domenica 12 maggio 2024

 

IL MONACHESIMO NELL’ALTO MEDIOEVO

 

1 – La decadenza

 

Anche il monachesimo appartiene al secolo X, il cosiddetto secolo di ferro, come un elemento di decadenza. Tale decadenza fu favorita da due fattori:

un fattore esterno: rappresentato dalle invasioni dei Normanni, Saraceni, Ungari, che saccheggiarono e distrussero monasteri, costrinsero monaci alla fuga o addirittura li uccisero;

un fattore strutturale: rappresentato dall'inserimento della istituzione monastica nel sistema giuridico-tedesco con le sue relazioni di dipendenza. Come si sa, il diritto germanico era un diritto realista: poneva come fondamento la res, la proprietà. Tutto il resto era funzionale alla proprietà, doveva infatti servire per il mantenimento e lo sviluppo della proprietà. Se si applicava ciò alla istituzione monastica, ne conseguiva che passava in secondo piano il proprium del monachesimo: il soli Deo vivere, anzi il proprium del monachesimo veniva condizionato ed addirittura compromesso da ciò che più contava secondo il diritto germanico: la res, la proprietà: siamo al trionfo dell'istituzione, della struttura sullo spirito.

Si tratta ora di vedere come il monachesimo venne a trovarsi coinvolto in tale ordine di cose, quali limitazioni vi derivarono.

Alla base del coinvolgimento del monachesimo nel sistema giuridico germanico stava il diritto di fondazione: un monastero trovava stabilizzazione in un posto, su un fondo terriero, entro certe strutture grazie all'intervento di un proprietario terriero, che "donava" al santo tutte queste cose. Ma il termine "donazione" va inteso bene: non indicava quasi mai cessione di proprietà: colui che donava, solitamente conservava la proprietà del suolo e di tutto ciò che veniva a connettersi con tale suolo, cioè la basilica, il monastero, le decime, le oblazioni, le chiese parrocchiali o le cappelle affidate a tale monastero, i fondi terrieri, ecc.ecc. Per i monaci il dono non comportava il diritto di proprietà, ma semplicemente il compito di garantire lo sfruttamento della proprietà attraverso l'esercizio della vita monastica di preghiera e di lavoro. Quindi per i monaci la donatio significava subiectio. Fondatori di monasteri furono non solo i proprietari terrieri ma anche i re merovingi e qualche vescovo: si svilupparono così tre tipi di abbazie: quelle padronali, quelle regie e quelle episcopali; a proposito di queste ultime si noti che il vescovo esercitava su di esse non solo il diritto di giurisdizione ecclesiastica, che la legislazione della Chiesa gli attribuiva, ma anche il diritto di proprietà.

Durante la decadenza merovingia divennero sempre più rare la abbazie concepite secondo il diritto romano, soggette cioè all’esclusivo potere dell’abate, si moltiplicarono invece le abbazie padronali. La ragione fondamentale di questa proliferazione va ricercata nel fatto che i re merovingi concedevano alle loro abbazie il privilegio di immunità, che comportava fra l’altro la proibizione di ingresso nel territorio monastico da parte degli impiegati civili, la proibizione di raccogliervi tributi e di esercitarvi l’autorità pubblica. Come si vede, il privilegio di immunità da una parte garantiva al fondatore l'intangibilità dei suoi territori e delle rendite "donate" al monastero, dall'altra concedeva al fondatore notevole libertà d'azione nella sua abbazia.

I vantaggi, che il privilegio di immunità veniva ad aggiungere al diritto di fondazione, determinarono durante il periodo della decadenza merovingia una notevole proliferazione di abbazie padronali. Diversi proprietari terrieri si sentirono infatti stimolati a fondare nuove abbazie; altri con la forza imposero il proprio dominio o le propria protezione su qualche abbazia libera o episcopale; altri ancora ricevettero l'abbazia dai monaci stessi, che cercavano tuitio contro qualche grande meno gradito o contro gli invasori; altri infine dai re merovingi furono dotati di abbazie regie, come ricompensa o come richiesta di sostegno.

Per tale via il monachesimo si trovò coinvolto nel processo di disgregazione particolaristica, divenendo con le sue abbazie un elemento importante del peso politico dei grandi.

 

2 – La riforma carolingia

 

L’avvento del forte potere carolingio segnò un’inversione di tendenza, in quanto si impose l’esigenza dell'unità.

Tale unità fu perseguita mediante la riforma della vita monastica, che ebbe la sua massima espressione nel capitolare di Aquisgrana dell’anno 817, che fu opera soprattutto di Benedetto di Aniane. Negli 83 capitoli del capitolare (MGH, Conc. II, 464-465; Capit. 343-352) si mirava ad istituire un'osservanza uniforme in tutti i monasteri dell’impero franco, perciò vi si prescrisse per tutti i monaci la sola regola benedettina secondo le consuetudini di Bendetto di Aniane, affidando allo stesso Benedetto di Aniane il compito di ispezione sui monasteri dell'impero. Come si vede Aquisgrana scelse la via dell'unanimitas consuetudinis e non la via dell'unificazione in una sola congregazione monastica benedettina.

Quanto ai contenuti, si sottolineò come specifico della vita monastica la dedizione a Dio soprattutto nella preghiera liturgica. Pertanto, come conseguenza, si affermò la necessità del distacco dal mondo attraverso una rigorosa clausura ed uno stile di vita molto ascetico, riaffermando la pratica del lavoro manuale, della povertà nel vitto, nel vestire, nel possedere.

Evidentemente per raggiungere questa unanimitas consuetudinis bisognava sottrarre i monasteri al dominio particolaristico dei proprietari. La soluzione fu trovata da Ludovico il Pio, che legò l’immunità monastica non più alla protezione o al dominium dei signori terrieri, ma alla protezione regia. Le abbazie vennero così a cadere sotto il potere del re, che poteva farvi valere un diritto di proprietà.

Ed i carolingi in forza della protezione regia, che comportava un certo diritto di proprietà, ritennero di potere incorporare le strutture monastiche nel loro sistema di potere.
La cosa ebbe varie conseguenze sulla vita monastica.

 

3 – Le conseguenze della riforma carolingia

 

Una prima conseguenza: i carolingi, non potendo disporre di un apparto burocratico capace di amministrare tutta l’estensione del territorio, pensarono di sfruttare per l'amministrazione locale anche il mondo monastico: gli abati vennero così investiti di diritti pubblici di carattere giudiziario e finanziario (mercato, moneta, dogana)

Una seconda conseguenza: i carolingi ritennero di dovere intervenire nella elezione dell'abate in quanto questi veniva a trovarsi a capo di una res, che era soggetta alla protezione regia e che godeva di alcuni privilegi rilevanti. La cosa non suscitò reazioni nell'ambiente monastico, in quanto mancava una procedura precisa di elezione dell'abate. Il cap. 64 della Regula Benedicti prevedeva che elettori dell’abate fossero i monaci della comunità, e tale prassi per un certo tempo fu la più diffusa; ma spesso era invalso anche l'uso che fosse il vecchio abate ad eleggere il successore; talora invece i vescovi, avvalendosi del potere di ordine e giurisdizione, che il concilio di Calcedonia riconosceva loro anche in relazione ai monaci della loro diocesi, erano intervenuti per imporre un loro abate, soprattutto nel caso che la comunità dei monaci non fosse stata unanime nella scelta  o avesse commesso qualche irregolarità nella procedura elettiva o avesse scelto un candidato non idoneo.

Anche nel periodo di sviluppo delle abbazie padronali talora si era fatto ricorso a modalità particolari di elezione, che vedevano la partecipazione sia della comunità, sia del vescovo, sia del signore col prevalere di caso in caso dell'una o dell'altra parte.

I carolingi intervennero nell'elezione in vari modi: o designando il candidato, oppure concedendo alla comunità o di volta in volta o anche per sempre di eleggere il proprio abate, riservandosi la conferma dell’eletto.

L’intervento dei carolingi spesso era dettato da interessi politici più che da motivazioni religiose: così, per ricompensare questo laico, o quel chierico si giunse alla elezione di abati non-monaci, i cosiddetti abati secolari (del resto questi abati proprio perché secolari, potevano rendere dei servizi, che un abate regolare non sarebbe stato in grado di garantire: partecipare alle sedute di consiglio, alla guerra, guidare milites). In teoria l’abate secolare avrebbe dovuto presiedere a tutti gli aspetti della vita monastica, quelli spirituali e quelli temporali, di fatto parecchi abati secolari si limitarono  alle sole cure temporali, affidando invece quelle spirituali a un preposto, scelto fra i religiosi dai religiosi stessi. Gli  abati secolari più coscienziosi giunsero a fare eleggere dalla comunità un secondo abate per le cose spirituali, assegnandogli per il suo ufficio una certa somma di beni.

Bisogna senz'altro dire che questo intervento nell’elezione, sia che portasse alla creazione di un abate secolare, sia che portasse alla nomina di una abate monaco, era quasi sempre negativo, in quanto la scelta veniva per lo più compiuta secondo criteri estrinseci alla vita monastica e quindi raramente la scelta cadeva su una persona capace di guidare la comunità in senso spirituale. Va inoltre ricordato che l’avidità degli abati secolari spesso riduceva i monaci ad estrema povertà, spingendo parecchi monaci a cercare di che vivere fuori dal monastero, con grave detrimento per la loro vita monastica.

Talora si volle ovviare all’inconveniente, istituendo la mensa conventuale, cioè una parte prefissata dei beni dell’abbazia veniva destinata alla comunità e veniva da questa stessa amministrata.

Si ebbe inoltre un'altra conseguenza negativa: l'abate secolare era spesso sposato o comunque non aveva impegno di vita celibataria: pertanto con il suo seguito veniva ad introdurre nella vita monastica presenze ed usanze estranee, che recavano notevole disturbo, spesso poi gli stessi monaci vi aderivano, dedicandosi alla caccia, alle donne e ad altre consuetudini secolari.

Una terza conseguenza: il compito dell'abate, secondo l'ottica realista del diritto germanico, fu letto spesso soprattutto in relazione alla proprietà e al suo inserimento nel sistema carolingio, perciò si giunse  da parte dei carolingi a interpretare il compito dell'abate in termini di beneficium-vassallaggio.

L'eletto si presentava davanti al sovrano, si inginocchiava, poneva le sue mani nelle mani del sovrano, compiva l’homagium, cioè si professava homo del sovrano e gli giurava fedeltà.

Il sovrano, ricevuto l’atto di vassallaggio, baciava il vassallo sulla bocca e poi gli  concedeva il beneficium mediante l'investitura con pastorale, cui al tempo di Enrico III si aggiunse anche l’anello. Come si vede il beneficium comprendeva non solo i beni della abbazia, ma anche l’ufficio spirituale, che, essendo considerato solo in funzione della res, finiva col passare in secondo piano e con l’essere interpretato come un corollario della res.

In sostanza, i rapporti tra signore e vassallo erano quelli tra padre e figlio adottivo. Nascevano, per solito, con la “commistione delle mani”, cerimonia che probabilmente simboleggiava la mescolanza del sangue, che nei riti primitivi era ottenuta con una incisione delle vene del polso dei due contraenti. Il vassallo si inginocchiava come un inferiore e metteva le mani giunte entro le mani del signore; il signore, per solito, lo baciava sulla bocca e lo rialzava come un consanguineo e un eguale. Poi si svolgeva il patto, l’homagium (R.S. LOPEZ, La nascota dell’Europa. Secoli V-XIV, Torino 1966, 180).

Il vassallo, ricevuta l'investitura, versava una specie di tassa, detta relevium, xenium, venditio. Il legame durava, fino alla morte dell’abate; a questo punto il pastorale e l'anello dovevano essere restituiti al sovrano, quale simbolo del ritorno del beneficio alla sua fonte. Durante il periodo di vacanza il sovrano godeva dello ius regaliae (usufrutto dei beni dell'abbazia). Alla morte del vassallo il sovrano godeva anche dello ius spolii (diritto sopra i beni mobili del  defunto).

Per via della dipendenza feudale, l'abate doveva prestare al signore il servitium, cioè frequentare la corte, assicurare il mantenimento di milites, offrire ospitalità al sovrano e al suo seguito, tutte incombenze che contrastavano con l’ideale monastico del “soli Deo vivere” e che spesso comportavano prestazioni economiche tali da ridurre alquanto l’entità di beni utilizzabili per la vita della comunità monastica.

Una quarta conseguenza: sempre nell' ottica dell'abbazia proprietà dei re, parecchi beni delle abbazie furono secolarizzati e destinati a fini temperali (ricompensare subalterni, accasare milites, costruire fortificazioni).

Da quanto detto si deve concludere che la riforma carolingia si rivelò molto ambigua: da una parte voleva spingere al ricupero di uno spirito monastico autentico ed unitario, dall'altra, inserendo il monachesimo nella struttura feudale dello stato, lo sottoponeva a pesanti condizionamenti temporali.

 

4 – La riforma monastica del X secolo – Premesse

 

Un’ultima parola sullo sviluppo del monachesimo durante il periodo della decadenza carolingia. Distinguiamo l’area franco-occidentale da quella franco-orientale, perché in queste due zone il diritto tedesco, per via della diverse condizioni politiche, fu applicato alla vita monastica in maniera diversa e quindi poi vi si operarono due riforme diverse.

Sappiamo che nell’area franco-occidentale, con il crollo dell’impero carolingio, venne a mancare una forte autorità monarchica: pertanto si ridusse sempre più il numero delle abbazie tutelate dalla protezione regia e tornò a svilupparsi il numero delle abbazie padronali. Questo sviluppo da una parte espose maggiormente il monachesimo francese alle ingerenze laicali, dall’altra acuì la consapevolezza di dovere addivenire ad una riforma strutturale: il peso delle ingerenze laiche fu tale da rendere sempre più viva nei monaci la necessità della libertas monasterii. La monarchia dal canto suo non ostacolò questo moto, sia perché esso avrebbe comportato l'indebolimento della nobiltà locale, che controllava le abbazie padronali, sia perché la struttura monastica oramai non svolgeva più un ruolo di appoggio così rilevante, come invece continuò ad avvenire in Germania.

Qui, nell’area franco-orientale invece, anche quando crollò l’impero carolingio, si ebbe una potente monarchia e pertanto questa riuscì a garantire la protezione regia.

Anzi la dinastia ottoniana prima e quella salica poi accentuarono l’inserimento delle abbazie nel sistema statale, concedendo agli abati benefici sempre più ampi. Evidentemente questa azione mirava a indebolire il potere della feudalità laica, che, per la sua insistente aspirazione a rendere ereditario il feudo, rappresentava un notevole pericolo per il potere monarchico stesso.

 

5 – La riforma monastica nella zona franco-occidentale: Cluny

 

·         K. Hallinger, Gorze - Kluny. Studien zu den monastischen Lebensformen und Gegensätzen im Hochmittelalter (=  Studia Anselmiana 22-25) 2 voll., Roma 1950-1951;

·         K. Hallinger, s.v. Cluny : Enciclopedia Cattolica III (1949), 1883-1893

·         E. SACKUR, Die Clunlacenser in ibrer kirchlichen und allgemeingeschichtlichen Wirksamkeit bis zur Mitte des 11 Jh, Halle 1892-1894 (ristampa Darmstadt 1965)

·         E. Werner, Die gesellschaftlichen Grundlagen der Klosterreform im 11. Jahrhundert, Berlin 1953

·         Il monachesimo nell’alto medioevo e la formazione della civiltà occidentale : Settimana di studi del Centro Italiano di studi sull’alto Medioevo, 4, Spoleto 1957

·         Spiritualità cluniacense (= Convegno del centro di studi sulla spiritualità medievale, 2), Todi 1960

·         Cluny: Beiträge zu Gestalt und Wirkung der cluniazensischen Reform (= Wege der Forschung, CCXLI, hrsg. H. Richter, Darmstadt 1975

 

La fondazione di Cluny è frutto dell’incontro e della collaborazione tra un laico, proprietario terriero, e un monaco abate. Il laico è Guglielmo il Pio, che era conte d’Alvernia e duca di Aquitania: Cluny faceva parte della sua proprietà terriera. Il monaco è Bernone, che era abate di Gigny e Baume, i due monasteri più ferventi della Francia. A causa dell’afflusso rilevante di vocazioni questi due centri divennero angusti. Bernone allora si mise alla ricerca di uno spazio adeguato e si rivolse al proprietario di Cluny. Questi aderì alla richiesta e così l’11 settembre del 910 venne fondato il monastero di Cluny.

Nell’atto di fondazione furono posti tre elementi di notevole importanza.

1)    Si fece donazione della proprietà ai santi apostoli Pietro e Paolo. Si pose la condizione che nel monastero vivesse una comunità zelante, che seguisse la regola di san Benedetto e che ogni 5 anni versasse a Roma un tributo di 10 soldi.

2)    Fu esclusa ogni soggezione a potestà terrena ed ecclesiastica.

3)    Si stabilì che l’elezione dell’abate da parte della comunità avvenisse in maniera assolutamente libera.

Si manifesta quindi in maniera molto chiara il tema della libertas monasterii, che si poneva in evidente contrasto con l’intento di coesione perseguito dalla riforma carolingia.

Stupisce che si scelga di fare donazione a Roma in un’epoca, il secolo di ferro, in cui i papi notoriamente non brillavano per l’integrità della loro vita personale: ma questo mostra quanto la devozione ai santi Pietro e Paolo fosse radicata nella spiritualità franca.

Al tempo dell’abate Bernone l’apprezzamento per il gruppo delle sue tre abbazie (Gigny, Baume, Cluny) fu tale che altri tre monasteri scelsero di legarsi alla persona del loro abate: Déols, Massay, Ethice.

Nel 926 l’abate Bernone, sentendo molto avanzata la sua età, decise di lasciare la sua carica di abate. E’ interessante la scelta che fece, avvalendosi del diritto di libertà della elezione dell’abate sancito dalla fondazione: non seguì la regola di san Benedetto, che stabiliva che il nuovo abate venisse scelto dalla comunità dei monaci, ma si comportò come un proprietario laico e lasciò a due eredi le 6 abbazie. A Guido, suo parente, lasciò Gigny, Baume, Ethice; al discepolo Oddone invece lasciò Cluny, Déols, Massay.

Questo passaggio voluto da Bernone era denso di conseguenze.

Prima di tutto per il sistema di Cluny divenne norma che l’elezione del nuovo abate fosse fatta dall’abate uscente e così fu posta una forte garanzia di continuità

In secondo luogo la scelta della spartizione mostra che siamo ancora lontani dall’idea di una congregazione. In terzo luogo però anche la scelta di Bernone afferma la volontà di superare il vecchio sistema benedettino, che sanciva l’autonomia delle singole abbazie. Infatti, ai due abati Bernone chiese l’unanimitas di osservanza rispetto alle consuetudini di Baume. Con questa indicazione Bernone si collocava solo parzialmente in linea con l’abate imperiale, Benedetto di Aniane, che secondo il programma carolingio di unificazione dell’Occidente, aveva tentato di costruire un monachesimo unitario. Ma l’unitarietà prospettata da Benedetto di Aniane non si poneva a livello istituzionale, bensì a livello spirituale: le abbazie rimanevano a sé stanti, ma dovevano attenersi ad una comune osservanza, secondo le disposizioni del Capitolare di Aquisgrana dell’816-817. In Bernone invece c’era la volontà di andare oltre la sola unanimitas spirituale, introducendo una certa unanimitas anche istituzionale: i due abati dovevano reggere le loro comunità in accordo.

Oddone fu abate per 16 anni, dal 926 al 942. Con lui il monachesimo fu chiamato a perseguire non solo l’ideale della fuga dal mondo ma anche l’ideale della conquista del mondo, soprattutto quello monastico: conquista alla vita cluniacense. Infatti, Oddone estese le consuetudini di Cluny oltre l’Aquitania, oltre la Borgogna, toccando anche l’Italia.

A livello istituzionale nel periodo di Oddone si ebbe un consolidamento non solo dell’immunità del suo monastero di Cluny, grazie a un Privilegio concesso da papa Giovanni XI nel 931, si ebbe anche un consolidamento sul versante delle relazioni tra le varie abazie. Gran parte delle abazie, che erano legate a Cluny per il fatto che ne avevano in comune l’abate e le consuetudini, furono chiamate a stabilire anche alcuni legami organici permanenti. Se ne imposero di due tipi. Il legame come cellae, i cui priori erano nominati dall’abate di Cluny. Il legame come abazie, che dovevano dipendere permanentemente dall’abate di Cluny.

A Oddone nel 942 successe Aimardo, che governò per 12 anni (942-954). Si ebbe poi un dato di notevole portata per la vita del sistema cluniacense: in un tempo di 155 anni si ebbero solo 3 abati e tutti e tre di notevole valore. Questo dato assicurò una continuità ad alto livello.

·         Maiolo, 954 - 994, 40 anni:

·         Odilone, 994 – 1049, 55 anni;

·         Ugo, 1049 – 1109, 60 anni.

In questo periodo Cluny si estese notevolmente in Italia, Spagna, Lorena e Germania dove vigeva il monachesimo imperiale, Inghilterra.

Sulla radice cluniacense si svilupparono due importanti linee monastiche autonome:

·         la linea di Fleury-sur-Loire con l’abate Abbone, che si distanziò da Cluny con la scelta di dare maggiore spazio allo studio;

·         la linea di Saint-Bénigne de Dijon con l’abate Guglielmo da Volpiano, che si distanziò da Cluny per la severità della sua ultraregula.

 

6 – Valutazione del fenomeno cluniacense

 

Per coglierne l’originalità, seguiremo una duplice prospettiva:

·         considereremo Cluny in relazione con la vita monastica nel suo evolversi;

·         e poi considereremo Cluny in ordine alla realtà ecclesiale del suo tempo.

 

In relazione alla vita monastica nel suo evolversi

Cluny rappresentò un fatto particolare rispetto al monachesimo antico per via di queste 4 particolarità.

1)    L’ESENZIONE:

Il canone 4° del concilio di Calcedonia (451) aveva stabilito che tutte le comunità monastiche dovevano sottostare al vescovo diocesano, che aveva il diritto di sorvegliare e ordinare. Forti di questo loro diritto, i vescovi si spinsero a sottoporre i monaci ad uno sfruttamento pastorale eccessivo. I sinodi di Cartagine del 525 e del 534 tentarono di porvi un freno, sia richiamando che i monaci non devono essere usati per servizi, che spettavano al clero, sia precisando che i vescovi nell’esercitare la loro azione di vigilanza non dovevano invadere l’ambito proprio dell’abate, sia infine precisando che i vescovi dovevano esercitare il loro diritto di ordine solo su proposta dell’autorità monastica.

San Benedetto tenne una posizione di equilibrio tra i due estremi: da una parte affermò l’autonomia del settore monastico, dall’altra riconobbe il dovere del ricorso al vescovo locale.

Papa Nicolò I, nell’867, stabilì i chiari confini: il vescovo ha diritto di ordinazione e di vigilanza disciplinare, l’abate gode di libertà di conduzione della vita monastica nel suo monastero e la sua elezione deve essere libera.

A partire dal VII secolo il monachesimo fu chiamato a fare i conti con tre fattori, che lo condizionarono parecchio.

Primo fattore: la mentalità feudale, che fu assimilata dai vescovi, spingendoli a trasformare il loro diritto di sorveglianza e di ordine in una signoria feudale e quindi in diritto di proprietà. Il monachesimo da un lato subì questa mutazione, dall’altra dal suo ideale riceveva una profonda ragione spirituale per cercare ed esprimere una reazione.

Secondo fattore: la tensione escatologica tipica dell’ideale monastico infatti induceva il monachesimo a una posizione critica verso l’assolutizzazione della res, della proprietà, che caratterizzava il sistema feudale. La tensione escatologica pertanto portava il monachesimo a relativizzare la logica del possesso dei beni materiali per anticipare il nuovo Eone.

Terzo fattore: l’influenza dei monaci iro-scozzesi, che con la loro peregrinatio da una terra all’altra, erano efficace attuazione dell’idea dell’indipendenza dal possesso e dalla terra e proposta di anticipazione di quel tempo, in cui i popoli di tutti i tempi e di tutti gli spazi saranno un solo popolo.

Dunque il monachesimo visse l’assalto feudale della logica del possesso, coltivando in sé il desiderio di limitare questo assalto, affermando la sua autonomia. Il monachesimo fece ricorso a tre vie.

Prima via: Benedetto di Aniane ritenne di trovare rimedio nella protezione statale, ma in Francia molto presto si verificò un indebolimento del potere monarchico e quindi un ritorno delle pretese della nobiltà terriera. Diversa invece fu la situazione, che caratterizzò il territorio franco-orientale.

Seconda via: la protezione papale, fu appunto la via intrapresa da Cluny nel suo atto di fondazione del 910, ricorrendo alla donazione ai santi Pietro e Paolo, segno dell’esigenza della libertas monasterii da contrapporre alle degenerazioni particolaristiche del feudalesimo. La protezione papale così intesa e praticata assicurava al monastero la proprietà ma lo lasciava esposto al diritto di sorveglianza e di ordine del vescovo.

Terza via: l’azione effettiva per liberarsi da questa autorità del vescovo. Questa azione fu messa in campo dall’abate Abbone di Fleury in occasione della vertenza contro il vescovo Arnoul di Reims, accusato di fellonia dal re. Fu riunito un concilio; a difesa dell’accusato si fece ricorso a questo argomento: trattandosi di causa maggiore la competenza non spettava al sinodo episcopale ma spettava alla Sede Apostolica. Abbone si schierò con la difesa e così cadde in disgrazia del suo vescovo, Arnoul d’Orléans, che riconosceva la competenza del sinodo episcopale. A questo punto per Abbone divenne necessario trovare un modo per difendersi e liberarsi dalla giurisdizione del suo vescovo. Cercò, soprattutto in san Gregorio Magno, testi sulle libertà monastiche. Con questi testi poi si recò a Roma e dal papa ottenne un privilegio, che sottraeva Fleury dal potere coercitivo del vescovo (997). Il privilegio papale stabiliva che in caso di conflitto tra vescovo e abate di Fleury l’unica sede di giudizio competente era Roma. In tal modo anche le cause con l’abate di Fleury diventavano causa maior.

Nel 998 o 999 Gregorio V estese il privilegio anche a Cluny, allargandolo: esenzione non solo dal potere coercitivo del vescovo ma anche esenzione dal suo potere di ordine. Ovviamente questi privilegi furono affermazione del primato universale del papa, che non poteva essere limitato dalle competenze territoriali dei vescovi.

Ulteriore allargamento del privilegio di Cluny fu introdotta nel settembre del 1016 da papa Benedetto VIII, che estese la difesa anche ai possedimenti del monastero. Nel 1024 papa Giovanni XIX volle estendere il privilegio a tutti i monasteri e a tutti i monaci legati a Cluny “ubicumque positi” in quanto figli della Santa Sede: l’unica sede competente a giudicare le cause, che li riguardavano, era la sede romana.

Questa realtà giuridica dell’esenzione fu uno sviluppo nuovo nella vita monastica. Non fu affatto un provvedimento antiepiscolista: l’intervento del primato papale non era dettato dall’intento di contrastare l’episcopato: né l’episcopato in sé né l’episcopato laicizzato di quei tempi; l’intervento del primato papale era dettato prima di tutto dalla preoccupazione di salvaguardare un elemento essenziale della vita monastica, che è appunto la separazione dal mondo: la libertas monasterii ne è conditio necessaria.

Con questo privilegio dell’esenzione il primato papale da un lato legò alla sua causa un organismo potente e dall’altro pose sotto la sua diretta dipendenza e giurisdizione un organismo vigoroso. Tuttavia questo legame ad una autorità superiore lontana talora degenerò in abusi, perciò all’inizio del XII secolo il gran san Bernardo espresse perplessità nei confronti di questa pratica dell’esenzione.

 

2)    LA CENTRALIZZAZIONE

            Come abbiamo detto, molto presto nell’area cluniacense si fece viva la tendenza a superare sia il sistema dell’autonomia tipico del monachesimo antico sia il sistema dell’unanimitas, che fu proposto da Benedetto di Aniane: questa unanimitas però non era di tipo giurisdizionale, dal momento che si limitava a chiedere alle varie abbazie di condividere tutte la stessa osservanza e di stare sottoposte alla sua personale sorveglianza. Cluny introdusse legami nuovi anche di tipo istituzionale, legami che però non erano ancora tali da consentire lo strutturarsi di una congregazione.

            L’esigenza di creare una congregazione, con un’autorità centrale, si impose più tardi, quando i privilegi papali di esenzione sganciarono Cluny e le case connesse dall’organizzazione diocesana: ciò che non poteva più essere fatto dal vescovo, doveva essere fatto da qualcun altro. Venne così a crearsi una nuova gerarchia, la gerarchia monastica, dipendente direttamente dal papa. Pertanto è solo a partire dagli anni 1024-1027 che si può parlare di ordine cluniacense. Questa intuizione nuova di Cluny con sfumature diverse sarà seguita anche dai nuovi ordini monastici.

            Al vertice dell’organizzazione centralizzata c’era l’abbas abbatum, l’abate dell’abbazia madre di Cluny. All’abbazia di Cluny e al suo abate diversi signori feudali affidarono le loro abbazie o per un tempo determinato (ad correctionem) o in maniera definitiva. In questo caso alla “traditio” dell’abbazia faceva seguito la “subiectio”, cioè l’accoglienza dell’abbazia come centro secondario. La preferenza di Cluny era per la forma traditio-subiectio perennis, ma non sempre fu possibile. In questi casi Cluny cercava di ottenere dal signore feudale in maniera perenne il diritto di ordinazione, perché era la via per imporre e conservare le sue proprie consuetudini.

            L’abate o il priore, che veniva preposto alle comunità dipendenti doveva porre le sue mani nelle mani dell’abate di Cluny, come un vassallo con il signore feudale: si affermava così chiaramente la relazione di dipendenza delle comunità secondarie alla comunità principale: si affermava anche la struttura piramidale dell’ordine, che aveva al suo vertice il papa (Cluny era monastero proprio del papa).

            Dalla fine del secolo XI si introdusse questa usanza: i monaci, dopo avere compiuto la professione nella casa dipendente, si recavano a Cluny per ricevere lì la consacrazione, che li rendeva pienamente monaci. Questa consacrazione ricevuta a Cluny comportò il venir meno della stabilitas benedettina: un monaco non era più stabilmente legato ad una casa, ma poteva essere trasferito da una sede all’altra della congregazione, dal momento che la congregazione era come una sola abbazia con un solo abate. L’abate di Cluny poi subentrava ai vescovi nel diritto di visita e di sorveglianza, che veniva esercitato o personalmente o mediante delegati.

            Questa centralizzazione fu un fenomeno profetico, in quanto l’organizzazione piramidale di Cluny prefigurò quella che sarà l’organizzazione ecclesiastica dopo la riforma gregoriana: il papa al vertice della piramide ecclesiale.

            La centralizzazione fu anche un fenomeno provvidenziale, in quanto liberò una notevole quantità di monasteri dall’assalto del particolarismo feudale, arrestando il processo di polverizzazione, al quale era stato sottoposto il monachesimo in precedenza.

            La centralizzazione fu pure un fenomeno di grande efficienza, perché garantiva all’interno continuità di tradizione e perché metteva nelle mani del papato uno strumento di estensione europea.

            La centralizzazione ebbe anche i suoi limiti. Sacrificò la dimensione di famiglia del monastero antico. Poi, come è tipico di ogni centralismo esasperato, venne meno l’attenzione alle particolarità, alle legittime differenze e si impose una uniformità monolitica. La riforma cistercense tenterà appunto di mitigare questa centralizzazione, facendo spazio a strutture periferiche.

 

3)    LE NOVITA’ DI CONSUETUDINE

Secondo san Benedetto la vita monastica comportava la presenza equilibrata di tre elementi: opus Dei, silenzio, lavoro.

            Cluny alterò questo equilibrio, dando un rilevo massimo, unilaterale all’opus Dei. A fondamento di questa scelta c’era l’esigenza di vivere una vita vere apostolica. Noi poniamo l’accento sul termine apostolica e intendiamo la funzione evangelizzatrice. Allora invece si poneva l’accento sul termine vita e si rimandava allo stile di vita cristiana condotto dalla primitiva comunità cristiana, secondo la descrizione che ci viene offerta da At 2, 42- 47, dove si dà rilievo alla unanimitas e alla perduratio in templo. Questi due elementi poi venivano ricondotti a At 1,14, dove della piccola comunità, riunita nel Cenacolo in attesa del dono dello Spirito, si dice: “Hi omnes erant perseverantes unanimiter in oratione”. Ecco dunque lo stile di vita monastica vere apostolica: vita communis, che si configurava come orazione incessante, in tal modo veniva vissuta la condizione per ricevere lo Spirito di santificazione.

            A partire da questa visione spirituale, Cluny dette uno sviluppo notevole all’opus Dei, secondo l’ideale della “laus perennis”. Si fece ricorso quindi ad un aggravio quantitativo del salterio (più di 138 salmi al giorno). Si praticò una cura minuziosa delle cerimonie liturgiche, facendo anche ricorso ad uno sfarzo liturgico esteriore (suppellettili, basilica imponente: fu l’edificio di culto più vasto del mondo di allora).

            In questo contesto di laus perennis fu dato uno spazio significativo alla preghiera per i defunti: fu appunto l’abate Odilone di Cluny a istituire la commemorazione dei defunti del 2 novembre. Questa scelta assicurò a Cluny notevoli elargizioni da parte dei nobili (in G. DUBY, L’arte e la società medievale, Bari 1977, alle pagine 50, 72-74, si trovano interessantissime considerazioni sulla concezione della preghiera dei monaci e sul rapporto di questa preghiera con la realtà della morte).

            Che dire di questo sviluppo, che portò l’opus Dei da funzione centrale a funzione unica?

            Questa tendenza, che aveva avuto un iniziatore in san Benedetto di Aniane, alterò notevolmente lo stile della vita monastica, che l’altro san Benedetto aveva delineato. Questi, infatti, aveva posto un limite minimo, cioè non meno di 150 salmi settimanali, ed un limite massimo, che consisteva nel mantenere la preghiera comunitaria sufficientemente breve da consentire la oratio secreta ed il lavoro manuale.

            Cluny, andando oltre questi limiti, incorse proprio in quei difetti, che san Benedetto voleva evitare. Primo grosso difetto: riduzione notevole dello spazio per la preghiera in solitudine. La riduzione dello spazio della oratio secreta comportò la riduzione della meditazione sui testi sacri (la lectio divina) e quindi la prevalenza dell’esteriorità sull’interiorità. E quindi la ritualizzazione degenerò in ritualismo rubricistico: la quantià danneggiò la qualità. In ciò Cluny fu figlia del suo tempo, che si caratterizzava per una religiosità materialistica, quasi magica, nella quale i diritti dell’interiorità erano quasi del tutto misconosciuti e l’essenza della vita religiosa era ridotta alla pura esteriorità dei riti e delle cerimonie.

            Secondo difetto: l’assorbimento totale nella preghiera determinò la scomparsa quasi totale del lavoro manuale ed intellettuale nel suo significato di povertà di vita, che si fonda non sulle rendite, come è per i ricchi, ma sul proprio lavoro, come è per i poveri. La povertà fu pertanto trasformata in una dimensione spirituale di vita cristiana e ciò portò ad accettare l’arricchimento dell’ordine senza farsi grossi problemi.

            In connessione con questa trasformazione dell’ideale di povertà e con la ritualizzazione della vita, si giunse ad un vestire più ricercato e più sfarzoso di quello che era abituale per i monaci.

 

     4 – I FRATELLI CONVERSI

            L’assorbimento quasi totale del monaco nella preghiera liturgica portò a dare vita a una nuova istituzione monastica, che si dedicasse al lavoro manuale: i fratelli conversi.

            Nel monachesimo antico “converso” era ogni monaco, in quanto la vita monastica era intesa come modo di rispondere all’esigenza fondamentale di conversio.

            Verso i secoli IX e X il termine “conversus” passò ad indicare non più tutti i monaci, ma solo una categoria particolare di monaci: le vocazioni adulte in contrapposizione agli oblati e nutriti, cioè i monaci che fin da bambini erano stati donati al santo patrono del monastero (spesso si trattava non di scelta squisitamente religiosa, ma piuttosto di scelta di convenienza mirante ad assicurare ai cadetti l’approvigionamento). Questi conversi spesso all’interno della comunità monastica costituivano un gruppo inferiore. Infatti la decananza nella comunità era determinata dagli anni di professione monastica e quindi gli oblati erano avvantaggiati rispetto ai conversi. Spesso si dava anche il caso che i conversi non godevano di preparazione spirituale e culturale, molti erano illitterati. Quando invece eccezionalmente si davano conversi litterati, questi erano preferenzialmente scelti per il ruolo di abate, perché dotati di più esperienza: Oddone, Ugo di Cluny erano dei “conversi”.

            Negli anni settanta del secolo XI Guglielmo di Hirsau (monastero legato alla consuetudine cluniacense) introdusse l’istituto dei fratelli conversi. In questo caso non erano più delle vocazioni adulte ma pienamente inserite nella comunità dei monaci, erano invece dei laici, che non sarebbero mai diventati monaci in senso pieno. Dal momento che non avevano il dovere della preghiera corale, questi fratelli conversi potevano dedicarsi al lavoro. A spingere in questa direzione intervenne anche un altro dato: a partire dal VII secolo si verificò una forte clericalizzazione del monachesimo e ai sacerdoti non si addiceva il lavoro fisico.

            Tuttavia l’introduzione dei fratelli conversi ebbe anche importanti motivazioni spirituali, precisamente la ripresa di due ideali evangelici: l’ideale evangelico del “servire” i fratelli e l’ideale evangelico del valore meritorio del servizio prestato in nome del Signore ai suoi apostoli, in questo caso i monaci impegnati nella vita vere apostolica della laus perennis (Mc 9,41; Mt 10,42).

 

In relazione alla realtà ecclesiale del suo tempo

 

Cluny rappresentò chiaramente una innovazione sia a livello di disciplina monastica sia a livello costituzionale all’interno del monachesimo. Quali segni di novità recò invece all’interno dell’intera compagine ecclesiale del suo tempo, strettamente coinvolta nel sistema feudale?

Si può ritenere che Cluny fu l’iniziatore della Riforma gregoriana? Alcuni lo hanno sostenuto, ma occorre fare, in proposito, qualche precisazione.

In ordine alla Riforma gregoriana senz’altro Cluny ebbe il merito di averle offerto il clima morale, dando un notevole rilievo all’esigenza di superare le degenerazioni indotte dal feudalesimo.

Ebbe anche il merito di offrire alla causa della riforma personalità, che si erano formate nei suoi ranghi. Umberto da Silvacandida, infatti, era stato monaco nel monastero di Moyenmoutier, dove si seguiva la consuetudine di Guglielmo da Volpiano. Gregorio VII fu educato a Roma in stretto legame con il movimento cluniacense; Urbano II era stato priore di Cluny.

Spicca anche la figura di Alinardo, che era stato monaco a Saint-Bénigne de Dijon, sotto l’opera riformatrice del cluniacense Guglielmo da Volpiano: quando nel 1042 fu eletto vescovo di Lione si rifiutò di prestare il giuramento all’imperatore Enrico III.

Possiamo sostenere che Cluny dall’esigenza di riforma morale si spinse anche sul fronte dell’esigenza di riforma strutturale, istituzionale, perché non si sarebbe limitato a contrastare la degenerazione morale, ma anche avrebbe preso di mira il sistema feudale, che era la causa di tale degenerazione?

Va certamente riconosciuto che Cluny non giunse ad avvertire il problema con questa chiarezza. Cluny, pur volendo opporsi al particolarismo feudale con gli istituti della immunità e dell’esenzione, non si sottrasse totalmente dalla logica e dai metodi feudali. Infatti fece ricorso all’acquisto di chiese proprie, regolò la relazione dell’abate di Cluny con i suoi subalterni secondo lo schema del vassallaggio.

Tuttavia si deve ammettere che nel cammino verso la riforma strutturale Cluny pose dei passi, che saranno importanti.

Primo passo: con il tema della libertas monasterii dette avvio ad un moto di idee, che culminerà nel tema gregoriano della libertas ecclesiae.

Secondo passo: con la scelta di ottenere la libertas monasterii, ricorrendo alla protezione di Pietro, non solo difese il principio monastico del soli Deo vivere, ma anche rilanciò il principio ecclesiastico della Roma-caput, principio che avrà un influsso decisivo nel superamento del particolarismo feudale.

In questa considerazione sulla relazione di Cluny con la realtà ecclesiale del suo tempo, vorrei fare un’osservazione su una tesi esposta da E. WERNER, Die gesellschaftlichen Grundlagen der Klosterreform im 11. Jahrhundert, Berlin 1953. Fondandosi sulla tesi marxista secondo la quale gli aspetti religiosi sono sovrastrutture dipendenti dagli aspetti economico-sociali, il Werner interpreta la riforma cluniacense come un tentativo per neutralizzare i movimenti antifeudali del secolo XI. In questa prospettiva lo splendore liturgico avrebbe svolto un’opera di alienazione: la plebe, attratta da queste forme, sarebbe rimasta soggiogata al dominio feudale e sarebbe sfuggita all’azione delle sette antifeudali. Inoltre la notevole potenza economica di Cluny, associata con il fascino dello splendore delle celebrazioni liturgiche, avrebbe svolto un’azione di freno sociale: avrebbe infatti attratto i contadini, inducendoli a rimanere nel contado per sfruttarne le zone incolte e devastate e quindi tenendoli lontani dai moti antifeudali delle città. Secondo Werner proprio per questa azione antifeudale Cluny ottenne la fiducia e l’appoggio dei nobili.

Come si vede, la tesi è totalmente costruita sull’a priori marxista del ruolo primario degli elementi economico-sociali nello sviluppo storico e della funzione alienante del fenomeno religioso. La cosa sarebbe legittima se fosse usata come ipotesi da verificare e giudicare sui fatti e sui dati, ma il Werner va oltre, trasformando l’ipotesi in una tesi , alla quale piega i fatti e i dati. La storia così diventa una narrazione a tesi.

 

7 – La riforma monastica nella zona franco-orientale

 

Il centro monastico, che guidò questa riforma, fu Gorze, in Lotaringia.

Il 16 dicembre 933 Adalberone I, vescovo di Metz, affidò con obbligo feudale l’abbazia episcopale di Gorze a un gruppo capeggiato da Ainoldo. Non si trattava di un gruppo di monaci dell’abbazia di Gorze, ma di un gruppo di persone eterogenee, che erano estranee alla vita monastica e però erano desiderose di condurre una vita altamente ascetica. Ainoldo era stato arcidiacono a Toul, altri erano dei chierici, altri dei monaci irlanesi vaganti, altri ancora dei reclusi solitari.

Questo gruppo eterogeneo ritenne di realizzare la propria aspirazione, restaurando la vita monastica secondo le consuetudini di san Benedetto di Aniane. La cosa fu apprezzata dalla signoria feudale sia per ragioni religiose sia per ragioni politiche, si trattava infatti di una riforma che si situava nel quadro del monachesimo imperiale-feudale. (Si ricordi che in questa zona il potere regio sufficientemente forte aveva impedito le degenerazioni del particolarismo feudale: questo spiega come mai in questa zona il monachesimo riformato non si pose il problema della libertas monasterii). La signoria feudale si impegnò pertanto a favorire e diffondere questo moto di riforma avviatosi a Gorze, che così venne a trovarsi  all’origine di una vasta rete di centri riformati.

Si noti che mentre Cluny riformò in senso innovativo, Gorze riformò in senso di restaurazione, ricuperando lo stile e le costituzioni di san Benedetto di Aniane. Gorze pertanto si oppose decisamente alle innovazioni cluniacensi, considerandole come qualcosa di sapore ereticale.

Ironia della sorte volle che verso il 1015 l’abbazia di Gorze venisse affidata dal vescovo di Metz a Guglielmo di Volpiano e così Gorze entrò nella sfera cluniacense. L’introduzione degli usi cluniacensi però non comportò la totale scomparsa degli usi propri di Gorze. Pertanto Gorze divenne una realtà monastica particolare, che fu a capo di un nuovo movimento di riforma, detto movimento dei giovani gorziani.

A questo punto si ebbero due movimenti, che erano legati a Gorze: i vecchi gorziani e i giovani gorziani.

Si formò anche un terzo movimento, che aveva come suoi esponenti Riccardo di Saint-Vanne e Poppo von Stablo: questo terzo movimento introdusse un’osservanza mista, che combinava insieme usi di Cluny e usi di Gorze, però mai volle legarsi né all’uno né all’altro.

 

Caratteristiche di questa riforma lotaringia rispetto a Cluny

 

La riforma lotaringia fu solo di tipo morale, a livello strutturale invece  si mantenne pacificamente nell’ambito del sistema feudale. Riferimento primario furono le consuetudini di san Benedetto di Aniane e  quindi si nutrì forte avversione alle innovazioni di Cluny.

Quindi qui non si fece ricorso alla esenzione, sia perché si trattava di una riforma promossa non contro ma in connessione con il sistema feudale e sia perché questo monachesimo conservava un forte legame con la tradizione evangelizzatrice del monachesimo tedesco antico (si ricordi l’opera missionaria di san Bonifacio): un’opera evangelizzatrice era possibile solo con il consenso del vescovo locale.

Questo legame, che fu conservato con il clero locale, consentì al monachesimo riformato della Lotaringia di esercitare sul clero un influsso maggiore di quello esercitato da Cluny. Molti di questi monaci poi divennero vescovi. In Lorena pertanto si formò un clima generale di riforma (monaci e clero), che anticipò e poi aiutò validamente la riforma romana (da questo mondo vennero Bruno von Egisheim-Dagsburg, che poi divenne papa Leone IX e Federico Gozzelon von Lothringen, che poi divenne papa Stefano IX)

Sempre a differenza di Cluny, questo monachesimo riformato lotaringio non praticò forme di centralizzazione: in linea con lo spirito di san Benedetto di Aniane, ci si limitava a perseguire solo l’unaninmitas, che consisteva nella una consuetudo e nella confraternitas, cioè comunione di preghiera, soprattutto per i defunti.

Sempre a differenza di Cluny, non si introdusse l’istituto dei fratelli conversi: lo spazio più contenuto, che veniva dato all’opus Dei e al silenzio liberava spazio per il lavoro, che in buona parte fu lavoro per lo studio e per la scuola: erano previste una scuola interna per coloro che diventavano monaci e una scuola esterna per coloro che sarebbero rimasti nel mondo.