poterlo fare anche per quelle temporali? La vostra carità
non può farvi chiudere gli occhi sulle iniquità di quei re e principi,che
antepongono la propria gloria e i propri interessi alla giustizia di Dio, che
disprezzano l'onore di Dio e ricercano il loro proprio bene. Mentre quelli che
antepongono Dio a sé stessi e obbediscono alle sue leggi anziché a quelle degli
uomini, sono membri di Cristo, quelli di cui abbiamo detto più sopra sono
membri dell'Anticristo. Se in caso di colpa vengono giudicati gli
ecclesiastici, perché non dovrebbero essere ripresi delle loro cattive azioni
anche i laici?”.
Si noti come il giudizio si mantenga sempre su un
terreno morale e non politico.
f. Canossa:
La decisione di Enrico IV di presentarsi a
Canossa in atteggiamento penitenziale per ottenere dal papa l'assoluzione fu
sollecitata da una serie di circostanze politiche.
I circostanza: l'atteggiamento dei vescovi: tornati
nelle loro sedi dopo l'assemblea di Worms, meno condizionati dal potere del
re, molti vescovi cominciarono a prendere le distanze da Enrico IV. A ciò
furono indotti anche dall'atteggiamento, che stavano assumendo i principi
laici.
II circostanza: i principi laici non avevano mai nutrito
molte simpatie per questo re, che voleva annullare le posizioni vantaggiose
guadagnate dalla feudalità laica durante il periodo della reggenza. Il
conflitto tra Enrico IV e Gregorio VII parve a questi principi l’occasione
propizia per contrapporsi alla politica centralizzatrice di Enrico IV: anziché
assicurare al sovrano il loro appoggio, si vollero erigere a giudici della
monarchia germanica.
Infatti nell'ottobre del 1076 si riunirono a Tribur,
presso Magonza, alla presenza di un legato papale. Tra i principi si
manifestarono due tendenze: una radicale, che mirava all'elezione di un nuovo
re tedesco; una tendenza più moderata, che invece voleva offrire a Enrico IV
una possibilità di riabilitazione. Ad avere la meglio, anche grazie
all'appoggio del legato papale, fu la corrente moderata, pertanto a Tribur i
principi posero a Enrico IV le seguenti condizioni:
l - il re e i suoi
collaboratori scomunicati avrebbero dovuto promettere al papa e ai principi di
fare ammenda;
Il - il re si sarebbe
dovuto sottomettere circa il destino del suo regno alle deliberazioni di un'assemblea
del regno, presieduta dal papa, che si sarebbe dovuta tenere il 2 febbraio del
1077 ad Augsburg;
III - il re sarebbe
comunque stato deposto, se allo scadere del primo anno dalla data della
scomunica non avesse ancora ottenuto l'assoluzione pontificia.
Enrico IV accettò le condizioni poste dai
principi, ma insieme cominciò a lavorare per vanificare l'assemblea del regno
prevista per il 2 febbraio. Alla notizia che Gregorio VII aveva, tra il
novembre e il dicembre, iniziato il suo viaggio verso la Germania, Enrico IV
con una scorta armata passò il Moncenisio e si presentò sul suolo italiano. A
quel punto Gregorio VII dovette interrompere il suo viaggio e rinchiudersi nel
castello della contessa Matilde, situato a Canossa, a sudovest di Reggio
Emilia.
Il 25 gennaio, mercoledì, festa della conversione
di San Paolo, Enrico si presentò davanti al castello di Canossa non in atteggiamento
regale, ma in atteggiamento da penitente: abito penitenziale, piedi scalzi;
Gregario VII lo lasciò attendere per tre giorni fuori dal castello; infine,
sia cedendo alle pressioni della contessa Matilde e di Ugo, abate di Cluny e
padrino di Enrico IV, sia cedendo alla propria compassione e commozione,
Gregorio VII sabato il 28 gennaio riaccolse Enrico IV nella comunione,
chiedendogli come assicurazione un giuramento:
-
“prometto di fare giustizia secondo la sentenza del papa e di
sottostare al suo parere, purché non ci sia impedimento certo per me o per lui”: si noti che qui si
allude alla sentenza, che si sarebbe dovuta pronunciare il 2 febbraio alla
dieta di Augsburg: ebbene su questo punto Enrico IV esprime una sottomissione
condizionata;
-
"Se lo stesso papa Gregorio intende venire oltre i monti o
altrove, avrà ogni sicurezza per quel che mi riguarda e per quel che riguarda
colore, a cui posso imporla... Per parte mia, egli non avrà nulla da temere che
sia contrario al suo onore e, se altri
lo attaccheranno, io gli porgerò aiuti con tutta la buona volontà secondo le
mie forze”.
Si noti come Enrico
promette al papa una specie di salvacondotto per il suo viaggio in Germania, anche
se questo viaggio è presentato come
eventuale soltanto, il papa potrebbe decidere anche altrove. Si noti ancora
come Enrico IV non dà nessuna assicurazione circa la sua presenza alla dieta di
Augsburg: dunque abbastanza chiaramente appare la volontà di vanificarla. Infine
si noti come non si accenni ad altre questioni, che sono tuttora aperte:
· la rottura della
collaborazione con i consiglieri scomunicati;
· questione delle
investiture;
· la questione di Milano;
· l'atteggiamento futuro
nei confronti del potere papale.
Dal giuramento dunque
traspare che Gregorio VII ha giudicato il caso di Enrico IV non secondo criteri
politici, ma secondo criteri spirituali: al penitente Enrico IV per
l'assoluzione non ha chiesto garanzie politiche, ma penitenza e pentimento. A Canossa abbiamo dunque la sottomissione
del potere regale al papa, non in quanto sarebbe superiore giurisdizionalmente
sul terreno propriamente politico, ma in quanto sarebbe superiore moralmente
nell'ambito spirituale. Sotto questo profilo Canossa dice la fine della
relazione sacerdozio-regno del periodo Alto Medievale; dice la vittoria della
concezione gregoriana: notate che la concezione gregoriana si fonda non su equilibri
di forza politica, ma sulla buona volontà dei cristiani: in fondo Gregorio VII
sa di potere contrapporre alla forza militare di Enrico IV solo la volontà di
adesione dei fedeli alle tesi del papa qualora tale adesione venisse meno, il
papa non avrebbe altro che la sua parola di condanna di fronte alla forte spada del re (cfr l'esilio di Salerno).
f.
Le conseguenze politiche di Canossa:
Quanto ad Enrico: quali sono le conseguenze giuridico-politiche del
gesto spirituale di Canossa? E' chiaro che Gregorio VII pensa ancora che la
definizione della questione del regno tedesco si compirà solo nella dieta di
Augsburg. Ma, nell'intervallo di tempo, che intercorre tra Canossa e Augsburg, Enrico
deve essere considerato re o no? Sotto quali panni Enrico si presenterà di fronte
alla dieta di Augsburg?
Per trovare su questo interrogativo una risposta
precisa di Gregorio VII si deve risalire all’allocuzione da lui pronunciata nel
sinodo quaresimale romano del 1080 in occasione della seconda condanna di Enrico
IV: “Vedendolo così umiliato e, dopo aver ricevuto molte promesse di
cambiamento di vita, io l'ho riammesso nella comunione, ma non l'ho ristabilito
nel regno, da cui l'avevo deposto nel sinodo di Roma, e non ho obbligato quelli
che gli avevano prestato e che gli avrebbero prestato giuramento di mantenergli
la fedeltà da cui li avevo sciolti nello stesso sinodo'' (Reg. VII, 14a).
Prima di questa dichiarazione Gregorio VII aveva sempre
attribuito ad Enrico IV il titolo di re: lo stesso giuramento prestato da
Enrico IV a Canossa si apriva con questa espressione “Io, Enrico, Re”.
Del resto è certo che Gregorio VII
non intese la deposizione di Enrico IV come un atto irrevocabile, che dovesse
dare avvio immediato alla elezione del nuovo re tedesco: Gregorio VII considerò
invece questa deposizione come una misura provvisoria, che sarebbe rientrata,
qualora Enrico IV avesse dato segni di ravvedimento, Come districarci di fronte
a questi dati contrastanti?
Per prima cosa credo che
si debba escludere che la posizione espressa da Gregorio VII nel 1080 fosse già
presente nella sua convinzione ai tempi di Canossa. In secondo luogo mi pare
che si possa escludere anche la posizione opposta: cioè che Gregorio VII a
Canossa abbia inteso senz'altro l'assoluzione come reintegrazione nelle
funzioni regali: nel qual caso la dieta di Augsburg avrebbe perso ogni valore:
è certo invece che il papa le annetteva importanza proprio in ordine alla soluzione
della questione del regno tedesco. Probabilmente nel 1077 su questo punto il papa doveva
nutrire una grande incertezza: da una parte avvertiva che con l’assoluzione
veniva a cadere gran parte delle riserve nei confronti del potere regale di Enrico
IV, dall’altra riteneva di non potere con la sua propria assoluzione annullare
i diritti dei principi. In fondo Gregorio VII con l’assoluzione riconobbe, la bona
voluntas di Enrico IV e questa era condizione di idoneità al regno. Rimaneva aperto
il problema della vera potestas, altra condizione necessaria di idoneità. Ora a
Canossa Gregorio VII aveva davanti un Enrico piuttosto isolato debole, carente
di “vera potestas”, carente quindi di
una condizione necessaria per essere re legittimo: la parola decisiva su questo
aspetto doveva essere pronunciata dalla dieta di Augsburg, dove si sarebbe
dimostrato se il rifiuto dei principi di appoggiare Enrico veniva meno o
continuava a sussistere.
Come vedete su questo
punto non concordo con Bihlmeyer-Tuechle, che fa propria la tesi di H. X. Arquillier
e di L. Tondelli (assoluzione dalla scomunica, ma non riassunzione del regno),
mi avvicino invece alla posizione di G. Miccoli: ritengo che a Canossa Gregorio
VII era convinto che la soluzione del problema non dipendeva
esclusivamente dalla sua volontà, in quanto
non si trattava soltanto di verificare la “bona voluntas”' del re, ma bisognava
anche valutare la “vera potestas”, e qui si dovevano attendere gli avvenimenti
successivi.
I principi interpretarono il viaggio di Enrico IV in Italia
come un'aperta sconfessione della premessa di sottomissione al giudizio della
dieta di Augsburg: cominciarono anche a temere che Gregorio VII avesse già
deciso di appoggiare la causa di Enrico IV davanti alla dieta, opponendosi ai
principi antienricani. Ritennero perciò di dovere cassare la dieta di Augsburg.
Il 13 marzo 1077 si
riunirono a Forchhaim, dichiararono Enrico IV deposto ed elessero un nuovo re
nella persona di Rodolfo di Rheinfelden, duca, di Svevia e cognato di Enrico IV.
A proposito di questa elezione si noti che per la
prima volta abbiamo un re, che fonda la sua elevazione non tanto sul principio
dinastico, ma piuttosto sul principio elettivo: chiaro segno della debolezza
della dinastia regnante e del peso politico acquisito dai principi elettori.
A questo punto il
problema della “vera potestas” va deciso in relazione a due re. La soluzione
poteva essere raggiunta per due vie: o attraverso una dieta generale del regno,
in cui il re legittimo sarebbe uscito con il riconoscimento di tutte le parti o
attraverso azioni militari. Gregorio VII manifestò chiaramente la sua
propensione per la prima via e, in attesa della dieta, assunse una posizione
neutrale, riconoscendo ad ambedue i contendenti la possibilità del regno. Tra i
principi tedeschi invece la via della dieta trovò scarso consenso: da una parte
gli antienriciani temevano che in seguito alla soluzione di Canossa era venuto
a costituirsi un forte partito enriciano, dotato dell'appoggio compatto dei
vescovi e magari anche dell'appoggio del papa: dall'altra gli enriciani
ritenevano che, aderendo alla convocazione di una dieta per decidere tra i due
re, facevano inaccettabili concessioni all'altra parte: accettare una siffatta
dieta voleva dire accettare di mettere in discussione la legittimità di Enrico
IV, voleva dire accettare di discutere sulla legittimità di Rodolfo e quindi
ammettere la tesi della monarchia soltanto elettiva. Le due parti contendenti
preferirono pertanto fare ricorso alle armi: gli enriciani, pur prevalendo, non
riuscirono a debellare la parte avversa.
In questa situazione, mentre Gregorio VII da una
parte faceva di tutto per imporre la tesi dell'assemblea, Enrico IV dall'altra
faceva di tutto per consolidare la sua prevalenza militare: in tal modo
infatti sarebbe riuscito a controllare, se non addirittura a vanificare, l'operato
dell'assemblea.
Nei primi mesi del 1080 Enrico IV ritenne di
avere la situazione militare in pugno e pertanto di poter essere lui a dettare
le condizioni risolutive della questione tedesca: mandò una delegazione a Roma
per costringere il papa in termini drastici a passare dalla parte enriciana
(Bonizone di Sutri racconta che la delegazione avrebbe ingiunto al papa di
scomunicare Rodolfo, altrimenti Enrico sarebbe passato alla elezione di un
antipapa).
A questo punto per
Gregorio VII mutarono i termini del problema, cioè non si trattava più di valutare
da che parte stava la “vera potestas”, ma si trattava solamente di prendere
atto che Enrico IV aveva assunto un atteggiamento, che dimostrava l'assenza di “bona
voluntas”. Nel sinodo romano del marzo 1080 Gregorio VII pronunciò nei
confronti di Enrico una nuova scomunica, in secondo luogo gli interdisse il
regno, in terzo luogo proibì ai cristiani di prestargli obbedienza, sciogliendoli
giuramento di fedeltà, in quarto luogo riconobbe come re Rodolfo: dunque Gregorio
VII conferì alla sua sentenza di deposizione un carattere irrevocabile.
h.
L'ultima fase della vita di Gregcrio VII
Lo scontro divenne oramai
acre.
Da parte degli enriciani si maturò la decisione di deporre
Gregorio VII e di contrapporgli un nuovo pana. Ciò si
compì definitivamente nel concilio di Bressanone del 25 giugno 1080; Gregorio
VII venne deposto come indegno, eretico, illegittimo (per muovergli questa accusa
si fabbricò la versione imperiale del decreto per l'elezione papale del 1059,
dove - come dicemmo - si assegnava all'imperatore un ruolo di primo piano
insieme con i cardinali e dove si misconoscevano le prerogative dei cardinali-vescovi)
e poi si passò all'elezione del papa Clemente III, Guiberto di Ravenna.
Nell'ottobre, con la
morte in battaglia di re Rodolfo, Gregorio VII subì un ulteriore colpo; il
nuovo eletto, Ermanno di Lussemburgo, si dimostrò figura insignificante. Il
partito degli antienríciani entrò in una fase di grave crisi, che consentì ad Enrico
IV di abbandonare la Germania, e di scendere in Italia per intronizzare in Roma
il suo papa Clemente III.
Per ben tre anni
consecutivi, Enrico IV sferrò vari attacchi per prendere Roma nelle sue mani: l’impresa
gli riuscì finalmente il 21 marzo 1084. Il 24 marzo 1084, domenica delle palme, si
procedette alla intronizzazione di papa Clemente III; il 31 marzo,
giorno di Pasqua, si compì la solenne incoronazione di Enrico.
Gregorio VII, che per tre
anni aveva guidato la resistenza romana, non aveva abbandonato Roma ma si era
arroccato nel Castel s. Angelo. In suo aiuto il 21 maggio intervenne un
esercito normanno, guidato da Roberto il Guiscardo: le truppe imperiali se la
batterono in fuga, i Normanni liberarono Gregorio VII e si misero a
saccheggiare la città, incendiando interi quartieri e malmenando la popolazione.
A questo punto i Romani
trasformarono il loro attaccamento a Gregorio VII in odio aperto, in quanto
cominciarono ad addebitargli i misfatti del Normanni. Il papa si trovò così
costretto a lasciare la città, mettendosi al seguito dei Normanni. Fissò la sede del suo
esilio a Salerno, dove fu colto dalla morte di lì a qualche mese: era il 25
maggio 1085.
Il biografo di Gregorio
VII, Paolo di Bernried, pone sulla bocca del papa morente la seguente espressione:
“Ho amato la giustizia ed ho detestato l’iniquità, perciò muoio in esilio”.
Si discute sull’autenticità
di questa espressione, comunque sia, essa compendia magnificamente l'esistenza
di questo grandissimo papa del Medioevo: morì come uno sconfitto ma lasciò
dietro di sé un'eredità ideale ed aprì una via, che porteranno il papato a toccare
nella società medievale vette insperate.
7 – La crisi romana
Il
periodo di tempo che intercorre tra il 1085 ed il 1088, tra la morte di
Gregorio VII e l’elezione di Urbano II, viene spesso presentato dalla
storiografie come il periodo della crisi romana.
I primi sintomi di questa crisi si erano
manifestati durante gli ultimi anni del pontificato di Gregorio VII: nel corso
dell'assedio triennale di Roma sia tra i cardinali sia tra il popolo romano
cominciò a serpeggiare un certo malumore nei confronti della dura intransigenza
di Gregorio VII: mentre il papa teneva di fronte ad Enrico IV l’atteggiamento
del sacerdote, che
assolve solo davanti a segni di pentimento e penitenza, diversi esponenti
dell'ambiente romano cominciarono a ritenere che fosse più opportuno non
radicalizzare il contrasto e accettare un compromesso. Ad esempio nel 1082
l'abate di Montecassino, il cardinale Desiderio, raggiunse di sua iniziativa un
compromesso con Enrico IV: questi si sarebbe fatto incoronare imperatore non da
Clemente III ma da Gregorio VII, mentre Gregorio VII dal canto suo di fronte a
tale gesto di buona volontà avrebbe rinunciato a contrastare Enrico IV. Ma di
tutta risposta l'abate di Montecassino ebbe da Gregorio VII una minaccia di
scomunica!
Nei primi mesi del 1084 il dissenso nei confronti
dell'intransigenza di Gregorio VII
divenne più clamoroso: tredici cardinali-presbiteri passarono dalla parte di
Clemente III.
Alla morte di Gregorio VII la crisi divenne
manifesta e grave: il papa sul letto di morte aveva indicato una terna, in cui
scegliere il suo successore: Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca e nipote di
Alessandro II, Oddone cardinale-vescovo di Ostia e Ugo, arcivescovo di Lione. Tuttavia
non solo nessuno di questi tre ottenne di essere eletto, ma addirittura si
lasciò vacante la sede per mesi e mesi. Ciò si spiega col fatto che la politica
di Gregorio VII non trovava più totale adesione ed i gregoriani convinti non erano
più in grado di tenere in mano la situazione. Sui cardinali romani durante questo
periodo, vengono esercitati due tipi di pressione.
Pressione
di carattere morale: durante questi mesi di incertezza abbiamo la produzione di
alcuni scritti, di ispirazione antigregoriana, miranti ad affermare la tesi secondo
cui Gregorio VII non sarebbe più stato il papa legittimo, al suo posto sarebbe
stato legittimamente eletto Clemente III, pertanto non si doveva fare altro che
riconoscere Clemente III (questa linea era sostenuta da BENZONE D’ALBA, Liber ad Heinricum : MGH SS XI, 591-681; dal cardinale prete
BENNONE, Gesta romanae aecclesiae (sic!) contra Hildebandum : MGH Lib. de
lite II, 366-373 e da GUIDO, vescovo di Ferrara,
De schismate Hil debrandi
: MGH Lib. de lite I, 529-567).
Pressione di carattere
politico:
ad esercitare questa pressione non è Enrico IV, che in questo momento trova
difficoltà consistenti in Germania, perché Lorena, Sassonia, Baviera, danno
chiari segni di insubordinazione, mentre tra i vescovi tedeschi incomincia a
formarsi un partito gregoriano organizzato intorno alla prestigiosa figura di
Gebardo, vescovo di Costanza. La pressione è esercitata invece dal principe
normanno Giordano di Capua, passato dalla parte di Enrico IV. Giordano di Capua
infatti costringe i cardinali-vescovi ad uscire dall’incertezza e ad eleggere
come papa il cardinale Desiderio, abate di Montecassino, suo amico personale,
fautore di tendenze concilianti (24 maggio 1086). L’abate Desiderio, abate di Montecassino,
aveva assicurato al suo monastero uno splendore ineguagliabile sotto il
profilo culturale ed artistico: fece costruire una splendida biblioteca, una
sala Capitolare, un dormitorio per i monaci, un palazzo per l'abate ed una chiesa,
che per grandezza e bellezza doveva superare le chiese romane. Però negli
ultimi anni Desiderio aveva dimostrato di anteporre agli interessi di riforma
la tranquillità del suo monastero, pagata magari con un atteggiamento
eccessivamente conciliante nei confronti dei Normanni e di Enrico IV stesso
(si ricordi l'intesa del 1082).
Queste considerazioni dovevano rendere la figura
di Desiderio sgradita ai gregoriani intransigenti: la loro avversione nei
confronti del nuovo papa era poi accresciuta dal fatto che la sua elezione,
dovuta com'era alle pressioni di Giordano di Capua, tradiva apertamente lo
spirito gregoriano, avverso ad ogni ingerenza laica nelle elezioni
ecclesiastiche. A rendere complicata la posizione del nuovo papa interveniva
anche il fatto che gran parte dei Romani era passata dalle parte di Clemente
III.
Di fronte a queste difficoltà il debole Desiderio
si perse d'animo e, prima di ricevere la consacrazione, se ne fuggì a Montecassino,
rifiutandosi di accettare l'elezione papale.
Finalmente il 21 marzo 1087, in un sinodo tenuto
a Capua, non senza pressione da parte di Giordano di Capua, Desiderio accettò
di fare il papa ed assunse il nome di Vittore III, con chiaro rimando
all'ultimo papa tedesco: Vittore II.
Il pontificato effettivo di Vittore III durò solo
quattro mesi, per cui non ebbe modo di svolgere un'efficace azione di riforma e
di riorganizzazione del vecchio partito gregoriano (16 settembre 1087: morte di
Vittore III).
8 – Urbano II
A.
L'elezione
Vittore III, prima di morire, aveva segnalato
come suo eventuale successore quell'Oddone, cardinale-vescovo di Ostia, che
aveva già goduto - ma invano - della designazione di Gregorio VII. Tuttavia per
ben sei mesi non si poté procedere all'elezione, poiché la situazione a Roma
era arroventata dai contrasti tra Gregoriani e Clementini. Alla fine i
Gregoriani decisero di fare ricorso a quel tipo di elezione d'emergenza, che il
decreto del 1059 aveva previsto per i casi in cui la situazione romana non
avesse garantito una procedura canonica. I cardinali-vescovi si riunirono a
Terracina con i rappresentanti degli altri cardinali, del clero e del popolo romano
e il 12 marzo 1088 elessero ed intronizzarono Oddone, che assunse il nome di
Urbano II.
Nato in Francia, Oddone aveva compiuto i suoi
studi presso la scuola della cattedrale di Reims, dove ebbe come maestro qual
san Bruno, che dette avvio all'esperienza certosina. A Reims Oddone ricevette
gli ordini maggiori, divenendo canonico della cattedrale ed arcidiacono. Verso 1l
1070 abbracciò la vita monastica a Cluny, dove rimase fino al 1078, quando fu
chiamato a Roma da Gregorio VII, che lo consacrò cardinale-vescovo di Ostia.
Nel pontificato di Urbano II possiamo distinguere
due periodi.
B.
Primo periodo del pontificato di
Urbano II:
Comprende gli anni che vanno dal 1088 al 1093: in
cima alle preoccupazioni del papa sta l'esigenza di ridare forza al partito gregoriano,
duramente provato dalla crisi degli anni precedenti. In ordine a questa esigenza
Urbano II ritenne di poter agire in due direzioni:
Prima direzione: indebolire la forza politica del partito
enriciano. In questa prospettiva va intesa l'opera di Urbano II per favorire un
matrimonio piuttosto impossibile: la 46nne Matilde di Toscana, rimasta vedova
del lorenese Goffredo il Gobbo (con cui però non aveva mai stabilito veri e
propri rapporti di convivenza), avrebbe dovuto sposare il 17nne Guelfo V,
figlio di quel Guelfo IV, duca di Baviera, che in Germania guidava la lotta
contro Enrico IV: legando il casato di Guelfo con la Toscana, Urbano II sperava
di costituire un vincolo più saldo tra opposizione tedesca e opposizione
italiana.
Enrico IV, per impedire
questo progetto, decise di scendere in Italia e piegare ogni opposizione, a partire
dalla contessa Matilde. Nel 1092 le truppe imperiali, dopo un predominio
biennale, furono pesantemente sconfitte nei pressi di Canossa dai soldati di
Matilde e dovettero ritirarsi sull'altra sponda del Po. Ma anche qui Enrico IV
non ebbe vita facile, in quanto Milano, Lodi, Cremona e Piacenza costituirono
insieme una lega antimperiale. Le disavventure italiane dell'imperatore ebbero
un riflesso negativo in Germania, dove Corrado, figlio di Enrico IV, con il
beneplacito di Urbano II, si mise alla testa di una ribellione contro il padre,
che rimase praticamente isolato: nel 1096 Enrico IV si trovò costretto a
riconciliarsi con Guelfo IV, che abbandonò il progetto di matrimonio tra suo
figlio e Matilde.
Seconda direzione: togliere consensi al
partito di Clemente III. Man mano che Enrico IV perdeva terreno sul piano
politico-militare, l'antipapa si trovava sempre più abbandonato a se stesso; il
suo avversario invece godeva dell'appoggio diretto dei Normanni dell' Italia
meridionale, del riconoscimento francese, spagnolo, boemo, dell'amicizia del
partito antienriciano, che allora stava vivendo un momento particolarmente
fortunato (quanto al regno anglonormanno, finché visse Guglielmo il
Conquistatore, appoggiò la linea gregoriana; nel 1087, alla morte di Guglielmo
il Conquistatore, il regno fu diviso: il re di Normandia, Roberto, appoggiò
Urbano Il; il re di Inghilterra, Guglielmo II il Rosso, assunse un atteggiamento
di neutralità, fino al 1083 circa, quando passò dalla parte di Urbano II).
Questa situazione determinò un certo scompiglio tra i Clementini, che cominciarono
a volgere lo sguardo verso Urbano II; questi, dal canto suo, per non fare
apparire troppo dura la via del ritorno, volle assumere un atteggiamento di
grande moderazione evitando le forme di intransigenza, che potevano essersi affermate
durante gli ultimi anni di Gregorio VII. Infatti, se nel concilio di Melfi del
1089 furono affermate le tradizionali idee gregoriane di lotta contro la simonia,
il nicolaismo e le investiture, nella prassi successiva si tenne invece una
linea di notevole duttilità, in cui si preferiva affermare la potestas papale
come potere di perdono e di dispensa, piuttosto che come potere di condanna. Una
prova di ciò si ebbe a Milano: il 25 maggio 1085 aveva visto non solo la morte
di Gregorio VII a Salerno, ma anche la morte dell'arcivescovo imperiale Tedaldo
ad Arona. Enrico IV nel 1087 aveva affidato l'arcidiocesi milanese ad Anselmo
di Rho, che, contro le disposizioni di Gregorio VII,
si era sottoposto all'investitura per mano imperiale. L'anno successivo Anselmo
di Rho, volendo rientrare nella comunione romana, invocò il perdono del papa
gregoriano: Urbano II non solo riaccolse Anselmo, ma addirittura gli lasciò la
sede di Milano e gli conferì il pallio arcivescovile.
C. Secondo periodo del
pontificato di Urbano II (1094-1099):
Nel corso del 1093 Urbano
II poteva ritenere di avere sufficientemente consolidato la posizione del
partito gregoriano e quindi di potere
intraprendere con decisione l'opera di riforma ecclesiastica. Infatti verso la
fine del 1094 iniziò un viaggio, che lo impegnò per due anni, portandolo
nell'Italia settentrionale e in Francia. Di tale viaggio ricordiamo due
assemblee conciliari.
La prima si tenne a Piacenza nel marzo 1095 ed
affrontò soprattutto il problema della validità o no delle ordinazioni
compiute dagli scismatici del partito clementino. A questo sinodo intervenne
anche una delegazione inviata dall'imperatore bizantino Alessio I Comneno per “sollecitare
con insistenza, dal papa e da tutti i fedeli di Cristo aiuto per la difesa
della santa Chiesa'': ritornava così alla ribalta la questione musulmana, che
di lì a poco portò al progetto della prima crociata.
La seconda assemblea
conciliare si tenne a Clermont a partire dal 13 novembre 1095. (MANSI 20, col.
815ss; HEFELE-LECLERCQ, Histoire des
Conciles, V/1, p. 399ss). Dapprima Urbano II affermò il primato universale
della Chiesa romana, regolando alcune questioni riguardanti le strutture
ecclesiastiche di Francia. Poi passò ai decreti di riforma: ripeté le usuali
condanne della simonia, del nicolaismo, rimise a fuoco la questione delle
investiture, andando oltre lo stesso Gregorio VII: non si limitò infatti a
proibire che si ricevessero cariche ecclesiastiche dalle mani dei laici, ma
addirittura giunse a vietare ai vescovi ed agli ecclesiastici di prestare giuramento
vassalatico ad un re o ad un signore locale. A Questo punto la volontà di
libertà del clero si spingeva fino ad un totale distacco dalle strutture
feudali. Ma il concilio di Clermont è passato alla storia soprattutto perché vide
l'indizione della prima crociata.
D. La
prima crociata
Prima di tutto alcune indicazioni bibliografiche
essenziali.
C.
ERDMANN, Die Entstehung des Kreuzzugsgedanken, Stuttgart 1935 (ristampata a Darmstadt 1974): opera
fondamentale sull'origine dell'idea di crociata.
P.
ALPHANDERY- A. DUPRONT, La chrétienté et
l'idée de croisade, Paris 1954 (La
cristianità e l'idea di crociata, Bologna 1974): attenzione al
significato subcoscienziale del fatto crociato, secondo i metodi della storia
comparata delle religioni, dell'etnologia e della psicologia.
H.E.
MAYER, Geschichte der Kreuzzüge,
Stuttgart 1965 (Ottima sintesi della storia delle crociate).
ST. RUNCIMAN, Storia delle crociate, 2 volumi,Torino
1976 (è la migliore storia delle crociate disponibile in lingua italiana;
l'autore è un eccellente cultore di storia bizantina e pertanto talora incorre
nel limite di assumere una prospettiva eccessivamente favorevole al mondo
orientale).
H.E. MAYER, Bibliographie zur Geschichte der
Kreuzzüge, Hannover 1960 (fondamentale rassegna bibliografica)
I
- Nozione di crociata
Col Mayer riteniamo che si possa. parlare
propriamente di Crociata solo quando si verifica la simultanea presenza di diversi
fattori:
-
deve trattarsi di una guerra;
-
deve avere come meta la terra santa o almeno il santo Sepolcro;
-
deve essere proclamata dal papa;
-
coloro che aderiscono devono avere prestato un voto di partecipazione (simboleggiato da una croce di stoffa,
cucita sulla spalla destra della sopravveste);
-
la partecipazione viene ratificata dal papa mediante la concessione
dell'indulgenza e di alcuni privilegi temporali.
Si deve pertanto dire che una crociata di questo
genere ha avuto la sua prima manifestazione con il proclama di Clermont del 1095.
A tale conclusione si giunse però dopo un cammino secolare, caratterizzato da
varie iniziative, che possono essere considerate come precorritrici.
II
- Lo sviluppo dell’idea di crociata
Cerchiamo ora di delineare sinteticamente il
cammino. Il punto di partenza si colloca alla fine del secolo X e agli inizi
del secolo XI: il contesto storico è caratterizzato da una situazione di
notevole debolezza del potere regale (soprattutto in Francia e in Italia) e
quindi da uno stato di costante tensione, provocato dallo scontro tra le varie
forze particolaristiche per assicurarsi un peso sempre maggiore. A subire
gravemente questo ordine di cose erano soprattutto i deboli (poveri, orfani,
vedove), le Chiese ed il clero (che non poteva ricorrere alle armi), la piccola
nobiltà terriera (facilmente sopraffatta dalle prepotenze della grande nobiltà).
Poiché non si poteva sperare che il debole potere regale potesse garantire, come
era suo dovere, la giustizia e la pace, l'altro potere, quello sacerdotale, si
sentì impegnato a svolgere un ruolo di supplenza. Prima di tutto dovette
convincersi che l'ordine e la giustizia non potevano essere garantite con la
sola “parola” (giuramenti per la pace di Dio e la tregua di Dio, censure
ecclesiastiche): in certi casi era necessario il ricorso alle armi. In questa
prospettiva il potere sacerdotale maturò un nuovo atteggiamento nei confronti
della guerra: abbandonò la tradizionale indifferenza e cominciò ad intervenire
nella sfera propriamente bellica, promuovendo due iniziative: i cavalieri
cristiani e la guerra santa.
Con i cavalieri cristiani
il potere sacerdotale assicurò ai progetti di pace e di giustizia il potenziale
militare necessario: a diversi esponenti della piccola nobiltà terriera,
spodestati dai fondi terrieri, non era rimasta che un’unica risorsa: la
professione militare: ecco allora che la Chiesa, impegnandoli come cavalieri
cristiani al servizio dei deboli, delle
vedove degli orfani, delle Chiese e del clero, li indirizzò verso un ideale, che
li distoglieva dalla possibilità di diventare mercenari a servizio del
particolarismo anarcoide. Si formarono così all'interno della cristianità
gruppi armati che, quand'era necessario, mettevano la loro spada al servizio
delle iniziative di giustizia e di pace promosse dai vescovi. Queste azioni
armate, condotte al servizio del potere sacerdotale e per finalità morali,
assunsero il carattere di guerre sante e ciò era chiaramente affermato dal
fatto che i sacerdoti guidavano le truppe, innalzando il vessillo della propria
chiesa.
Un passo ulteriore verso
l'idea. di crociata fu compiuto sotto il pontificato di Leone IX nel 1053: questo
papa, come vedemmo, decise di muovere guerra contro i Normanni, che nell'Italia
meridionale ledevano la giustizia e la pace. Venne così a stabilirsi una
stretta relazione tra papato e guerra santa, relazione ricca conseguenze.
Un nuovo progresso si ebbe nel contesto della
riconquista della Spagna e della Sicilia: per la prima volta l'idea di guerra
santa fu applicata nei confronti dei musulmani, che si trovavano a dominare su terre e su popolazioni legate al
cristianesimo. Fu in questa circostanza che per la prima volta il papato
annesse alla guerra santa l'indulgenza plenaria.
Anche Gregorio VII recò un suo apporto specifico
alla formazione dell'idea di crociata: con il suo progetto orientale per la
prima volta indirizzò verso l'oriente il progetto di una guerra santa. Si noti
però che il traguardo non era rappresentato dai luoghi santi, ma dalle terre
dell'Asia minore, infestate dagli Arabi, e tutto ciò era pensato secondo una
prospettiva di avvicinamento e di riconciliazione con la Chiesa bizantina.
Urbano II compì l'ultimo passo: a partire dalle
sollecitazioni di Alessio I Comneno, non solo si rivolse verso l'Oriente, ma
precisò meglio l'obiettivo: non più Costantinopoli soltanto, ma anche i luoghi
santi. Qui sulle suggestioni della guerra santa e del cavaliere cristiano
venne evidentemente a sovrapporsi l'idea della peregrinatio a Gerusalemme, che
comportava la remissione di ogni pena temporale, connessa con peccati pubblici.
Ma si noti l'evoluzione: prima d'ora la peregrinatio a Gerusalemme, avendo un
carattere penitenziale, non poteva comportare l'uso delle armi; ora invece
Urbano II, suggerendo la crociata indulgenziata verso Gerusalemme, introduce
l'idea della peregrinatio armata.
III – Il problema della liceità delle crociate
(nel secolo XI)
Di fronte a questo
massiccio ricorso alla guerra da parte dei cristiani in generale e da parte del
potere spirituale in particolare si sollevò ben presto il problema della liceità:
liceità della guerra in quanto tale per dei cristiani; liceità del ricorso alle
armi da parte dell'autorità spirituale. Nella “COLLECTIO CANONUM” di Anselmo di
Lucca, nipote di Alessandro Il e intimo collaboratore di Gregorio VII, ai libri
12 e 13, troviamo la giustificazione più significativa, quella che si imporrà,
divenendo sentenza comune. In generale si deve rilevare che Anselmo procede
per via di autorità: giustifica cioè il ricorso alle armi semplicemente
fondandosi sul fatto che grandi autori cristiani furono di tale avviso.
L'autorità addotta da
Anselmo è soprattutto Agostino, che può essere considerato l'iniziatore
dell'etica militare in Occidente. Da Agostino prima di tutto Anselmo assume
l'idea della guerra giusta: l'uso delle armi è considerato giusto, quando è dettato
dalla necessità di difendere la pace o di restaurare l'ordine di giustizia
leso. Entro questi limiti anche per un cristiano è lecito fare ricorso alla
guerra.
Anselmo trova pure in Agostino la giustificazione
del ricorso alle armi da parte del sacerdozio. Nel corso dello scisma donatista
il vescovo di Ippona si era trovato d fronte ad un dilemma: o salvare l'unità
della Chiesa, ricorrendo anche alla forza o rispettare la libertà della fede,
astenendosi dalle forme di coercizione materiale. In un primo momento Agostino
scelse di rispettare la libertà nel credere e pertanto nell'opera di tutela
dell'unità ecclesiale si servì soltanto delle dispute letterarie. Ma col passare
del tempo si avvide che la causa dell'unità non faceva progressi e perciò si
decise a chiedere l'intervento armato dell'imperatore contro i donatisti. Il vescovo
di Ippona motivò tale scelta con Lc 14,23
(“Exi in vias et sepes et compelle intrare, ut
impleatur domus mea”).
Anselmo, fondandosi su questo precedente
agostiniano, giunge ad affermare che i sacerdoti hanno la facoltà di fare
ricorso per giusta causa alle armi: tali armi non devono essere brandite
direttamente dalle mani dei sacerdoti, ma invece devono essere usate dai laici
su richiesta del potere sacerdotale.
Per questa via Anselmo si spinge oltre le
concezioni altomedievali: nell'alto medioevo al potere sacerdotale si
riconosceva il possesso di due tipi di potestas coactiva:
-
la potestas coactiva spiritualis in misura piena (scomuniche,
censure ecclesiastiche, interdetti; ecc.)
-
la potestas coactiva materialis in misura ridotta, solo nei gradi
inferiori (digiuni, incarcerazione di ecclesiastici e monaci, penitenze
corporali...). La potestas coactiva materialis in senso pieno, fino ai gradi
supremi, era posseduta invece dal potere regale, che godeva del diritto alla
effusio sanguinis (diritto cioè di pronunciare la sentenza di morte e di far
giustiziare i criminali) e del diritto alla vis armata (diritto di condurre le
guerre).
Ora noi abbiamo visto che Anselmo di Lucca,
riconoscendo al potere sacerdotale il diritto di ricorrere alla vis armata, ha
allargato la potestas coactiva materialis del potere sacerdotale, spingendola
fino ad includere uno dei gradi superiori: la Chiesa invece non rivendicherà
mai per sé il diritto alla effusio sanguinis, per il quale preferirà sempre
dipendere dal cosiddetto braccio secolare. Il problema sarà da noi ripreso in
seguito nel corso della trattazione concernente la relazione tra i due poteri.
IV
- Proclamazione e realizzazione della prima crociata
Facciamo prima di tutto alcuni rilievi sui
contenuti della proclamazione.
Già dicemmo che Urbano II a Piacenza ricevette da
parte di Alessio Comneno una richiesta di aiuto militare: ebbene, il 27
novembre 1095 a Clermont, indicendo la prima crociata, Urbano II fece qualcosa
che non corrispondeva affatto alle attese dell'imperatore bizantino: il papa
invitava i cavalieri dell'Occidente a portarsi in Oriente per liberare quelle
terre dalla presenza araba, ma non si trattava più soltanto delle terre
dell'impero: l'attenzione si rivolgeva in particolare verso i luoghi santi,
che stavano oltre i confini imperiali. Ancora si noti che Alessio I avrebbe
ricevuto non un gruppo di cavalieri mercenari, che si mettevano al suo
servizio, ma un esercito con una propria organizzazione ed una propria finalità,
che solo in parte consisteva nel recare aiuto all'imperatore bizantino.
Urbano II il 27 novembre 1095 pensava poi ad una
crociata, che vedesse la partecipazione di un gruppo ristretto di cavalieri del
sud della Francia, capeggiati da Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa e
guidati spiritualmente da Ademaro, vescovo di Le Puy, che era appena tornato da
un pellegrinaggio a Gerusalemme. Con questi due personaggi il papa intendeva
controllare la spedizione crociata, affermandovi la sua autorità suprema.
Sempre in linea con l'affermazione della suprema
autorità del papa, Urbano II elaborò una specie di diritto dei crociati: ai
crociati veniva esteso il regime di pace di Dio, cioè la Chiesa si impegnava a
proteggere i beni dei crociati; ai crociati poi veniva garantita l'esenzione
dai tributi per tutto il periodo di assenza; infine veniva loro assicurata una
moratoria circa il pagamento dei debiti.
Si rilevi infine che la crociata in quanto tale
affermò l'autorità singolare del papa in Occidente: infatti senza intervento
dei vari re d'Occidente, ma solo per iniziativa papale, venne a formarsi un
esercito sovrannazionale, che si metteva a disposizione delle esigenze della
cristianità occidentale, facendo riferimento alla autorità suprema del papa. Il
fenomeno va inteso come conseguenza del fatto che la suprema autorità
spirituale del papa in quel momento venne a trovarsi inserita in una cristianità
occidentale, dove mancava un potere regale, che potesse imporsi come guida dell’opera
di difesa ed espansione della Chiesa: l'imperatore, che in ordine a ciò aveva
un titolo singolare, era allora scomunicato e indebolito (si ricordi la
ribellione di Corrado); il re di Francia dal canto suo non disponeva di titoli
per guidare un esercito sovranazionale e per di più era in stato di scomunica;
il re di Inghilterra Guglielmo il Rosso oltre a non disporre di un carattere sovranazionale
era in quegli inni in tensione con Anselmo, arcivescovo di Canterbury. Questa
situazione portò a consentire che il potere spirituale svolgesse azione di
supplenza nella conduzione concreta dalla defensio Ecclesiae.
Ma veniamo alle conseguenze della proclamazione.
Si deve subito dire che la risposta fu superiore ad ogni attesa: l'idea della
peregrinatio a Gerusalemme ebbe sopravvento sull'idea della guerra santa
condotta dai cavalieri cristiani e pertanto la crociata da impresa destinata
ai soli cavalieri divenne movimento popolare. Presto si trovò una divisa: la
croce di panno cucita sulla spalla destra della sopravveste; venne pure coniato
un motto: “Deus le volt”; pure si giunse ad elaborare un nuovo rito di
benedizione: al bastone e alla bisaccia, insegne tradizionali del pellegrino, si
aggiunse il conferimento della spada.
Come si spiega questa partecipazione massiccia
alla crociata? Non va trascurato il contesto sociale. Parlando del cavaliere
cristiano, dicemmo che a tale proposta aderirono parecchi esponenti della
piccola nobiltà terriera: venne così a formarsi un corpo numericamente
rilevante, che poteva facilmente degenerare in azioni di violenza, se non si
trovava modo di impegnarlo. Inoltre l'avventura in Oriente, per il suo fascino
religioso e per le prospettive di bottino che comportava, poteva essere un
mezzo utile per dirottare verso altre mete quello spirito bellicoso, che
travagliava la vita dell'Occidente. Si deve pure ricordare che l'Occidente nel
corso del secolo XI stava vivendo un momento di incremento demografico, che, esigendo
un'opera di espansione economica per sopperire all'accresciuto fabbisogno della
società, imponeva il superamento della struttura economica autarchica. Si venne
così ad una logica di mercato: si capì che occorreva cercare altrove, quanto
la produzione locale non era più in grado di garantire alla popolazione
accresciuta. Ma ciò era possibile solo a due condizioni: prima condizione: era
necessario che non si producesse più solo per rispondere ai bisogni locali, ma
si producesse anche per fare commercio; seconda condizione: per avere capacità
di acquistare altrove, ciò che mancava in loco, si doveva fare in modo che la
produzione locale non venisse tutta consumata, ma offrisse anche il materiale
per lo scambio commerciale. E qui il sistema non poteva consistere nel
risparmio, data la notevole incolmabile sproporzione tra le esigenze
necessarie dei consumatori e le esigue possibilità che la produzione locale
offriva; per avere una qualche capacità d'acquisto non c’erano che due
possibilità: prima possibilità: intensificare la produzione, introducendo la
specializzazione dei mestieri, che era anche un modo per garantire
l'occupazione delle nuove braccia; seconda possibilità: introdurre
nell'economia occidentale nuove ricchezze acquisite altrove, in Oriente, con
una azione di espansione militare, che tra l'altro favoriva l'emigrazione
delle masse dalle sature terre d'Occidente. E' certamente possibile ritenere che queste istanze sociali contribuirono a
interpretare l'ansia religiosa, che pervadeva quel momento (si ricordino i fenomeni di
riforma monastica, canonicale laicale) in termini di peregrinatio-crociata
verso Gerusalemme.
Col Mayer però riteniamo che la ragione
fondamentale di tale adesione massiccia sia di natura religiosa e sia
rappresentata precisamente dalla predicazione dell'indulgenza plenaria: solo
questo fatto spiega infatti come mai quelle esigenze sociali si siano espresse
in termini di crociata. Con ciò non intendiamo dire che la questione
dell'indulgenza plenaria fu il pretesto per conseguire mete di natura
economico-sociale: noi riteniamo che in ordine al fenomeno globale della prima
crociata, l'indulgenza plenaria fu il primo e fondamentale elemento propulsore,
anche se non è da sottovalutare la simultanea presenza degli elementi socioeconomici,
in quanto, come diremo, essi contribuirono a rendere viva l'adesione ad
un'indulgenza plenaria, conseguita attraverso una peregrinatio armata in
Oriente.
Per capire il ruolo
singolare giocato sulle masse dalla predicazione dell'indulgenza plenaria, si
deve tenere presente l'evoluzione, che su questa questione si produsse nella
fase successiva al proclama di Clermont. Urbano II, quando indisse la crociata,
aveva pensato all'indulgenza plenaria come a una forma di "redemptio” (= commutazione
della penitenza) della penitenza pubblica comminata dalla Chiesa per certi
peccati particolarmente gravi: sotto questo profilo la prospettiva di
un'indulgenza avrebbe dovuto interessare solo un gruppo ristretto di cristiani
e pertanto la crociata non avrebbe dovuto assumere il carattere di movimento
popolare. Ma molti predicatori, per iniziativa spontanea, spinsero il discorso
dell'indulgenza più oltre: alcuni presentavano la crociata come un'indulgenza
plenaria che rimetteva non solo la penitenza pubblica fissata dall'autorità
canonica, ma addirittura ogni pena di peccato sia temporale sia spirituale;
altri addirittura giunsero a parlare di remissione degli stessi peccati (tali confusioni
sono spiegate dal fatto che ancora mancava una riflessione teologica
sull'indulgenza).
Questa predicazione
conferì al movimento crociato un carattere popolare ed eminentemente religioso,
ma insieme comportò due limiti: in primo luogo, mettendo in ombra l'aspetto di
guerra santa ad opera di cavalieri cristiani, favorì in certi settori
l'improvvisazione e la dabbenaggine a livello militare; in secondo luogo,
spingendo il fenomeno crociato verso dimensioni di massa, vanificò la
possibilità di un controllo da parte della Sede Apostolica.
Dimostrazione di ciò si ebbe nel movimento
crociato popolare, che si formò intorno a Pietro d'Aamiens, eremita, che si
fece predicatore itinerante di crociata nella Francia centrale e nel
nord-ovest francese. Agli strati più bassi della popolazione, dove dominava
una notevole miseria economica, che rendeva assai vivo il desiderio di una vita
migliore, Pietro l'eremita propose la conquista della Terra promessa,
interpretando secondo una prospettiva terrena la tensione escatologica verso
la Gerusalemme celeste. In siffatta proposta i contadini ravvisarono una giustificazione
morale, che consentiva loro di svincolarsi dal legame, che li stringeva alla
loro gleba e pertanto costituirono intorno a Pietro l'eremita un esercito
enorme, composto da più di centomila popolani.
Il fanatismo religioso prese facilmente sopravvento
e questa massa di crociati si trasformò in un'orda di predoni, che sottopose
soprattutto gli Ebrei della Germania a violente persecuzioni. In Bulgaria ed
Ungheria la popolazione, benché cristiana, non accettò le scorrerie di questi
crociati, che furono combattuti e decimati. A Costantinopoli giunse solo un
piccolo contingente che per la sua indisciplinatezza fu dall'imperatore Alessio
I dirottato in Asia Minore. E qui il movimento crociato popolare offri un
ultimo saggio della sua imperizia: preso da fanatico furore, non volle stare ad
attendere che sopraggiungessero le truppe bizantine e l'esercito dei cavalieri
d'Occidente, ma impegnò se stesso in un folle scontro con i Turchi presso la
città di Nicea e finì praticamente annientato.
Anche i cavalieri cristiani superarono le attese
di Urbano II, infatti accanto al previsto contingente di cavalieri del Sud
della Francia sotto la guida di Raimondo di Saint- Gilles e di Ademaro, vescovo
di Le Puy, se ne formarono altri tre:
-
un contingente di cavalieri del re di Francia, capeggiati da Ugo
di Vermandois, fratello del re;
-
un contingente di cavalieri del Nord della Francia, della Lorena
e delle Germania, guidati dai fratelli Goffredo da Buglione e Baldovino;
-
un contingente di cavalieri normanni del Sud Italia, sotto il comando
di Boemondo di Taranto e del nipote Tancredi;
il tutto per un totale di oltre duecentomila
uomini.
Nel corso dell'autunno e dell'inverno 1096 tali
contingenti partirono alla volta di Costantinopoli, viaggiando via terra e via
mare. Nel maggio 1097 si riunirono nei pressi di Costantinopoli, dove
dall'imperatore Alessio I furono costretti a prestare giuramento feudale (solo
Raimondo di Saint-Gilles si rifiutò).
Iniziò la lotta: l'entusiasmo religioso spinse i
crociati a combattere con un eroismo straordinario: cosa che non si
verificherà nelle crociate successive, che, a differenza della prima crociata,
saranno praticamente fallimentari.
Crociati e Bizantini scelsero come primo teatro
delle loro imprese l'Asia Minore. Nel maggio-giugno conseguirono una grossa
vittoria a Nicea. In seguito Crociati e Bizantini decisero di impegnarsi su due
fronti diversi: i Bizantini si dedicarono alla conquista delle città costiere,
i Crociati invece si dedicarono alla conquista dell'interno.
Il primo luglio 1097 i Crociati si imposero a
Dorileo e qualche giorno dopo ottennero un successo ad Eraclea. Si rivolsero
poi alla Siria, dove per 7 mesi furono impegnati nell'assedio di Antiochia. In
questo periodo dal corpo crociato si staccarono due rami: uno, capeggiato da
Tancredi, che andò ad occupare Adana; l'altro, capeggiato da Baldovino, che conquistò
Edessa, di cui Baldovino divenne principe.
Il 5 luglio 1098 Antiochia cadde nelle mani dei
crociati, che si rifiutarono di cedere la città ai Bizantini, costituendovi uno
stato crociato, affidato a Boemondo.
Raimondo di Saint-Gilles riuscì poi a trascinare
l'esercito crociato verso Gerusalemme, che cadde nelle mani dei crociati il 15
luglio 1099.
Questo episodio non può certo essere ricordato
come una pagina gloriosa della storia cristiana, in quanto vi troviamo
registrata una terrificante e del tutto gratuita carneficina di musulmani.
In un primo momento si pensò di conferire il
titolo di re di Gerusalemme a Raimondo di Saint-Gilles, ma questi rifiutò
l'onore. La scelta allora cadde su Goffredo di Buglione, che però non volle
assumere il titolo regale, preferendo l'appellativo di difensore del santo Sepolcro.
Nel 1100 Goffredo morì e gli subentrò il fratello,
Baldovino, che, senza farsi problemi, assunse il titolo regale e consolidò le
sue prerogative di governo.
Negli anni successivi i crociati si dedicarono alla
conquista sistematica della Palestina. Il paese fu diviso in quattro territori
maggiori: Regno di Gerusalemme, Contea di Tripoli, principato di Antiochia,
contea di Edessa. I quattro territori dovevano formare un'unità politica
intorno al regno di Gerusalemme, che però non godeva di chiari diritti giurisdizionali
sugli altri stati crociati.
La conservazione e la difesa di questi territori
graverà sull'Occidente, che per due secoli si troverà impegnato a mandare in
Oriente contingenti di cavalieri: sarà la storia successiva delle crociate.
V - Giudizio:
Lo storico per prima cosa deve cercare di
comprendere il fenomeno della crociata.
E al fine di una adeguata comprensione occorre
prestare attenzione a due elementi.
Primo elemento: la
situazione di cristianità: la popolazione dell' Occidente totalmente cristiana:
questa fede comune diventa criterio di aggregazione non solo a livello spirituale
(ecclesia come comunione spirituale) ma anche a livello sociologico-terreno:
cioè i cristiani di Occidente, politicamente divisi in varie entità politiche,
ritengono che in ragione della fede comune devono superare tale frantumazione
e costituire al di sopra dei particolarismi politici un'unità, che miri ad
affermare anche a livello temporale i comuni valori di giustizia, di pace e di
verità cristiana.
A capo di questa unità sovranazionale di
cristiani si colloca il papa, come unica autorità suprema, per una duplice
ragione.
Consideriamo prima di tutto la situazione dell'imperatore:
nel tempo, di cui ci stiamo occupando, l'imperatore era scomunicato; nell'epoca
successiva, a mano a mano che si approfondirà la coscienza degli stati nazionali,
l'imperatore apparirà sempre più come il capo di una entità politica
particolare (la Germania) e quindi potrà sempre meno ambire alla conduzione
della Christianitas occidentale.
Consideriamo poi, in secondo luogo, la situazione
del papa: con la riforma gregoriana è riconosciuto in maniera inequivocabile
capo incontrastato della comunione spirituale dei cristiani, maestro e giudice
supremo di giustizia e di verità. Ora quale unità sovranazionale di cristiani,
che vogliono realizzare le istanze di giustizia e di verità cristiana in
termini temporali e servendosi dei mezzi temporali di cui dispongono, la Christianitas
si trova a dovere fare riferimento al papa. Ecco che per questa via la Christianitas
giunge a mettere a disposizione del papa i suoi mezzi temporali, anche le sue
armi, per realizzare in termini temporali le mete di verità e di giustizia, che
il papa addita.
Si noti che quale capo
della Christianitas, il papa si trova a disporre di quelle armi, che non
potrebbe invece possedere quale capo della comunione spirituale , che è la
Chiesa.
Si noti anche che il papa dispone di queste armi
non perché è ritenuto suprema autorità temporale, ma perché è suprema autorità spirituale
della Christianitas.
Si noti infine che il
ricorso alle armi da parte del papa non dipende intrinsecamente dalla sua
condizione di suprema autorità spirituale, ma dipende da una circostanza
storica: la Christianitas, dipende cioè dal fatto che in Occidente c’è una
società temporale, che interpreta la propria esistenza temporale, a partire
dalla finalità religiosa e quindi si mette a dipendere anche su un piano
temporale da colui che della finalità religiosa è il maestro autorevole. Quando
la società occidentale smetterà di interpretare la propria esistenza temporale
riferendosi alla finalità religiosa, perché preferirà desumere l'ordine
naturale come criterio di esistenza temporale, allora il papato, pur continuando
a rimanere la suprema autorità spirituale, non sarà più al vertice della
società occidentale temporale, (benché questa rimane ancora totalmente cristiana)
e quindi non potrà più disporre delle armi dei cristiani.
Secondo elemento: la
situazione di Christianitas ci ha fatto capire come mai si è giunti ad
interpretare in termini temporali le istanze religiose di purificazione, di
peregrinatio ai luoghi santi, di diffusione del regno di Dio. Ci resta ora da
comprendere come mai in quest'opera si è giunti fino ad accettare l'uso della
armi. La spiegazione va cercata nel fenomeno della germanizzazione del
cristianesimo: la propensione per la guerra, tipica della cultura germanica, ha
spinto verso un'interpretazione dell'esistenza cristiana anche in termini
militari.
Ma lo storico della Chiesa non può limitarsi a
comprendere, deve poi spingersi a giudicare se le interpretazioni storiche
della fede cristiana si rivelano fedeli o no al vangelo. E' certo che l'Interpretazione
armata di istanze religiose, come la peregrinatio ai luoghi santi, la
diffusione del regno di Dio e la purificazione, non può essere in nessun modo
giustificata e va senz'altro considerata come un doloroso capitolo delle guerre
di religione; si deve schiettamente riconoscere che l'intolleranza religiosa,
usata nei confronti dei pellegrini cristiani da parte dei musulmani, ha avuto
come risposta l'intolleranza religiosa dei cristiani.
Cronache cristiane del XII secolo indicano nel
fanatismo dei Turchi, che avrebbero ostacolato il pellegrinaggio dei cristiani,
il motivo principale della crociata. Questa cosa non corrisponde né alla realtà
orientale, poiché i Turchi non ostacolarono in nulla i pellegrinaggi cristiani,
né alla realtà occidentale, dato che il pretesto turco non fu invocato, per
quanto ne sappiamo, alla fine del secolo XI (J. LE GOFF, Il Basso medioevo, Milano 1967, p. 142).
Non ha senso neppure presentare la crociata come
un'impresa missionaria sui generis: la costrizione armata non può mai essere
considerata un metodo di evangelizzazione e del resto i crociati preferirono
alla conversione la soppressione dei musulmani.
Il tentativo che talora si è fatto di
giustificare le crociate come guerre difensive è del tutto privo di fondamento.
Non v'è infatti possibilità alcuna di dimostrare che con siffatte azioni
militari si restaurasse un diritto leso, a meno che si accetti che dal fatto
che la Palestina è stata la terra del Signore e che i cristiani sono gli eredi
della Terra promessa derivi ai cristiani un qualche diritto temporale sulla
Palestina. Alcuni allora pensarono in questo modo, ma ciò deve essere
senz'altro qualificato come un errore prospettico. Quindi sotto il profilo di
un diritto oggettivo le crociate devono essere considerate delle guerre di aggressione.
La troppo pacifica acquiescenza alla mentalità bellicosa del germanesimo,
propone il problema fondamentale del cristianesimo medioevale: la relazione Chiesa-Mondo.
La Chiesa si è trovata così strettamente legata alla società temporale da
affievolire il senso della sua propria specificità soprannaturale, della sua propria tensione
escatologica. Da qui la frequente incapacità a svolgere nella società
medioevale una funzione critica e quindi
la facilità a mondanizzare il discorso cristiano e di conseguenza la tentazione
di servirsi del soprannaturale, dell’escatologico, del religioso, per compiere
una mistificazione del naturale.
La subordinazione delle crociate successive a
scopi secolari svilupperà una diffidenza salutare nei confronti degli appoggi
offerti dalle forze di questo mondo ed allora Francescani e Domenicani
stabiliranno una nuova relazione con l'Oriente: relazione autenticamente missionaria,
connessa con una concezione esclusivamente spirituale della peregrinatio-martirio.
Negativo è pure il
bilancio ecumenico: nata come iniziativa di riconciliazione, la crociata finì
con il radicalizzare il contrasto tra Latini e Bizantini: la vicinanza dei due
elementi non sfociò in un dialogo, ma diede vita ad una dura sottolineatura
delle diversità religiose, accentuata
dal dissapore politico: i Bizantini, che non cessarono mai di avanzare pretese
circa il possesso dei territori orientali, considerarono sempre gli insediamenti
crociati come presenze abusive e usurpatrici.
Talora si presentano le
crociate come fenomeno rilevante sotto il profilo culturale, perché avrebbero
favorito l'incontro dell' Occidente con la cultura orientale e quindi il
ricupero della classicità perduta: il fenomeno non va esagerato, in quanto è
dimostrato che l'Occidente fece questo ricupero soprattutto attraverso i
contatti con la Spagna e con l'Italia meridionale bizantina.
Il 29 luglio 1099 a Roma
moriva Urbano II, che ancora non sapeva della conquista di Gerusalemme, avvenuta
due settimane prima.
9 – Pasquale II
A. Elezione e personalità
del nuovo papa.
Il 13 agosto 1099 a Roma
si procedette all’elezione canonica del cardinale Raineri, che assunse il nome
di Pasquale II. Originario della Romagna, era vissuto quasi sempre in
monastero. Da qui le sue caratteristiche fondamentali: uomo di indubbia
levatura morale, cui però non si associava un'esperienza delle cose di questo
mondo. La sua azione di governo perciò fu un po’ sempre soggetta a timidezza ed
incertezza. Il rigore morale, non temperato da una duttilità politica, si
trasformò spesso in intransigenza: per questo vedremo un Pasquale II che di fronte
ai contrasti, non si incamminerà per la via dei compromessi conciliativi, ma preferirà
fare ricorso alle soluzioni radicali.
Due erano i problemi che il nuovo papa doveva
affrontare: lo scisma e la questione delle investiture.
B. Soluzione dello scisma.
Abbiamo già visto come
l'azione politica ed ecclesiastica Urbano II abbia indebolito di molto il
vigore del partito di Clemente III. Il crollo si verificò l'8 settembre 1100,
quando Clemente III morì: il partito clementino era ormai così debole da non
poter garantire al successore la possibilità di governare. Tentarono ben due
volte di eleggere un papa, ma ambedue le volte gli eletti caddero nelle mani
dei seguaci di Pasquale II e furono chiusi in monastero. Nel 1105 tentarono
ancora una volta, scegliendo come papa Maginulfo, arciprete di Castel
Sant’Angelo, che prese il nome di Silvestro IV: pochi giorni dopo dovette
fuggire da Roma e praticamente collocarsi ai margini della scena. Perciò nel
1106 papa Pasquale II nel sinodo di Guastalla poté sanare lo scisma, concedendo
agli ecclesiastici scismatici di rimanere nei loro ufficio, se non si erano
macchiati di simonia o di altra colpa.
C.
La questione delle investiture.
Dalla storia fin qui tracciata si deve senz’altro
rilevare che il decreto contro le investiture del 1075 buttò sul tappeto un problema
che occupò il primo piano della scena ecclesiastica per un attimo soltanto:
infatti il contrasto che ne scaturì, finì coll’attirare l’attenzione su altri
problemi più urgenti: la relazione tra Gregorio VII ed Enrico IV, la questione
del regno tedesco, lo scisma di Clemente III.
Così il problema delle
investiture da problema pratico di riforma della Chiesa si trasformò piuttosto in un problema teorico.
Un primo tentativo di ripensare
il problema della investitura di un ufficio ecclesiastico per mano di un laico
fu compiuto da Guido di Ferrara, un vescovo del partito di Ennrico IV. Nel suo
trattato “De schismate Hildebrandí'' (già citato), composto poco dopo la morte
di Gregorio VII, Guido di Ferrara si era proposto di superare il contrasto
radicale, che esisteva tra gregoriani ed enriciani nel modo di concepire
l’investitura. Gregoriani ed enriciani erano d'accordo nel concepire l’ufficio ecclesiastico come un'unità
inscindibile di aspetto spirituale e di aspetto temporale. La divergenza si
manifestava nel modo di intendere tale
unità. I gregoriani nell’unità assegnavano il valore primario
all'ufficio spirituale e consideravano la dimensione temporale come un aspetto
secondario e dipendente dall'ufficio spirituale. Si capisce allora perché i gregoriani
ritenevano che l'assegnazione di tutto l'ufficio ecclesiastico dovesse spettare
all’autorità ecclesiastica e non concedevano nessuna possibilità di intervento
laicale. Gli enriciani, invece, nell'unità dell’ufficio ecclesiastico
assegnavano il valore primario all'aspetto temporale (realismo del diritto
germanico) e quindi consideravano l'ufficio spirituale come un aspetto secondario
e dipendente dall'aspetto temporale. Si capisce allora perché gli enriciani
ritenevano che l'assegnazione di tutto l’ufficio ecclesiastico dovesse spettare
all'autorità laica: il potere spirituale del sacerdozio secondo gli enriciani
interveniva non per assegnare l'ufficio ecclesiastico, ma solo per consacrare
colui che già aveva ricevuto l'ufficio dal signore temporale. Guido di Ferrara
volle prendere una posizione intermedia: nell'ufficio ecclesiastico ritenne di
poter distinguere due aspetti: l'aspetto spirituale, consistente nella trasmissione
dello Spirito Santo mediante i sacramenti e l'aspetto temporale, consistente
nell'amministrazione dei beni ecclesiastici. Per il primo aspetto l'ecclesiastico
dovrebbe dipendere dal papa e dal vescovo, per il secondo aspetto invece
dipenderebbe dal re, che gli affida i beni ecclesiastici in usufrutto. Si deve
riconoscere che questa fu un'intuizione geniale, però Guido di Ferrara, nel passare
ad affrontare il problema concreto del come si crea un vescovo, prospetta una
soluzione, che privilegia il potere temporale: il re dovrebbe nominare il
vescovo, in quanto si dovrebbe scegliere prima l'amministratore dei beni, al
prescelto poi il vescovo dovrebbe conferire l’ufficio spirituale. Questa
soluzione se da una parte aveva il merito di sottrarre al potere temporale
l'assegnazione dell'ufficio spirituale, dall'altra aveva il grave limite di
subordinare l'ufficio spirituale alle esigenze temporali, di compromettere la
libertà dell'elezione canonica, punti sui quali i gregoriani non erano disposti
a fare concessioni.
Anche in campo gregoriano si ebbe un tentativo di
ripensamento della questione delle investiture ad opera di Ivo di Chartres.
Nella sua lettera LX (MGH Lib. de lite 11, 642-647) Ivo espresse queste idee.
L'elevazione di un vescovo non era un fatto che riguardava esclusivamente
l'autorità spirituale, in quanto non vi era in gioco solo l'ufficio spirituale,
ma anche un cumulo di beni temporali, il cui possesso, secondo Agostino,
dovrebbe essere di pertinenza del diritto statale. Pertanto nella creazione di un
vescovo era giusto che ci fosse un intervento anche dell'autorità temporale.
Quindi Ivo da una parte, da buon gregoriano, riteneva che l'elezione canonica
dovesse stare al primo posto, dall'altra però, superando con la dialettica
l'intransigenza gregoriana, riconosceva al re una prerogativa sui beni
temporali della Chiesa e quindi il diritto di essere lui a concederli al
vescovo canonicamente eletto.
Ivo di Chartres espresse queste tesi durante il
pontificato di Urbano II e come risultato immediato ottenne la pubblica sconfessione
da parte del papa; il tempo però gli riconoscerà il merito di avere indicato la
strada, su cui poi maturarono le soluzioni del problema delle investiture.
Le prime soluzioni si raggiunsero durante il
pontificato di Pasquale II.
Un primo risultato si ottenne in Francia. Qui
negli anni precedenti si era verificata qualche tensione in occasione di
qualche investitura regia, però non si era mai giunti ad un vero e proprio
conflitto, anche perché in Francia la feudalità ecclesiastica non rappresentava
affatto una struttura portante del potere monarchico, non essendo molte le
sedi episcopali legate feudalmente al re. Negli ultimi anni del secolo XI, o
più probabilmente durante il primo decennio del secolo XII, si venne a creare
tra potere spirituale e potere temporale un'intesa, che non fu fissata in un
particolare concordato, ma fu soltanto un pratico modus vivendi, soddisfacente
per ambedue le parti.
A partire dal principio che l'elevazione di un
vescovo interessava sia il potere spirituale sia il potere temporale, venne
riconosciuta ai due poteri la possibilità di intervenirvi: in primo luogo il
re doveva dare il consenso a precedere, in secondo luogo si doveva effettuare
l'elezione canonica, senza che il re vi intervenisse o assistesse; in terzo luogo
la pratica dell'omaggio feudale veniva sostituita da un generico giuramento di
fedeltà, in quarto luogo il re doveva procedere alla concessione dei temporalia,
senza però ricorrere ad un rito simbolico di investitura: quale autorità, che
concedeva i temporalia, il re godeva del diritto di regalia e di spoglio. La
concessione dei temporalia poteva avvenire prima o dopo la consacrazione
episcopale; il vescovo, per via dei temporalia, che aveva ricevuto dal re, si trovava
impegnato a prestare al sovrano il servitium tradizionale.
In quello stesso periodo il problema delle
investiture trovò una soluzione anche in Inghilterra. Qui, finché era rimasto
in vita Guglielmo I il Conquistatore, si era praticata I'investitura regia dei
vescovi, ma sia Gregorio VII, sia Urbano II non avevano sollevato questioni, in
quanto Guglielmo I il Conquistatore era seriamente preoccupato di scegliere
persone degne. Nel 1087, alla morte di Guglielmo I il Conquistatore, il regno
anglo-normanno venne diviso tra i due figli: Roberto divenne re della.
Normandia, Guglielmo II il Rosso invece divenne re d’Inghilterra.
Con questo sovrano in Inghilterra incominciarono i
contrasti di natura ecclesiastica.
Il primo contrasto si ebbe in occasione
dell'elezione di Anselmo d'Aosta ad
arcivescovo di Canterbury (1093). Anselmo, che veniva dal monastero normanno di
Bec, nello scisma tra Urbano II e Clemente III si era schierato dalla parte di
Urbano II. Ora, divenendo vescovo di Canterbury, Anselmo venne a trovarsi legato
ad un Guglielmo II il Rosso, che invece aveva assunto una posizione neutrale
tra i due papi. Nel desiderio di essere vescovo in comunione con Urbano II Anselmo pose al suo re la seguente condizione:
avrebbe accettato il pallio
arcivescovile solo dal papa gregoriano. In un primo momento Guglielmo II pensò di deporre Anselmo, ma poi alla fine si piegò,
riconoscendo Urbano II come papa legittimo.
Di lì a poco tra Anselmo e
Guglielmo II scoppiò un nuovo conflitto: Guglielmo II accusò
Anselmo di avere inviato pessimi cavalieri in una campagna militare;
Anselmo rispose appellandosi al papa: Guglielmo II negò ad
Anselmo questo diritto e poi lo condannò all’esilio.
Nel 1100, alla morte di
Guglielmo II, prese il potere in Inghilterra Enrico I, uomo di alta
levatura morale, che subito richiamò in Inghilterra Anselmo. Però si
giunse subito ad un nuovo contrasto: Enrico I chiese ad Anselmo l'omaggio
feudale, secondo la prassi tradizionale inglese, ma l'arcivescovo
si rifiutò di obbedire, appellandosi alle disposizioni di Urbano II.
Il contrasto durò però poco tempo e nel 1107 si raggiunse
un'intesa, codificata nel concordato di Londra.
Quanto all'elezione si
stabiliva che doveva compiersi in forma canonica, ma nel palazzo
reale e alla presenza del re. Diversamente da quanto avvenne in Francia,
qui in Inghilterra si mantenne l'omaggio vassallatico, che doveva
sempre precedere la consacrazione episcopale. Venne invece abolita
ogni forma di investitura. Con questo concordato il papato per la
prima volta rinunciò ufficialmente alla visione gregoriana, che faceva
degli spiritualia e dei temporalia un unum inscindibile e
assunse come propria la tesi di Ivo di Chartres.
in Germania si poteva invece
difficilmente sperare in una soluzione, finché le due parti
rimanevano ferme nelle loro rispettive posizioni radicali. Da un
lato occorreva che il partito imperiale rinunciasse alla pretesa di
conferire anche l'ufficio spirituale, dall'altro anche il partito
riformatore doveva riconoscere che i beni temporali, di cui
allora godeva un vescovo imperiale, non erano frutto soltanto dì donazioni di
persone private, di offerte, di decime, di diritti di stola, ma
erano anche contee, marchesati, ducati, privilegi civili,
che senz’altro cadevano nella sfera della giurisdizione regale.
Parve aprirsi uno spiraglio di soluzione
addirittura nella prospettiva gregoriana radicale nel 1104/5. Enrico V, figlio
di Enrico IV (il re Corrado era morto nel 1101), stava progettando una ribellione
contro il padre e per assicurarsi l'appoggio degli antienriciani pensò di
mostrare un atteggiamento di deferenza nei confronti di Pasquale II. Inviò al
papa una lettera, in cui chiedeva consiglio su una questione che gli stava a
cuore: da una parte, nel desiderio di riportare la pace tra il papato e
l'impero, sentiva la necessità di togliere il governo al padre e di assumere
lui il potere; dall'altra però era trattenuto dal dovere morale di rispettare
il giuramento di assumere il potere solo per disposizione paterna, giuramento
che aveva prestato alcuni anni prima. Pasquale II si schierò subito con
decisione dalla parte di Enrico V, dispensandolo dal giuramento, nella
speranza che, una volta divenuto re, si sarebbe impegnato a risolvere la lite
pendente.
Enrico V, forte del consenso papale, catturò il
padre, lo costrinse alle dimissioni: all'inizio del 1106 alla dieta di Magonza
Enrico V fu eletto re di Germania, alla presenza di un delegato papale (Enrico
IV, riconciliato con la Chiesa, moriva pochi mesi dopo: il 7 agosto 1106).
Una volta raggiunto il potere, Enrico V dimenticò
tutte le promesse fatte e riaffermò il suo diritto all'investitura.
Di li a qualche anno parve presentarsi una
seconda possibilità di composizione dei contrasti: sia negli ambienti imperiali
sia negli ambienti romani si guardava con un certo interesse alle tesi moderate
affermatesi in Francia ed in Inghilterra, dove si poneva una distinzione tra
spiritualia e temporalia. Infatti nel 1111, scendendo in Italia per farsi
incoronare imperatore, prima di entrare in Roma, a Sutri, Enrico V stipulò un
accordo con Pasquale II: il papa riconosceva che parecchi dei temporalia, di
cui godevano í vescovi imperiali, appartenevano alla giurisdizione regale,
pertanto disponeva che i vescovi imperiali dovessero rinunciare a questi beni
regali e si limitassero soltanto alle decime, allo offerte, a le donazioni
private.
Enrico V a questo punto rinunciava al diritto di
investitura. L'accordo di Sutri sarebbe stato reso di dominio pubblico solo durante
la cerimonia della consacrazione-incoronazione imperiale e solo allora, dopo
l'unanime consenso dei vescovi e dei principi, sarebbe stato ratificato. Perché
venne apposta questa ultima clausola? Enrico V prevedeva benissimo che la soluzione
radicale, prospettata dall'accordo di Sutri, avrebbe suscitato prima di tutto
l'opposizione dei vescovi imperiali, tutt’altro che disposti a lasciare cadere
i loro privilegi temporali, in secondo luogo avrebbe provocato la ribellione
dei principi laici, che, con il ritorno dei feudi ecclesiastici nelle mani del
re, vedevano consolidarsi notevolmente il potere della corona. Ora se l'accordo
di Sutri fosse stato pubblicato subito il 9 febbraio, avrebbe suscitato una
immediata levata di scudi ed Enrico V si sarebbe trovato nella necessità di
revocarlo ed era chiaro che a questo punto sarebbe sfumata ogni possibilità di
ricevere la corona imperiale, perché Pasquale II non si sarebbe presentato. Il
rinvio della pubblicazione invece assicurava insieme la possibilità di revocare
l'accordo e la presenza del papa all'incoronazione: la forza delle armi avrebbe
poi costretto il papa a compiere quel gesto che la cassazione dell’intesa di
Sutri probabilmente avrebbe compromesso.
Infatti il 12 febbraio, quando all'inizio della
cerimonia della incoronazione imperiale Pasquale II fece leggere l'accordo di
Sutri, subito si levò nella basilica di S. Pietro un gran tumulto: Enrico V
prese atto della cosa, lasciò cadere l'accordo, riaffermò il suo diritto
all'investitura e ordinò al papa di
procedere alla incoronazione. Pasquale II oppose un netto rifiuto ed allora con
tutti i cardinali fu arrestato e incarcerato.
Per due mesi il papa fu
sottoposto ad ogni sorta di oppressioni
morali e fisiche, gli si fece anche
credere l'imminenza di un nuovo scisma, chiamando all'accampamento di Enrico V quel Silvestro IV, che nei 1105
era stato eletto dai clementini ed era poi
scomparso dalla scena. L'11 aprile Pasquale Il si arrese, riconobbe ad Enrico V
il diritto di investire con anello e pastorale, dopo l'elezione canonica e
prima della consacrazione; se un ecclesiastico dopo l’elezione canonica non
aveva ricevuto l'investitura, non poteva essere consacrato. Il papa poi promise
che in futuro non avrebbe più scomunicato Enrico V per la questione delle investiture.
Tutto ciò fu fissato in
un documento sotto forma di privilegio (il privilegio di Mammolo). Il 13 aprile
si procedette all’incoronazione imperiale. Ma quella di Enrico V fu una
vittoria di Pirro: il partito dei riformatori, che oramai si era notevolmente
ingrossato, non poteva accettare che l'imperatore continuasse a concedere
l'investitura, ricorrendo alle insegne spirituali del pastorale e dell’anello.
Il privilegio di Mammolo cominciò così ad essere qualificato come “pravilegium”,
che doveva essere revocato.
A capo di questo movimento
di dissenso si pose Guido, arcivescovo di Vienne, che poi, quale Callisto II,
porterà a soluzione la questione delle investiture.
Pasquale II nel 1116 si
decise a condannare il privilegio di Mammolo ed a ripetere la proibizione delle
investiture, minacciando la scomunica.
Il 21 gennaio 1118
Pasquale II morì, lasciando aperto il conflitto con la Germania, ma insieme
lasciando dietro di sé un principio, che dopo di lui non potrà più essere
disatteso, principio affermato a Sutri: nell’episcopato, così come era
esercitato allora in Germania, erano inclusi non solo diritti spirituali, ma
anche diritti regali: da qui si dovrà partire, se si vorrà trovare una
soluzione, che rispetti i principi, non assumendoli astrattamente, ma facendoli
giocare nella realtà storica.
Il 24 gennaio venne
eletto il nuovo papa nella persona di Giovanni cancelliere della chiesa romana,
che era stato benedettino di Montecassino: assunse il nome di Gelasio II. Il
suo breve pontificato fu caratterizzato da una fuga continua, per sfuggire ad
Enrico V e alla ostilità della famiglia romana dei Frangipane. Gli venne anche
contrapposto un antipapa nella persona dell'arcivescovo di Praga Maurizio, che
assunse il nome di Gregorio VIII, che per la sua inconsistenza fu soprannominato dai
Romani “Burdinus”, cioè asinello o piccolo mulo. Gelasio II finì i suoi giorni
a Cluny il 29 gennaio 1119.
10 - CALLISTO II
a)
L'elezione
La morte di Gelasio Il in Francia da una parte
creava difficoltà in ordine alla nuova elezione, in quanto i cardinali vescovi,
cui spettava la tractatio erano dispersi; dall'altra però poteva essere considerata
anche una circostanza provvidenziale, in quanto offrì la possibilità di posare
gli occhi su un vescovo francese, che mostrò di sapere portare a soluzione la pendente
questione delle investiture.
L'elezione del successore
di Gelasio II, avvenne per gradi: i due cardinali-vescovi che avevano seguito
il papa in Francia, il 2 febbraio 1119 designarono come nuovo papa Guido,
arcivescovo di Vienne. Poi fecero ratificare la scelta a Roma, dove il 1 marzo 1119 Guido venne acclamato come
papa Callisto lI.
Già si era dimostrato un gregoriano
convinto ai tempi di Pasquale II, contrastando il pravilegium di Mammolo; il
fatto però che provenisse da una famiglia dell’alta nobiltà della Borgogna,
imparentata con l'imperatore tedesco, con il re di Frarcia, con il re di
Inghilterra e con il re di Castiglia, lo rendeva attento ad evitare ogni mossa,
che potesse in qualche modo produrre una rottura insanabile.
b) verso la soluzione della questione delle
investiture in Germania.
Già nel 1119, durante il suo primo anno di
pontificato, Callisto II aveva pensato di portare a soluzione la lite delle
investiture in un sinodo, che doveva vedere il concorso dl tutto l'Occidente:
il sinodo si riunì a Roma negli ultimi giorni di ottobre e per un attimo parve
profilarsi le possibilità di una conciliazione, ma poi non se ne fece nulla.
Raggiunta Roma nel giugno 1120, Callisto II poté
dedicarsi al superamento dello scisma: ciò si compì nell'aprile del 1121,
grazie all'appoggio di un esercito normanno: l'antipapa Gregorio VIII fu
catturato e condotto a Roma, dove gli fu riservato un ingresso tutt’altro che
trionfale: fu fatto montare su un cammello, ma volgendo la faccia verso la coda
e poi fu spedito in monastero.
I contatti con Enrico V ripresero nel 1122 e si
giunse a stabilire una trattativa tra una delegazione pontificia composta da
tre cardinali (Lamberto, cardinale-vescovo di Ostia, Saxo, cardinale-prete e Gregorio cardinale-diacono )
ed una dieta imperiale.
Le trattative si tennero a Worms: si aprirono il 3
settembre e si conclusero il 23 settembre 1122 con il concordato di Worms,
detto anche Callixtinum. Una rivolta di principi, tra i quali si trovavano in
prima fila Lotario di Supplinburgo, nuovo duca di Sassonia (dal 1106)
l’arcivescovo Adalberto di Magonza, un tempo cancelliere dell’imperatore ed ora
suo nemico, costrinse Enrico V ad accettare quel compromesso con Roma, che il
concordato di Worms rappresentava (cfr J. LE GOFF, Il Basso Medioevo, Milano 1967, p. 105).
e) il concordato di Worms.
Consta di due documenti: un documento in cui Enrico
V fa le sue concessioni a Callisto II, ai suoi successori e alla Chiesa Romana;
un secondo documento, in cui Callisto II fa le sue concessioni a Enrico V. Il
fatto che le concessioni papali siano fatte al solo Enrico V ha suggerito ad
alcuni storici l’ipotesi che il concordato di Worms avesse nelle intenzione
delle due parti contraenti un vigore limitato alla vita dei due firmatari (D.
SCHÄFER, Zur Beurteilung des Wormser Konkordats, Berlin 1905).
Ma giustamente F. Kempf fa notare che Callisto II
nel suo documento, come pure Enrico V nel suo, non accordano delle condizioni di
favore dipendenti dalla loro volontà, ma reciprocamente riconoscono dei diritti
antichi: Enrico V riconosce il carattere primariamente ecclesiastico
dell'episcopato, Callisto II riconosce il fondamento regale di molti temporalia
legati alla funzione episcopale. In questa prospettiva si deve dire che la forma
letteraria di privilegio, secondo cui i due documenti furono stilati, non deve
essere intesa come codificazione di alcune concessioni di favore, ma come
riconoscimento di diritti preesistenti.
Vediamo il contenuto dei duo documenti:
Enrico V: rinuncia all'investitura con pastorale
ed anello, promette libertà di elezione e di consacrazione canonica.
Callisto II: concede ad Enrico v che le elezioni
canoniche dei vescovi avvengono alla sua presenza; in caso di elezione discorde
l'imperatore, insieme con il metropolita e i vescovi comprovinciali, dovrà dare
assenso ed aiuto alla parte più degna; l'eletto riceverà dall'imperatore l'investitura
dei regalia mediante la consegna di uno scettro e così si impegnerà ad
adempiere gli obblighi a cui è tenuto
verso il re secondo il diritto: benché non si usi il termine, qui il papa
allude all’omaggio feudale. Per i vescovi della Germania investitura e omaggio avvengono prima della
consacrazione episcopale, mentre per i vescovi dell’Italia e della Borgogna
entro sei mesi: evidentemente ciò dipendeva
dalla distanza!
Come si vede il concordato di Worms accoglie la
distinzione tra spiritualia e temporalia, quale era stata formulata da Ivo di
Chrtres.
In questa prospettiva di distinzione tra una
sfera spirituale e una sfera temporale, la sede apostolica ottiene il
riconoscimento dell’episcopato come fatto primariamente spirituale e da qui deriva
il diritto ad una libera elezione canonica e la rinuncia da parte dell’autorità
regale alla investitura con pastorale ed
anello, insegne spirituali, legate pertanto alla sfera spirituale: ma pure
nella prospettiva della distinzione tra le due sfere il potere regale ottiene
che la creazione di un nuovo vescovo non sia di pertinenza esclusiva del potere
spirituale e che pertanto si riconoscano i diritti del potere regale sui
regalia.
Si noti però che questa
distinzione di sfere non viene interpretata in termini di separazione come
invece era avvenuto nel concordato di Sutri: la distinzione viene interpretata
in una prospettiva di collaborazione, in quanto ambedue le sfere agiscono in
ordine ad un fine, che è unico e medesimo: il fine religioso.
Pertanto l’unica persona
del vescovo appare come sottoposta a due signori: il papa e il re. Da qui la
duplice investitura: con il pastorale e l'anello da una parte e con lo scettro
dall’altra. Sotto questo profilo il concordato di Worms appare come un compromesso
di buon senso tra le due tesi opposte sul tema delle Investiture.
Da parte imperiale il
concordato di Worms venne ratificato nella dieta di Bamberga l'11 novembre
1122. La conferma papale ufficiale invece si ebbe nel marzo 1123 durante il primo
concilio Lateranense, che per noi cattolici è il nono concilio ecumenico, il
primo che si sia tenuto in Occidente.
In questo concilio il papa, una volta dichiarata
chiusa la lotta per le investiture, volle riprendere con vigore l'azione di
riforma ecclesiastica: da qui le solenne condanna contro la simonia, il nicolaismo,
contro le elezioni episcopali non canoniche, contro le ingerenze laicali nell'
amministrazione dei beni propriamente ecclesiastici.
PROSPETTO DI SINTESI SULLE INVESTITURE
|
Inghilterra |
Francia |
Impero |
elezione |
Canonicamente alla presenza del re |
Il re consente che si proceda all’elezione canonica, che avviene senza
l’intervento regale |
Elezione canonica alla presenza del re e do un suo rappresentante con
facoltà di partecipare alla soluzione delle elezioni discordi |
omaggio |
Viene mantenuto |
L’omaggio vassallatico soppresso viene sostituito da una generico
giuramento di fedeltà |
Viene mantenuto, anche se manca un accenno esplicito. |
investitura |
Viene abolita |
La concessione dei regalia viene fatta senza ricorrere alle forme
simboliche di una vera e propria investitura |
Viene mantenuta ma non con pastorale e anello, bensì con scettro |
ordinazione |
Si compie dopo l’omaggio |
Prima o dopo il giuramento di fedeltà |
In Germania: dopo l’investitura: In Italia e Borgogna: prima, l’investitura deve avvenire entro sei mesi |
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