venerdì 19 aprile 2024

 

SAN FRANCESCO

 

La questione francescana: breve nota storiografica

 

Verso la fine dell’Ottocento, soprattutto in connessone con il VII centenario della nascita di san Francesco (1882), si ebbe un grande risveglio degli studi francescani, che si avvalsero dei metodi più moderni della critica storico-letteraria.

Si vedano:

·         F. EHRLE, Osservazioni critiche sulle più antiche biografie di San Francesco : Zeitschrift für Katholische Theologie II (1883), 383-397

·         Analecta Franciscana I, Quaracchi 1885

·         Miscellanea Francescana, Foligno 1886.

 

Altro momento importante fu l’anno 1894, perché a Parigi il pastore calvinista PAUL SABATIER pubblicò la La vie de saint François, che dette vita a un movimento di studi francescani anche al di là degli ambienti strettamente ecclesiastici.

Nacque così la QUESTIONE FRANCESCANA: fra gli antichi testi, così disparati e contraddittori nel riferire gli episodi caratteristici della vita e dell’operato spirituale di san Francesco, quali, contengono la più genuina rappresentazione dei fatti e degli ideali del santo e degli inizi del suo ordine?

Gli scritti riconducibili a san Francesco sono pochi:

·         Regola del 1221

·         Regola bullata del 1223

§  La regola delle Clarisse e la regola del Terz’Ordine nella forma attuale non sono di Francesco. Tuttavia nella regola delle Clarisse alcune righe provengono dalla “Forma vivendi”, che san Francesco aveva in origine scritto per le suore di santa Chiara e dalla “Ultima voluntas” indirizzata a loro.

·         Testamento

·         Qualche lettera (secondo gli studiosi di Quaracchi non sono più di 7. Va esclusa le lettera a sant’Antonio da Padova, che viene considerata dubbia)

·         Qualche opera poetica:

§  La laude “Timete et honorate…” (cap. XXI della I regola)

§  La laude riportata dall’ultimo capitolo della I regola

·         4 poesie o cantici di lode:

§   Laudes Domini in latino: comprendono una parafrasi del Pater noster e una sorta di canto alternato di lodi, che utilizza passi dell’Apocalisse, del profeta Daniele e del Te Deum

§  Laudes de virtutubus in latino: de vitutibus quibus decorata fuit sancta Virgo et debet esse sancta anima; è una salutatio virtutum.

§  Laudes Dei in latino: se ne conserva il manoscritto originale. Sul rovescio del foglio abbiamo la benedizione per frate Leone, la dedica, e la firma in forma geroglifica: un TAU, quale segno della croce preso da Ez 9, 4, situato su uno schizzo di monte con teschio e sotto delle righe a zig zag: la benedizione per frate Leone è posteriore di qualche giorno alle stimmate del 14 settembre 1224.

§  Cantico delle creature in italiano

·         Officium passionis Domini (una silloge di passi biblici)

·         Preghiera: Omnipotens aeterne, iuste et misericors Deus… è la parte finale della lettera al capitolo generale

·         Preghiera: Omnipotens, sanctissime,  altissime et summe Deus: è la chiusa delle Laudes Domini

·         Preghiera; Absorbeat: E. Boehmer la ritiene dubbia, Quaracchi invece l’accolgono tra gli scritti di san Francesco.

Cfr Opuscola S. Patris Francisci Assisiensis, Quaracchi 11904 (31949):

H. BOEHMER, Analekten zur Geschichte des Franciscus von Assisi, Tubinga Lipsia 1904.

 

Questi scritti di san Francesco vanno letti nel contesto della sua vita, che ci è raccontata da vari biografi, che spesso dipendono l’uno dall’altro. Il primo biografo è TOMMASO DA CELANO, che divenne francescano nel 2014. Compose due Vite di san Francesco. La prima nel 1229, subito dopo la canonizzazione di san Francesco ed è opera di primo piano per gli storici. La seconda fu composta nel 1247: anch’essa è opera di valore, ma si ha la chiara impressione che Tommaso abbia in essa voluto conciliare l’idea francescana primitiva con quel che l’Ordine era diventato nel corso degli anni.

Secondo biografo importante, ma di una generazione dopo, è san BONAVENTURA: lui pure redasse due biografie:

1.    La legenda minor (1261)

2.    La legenda maior (1263). Il capitolo di Parigi del 1266 l’assunse come sola biografia ufficiale (ma ciò la rende sospetta), ordinando di distruggere tutte le altre leggende.

Abbiamo anche altre fonti:

·         La “Legenda trium sociorum” (si presenta come legata a Leone, Angelo, Rufino). La redazione a noi pervenuta è della fine del XIII secolo e viene ritenuta piuttosto discutibile.

·         La “Legenda antiqua”: pare che sia l’opera autentica di frate Leone e quindi è ritenuta più affidabile della precedente.

·         Lo “Speculum perfectionis”: il Sabatier vi vede un testimone di importanza capitale, databile del 1227 e attribuibile a frate Leone. La data però è discutibile, più attendibile il legame con frate Leone.

Come utilizzare queste fonti?

Le opere di Bonaventura vanno utilizzate con cautela, perché scritte diversi decenni dopo e condizionate dalla preoccupazione di rappacificare le rivalità presenti nell’Ordine. Bonaventura, che era alla guida dell’Ordine, scelse di attenuare i caratteri del francescanesimo primitivo.

Le opere che si legano a Tommaso da Celano e a frate Leone vanno usate sinotticamente, perché si correggono e si completano a vicenda. Tommaso tende a trascurare un po’ gli aspetti radicali primitivi, Leone invece vi insiste eccessivamente.

Trascuriamo le altre opera derivate da questi filoni. Meritano un accenno i molto letti “Fioretti”, che sono opera molto tardiva, posteriore al 1322, quindi scritta quasi un secolo dopo la morte di san Francesco. Probabilmente l’autore è legato alla corrente degli Spirituali. L’opera più che fare luce sulla figura di san Francesco, fa luce sulla situazione dell’Ordine francescano dopo un secolo di vita.

 

Oltre alle opere già citate, indico anche le seguenti.

-       L. SALVATORELLI, Vita di Francesco d’Assisi, Bari 1926 (Torino 1973)

-       P. GRATIEN, Histoire de la fondation et de l'évolution des Frères mineurs au XIIIe siècle, Paris e Gembloux 1928

-       J. Joergensen, Vita di San Francesco d'Assisi, Roma 1946

-       O. ENGLEBERT, La Vie de saint François d'Assise, Paris 1947 (Milano 1959)

-       A. MASSERON, La légende franciscaine. Textes choisis, traduits et annotés, Paris 1954

-       I. GOBRY, St François d'Assise et l'esprit franciscain, Paris 1957 (Torino 1977)

-       A. FORTINI, Nova vita di s. Francesco, Assisi 21959

-       TH. DESBONNETS – TH. VORREUX, Saint François d'Assise : documents: Ecrits et premières biographies, Paris 1968

-       J. LE GOFF, San Francesco d'Assisi : I protagonisti della storia universale, IV, Milano 1967

-       F. DE BEER, La conversion de saint François selon Thomas de Celano, Paris 1963

-       P. LEPROHON, Francesco d’Assisi, Assisi 1974

-       Fonti francescane, Padova 1980

-       R. MANSELLI, S. Francesco d’Assisi, Roma 1980

-       Franciscains. La famille multiple de saint Frnçois, Paris 1981

-       L. BOFF, Francesco d’Assisi. Una vita alternativa, Assisi 1982

-       F. CARDINI, Francesco d’Assisi, Milano 1989

-       A. VAUCHEZ, Francesco d’Assisi. Tra storia e memoria, Torino 2010

-       G. G. MERLO, Frate Francesco, Bologna 2013

 

L’esperienza iniziale di Francesco fino al 1209

 

L'ordine francescano nacque con un carattere decisamente carismatico: all'origine infatti altro non fu che la singolare esperienza religiosa di S. Francesco, accolta e condivisa da un piccolo gruppo di amici. Pertanto gli inizi dell'ordine francescano vanno ricercati nella vita di Francesco.

Noi non ci attarderemo in una esposizione dettagliata di questa vita, ci limiteremo a sottolineare alcuni aspetti, che ci sembrano utili al fine di una comprensione dell’Ordine francescano.

Gli inizi di Francesco si collocano nell’ambito della borghesia di Assisi.

Francesco nacque ad Assisi nel 1182 da donna Pica (é molto discussa la sua origine francese) e dal mercante Pietro di Bernardone. Fu battezzato con il nome di Giovanni ma poi divenne usuale il nome di Francesco (omaggio del padre a quella Francia, con cui commerciava le stoffe pregiate? O era il soprannome, con cui veniva indicato ad Assisi il figlio di Pietro, sulle cui labbra spesso affioravano espressioni provenzali?).

Anche nell’ambiente di Assisi si respira una certa religiosità improntata ad evangelismo puro: pare storicamente fondata la notizia secondo cui donna Pica, madre di Francesco, abbia voluto dare alla luce il figlio in una stalla, tra un asino e un bue. E’ quindi probabile che qui affondi le sue radici la “svolta religiosa” del 1204-1205, che nel 1206 si caratterizzerà come scelta evangelica di povertà.

Ad Assisi, in casa, Francesco respira anche una forte mentalità borghese, accanto al padre commerciante. Infatti il primo periodo della vita di Francesco é caratterizzato da una piena partecipazione agli splendori ed alle lotte della classe borghese: esercitò la mercatura, poté godere delle rilevanti risorse economiche, di cui tale classe oramai disponeva, appoggiò personalmente le iniziative borghesi miranti a rintuzzare l'orgoglio dei nobili (maiores) e ad assicurare alla borghesia un  maggiore peso politico. Infatti nel 1202 Francesco partecipò allo scontro tra Assisi e Perugia (che voleva tutelare gli interessi dei nobili di Assisi). Francesco dovette scontare la sconfitta della sua città (battaglia di Ponte S.. Giovanni sul Tevere) con diversi mesi di prigionia, che debilitarono gravemente il suo corpo: ma le precarie condizioni di salute probabilmente resero possibile il ricorso alla pratica del riscatto, che veniva riservata ai malati e pertanto poté tornare nella sua città. Prigionia e malattia accesero in Francesco l'esigenza di una maggiore attenzione ai valori religiosi, che furono però interpretati secondo gli orientamenti del tempo: elemosina, pellegrinaggio a Roma.

In questo contesto Francesco giunse alla decisione di realizzare la sua istanza religiosa, mettendosi al servizio della Chiesa come cavaliere. Verso il 1204 si associò infatti ad un gruppo di cavalieri, che si recavano nell'Italia meridionale per difendere i diritti  di papa Innocenzo III. Secondo lo spirito della borghesia del tempo, questo era un modo che poteva consentire ai borghesi di “nobilitarsi”. Giunto però a Spoleto fu costretto da un assalto di febbre a sostare ed ebbe così modo di vivere una particolare esperienza religiosa, che lo spinse a considerare la propria vocazione con una maggiore capacità di distacco dalla mentalità religiosa del suo tempo: una voce misteriosa, infatti, lo invitò a passare dal servizio del vassallo (il papa) al servizio del Signore.

Ad Assisi Francesco si dedicò (1204-1205) ad un serio lavoro di riflessione, che alla fine raggiunse questa conclusione: “Tutte le cose che normalmente hai amate et havere hai desiderate, te le bisogna disprezzare, et tutte quelle odiare se vuoi conoscere la volontà del Signore; et poiché questo incomincerai a fare, quelle cose che prima dolci et soavi ti parevano, ti saranno insopportabili et amare, et in quelle cose che ti erano prima orride et fatigose, assaggerai gran dolcezza et smisurata soavità" (Legenda trium sociorum, n. 1407).

Come si nota la scoperta della volontà del Signore é posta come conseguenza di un totale rovesciamento di quei valori e di quei criteri di giudizio, che fino a quel momento avevano dominato la sua vita e la società in cui era vissuto.

L'episodio del bacio del lebbroso rappresenta in questa prospettiva la realizzazione simbolica di tale metanoia ed é esattamente in questi termini che Francesco lo interpretò nel suo Testamento: “Così il Signore concesse a me, Francesco, di cominciare a fare penitenza: quando ero nei peccati, mi sembrava molto amaro vedere i lebbrosi. E il Signore mi condusse in mezzo a loro e feci misericordia con loro. E quando mi allontanai da essi, ciò che mi sembrava amaro, mi si mutò in dolcezza di anima e di corpo. E poi stetti ancora un poco ed uscii dal secolo." 

[Si noti che nel Testamento Francesco fa riferimento solo ad una sua frequentazione di lebbrosi, senza mai accennare ad un bacio particolare da lui dato a un lebbroso. San Bonaventura nella sua Leggenda maggiore introduce questo episodio. Quindi da noi viene ripreso solo come rappresentazione emblematica della esperienza spirituale, che Francesco visse in quel contesto dei lebbrosi: cfr Fonti Francescane, n. 1034)] .

Dunque leggere il bacio del lebbroso come semplice gesto di carità é senz'altro ridurne la portata: il bacio del lebbroso dice la decisione di vivere il vangelo fino in fondo, anche quando la mentalità del vangelo pone in netto contrasto con la mentalità del mondo. Francesco infatti sapeva che il contatto con i lebbrosi poteva comportare l'esclusione dalla società, il bando.

Dopo tale metanoia Francesco divenne capace di "vedere" la volontà del Signore! Un giorno,  mentre stava osservando il crocifisso gotico della chiesetta di S. Damiano, Francesco udì  dalla voce del Signore questo suggerimento: “Francisce vade et repara domum meam, que ut cernis tota destruitur" (BONAVENTURA, Legenda maior, II, 1038). Di tale invito Francesco dette un'interpretazione letterale, attenendosi ancora una volta al sistema religioso del suo tempo: ritenne infatti che la volontà del Signore lo chiamasse a vivere come oblato-laico, al servizio del sacerdote della chiesetta di S. Damiano. (Oblati-laici erano persone che mettevano i propri beni e la propria persona a servizio di una certa chiesa: in genere la chiesa prescelta era dotata di una discreta ricchezza, in quanto il laico voleva avere la certezza che, anche rinunciando alle proprie sostanze, non gli sarebbe mai mancato un decoroso sostentamento; Francesco invece volle essere oblato-laico di una chiesa, che faticava a stare in piedi!).

Fedele alla sua nuova vocazione, Francesco si recò subito a Foligno, si mise a vendere sul mercato delle stoffe, che aveva asportato dal negozio paterno e poi se ne tornò ad Assisi per offrire il ricavato al sacerdote di S. Damiano, pregandolo "ut eum secum morari pro Domino pateretur". Il sacerdote accolse Francesco come proprio oblato, ma non volle saperne dei soldi, probabilmente perché conosceva bene l'avarizia di Pietro di Bernar­done.

Questi non tardò a farsi sentire: lo statuto della città riconosceva ai padri il dirit­to di fare comminare pene (incarcerazione, esilio) a quei figli, che avessero dissipato i beni familiari o avessero abbracciato un genere di vita contrario al buon costume. Ebbene Pietro di Bernardone ritenne di dovere avvalersi di questa facoltà e perciò pregò i consoli di agire contro Francesco: questi però, appellandosi al suo stato di oblato-­laico legato ad una chiesa, si rifiutò  di comparire di fronte all'autorità civile, reputandola priva di ogni competenza. Il padre però non si arrese e si rivolse al vescovo Guido; dal canto suo Francesco a questo punto accettò di essere sottoposto a giudizio.

La seduta fu celebrata sulla piazza antistante l'episcopio: il vescovo sentite le lagnanze di Pietro di Bernardone, decise che Francesco dovesse restituire al padre tut­to ciò che gli spettava e dovesse d'ora in poi vivere di quanto la chiesetta di S. Damiano gli offriva.

Francesco allora subito restituì al padre non solo il denaro di cui disponeva, ma anche gli stessi vestiti, esclamando: “Udite ed intendete tutti! Fino ad ora ho dato il nome di Padre a Pietro di Bernardone; ma siccome mi sono proposto di servire Dio, gli rendo questo denaro, per cui era tanto turbato e tutti gli abiti che da lui ho ricevuto, per potere dire d'ora innanzi con più ragione: o Padre nostro, che sei nei cieli e non più padre Pietro Bernardone" (Legenda trium sociorum, VI, 1419, 20)

Come nuovo abito ebbe in dono la divisa, che era propria degli eremiti-penitenti: tuni­ca corta e rozza, cintura di cuoio, sandali e bastone.

Per due anni circa visse del proprio lavoro e di elemosina, non accettando di essere mantenuto dal sacerdote della sua chiesetta di S. Damiano: raccolse materiale per restaurare - secondo le parole del crocifisso - l'edificio cadente; si occupò anche delle chiesette della Porziuncola e di S. Pietro.

Ulteriore precisazione della propria vocazione, fu raggiunta da Francesco il giorno 24 febbraio 1209, nella chiesetta della Porziuncola, mentre si stava leggendo il vangelo della festa di s. Mattia (si tratta di Mt 10, 5-16): anche questa volta Francesco interpretò alla lettera la parola del Signore: ad essa adeguò il suo abito: si tolse dai fianchi la cintura di cuoio e si cinse con una semplice corda, si tolse dai piedi i sandali: a questo punto non indossò più una divisa, che lo distingueva dagli altri come uomo religioso, a questo punto si confuse completamente con i "minores" della sua  città, coloro che per vivere non avevano altro che il lavoro delle proprie mani e la carità degli altri, quando il lavoro non bastava.

Sulle parole del Signore inoltre modellò lo stile della sua vita: 1) predicazione itinerante incentrata su due temi: la penitenza di conversione al Regno e la pace (tempo di notevole  tensione tra maiores e borghesi, tra guelfi e ghibellini); 2) povertà assoluta: solo il necessario per vivere e nulla più; carità verso i più bisognosi, soprattutto i lebbrosi. Si trattava dunque di un evangelismo letterale, vissuto nella forma penitenziale ed itinerante di certi eremiti.

 

Il primo estendersi dell’esperienza francescana (1209-1210)

 

Presto anche intorno a Francesco si creò quell'afflusso, che già abbiamo avuto modo di rilevare allorché parlammo dell'eremitismo: prima il mercante Bernardo di Quintavalle, poi il giurista Pietro Cattani e poi altri nove vollero condividere lo stile di vita di Francesco.

Quando il gruppo raggiunse il simbolico numero di 12 (Francesco compreso, perché non pretese di stare tra gli altri distinguendosi quale rappresentante di Cristo!), Francesco, verso il 1210, passò ad una prima organizzazione di vita:

·         nome: Poenitentiales viri de Assisio;

·         regola: viene composta una forma vitae, che altro non é che una silloge di passi evangelici: é la cosiddetta proto-regola, che a noi non é pervenuta e che rappresentò la base della legislazione successiva.

Ben presto Francesco dovette affrontare il problema della relazione con la Chiesa istituzionale: il genere di vita scelto era molto simile a quello dei predicatori itineranti, che oramai operavano ai margini della Chiesa, sia perché animati da uno spirito di radicale contestazione della Chiesa istituzionale del tempo, sia perché dalla Chiesa istituzionale venivano con­siderati predicatori abusivi e sospetti di eresia.

Dal canto suo Francesco maturò un profondo atteggiamento di subordinazione alla Chiesa istituzionale, come traspare dalla pagina seguente: “E il Signore mi diede una tale fede nelle chiese che io vi pregavo dicendo semplicemente così: «Noi ti adoriamo, Signore Gesù Cristo, qui e per le chiese del mondo intero, e ti benediciamo di aver redento il mondo per la tua santa croce». Poi il Signore mi ha dato, e mi dà per l'Ordine che hanno, tanta fede nei sacerdoti che vivono secondo il modello della santa chiesa romana, che se mi facessero persecuzione io voglio ricorrere ad essi. E se avessi tanta sapienza quanto ebbe Salomone, e incontrassi dei poveri piccoli sacer­doti di questo mondo, non voglio predicare nelle loro parrocchie contro la loro volontà Ed essi e tutti gli altri voglio rispettarli, amarli ed onorarli come miei signori. E non voglio considerare in essi il peccato, poiché vedo in essi il figlio di Dio ed essi sono i miei signori. E tutto ciò io faccio per questa ragione, perché in questo mondo io non vedo niente di sensibile dell'altissimo figlio di Dio, se non il suo santissimo corpo ed il suo santissimo sangue, che essi ricevono e che essi soli amministrano agli altri. E questi santissimi misteri io voglio che siano sopra tutti venerati e onorati, e collocati in luoghi preziosi... E tutti i teologi e coloro che comunicano le santissime Parole divine dobbiamo onorare e venerare, perché sono essi che ci comunicano lo spirito e la vita” (Testamento).

Quello di Francesco dunque non é un evangelismo, che si sente autorizzato a sfidare l'istituzione, ma anzi vuole espressamente accettarne la funzione, a partire dalla chiara distinzione tra moralità personale e azione ministeriale.

Insieme qui Francesco, pur volendosi chiaramente distaccare dagli eretici del suo tempo in nome dell'ortodossia, non assume affatto i toni polemici e violenti della campagna  antiereticale del suo tempo: Francesco sceglie di presentare la purezza evangelica in termini positivi soltanto, evitando ogni asprezza di condanna! Non ha dunque fondamento alcuno ogni presentazione di Francesco in termini di carisma, che si contrappone all'istituzione; se difficoltà in tale senso si presenteranno, non saranno originate da un Francesco carismatico, che si vuole sottrarre all'istituzione, ma saranno determinate invece dall'istituzione, che eserciterà in maniera riduttiva il suo compito di riconoscere e confermare i carismi autenticamente evangelici.

Ed infatti nel 1210 Francesco si recò a Roma con i suoi compagni, per ottenere da papa Innocenzo III non il riconoscimento di un nuovo ordine monastico (Francesco era lontano da una siffatta prospettiva), ma per ottenere la missio canonica per la predicazione penitenziale. Che non si trattasse di un desiderio velleitario, é dimostrato dal fatto che poco tempo prima proprio papa Innocenzo III aveva concesso la stessa cosa a gruppi di predicatori itineranti (due gruppi di pauperes valdesi: il gruppo di Durando di Huesca, il gruppo di Bernardo Prim).

Ma ora con Francesco abbiamo un gruppo nuovo e chiaramente non ereticale: qui si sarebbe manifestato se l’atteggiamento accogliente di Innocenzo III era solo dettato da ragioni di opportunità strategico-pastorale, cioè ricuperare alla comunione gruppi ereticali, o anche dalla convinzione profonda che quelle idee religiose in quanto tali dovevano essere accolte dalla Chiesa e nella Chiesa.

I primi approcci con la curia romana furono tutt'altro che soddisfacenti. La curia in un primo momento dovette invitare Francesco ad adottare una delle Regole già esistenti, o cenobitica o eremitica, ma Francesco non voleva essere né un monaco tradizionale né un eremita.

Tant'è che i penitentiales viri de Assisio dovettero fare ricorso alla mediazione del vescovo di Assisi Guido e del cardinale Giovanni Colonna, che veniva dal mondo benedettino e che aveva accostato il pauperismo ereticale della Francia meridionale.

Questa diffidenza della curia romana di fronte ad un proposito di vita evangelica e ortodossa dovette apparire a Francesco totalmente inspiegabile ed assurda ed appunto di questo sentimento il cardinale Colonna si fece interprete di fronte al papa, dicendo: "Se noi la petizione di questo povero rifiutiamo, essendo essa fondata sul vangelo, temo che recheremo dispiacere a Dio. Se alcuno vuole dire che tale regola é contro le possibilità umane o é cosa nuova, o é contraria alla ragione, chiaramente si pronuncia contro il vangelo, poiché questa regola é fondata su Cristo e sul Vangelo” (san BONAVENTURA, Legenda maior, 1062) (La regola di cui sì parla é la proto-regola).

E’ certamente suggestiva la tesi avanzata dallo storico di tendenza marxista F.D. Klingender: la famosa predica agli uccelli andrebbe collocata in questo contesto.  Klingender appoggia la sua tesi su due cronisti inglesi: Ruggero di Wendover e Matteo Paris. Lo spunto dovrebbe essere ricercato in Ap 19, 17-18: " Vidi poi un angelo, in piedi di fronte al sole, nell'alto del cielo, e gridava a gran voce a tutti gli uccelli che volano:  «Venite, radunatevi al grande banchetto di Dio. Mangiate le carni dei re, le carni dei comandanti, le carni degli eroi, le carni dei cavalli e dei cavalieri e le carni di tutti gli uomini, liberi e schiavi, piccoli e grandi»". Francesco, alludendo a tale passo, avrebbe sfruttato la stessa immagine per stigmatizzare l'assurdo atteggiamento curiale. In seguito la tradizio­ne scritta si sarebbe sentita in dovere di edulcorare questo gesto polemico, trasformandolo in un atto di generico amore verso gli animali. La tradizione orale, che non è controllata dall’alto, invece conservò il ricordo del valore originario dell'episodio e lo suggerì ai due cronisti inglesi.

La tradizione francescana lega l'approvazione papale a due episodi particolari: la parabola di Francesco sulla povera donna ed il sogno di Innocenzo III.

La parabola: "C'era nel deserto una donna povera e bellissima. Preso dal fascino di lei, un grande re bramò di prenderla in sposa, sperando di averne dei figli molto belli. Il matrimonio fu celebrato, nacquero diversi figli. Quando furono cresciuti, la madre rivolse loro queste parole: «Cari ragazzi, non vergognatevi della vostra umile condizione, perché in realtà siete figli del re. Andate alla sua corte ed egli vi darà tutto quello che vi abbisogna». Giunti alla presenza del sovrano, questi ammirò la loro bellezza e notando che gli somigliavano, domandò: «Di chi siete figli?» I ragazzi risposero di essere figli di una donna povera, che viveva nel deserto. Allora il re li abbracciò tutto esultante e disse: «State tranquilli perché siete figli miei. Se prendono cibo alla mia mensa gli estranei, tanto più ne avete diritto voi, che siete mio sangue!» E ordinò a quella donna d'inviare a corte i figli avuti dal re, per esservi allevati secondo il loro rango In questa visione simbolica, apparsagli mentre era in orazione, Francesco comprese che quella donna poverella raffigurava lui stesso. Terminata l'orazione, il Santo si presentò al sommo pontefice e gli raccontò in tutti i particolari la parabola rivelatagli dal Signore. E aggiunse: «Sono io, signore, quella donna poverella che Dio ama e per sua misericordia ha reso bella e dalla quale si compiacque avere dei figli. Il re dei re mi ha promesso che alleverà tutti i figli avuti da me, poiché se egli nutre gli estranei, a maggior ragione avrà cura dei suoi bambini. Cioè, se Dio largisce i beni temporali ai peccatori e agli indegni, spinto dall'amore per le sue creature, molto più sarà generoso con gli uomini evangelici, che ne sono meritevoli»” (Legenda trium sociorum,   nn 1459-1460).

Il sogno: Innocenzo III avrebbe visto la basilica di S. Giovanni in Laterano gravemente minacciata nella sua stabilità ed oramai prossima a crollare, finché le si avvicinò un poverello, Francesco, che in forza del suo appoggio, le garantì di nuovo stabilità.

La parabola probabilmente altro non é che una predica successiva di Francesco, collocata in questo contesto, perché esprimeva in maniera efficace e plastica la linea di difesa, che il fondatore tenne di fronte alla curia romana.

Il sogno di Innocenzo III invece é chiaramente una trasposizione drammatica della interpretazione storica che l'ordine diede di sé e del proprio ruolo in anni successivi (anche le vite di Domenico hanno un episodio analogo).

E' assai dubbio che Innocenzo III abbia intuito subito la portata di questo piccolo movimento, che gli stava di fronte: del resto il tipo dì approvazione accordata é improntata ad una notevole cautela. Il papa prese atto solo oralmente dell'esistenza di tale gruppo, gli consentì la predicazione solo penitenziale; gli impose un certo inquadramento nelle strutture giuridiche esistenti: Francesco e compagni dovettero ricevere la tonsura (Francesco forse anche il diaco­nato); Francesco dovette giurare obbedienza al papa; gli altri componenti del gruppo dovettero giurare obbedienza a Francesco. Se la comunità si fosse ingrandita, Francesco sarebbe dovuto tornare presso la curia ed allora sarebbe stata elaborata una regola più ampia ed impegnativa. A questo punto dunque non abbiamo ancora un ordine, ma una piccola comunità di predicatori penitenziali con autorizzazione pontificia.

 

Il formarsi dell'ordine 1210-1223

 

1211/1212: viene fondato il ramo femminile o secondo ordine: le povere dame di S. Damiano, guidate da S. Chiara;

1215: viene celebrato il concilio Letranense IV; si notino tre cose:

I - Francesco non vi partecipa come superiore di un ordine monastico;

lI - al can. 13 il concilio proibisce la fondazione di nuovi ordini; i nuovi gruppi che si formeranno dovranno adottare regole preesistenti (i domenicani per esempio dovranno adottare la regola dei canonici di S. Agostino)

III- i francescani tuttavia non adottano vecchie regole monastiche, eppure il papa Onorio III sia in una bolla del 1219 sia in una bolla del 1220 dichiara che i francescani devono essere considerati ordine approvato.

          Come si spiega? Si presume che Innocenzo III, prima di varare il canone 13, abbia disposto di escludere i francescani da tale provvedimento (la tradizione francescana sostiene con una certa sicurezza che Innocenzo III nel corso del concilio abbia pubblicamente ri­conosciuto l'ordine e la regola francescana). Si può pensare che Innocenzo III a questo punto dovette ritenere di avere concesso sufficienti possibilità di vita alle nuove tendenze evangeliche e pertanto abbia deciso con il canone 13 di passare ad un'azione di stabilizzazione: basta nuovi ordini!

1220: Francesco abbandona, per ragioni che poi diremo, la direzione dell'ordine al vicario Pietro Cattani, cui quasi subito succede frate Elia da Cortona,

1221: viene fondato il terzo ordine dei penitenti, il terzo ordine francescano: applica­zione dell'ideale francescano a coloro che continuano a vivere nel proprio stato di vita.

A questo punto, dato il notevole numero di aderenti si impose un lavoro di strutturazione  dell'ordine (che contava già più di 3.000 aderenti).

Al lavoro legislativo partecipò anche Francesco. Il punto di partenza é rappresentato dalla proto-regola, dalle precisazioni ed ammonizioni che Francesco aveva elaborato fino a questo momento. Punto di arrivo due regole:

·         la prima regula é detta "non bullata", perché non ottenne l'approvazione pontificia, fu redatta nel 1221 soprattutto da Cesario di Spira:  consisteva in una raccolta di testi scritturistici e di disposizioni giuridiche distribuiti in 24 capitoli. Fu giudicata non idonea a servire da base a un ordine e perciò non fu mai regola in vigore.

·         La seconda invece é detta "bullata" in quanto fu approvata con la bolla "Solet annùere" il 29 novembre 1223 dal papa Onorio III. E' la regola tuttora in vigore. Sostanzialmente in linea con la regula non bullata, ma strutturata in 12 capitoli soltanto.

Alla redazione di questa regola collaborò attivamente il cardinale Ugolino, che Francesco aveva ottenuto quale protettore dell’ordine e che poi diventerà papa Gregorio IX.

Per valutare quest'opera legislativa nella sua fedeltà allo spirito autenticamente francescano, bisogna ricordare che essa si compì nel contesto di una tensione tra Francesco ed un gruppo di francescani moderati. Tale tensione cominciò a manifestarsi nel 1218, quando diversi francescani, che venivano soprattutto dal mondo degli studi, si rivelarono incapaci di assumere l'esperienza fran­cescana nella sua originalità: la interpretarono con gli occhi della loro cultura, della tradizione e pertanto considerarono  il francescanesimo non come una novità sostanziale, ma semplicemente come una nuova forma secondo cui vivere il monachesimo di sempre.

La primitiva esperienza francescana era soprattutto uno stile di vita evangelica, vissuto da “minores”, cioè da gente che sta in basso, soggetta a tutti, nell'umiltà che confina con il disprezzo. Tale scelta imponeva necessariamente la riduzione al minimo dell'aspetto istituzionale, in quanto il frate minore, una volta che avesse assunto i pieni connotai di un monaco, si sarebbe perciò stesso trovato in una situazione dì distinzione e di privilegio. E perciò agli inizi i francescani non formano comunità: solitamente girano a due a due, si riuniscono insieme solo due volte all'anno a Pentecoste e per S. Michele; non hanno particolari prescrizioni di orazione e di vita ascetica: ognuno vive il fondamentale evangelismo, privilegiando a seconda del suo temperamento spirituale o la contemplazione o l'attività apostolica; anche l'idea di conventi, strutture francescane, non ha senso alcuno: per le poche volte, in cui i frati si incontrano e sostano in certe località per celebrare i capitoli annuali o per vivere momenti di ritiro spirituale, bastano casupole di paglia, frasche e fango... ecc. ecc.

Ai dotti-moderati e anche alla curia romana tutto ciò sembrò troppo indefinito, scialbo e fu inteso come uno spontaneismo iniziale, che necessariamente avrebbe dovuto evolvere verso forme precise di vita monastica: spinsero perché si introducessero pratiche ascetiche monastiche, spinsero perché si introducesse l'anno di noviziato; spinsero perché si costruissero case per lo studio e la formazione in vista della predicazione (anche qui dalla
concezione francescana di predicazione intesa come dire le cose con le parole ed i canoni del conversare familiare e quotidiano si passò alla concezione tradizionale ed ufficiale di predicazione: e dunque non si trattò più del minore che dal basso con umiltà diceva semplicemente la sua esperienza spirituale, ma si trattò invece del predicatore che dall'alto di un pulpito autorevolmente insegnava: per carità, cosa legittima, ma non era questo che il francescanesimo iniziale voleva!)

Nel 1220 Francesco si avvide che queste idee oramai si imponevano, dato il prestigio dei dotti e l'incapacità dei “minori” illetterati di rendersi conto del problema: ed allora si trovò di fronte ad un drammatico dilemma: accettare questa evoluzione dell'ordine, diventarne superiore, e quindi rinunciare alla logica del "minore" oppure tirarsi in disparte e vivere da sottomesso, che secondo Francesco era l'unico modo per guidare autenticamente da minore una comunità di minori.

Le fonti dicono che Francesco si dimise perché non si sentiva capace di guidare l'ordine. L'espressione va intesa bene: si tratta di un'incapacità ben precisa: Francesco non accetta di guidare un ordine che non é più come lui lo ha pensato e voluto: il suo spirito, in coerenza all'ideale primitivo, non può adattarsi alla nuova situa­zione!

La legislazione risentì di questa tensione e, pur cercando una mediazione, fece ampio spazio alle tesi moderate: significativo il fatto che si omise il riferimento a quel passo di Mt 10, 5-16, che per Francesco rappresentava l'origine e il simbolo della sua esperienza: quel giudizio di inattuabilità, che Innocenzo III non si era sentito di pronunciare, fu praticamente accolto e proferito dai legislatori francescani.

Lo Speculum perfectionis, c.49, annota: “Da quel momento, Francesco rimase suddito fino alla morte, comportandosi in ogni cosa più umilmente d’ogni altro frate”.

E’ senz'altro in questo contesto di passione che vanno collocate le stimmate del 14 settembre 1224: attraverso tale esperienza Francesco acquisì la dolce certezza che il suo fallimento era una partecipazione profonda al fallimento di Cristo crocifisso.

Tuttavia prima di morire Francesco volle in un Testamento spirituale offrire ai suoi frati il criterio secondo cui la regola doveva essere letta: ma i moderati, appoggiati dallo stesso papa Gregorio IX, intesero tale Testamento come un'aggiunta non vincolante, escludendo che si trattasse della necessaria chiave interpretativa della vita francescana (1230; bolla “Quo elongati” di papa Gregorio IX, che nega valore legislativo al Testamento).

Per la morte di san Francesco mi rifaccio al quasi necrologio ufficiale, che troviamo nella Vita prima, II, 88: “L’anno 1226, indizione XV, il 4 di ottobre, in giorno di domenica(115), in Assisi, sua città natale, presso Santa Maria della Porziuncola, dove egli aveva fondato l’Ordine dei frati minori, il beatissimo padre nostro Francesco, a vent’anni dalla sua piena adesione a Cristo, seguendo la vita e gli esempi degli apostoli, si libera dal carcere della carne, e portando a compimento la sua opera, se ne va felicemente nel soggiorno dei beati. Tra inni e lodi il suo sacro corpo viene collocato e riverentemente custodito in quella città, e a gloria di Dio rifulge per molti miracoli”.

Per la narrazione dettagliata della morte del santo è sempre emozionante leggerne il racconto, che ci viene offerto dalle varie biografie storiche.

Sempre dalla Vita prima, III, 126 prendo il resoconto della canonizzazione: “Ed ecco: le mani levate verso il cielo, il beato Pontefice con voce tonante grida e dice: “A lode e gloria dell’onnipotente Iddio, Padre e Figlio e Spirito Santo, e ad onore della Chiesa romana, mentre veneriamo sulla terra il beatissimo padre Francesco, che il Signore ha glorificato nei cieli, dopo aver raccolto il parere dei nostri fratelli (i cardinali) e degli altri prelati, decretiamo che il suo nome sia iscritto nel Catalogo dei Santi e se ne celebri la festa il giorno della sua morte”… “Queste cose avvennero in Assisi, nel secondo anno del pontificato di Gregorio IX, il 16 luglio”.

 

Note di spiritualità francescana

 

Francesco più che una dottrina ha lasciato uno spirito, che però ha influito sulla storia della spiritualità più di molti altri, che hanno lasciato molti libri.

a)     L’ideale, che guida la vita di Francesco, consiste nel praticare la sequela di Cristo come fu praticata dagli apostoli. Si tratta di una spiritualità cristocentrica, di tipo affettivo, con punte di alto lirismo.

b)     La via maestra, che conduce a tale meta, è il Vangelo. La Regola si apre con queste parole: “La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo…” (cap. I). La regola si conclude così: “… osserviamo la povertà, l'umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso…” (cap. XII). Si tratta di un’adesione al vangelo, che non conosce le sottigliezze interpretative degli esegeti e dei teologi, ma che si esprime come adempimento alla lettera, sine glossa, della Parola così come risuona: con entusiasmo e spensieratezza.

c)     L’ideale della sequela di Cristo si compie anche attraverso un legame profondo con la santissima Eucaristia, intesa come presenza viva, reale, sostanziale dell’umanità e della divinità di Cristo. La devozione eucaristica di Francesco sottolinea tre aspetti:

·         la condiscendenza di Gesù nei nostri confronti;

·         il suo comando di cibarcene;

·         l’esigenza per chi se ne ciba di donarsi a sua volta a Gesù con totalità ed umiltà.

La devozione eucaristica concretamente si esprime con questi gesti:

·         messa frequente, se possibile quotidiana;

·         adorazione, in caso di impossibilità fisica si adori con gli occhi della mente;

·         cura meticolosa per tutto quello che ha a che fare con l’Eucaristia (sacerdoti, suppellettili liturgiche, edificio sacro e quindi il suo restauro e la sua pulizia).

Di ciò parla frequentemente nei suoi scritti ai vari ceti del popolo cristiano.

d)     Come nel Vangelo e nell’Eucaristia, Francesco trova il Gesù da seguire anche nella Chiesa, che da lui viene avvertita come Madre, nelle cui braccia ci si deve abbandonare come figli devoti e fiduciosi. Ciò avviene mediante l’obbedienza al governo della Chiesa: così appunto è affermato all’inizio della Regola: “Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori” (cap. I). E così viene detto alla fine della Regola: “ sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l'umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso” (cap. XII).

e)     Come san Francesco trova Gesù nel Vangelo, nell’Eucaristia e nella Chiesa e a Lui si dona vivendo il Vangelo, adorando l’Eucaristia e dando ascolto obbediente alla Chiesa, così per la sua viva fede riconosce Gesù nel suo rivelarsi negli uomini, e per gli uomini si spende come si sarebbe speso Gesù. “La forza dell'amore aveva reso Francesco fratello di tutte le altre creature; non è quindi meraviglia se la carità di Cristo lo rendeva ancora più fratello di quanti sono insigniti della immagine del Creatore” (Vita secunda, 172). Il prossimo viene considerato nella sua integralità: è stato creato e formato “a somiglianza di Dio secondo lo spirito e a immagine di Cristo secondo il corpo” (Ammonizione V).

f)      San Francesco trova il Gesù, che vuole seguire, anche nella natura. La ragione di questo amore per la natura non va ricercata né nella delicatezza del suo animo, né nella bontà e utilità  delle realtà naturali, bensì nel loro valore di fede; sono discorso su Dio, perché Dio è loro origine, quale causa efficiente; sono discorso su Dio,  perché Dio è la meta, a cui tendono, quale loro causa finale; sono discorso su Dio, perché Dio è la forma su cui sono state plasmate, quale causa esemplare. Francesco, qui, si rivela ancora legato alla lettura sacrale della natura, non è per nulla partecipe quindi del movimento di desacralizzazione, che la riscoperta delle scienze naturali aveva avviato proprio nel suo secolo. Con questa sua lettura sacrale della natura Francesco poi si differenzia notevolmente dalle tendenze dualistiche, che erano in voga presso i movimenti ereticali del suo tempo. Tra le creature Francesco prediligeva quelle che il Vangelo presentava come segno di Gesù: la luce, il fuoco, l’acqua (Gesù acqua viva), le pietre (cfr 1Cor 10,4), gli alberi (la croce; non voleva che gli alberi venissero completamente tagliati), i fiori (Gesù, fiore del campo, giglio delle convalli: Ct 2,1), i vermicelli (Gesù verme e non uomo: cfr Sal 21,7), gli agnelli (Gesù, agnello di Dio).

g)     Nel vivere il Vangelo Francesco dà un rilievo particolare ad alcune virtù evangeliche. Il primo posto tra esse è riservato alla povertà: seguire nudi il Cristo nudo.

MOTIVO:

-       la povertà non è considerata tanto un mezzo per raggiungere la perfezione  spirituale;

-       la povertà non è considerata tanto come un liberarsi dalle cure materiali per potersi dare con la massima libertà all’apostolato;

-       la libertà è piuttosto praticata come scelta per amore di Gesù, che si fece povero per amore nostro, scelta di conformarsi a Cristo: “Fratelli, gli esempi di povertà di Cristo devono essere la nostra norma e non quella che praticano gli altri religiosi” (Vita secunda, n.61).

MODO: concepita così, la povertà viene vissuta non come virtù passiva, come un difendersi dalle attrattive che i beni materiali esercitano sul cuore dell’uomo, ma come virtù attiva, come irradiazione della perfezione dell’essere una sola cosa con il Cristo povero. Il distacco totale e assoluto dai beni materiali non deve essere soltanto affettivo ma anche effettivo, ed effettivo non solo nel senso che non se ne ha proprietà ma anche nel senso che non se ne dispone l’uso: la condizione del frate è quella del forestiero e del pellegrino (Testamento). Santa Chiara espresse in maniera radicale questa concezione assoluta di povertà, quando a papa Gregorio IX, che voleva assolverla dalla povertà assoluta, reagì scrivendo: “Santo Padre, assolvetemi dai miei peccati, ma non dal voto di seguire nostro Signore” (Legenda sanctae Clarae virginis).

Distacco non solo da ciò che sta intorno, distacco anche dai beni interiori: volontà, giudizio, sentimenti, onori, uffici: “Beato il servo che restituisce tutti i suoi beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà tolto ciò che credeva di possedere” (Ammonizione XVIII).

La povertà assoluta produce due frutti: la perla preziosa della gloria celeste e l’elemosina dei fratelli, che è la mensa del Signore.

Francesco vive la povertà

Cavallerescamente: dopo l’Ascensione di Gesù la povertà era rimasta vedova sulla terra. Francesco l’amò, la difese, la sposò, le dette figli (cfr Dante, il canto XI del Paradiso).

Gioiosamente: secondo il principio agostiniano: “ubi amatur non laboratur”. Chi si asside alla mensa della povertà, ha come suo servitore Dio stesso.

Ottimisticamente: rinuncia e distacco non sono disprezzo, ma condizione per valutare la realtà alla luce della bontà divina.

 

h)     Altra virtù evangelica è l’umiltà, che Francesco definisce come la sorella di santa povertà (“Signora santa povertà, / il Signore ti salvi / con tua sorella, la santa umiltà”, Salutatio virtutum). Con questa virtù Francesco si ripropone di conformarsi all’abbassamento del Verbo, fattosi uomo. Umiltà significa morte dell’Io vizioso, frutto del peccato, ma pieno rispetto per l’Io fatto da Dio. Dalla consapevolezza della propria pochezza fa scaturire un atteggiamento riguardoso nei confronti di tutti gli altri. L’umiltà, quando è vissuta in stretta unione con la povertà e la semplicità, sfocia nella minorità. Il cardinal Giacomo di Vitry così presentò i primi francescani: “Questa è la Religione dei veri poveri del Crocifisso, questo l’Ordine di predicatori che chiamiamo frati minori. Veramente minori e più umili di tutti i religiosi contemporanei, nell’abito che portano, nella loro spogliazione e nel disprezzo del mondo” (Historia Occidentalis, 1. II, c. 32 ).

i)       Altra virtù evangelica è la semplicità, come l’opposto della doppiezza, in conformità con il Cristo che disse: “Sia invece il vostro parlare: "Sì, sì", "No, no"; il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37) e “siate semplici come le colombe” (Mt 10, 16). La semplicità è tipica di uno spirito sapiente, che sa ricondurre tutto a Dio con conseguente semplificazione e riduzione ad unità degli affetti, desideri, intenzioni del cuore.

j)       L’obbedienza ha il suo fondamento nell’amore: “I frati poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno rinnegato la propria volontà” (Regola, 10). Perciò l’obbedienza è sorella della carità. Così fondata, l’obbedienza si svuota di ogni servilismo e diventa affermazione della libertà e della dignità della persona umana. L’obbedienza si attua non solo come esecuzione esterna del comando, ma anche e prima di tutto  come sottomissione totale della volontà e del giudizio: “ E se qualche volta il suddito vede cose migliori e più utili alla sua anima di quelle che gli ordina il superiore, volentieri sacrifichi a Dio le sue e cerchi invece di adempiere con l’opera quelle del superiore. Infatti questa è l’obbedienza caritativa, perché compiace a Dio e al prossimo” (Ammonizione III). Si arriva così all’esempio del cadavere: “Prendi un corpo morto e mettilo dove ti pare e piace. E vedrai che, se lo muovi, non si oppone; se lo metti in un posto, non mormora; se lo metti da parte, non protesta. Se lo metti in cattedra, non guarderà in alto, ma in basso. Se gli metti un vestito di porpora, sembrerà doppiamente pallido. Questo è il vero obbediente: chi non giudica il perché lo spostano; non si cura del luogo a cui viene destinato; non insiste per essere trasferito; eletto a un ufficio, mantiene la solita umiltà; quanto più viene onorato, tanto più si ritiene indegno” (San bonaventura, Legenda Maior, Cap. 6 – ff 1107). Il superiore deve trovare nel suddito riverenza e amore, perché il suddito deve vedere nel superiore il rappresentante di Dio, perciò si preoccupa di non rendergli pesante l’esercizio dell’autorità. A sua volta il superiore deve interpretare il suo ufficio come servizio di amore prestato a Dio e ai fratelli, perciò porta il nome di ministro, o servo, o custode, o guardiano: “Colui a cui è commessa l’obbedienza e chi è ritenuto maggiore, sia come il minore (Lc 22,26) e servo degli altri fratelli e usi e abbia nei confronti dei singoli fratelli quella misericordia che egli stesso vorrebbe fosse usata a lui in un caso simile” (Lettera a tutti i fedeli). C’è spazio per l’iniziativa personale: E qualunque cosa fa o dice che egli sa non essere contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è vera obbedienza” (Ammonizione III). Pure si prevede spazio per il dialogo: “E i ministri li accolgano con carità e benevolenza e mostrino ad essi tanta familiarità che quelli possano parlare e fare con essi cosi come parlano e fanno i padroni con i loro servi” (Regola, 10). C’è spazio anche per la critica corretta e si fa spazio anche per l’obiezione di coscienza: “Se poi il superiore comanda al suddito qualcosa contro la sua coscienza, pur non obbedendogli, tuttavia non lo abbandoni” (Ammonizioni III ).

m)    Severo con se stesso, Francesco fu dolce e moderato con gli altri nel regolare la penitenza. Raccomandava discrezione, invitava ad insistere soprattutto sulla mortificazione interiore della volontà. Permise l’alimentazione con carne. Soppresse le punizioni corporali per i colpevoli, invitando i ministri ad accogliere i colpevoli con serenità, senza adirarsi, imponendo le penitenze con carità e compassione.