giovedì 16 maggio 2024

 

la nascita del regno carolingio

Inizio della coesione ai vertici della Ecclesia universalis

 

1 - La decadenza merovingia

A partire dalla morte di Dagoberto I (639) il regno merovingio non conobbe che una lunga decadenza. Per comprendere il fenomeno ed i suoi sviluppi occorre considerare la strut­tura politica merovingia.

Nella mentalità germanica mancava la nozione di diritto pubblico: l'apparato politico per­tanto si articolava come un insieme di res privatae e la relazione dei governanti con tale apparato non si poneva in termini di ufficio pubblico, ma di proprietà.

In un siffatto ordine di cose il potere del re presentava un carattere composito.

Dal fatto che la relazione del re con il regno si esprimeva in termini di proprietà derivava il carattere ereditario-dinastico del regno: il trono quindi veniva assegnato secondo il principio dinastico; alla morte del re poi il regno veniva diviso tra i figli secondo il principio ereditario.

Dal fatto invece che il re non era il solo proprietario sul territorio nazionale derivava che il potere regale non era assoluto: accanto al re, che aveva un potere assoluto sui suoi possedimenti, vi erano i “grandi", che nel loro territorio godevano di un'autonomia  rilevante. Ne conseguiva che il potere regale doveva contare sull’adesione dei grandi per imporsi sull'intera compagine politica: ecco pertanto che al trono merovingio si giun­geva non solo per via dinastica, ma anche per via elettiva (evidentemente per rispettare il principio dinastico-ereditario l'elezione si svolgeva nell'ambito della famiglia regnante).

Nel regno merovingio fu dunque costantemente in atto una tensione tra il potere regio ed il gruppo dei grandi: quando il potere regio era forte si attenuavano gli spazi del consenso dei grandi; quando il potere regio era debole si accentuava invece il peso politico dei grandi.

Vediamo ora come questi meccanismi abbiano funzionato di fatto.

Alla morte di Clodoveo (511), re indiscutibilmente forte, il regno franco fu diviso tra i suoi figli in quattro parti: per sé il regno franco rimaneva unitario per la sottomissione dell'unico popolo franco all'unica dinastia merovingia, tuttavia col passare del tempo l'unità risultò sempre più compromessa dal fatto che ciascuno dei re entrò in lotta con i suoi colleghi. Ciò comportò da un lato l'accentuarsi dell'autonomia delle varie parti con detrimento dell’unità e dall'altro l'ampliarsi del potere dei grandi, sui quali i vari re dovevano sempre più contare per attaccare o bloccare i re rivali: per ottenere il "comitatus" dei grandi i re merovingi dovettero concedere loro privilegi e donazioni con grave danno per la dinastia regale.

Non ci si può dunque meravigliare se alla metà del VII secolo rinveniamo una dinastia merovingia esausta, rappresentata molto spesso da re minorenni, che raramente pervennero alla maggiore età, impegnati per gran parte del tempo in gozzoviglie e degenerazioni di ogni tipo (i re fannulloni). Non ci si può neppure meravigliare se padroni della situazione politica nei vari regni siano i grandi, rappresentati al palazzo reale dal loro esponente più potente, che svolge il ruolo di maggiordomo.

 

2 - L' ascesa dei carolingi

Presto alla lotta tra i vari re si sostituì la lotta tra i vari maggiordomi. Verso la fine del VII secolo il successo arrise a Pipino il Medio, maggiordomo d'Austrasia (la parte nord-orientale del regno franco, situata presso il Reno), che ne 687 a Tertry si era imposto sul maggiordomo del regno di Neustria (la parte centrale del regno franco), divenendo il solo maggiordomo del regno franco.

La sua opera parve compromessa nel 714, quando Pipino mori non lasciando eredi legittimi.

I figli Drogo e Grimoaldo erano morti prematuramente. Nel 714 si formarono tre partiti: quello che faceva capo alla vedova di Pipino il Medio, Plectrude, che pretendeva di esercitare il potere in nome dei nipotini minorenni; quello che faceva capo a Ragan­fredo, che tentava di fare rivivere le aspirazioni del regno di Neustria; quello che faceva capo a Carlo Martello, figlio naturale di Pipino il Medio, ed esprimeva l'opposizione di una parte dell'Austrasia nei confronti di Plectrude.

Alla fine ebbe la meglio Carlo Martello, che ricostituì ed ampliò l'unico regno franco.

(+     717 prima vittoria di Carlo Martello sul partito neustriano di Raganfredo a Vinchy;

+     717 - 718 vittoria di Carlo M. su Plectrude a Colonia

+     719 vittoria definitiva sul partito neustriano

+    732 vittoria sugli Arabi presso Poitiers e ricupero del Sud della Gallia

+    733 - 736 conquista della Borgogna

+    737 - 738 conquista della Provenza

+     anni successivi: incorporazione della Turingia e di buona parte della Frisia a destra del Reno

+     741 morte di Carlo Martello e sepoltura nel cimitero regale di Saint Dénis.)

Durante il suo governo (717 - 741) Carlo Martello si assicurò un potere notevole ed indiscutibile, che si estendeva su tutta la Gallia e su buona parte della Germania. La singolarità di questa posizione si manifestò negli anni 737 – 741, quando Carlo Martello volle e poté fare da maggiordomo senza dare un successore al defunto re merovingio Teoderico IV. Poco prima di morire poi il grande maggiordomo poté disporre del regno come di una sua proprietà e lo divise tra i due figli Carlomanno e Pipino il Breve.

Si deve però ricordare che il potere straordinario di Carlo Martello fu il frutto di una continua lotta, che comportò un notevole onere economico per la conduzione delle campagne militari e per la ricompensa dei "comites". Carlo Martello si procurò il finanziamento non solo presso i laici-nemici, attraverso la confisca dei loro beni, ma anche presso la Chiesa franca, che si trovò sottoposta ad un'opera sistematica di secolarizzazione dei suoi beni: la secolarizzazione si compì o attraverso confische o mediante l' assegnazione di abbazie ed episcopati a laici come ricompensa. Il risultato fu uno sconvolgimento notevole delle strutture ecclesiastiche. Carlomanno e Pipino il Breve nel subentrare al potere trovarono alcune difficoltà da par­te dei grandi e pertanto si decisero a rimettere sul trono un sovrano merovingio (743, Childeríco III). La situazione tuttavia fu presto sotto controllo, concedendo ai due maggiordomi carolingi la possibilità di dedicarsi alla sottomissione degli Alemanni, che si compì nel 746.

Nel 747, non per ragioni politiche, ma per ragioni religiose, Carlomanno abbandonò il potere e si dedicò alla vita monastica (seguì l'esempio di parecchi re anglo-sassooni, di cui venne a conoscenza attraverso Bonifacio. Dapprima fondò un suo monastero sul Monte Soratte, presso Roma, poi passò al monastero di Montecassino, che si trovava nel ducato longobardo di Benevento).

Pipino il Breve si ritrovò solo maggiordomo del regno, con un notevole potere tra le mani. Si profilava oramai il colpo di stato!

Gli anni che vanno dal 743 al 747 furono importanti anche per la vita della Chiesa franca, che vi vide la celebrazione dei già menzionati concili di riforma.

L'esperienza prese avvio dalla collaborazione tra Bonifacio e Carlomanno, che nel 743 fece celebrare un concilio per quella parte del regno che cadeva sotto il suo dominio. Nel marzo del 744 l'esperienza fu ripresa non solo da Carlomanno ma anche da Pipino il Breve. Finalmente negli anni 745 e 747 si giunse alla celebrazione unitaria di concili del regno franco.

Questi concili si innestarono su quell'istituto franco, che riuniva i grandi del regno per deliberare insieme con il re: da ciò si arguisce che tali concili non furono un fatto esclusivamente ecclesiastico, ma anche politico: trovarono nel potere politico l'autorità che li convocava e li dirigeva, videro la partecipazione non solo delle autorità ecclesiastiche, ma anche dei grandi del regno: rappresentarono pertanto una tipica struttura di coesione!

Questi concili si proposero due compiti fondamentali:

- la ristrutturazione dell'ordinamento giuridico della chiesa franca

- il rinnovamento della vita spirituale dei chierici e dei laici.

Circa la ristrutturazione dell'ordinamento giuridico della Chiesa meritano attenzione due aspetti:

- l'avvio della ricostruzione delle strutture interdiocesane (province ecclesiastiche e   concili provinciali annuali)

- il ricupero dell'ordinamento diocesano (subordinazione del clero al vescovo e lotta contro i clerici vagi).

Circa il rinnovamento della vita spirituale del clero si tornò a sottolineare la specificità pastorale della sua funzione, proibendo la pratica della caccia e delle armi e riaffermando la pratica del celibato. Ai laici furono invece vietate le usanze pagane e se ne regolarono le nozze secondo il diritto ecclesiastico. Infine si richiami alla memoria la già menzionata tendenza di questi concili a creare maggiori legami con Roma.

 

3 – Il colpo di stato di Pipino il Breve

a)    I fatti:

"Quievit terra a proeliis annis duobus” (Continuator Fredegarii 32 : MGH SS rer. Merovingicarum II, 182. Altre fonti di necessaria consultazione per questi avvenimenti sono: Annales regni Francorum all'anno 749, reperibile in MGH SS I; Clausula de unctione Pippini reperibile in MGH SS XV): si tratta degli anni 750 e 751. Probabilmente in questi due anni di pace Pipino si dedicò ai negoziati con i grandi e con le autorità ecclesiastiche in vista del colpo di stato. Le fonti di cui disponiamo però ci informano soltanto delle trattative con papa Zaccaria. Verso la fine dell'anno 750 o agli inizi del 751 Pipino inviò a Roma Burcardo, vecovo di Würzburg e Fulrado, abate di Saint Dénis con l'incarico di presentare al papa il seguente interrogativo: “De regibus in Francia, qui illis temporibus non habentes regalem potestatem, si bene fuisset an non”. Zaccaria avrebbe risposto così: "Ut melius esset illum regem vocari, qui potestatem haberet, quam illum qui sine regali potestate manebat, ut non conturbaretur ordo."

Forte dell'accondiscendenza del papa, Pipino nella dieta di Soissons del novembre 751 poté farsi eleggere re dei Franchi: il re merovingio Childerico III dovette lasciarsi tagliare i capelli, simbolo della regalità e finire i suoi giorni in monastero; Pipino con la moglie ricevette l'unzione regale per mano di Bonifacio (probabilmente) e fu intronizzato.

 

b)  perché Pipino ha fatto ricorso al papa?

Già abbiamo detto che secondo la concezione politica franca l'elevazione del nuovo re avveniva in base a due principi (dinastico ed elettivo). Nel 751 Pipino poteva contare solo sulla elezione da parte dei grandi. La mancanza della prerogativa dinastica, dato il fortissimo attaccamento dei Franchi alla dinastia regnante, rappresentava un ostacolo grave: anzi per i Franchi ogni attentato alle prerogative della dinastia assumeva la connotazione di atto sacrilego.

Quando erano ancora pagani, i Franchi infatti guardavano al re come a un figlio di dio; la conversione al cristianesimo non significò affatto la scomparsa di tale venerazione, ma solo il mutamento di prospettiva: si cominciò a guardare al re come ad un essere dotato di una missione provvidenziale e di caratteri carismatici in ragione della sua appartenenza alla stirpe merovingia, per un fatto di sangue dunque. Da ciò traspare che si trattava di una venerazione, di un attaccamento religioso, che doveva essere battuto pertanto su un piano religioso. Ecco dunque il ricorso a colui che i Franchi consideravano la massima autorità religiosa in terra: nel papa infatti i Franchi vedevano il successore del beatissimo Pietro, clavigero ed ostiario del cielo e ritenevano che la fedeltà alle sue decisioni comportasse senz'altro l'ingresso in cielo. Pipino pertanto era convinto che un pronunciamento del papa in favore della deposizione del re merovingio avrebbe tolto al colpo di stato ogni parvenza di atto irreligioso e avrebbe tranquillizzato i Franchi!

In quel contesto poi Pipino poteva sperare in una risposta positiva da parte del papa, cui senz'altro conveniva garantirsi l'appoggio franco per fare fronte alle mire espansionistiche del re longobardo Astolfo (in analoghe difficoltà nel 739 il papato si era rivolto a Carlo Martello, ciò faceva arguire che di nuovo il papato si sarebbe orientato verso il regno franco, tanto più che con i concili di riforma i rapporti erano notevolmente migliorati. Il papato inoltre avvertiva che una risposta positiva avrebbe posto Pipino nell'impossibilità morale di trascurare un eventuale appello romano).

Si deve però rilevare che il papa non agì esclusivamente base a calcoli politici.

 

c) la risposta del papa

 Papa Zaccaria nella sua risposta espresse un concetto molto importante: il dinasticamente legittimo re merovingio di fatto non é idoneo a fare il re, perché non detiene il potere effettivo di re, ma soltanto il nome di re. Quali sono le implicazioni di tale concetto?

+ Il principio dinastico non ha un valore assoluto, in certi casi deve essere accantonato.

+ Dal fatto che il principio dinastico non ha un valore assoluto e può essere accantonato, traspare che per la Chiesa tale principio non é né di diritto divino, né di diritto naturale, che sono irreformabili, ma solo di diritto positivo (atteggiamento comprensibilissimo, in quanto la Chiesa ha sempre visto nel principio dinastico il riflesso di una certa concezione magica e pagana).

+ Per il principio dinastico, in quanto principio di diritto positivo, vale un criterio generale della morale cristiana: il diritto positivo merita rispetto solo nella misura in cui non contraddice il diritto naturale o il diritto divino; il diritto positivo invece deve essere mutato quando non armonizza con il diritto naturale o il dirit­to divino.

+  Ora il diritto naturale a proposito del potere politico vuole che esso sia in grado di garantire un ordine di giustizia e di pace. Ecco allora il problema: il pote­re politico merovingio, fondato sul principio dinastico, é in grado di garantire un ordine di giustizia e di pace? Storicamente si deve rispondere di no. Pertanto si deve concludere che il principio dinastico deve essere abbandonato, perché comporta un ordine di cose, che contraddice l’ordo naturae: ecco il senso dell'e­spressione "ut non conturbaretur ordo".

+  Dunque papa Zaccaria al principio germanico della legittimità dinastica contrappone il classico principio romano dell'idoneità, idoneità da valutarsi in base a due condizioni necessarie: presenza della bona voluntas e presenza dì una vera potestas. Il re merovingio, mancando di vera potestas, si rivela senz'altro non idoneo; Pipino disponendo sia di una vera potestas sia di una bona voluntas appare senz'altro ido­neo a ricoprire la funzione regale.

+     Concludendo si deve dire che la Chiesa con il principio di idoneità ha introdotto un criterio più oggettivo e più intimo del principio di legittimità dinastica, afferma­to dai popoli germanici (ius stirpis); inoltre va rilevato che con il principio di idoneità la Chiesa spinge verso un'alta concezione della regalità: questa deve agire per la bontà e la giustizia ed in tale modo il re diventa il vicarius Dei, che applica in terra la lex aeterna divina. Quindi con il principio di idoneità la Chiesa non priva affatto la regalità del suo fulgore religioso, ma anzi ne trasforma ed approfondisce il senso: non si tratta più di un fatto magico, ma di un fatto più oggettivamente ed intimamente morale. E quando papa Zaccaria dice: "ut non conturbaretur ordo" allude ad un re che sappia salvaguardare l'ordo naturae, così come é voluto da Dio; in tale modo si produce un chiaro aggancio del potere regio alla voluntas divina, aggancio che costituisce un elemento della massima importanza nello sviluppo della concezione teocratica del potere regale.

+     Un'ultima osservazione: gli Annales regni Francorum, riferendosi alla risposta di papa Zaccaria, usano il verbo "iussit": l'espressione non va intesa in sen­so forte, poiché non é dubbio che né Pipino né i grandi avrebbero ammesso un ordine del papa in campo politico; del resto il quesito fu posto sul terreno della liceità morale e non della autorizzazione politica. Pertanto é certo che Pipino divenne re non per designazione pontificia, ma per elezione da parte dei grandi. Gregorio VII e diversi canonisti dei secoli XII e XIII ritennero di potere affermare che fu papa Zaccaria a deporre il re merovingio, ma la corrente canonistica di sentire dualista, guidata dal grande Graziano, con maggiore aderenza alla realtà dei fatti, assunse una linea interpretativa ben diversa.

 

c)    l'unzione di Pipino

Il gesto va letto nel contesto germanico: il re merovingio derivava il suo splendore sacrale dal fatto che discendeva dalla stirpe regale e quindi, per afferma­re la sua sacralità, non faceva ricorso ad un gesto esteriore di consacrazione: bastava che lasciasse crescere i capelli!

Pipino non poteva disporre di tale sacralità ereditaria ed innata e quindi dovette fare ricorso ad un gesto rituale che dichiarasse che l'eletto dal popolo era anche l'eletto di Dio. L'unzione era dunque per i Franchi una novità. Il modello immediato dovette essere rinvenuto o nelle usanze della vicina monarchia visigotica o, attraverso Bonifacio, nelle usanze anglo-sassoni. Senz'altro il modello remoto era offerto dal­l’Antico Testamento, dove appunto Saul e Davide appaiono posti da Dio a guida del suo popolo non per via dinastica ma attraverso l'unzione di Samuele.

Da questo momento l'unzione divenne usuale in Francia e assunse un grande valore in ordine alla interpretazione del potere regale. Si ricordi che in quel periodo mancava ancora una dottrina sacramentaria ben precisa e definita, per cui l’unzione del re fu letta come un gesto di tipo sacramentale, che conferiva al re una impronta quasi indelebile (una sorta di carattere) e lo poneva in un ruolo di tipo episcopale: negli ambienti carolingi comparvero espressioni come "episcopus episcoporum", "rex et sacerdos"; si fece ricorso alla tonsura.

Per via della consacrazione il re prima, l’imperatore poi, si trovarono colloca­ti al di sopra dei laici, considerati partecipi del ministero sacerdotale, con funzione di mediatore tra il clero ed il laicato e all'interno della Chiesa (infatti  nelle celebrazioni solenni i re imperatori carolingi e tedeschi indossavano la dalmatica e cantavano il vangelo)  e all'esterno, svolgendo il ruolo di difensore della Chiesa.

L'unzione regale/imperiale non solo significò un consolidamento della sacralità del potere politico, ma anche consentì ai vescovi ed al papa di acquistare un ruolo rilevante in ordine al potere politico stesso, quali ministri dell'atto, che al potere politico conferiva splendore sacrale (dignitas).

In connessione con la consacrazione Carlo Magno coniò l'espressione "gratia Dei rex", dove è possibile scorgere un duplice significato:

- di esaltazione: é re per volere di Dio;

- di limitazione: il re non deve governare in maniera arbitraria ed assolutistica, ma deve invece stare sottomesso alla legge divina, che é la fonte della vera regalità.

Sempre in connessione con il carattere sacrale del re, conferito dalla consacrazione, si svilupparono più tardi altri gesti liturgici:

·  le Festkrönungen (incoronazioni festive): in occasione delle maggiori solennità il re (l'imperatore poi) faceva ripetere il rito della incoronazione per ragioni devozionali. Ovviamente era radicalmente diverso il valore della incoronazione solen­ne di elevazione al potere, che non rivestiva solo un carattere devozionale, ma concludeva il processo di elevazione al potere.

·  Le laudes regiae: una sorta di litanie, che si aprivano e si chiudevano con le acclamazioni "Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat". Le varie invocazioni poi erano ordinate secondo uno schema ternario: dapprima per il papa si invocava l'intercessione degli apostoli; in secondo luogo per il re/imperatore si chiedeva l'intercessione degli angeli, infine per l’esercito franco si ricorreva all'intercessione dei martiri. A tale schema soggiaceva una concezione ecclesiologica trinitaria: gli angeli, come seguito del Padre, erano invocati per il re /imperatore; gli apostoli, come seguito del Figlio, erano invocati per il papa; i martiri, come frutto dell'opera santificatrice dello Spirito, erano invocati per l'esercito. Qui pertanto traspare una interessante interpretazione dell'ecclesia universalis altomedievale: il re é posto nella sfera della paternità onnipotente e creatri­ce; il sacerdozio appartiene invece alla sfera del Figlio redentore; l'e­sercito franco infine rappresenta la Chiesa, opera dello Spirito, eviden­temente a partire dalla convinzione che il popolo franco é il nuovo Israele, il nuovo popolo di Dio.

 

Il papato ed il  regno carolingio

 

Si deve senz'altro dire che questa relazione fu favorita sia dalla questione orien­tale sia dalla questione longobarda.

 

1 - La questione orientale,

Agli inizi del secolo VIII sia il papato sia il popolo romano continuavano a sentirsi sia politicamente sia idealmente sudditi dell'impero romano e quindi dell'imperatore bizantino. Tuttavia va rilevato che questa convinzione si componeva con altri due elementi:

- il punto di vista romano circa la costituzione ecclesiastica (primato, dualismo nella relazione sacerdozio impero) e circa la disciplina ecclesiastica;

- gli interessi politici dell'Italia bizantina, che, non trovando tutela sufficiente nell'imperatore, erano difesi in prima linea dal papato.

Si capisce allora come mai la relazione Roma-Oriente si sia espressa non solo in termini di sudditanza, ma anche in termini di conflitto, quando a Costantinopoli non si teneva sufficientemente in considerazione o il punto di vista ecclesiastico di Roma o la questione italiana.

Un primo contrasto si sviluppò alla fine del VII secolo e trovò composizione nel secondo decennio del secolo VIII. L'oggetto della contesa fu di politica ecclesiasti­ca. Nel 692 l'imperatore Giustiniano II aveva riunito un concilio a Costantinopo­li per completare sotto il profilo disciplinare il V ed il VI concilio ecumenico, che si erano occupati soltanto di questioni dogmatiche. Perciò questo concilio del 692 prese il nome di quinisesto; fu pure chiamato Trullano II, perché fu celebrato co­me il VI concilio ecumenico nella sala a cupola del palazzo imperiale, detta Troullos).

Il Trullano Il emise 102 canoni disciplinari, spesso in contrasto con la prassi occidentale:

+        il 13° contro le consuetudini occidentali, sotto pena di scomunica faceva obbligo ai diaconi e sacerdoti già sposati prima della ordinazione di convivere maritalmente con le loro mogli (in Occidente invece la convivenza maritale era proibita);

+        il canone 36° ripristinava il canone 28° di Calcedonia, che era stato sempre rifiu­tato dai papi, in quanto attribuiva alla sede costantinopolitana gli stessi privi­legi della sede romana;

+        il canone 55° proibiva "sub gravi" l'uso romano di digiunare nei sabati di quare­sima.

Il papa Sergio I evidentemente non volle apporre la sua firma agli atti conciliari (infatti per noi cattolici il quinisesto non ha mai avuto il valore di concilio ecumeni­co); Giustiniano II tentò di costringere il papa agli arresti, ma incontrò la fiera opposizione delle milizie italiane. Per un decennio quindi la questione rimase insoluta: nel 695 infatti Giustiniano II fu sbalzato dal trono da un colpo di stato mili­tare e non vi tornò fino al 705.

L'intesa fu raggiunta nel 711, quando il papa Costantino I si recò a Costantinopoli e con Giustiniano II concordò una revisione del quinisesto: dei 102 canoni se ne conservarono cinquanta circa.

Un più duro conflitto tra Roma e imperatore bizantino si ebbe durante il governo di Leone III Isaurico (il Siro): questa volta il contrasto fu sia ecclesiastico sia politico.

Per effetto delle guerre combattute per quasi un secolo nelle province orientali e dei continui mutamenti di regime avvenuti nell'ultimo trentennio, le finanze dello stato era­no esauste. Leone III volle porvi rimedio inasprendo i tributi, senza risparmiare né l'Italia bizantina né la Chiesa. Gregorio II si oppose, anche considerando il fatto che l'imperatore bizantino si occupava dell'Italia solo per portare via denaro. Leone III pensò di fare ricorso alla violenza contro il papa, ma le sue truppe furono disperse dalle milizie romane, cui si erano unite quelle dei longobardi di Spoleto e Benevento.

Nel 726 il conflitto divenne anche dottrinale: Leone III ordinò la rimozione delle immagini sacre.

Perché un tale provvedimento? Non è facile trovare una spiegazione precisa: pro­babilmente Leone III vi fu spinto dal convergere di ragioni politiche e religiose.

  •      Ragioni politiche: Leone III mirava a creare una certa unità e stabilità. Dall’esterno questo programma era minacciato dagli Arabi: l'imperatore dovette pensare di facilitare le relazioni coi musulmani, assumendo sul tema delle immagini un atteggiamento simile a quello islamico (Leone III sapeva benissimo di non potere accantonare il pericolo arabo per via bellica, da qui la necessità di stabilire rapporti di buon vicinato!). All’interno invece l'unità e la stabilità erano minacciate da diversi elementi, un primo elemento di disturbo era rappresentato dal gruppo ebraico, che non si era mai integrato pienamente nella compagine imperiale: Leone III pensò di guadagnarsene la fiducia avvicinandosi alla sua posizione circa le immagini; un secondo elemento disgregante era costituito dai gruppi monofisiti e monoteliti: l'imperatore non poteva accedere alla loro posizione dottrinale (queste dottrine erano già state sottoposte a condanne conciliari: un avvicinamento sul piano dottrinale rappresentava pertanto una compromissione ereticale), ma con la scelta iconoclastica rite­neva di potere mitigare il contrasto su un piano pratico, poiché i monofisiti vi potevano vedere un riconoscimento della loro tesi della non rappresentabilità di Cristo, in quanto privo di una vera e propria natura umana.

Un terzo elemento di disturbo era costituito dal monachesimo, che per via dei suoi privilegi sottraeva alle necessità dello stato una notevole quantità di fondi terrieri, di entrate fiscali e di uomini: Leone III dovette probabilmen­te pensare che, colpendo il culto delle immagini sacre, sottraeva al monachesimo una fonte di ricchezza molto importante, in quanto i monaci erano i mas­simi produttori di icone e dal culto delle icone ricavavano abbondanti offer­te.

  •         Ragioni religiose: Leone III, il Siro, proveniva da una regione in cui il cristianesimo aveva conservato i tratti giudeo-cristiani primitivi. Le immagini sacre, che incontrò diffuse un po' in tutto l'impero dovettero quindi apparire ai suoi occhi come una degenerazione idolatrica. A confermarlo in questa idea erano intervenuti in quegli anni alcune calamità naturali, da lui senz'altro interpretate come una punizione divina per l'idolatria e la superstizione, che si esprimevano nel culto delle immagini.

In verità si deve riconoscere che l'Oriente più facilmente dell'Occidente poteva cadere in pratiche erronee su questo punto. In Occidente infatti non era mai esistito il problema della venerazione delle immagini, poiché si attribuiva ad esse un valore decorativo e didattico (Gregorio Magno vi vedeva il catechismo degli analfabeti). L'Oriente invece attribuiva alle icone un valore anche di tipo sacramentale, ponendo una relazione reale tra la rappresentazione ed il rappresentato: ciò appunto giustificava la venerazione della icona. Talora però la venerazione degenerava e si colorava di tonalità idolatriche!

Ma torniamo ai fatti: per via militare Leone III annientò ogni opposizione; per via diplomatica invece cercò di guadagnarsi il consenso del patriarca di Costantinopoli, Germano e del papa Gregorio II.

Germano pagò l'opposizione con la deposizione. Per Gregorio II invece l'opposi­zione fu meno costosa, perché si ritrovò difeso dalle popolazioni italiche (Roma, Venezia e città della Pentapoli).

Nel 730 Leone III con un nuovo editto ordinò la distruzione delle immagini. La risposta di Roma fu espressa da un concilio romano, convocato dal nuovo papa Gregorio III nel 731: "Se in seguito alcuno, disprezzando coloro che si conser­vano fedeli all'antica consuetudine della Chiesa apostolica, in odio alla vene­razione delle sacre immagini, cioè del Dio e Signore nostro Gesù Cristo, della sua madre Maria, sempre vergine immacolata e gloriosa, le distruggerà, le profanerà o le bestemmierà, sia escluso dal Corpo e dal Sangue del Signore nostro Gesù Cristo e dall'unità e compagine di tutta la Chiesa." (Liber Pontificalis, I, ed. L. Duchesne, Paris 1886, 416).

Leone III volle dapprima reagire con la violenza: fece veleggiare verso l'Italia una flotta, che però non giunse mai a destinazione, perché nel mare Adriatico fu distrutta da una tempesta. Si ripiegò su alcuni provvedimenti amministrativi:

  •         furono confiscati i beni, che la Santa Sede possedeva in Calabria ed in Sicilia;
  •         la Calabria, la Sicilia e tutte le province dell'antico Illirico (Epiro, Illi­ria, Macedonia, Grecia, Creta) furono staccate dalla giurisdizione patriarcale romana e collocate sotto la giurisdizione patriarcale costantinopolitana.

Si noti che con questo gesto l'imperatore sottrasse al papato quelle terre, che lo mettevano in contatto con le aree orientali e quindi spinse il papato sempre più verso l'Occidente. Si noti ancora che con tale provvedimento l'imperatore volle sottomettere le terre, su cui poteva ancora vantare un potere effettivo, alla giurisdizione del patriarca di Costantinopoli, creando coerenza tra impero bizantino e chiesa bizantina e assegnando al patriarca costantinopolitano il ruolo di unico patriarca dell'oikumene. Si noti infine che con tale decisione l'imperatore praticamente dichiarò di volersi disinteressare delle al­tre  regioni occidentali.

Anche il successore di Leone III, il figlio Costantino V, fu un tenace assertore della iconoclastia, tuttavia limitò la sua azione alla sola parte orientale. Nel 754 convocò ad Hieria, presso Calcedonia, un concilio, che confermò solennemente la proibizione delle immagini.

Il papato, in conflitto dottrinale per la questione delle immagini, irritato per le limitazioni di giurisdizione, convinto di non trovare nell'imperatore bizan­tino una vera potestas capace di tutelare gli interessi italiani contro i Lon­gobardi, si convinse sempre più di dovere chiedere aiuto altrove!

 

2 – La questione longobarda

La presenza longobarda si impiantò su gran parte della penisola italiana in so­li quattro anni: tuttavia all'inizio non presentava affatto la stabilità di una organizzazione politica compatta e ben definita (574 - 584 : il decennio di anarchia), divisa com'era in numerosi ducati spesso in tensione fra loro, segnata com'era dalla presenza di diversi gruppi etnici e di diverse fedi religiose.

Di fronte a questa situazione iniziale di debolezza la popolazione italica poté ritenere plausibile la scelta di un'autonoma opposizione all'invasore: plausibile per la debolezza interna dei Longobardi, autonoma per l'assoluta inet­titudine del potere bizantino, questi sono i termini della questione.

Per comprendere l'inettitudine del potere bizantino in Italia occorre considerare:

- l'assetto territoriale disorganico del dominio bizantino, che si suddivideva in due grosse aree amministrative: la Pentapoli marittima (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona) e la Pentapoli annonaria (Urbino, Fossombrone, Iesi, Cagli, Gubbio);

- la crescente debolezza dell'esarca (capo civile e militare), sempre meno appoggiato politicamente e militarmente dall'imperatore;

- l'impopolarità del governo bizantino, dovuta all'eccessiva pressione fiscale, alla corruzione dei funzionari, alla quasi nulla capacità di contrastare militarmente i Longobardi ed anche al diverso atteggiamento religioso (cristologia, i tre capitoli, iconoclastia, primato romano).

Ecco pertanto che nei vari territori bizantini gli Italici maturarono la tendenza ad organizzarsi intorno ai grandi proprietari terrieri per dare vita ad una resi­stenza anti-longobarda. Nel ducato romano questa tendenza trovò il suo centro naturale nel papato, che vi disponeva di un patrimonio sempre più esteso e per di più godeva dì una notevole stima soprattutto grazie alla sublime dimostrazione di capacità e dedizione offerta da s. Gregorio Magno. Dal canto suo il papato accettava un tale ruolo non solo per gli interessi temporali che erano in gioco, ma anche perché era sempre più persuaso che l'autonomia politica era una condizione necessaria all'esercizio della missione primaziale in un mondo, che non era più compreso in un unico grande, universale sistema politico (l'impero romano), ma era oramai diviso in vari regni.

Tuttavia tale autonomia con l'andar del tempo fu sempre più minacciata dalla potenza longobarda: la primitiva disarticolazione non degenerò affatto in una dissoluzione grazie all'opera di sovrani capaci (Autari, Agilulfo, Teodolinda, Rotari), che lavorarono per raccogliere le potenzialità disperse ed organizzarle secondo un apparato sempre più stabile ed unitario. Quest’opera raggiunse il suo apice sotto Liutprando (712 - 744).

Non attardiamoci ora nell'esposizione dei fatti salienti, che caratterizzarono questo periodo: ci limiteremo a tratteggiare le grandi linee di sviluppo.

+ Leone III Isaurico per un certo tempo fece vari tentativi per ridurre all'ob­bedienza Gregorio II e Gregorio III, ostili alla politica imperiale iconocla­stica ed eccessivamente fiscale; alla fine Leone III decise di disinteressar­si dell'Italia;

+   contemporaneamente Liutprando diede avvio ad una politica di espansione con l'intenzione di imporre il dominio longobardo su tutta l'Italia: accanto ad una penisola iberica prima visigotica e poi araba, accanto ad una Gallia completamente franca ci sarebbe stata una penisola italiana totalmente longobarda!

+   In questo contesto il papato si trovò più di tutti impegnato a difendere i territori italici, guidando autonomamente la politica italiana secondo queste linee:

1.    impedire tutti i tentativi di scissione dall'impero, perché ciò avrebbe finito col recare vantaggio ai Longobardi (la possibilità, sia pure ipotetica di un intervento dell'impero bizantino incuteva certo nei Longobardi più timore della isolata resistenza di un piccolo stato italiano indipendente);

2.  fare leva sui sentimenti religiosi del cattolico Liutprando;  

3.  contrastare il potere centrale di Liutprando, favorendo le tendenze au­tonomistiche dei ducati longobardi di Spoleto e di Benevento;

4.  sollecitare l'intervento del maggiordomo franco, Carlo Martello, quando Liutprando ebbe ragione del duca di Spoleto e si spinse fino a minaccia­re Roma, ma  Carlo Martello rispose negativamente, perché i Longobardi collaboravano con i Franchi nel contrastare le incursione arabe sulla Costa Azzurra.

5.  infine, data l'inutilità dell'appello a Carlo Martello, stringere con il re longobardo una pace ventennale (papa Zaccaria, accordo di Terni del 742).

Negli anni 750 - 751 il nuovo re longobardo, Astolfo, riprese il progetto di dominio su tutta l'Italia e si dedicò alla conquista del territorio dell'esarcato. Il papato si trovò così nella necessità di rimettere in discussione l'intesa con i Longobardi e di ricercare una nuova strada, che garantisse la salvaguardia del l'autonomia. La nuova strada non poteva consistere nel ritorno alla opposizione autonoma degli italici, data la schiacciante superiorità dei Longobardi; si cer­cò allora il tutore dell'autonomia italica in Francia: su Bisanzio non si poteva più contare.

 

3 - La relazione papato-Pipino

a)    i primi contatti

La premessa fondamentale é rappresentata dall'acquisizione del popolo franco alla fede cattolico romana, compiutasi attraverso la conversione di Clodoveo e la romanizzazíone della Chiesa franca, favorita da Bonifacio. Per questa via tra Franchi e papato venne a crearsi una importante relazione ideale, che poi orientò anche la soluzione dei problemi politici.

Ciò si manifestò per la prima volta verso il 750 - 751, quando Pipino per legittimare religiosamente e moralmente il suo colpo di stato dalla fede sua e del suo popolo fu orientato verso Roma: papa Zaccaria per la difesa dell'autonomia minacciata da Astolfo vide l'opportunità di una risposta favorevole a Pipino, che già nel suo rivolgersi al papa mostrava di essere un sovrano cri­stiano atto a tutelare e rispettare gli interessi della Sede Apostolica.

La relazione politico-religiosa, che intercorreva tra papato e Pipino ebbe una seconda manifestazione nel 753. Il nuovo papa, Stefano Il, si trovò messo alle strette dalle truppe di Astolfo ed ebbe chiari segni della impotenza dell'imperatore bizantino, che si limitò a levare proteste diplomatiche contro le usurpazioni territoriali dei Longobardi. Si decise allora a fare ricorso a Pipino, per sollecitare l'invio di una delegazione franca a Roma, con la quale avrebbe trattato le modalità per giungere ad un incontro con il re franco (cfr Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, Paris 1886, 444. Qui si parla di una lettera inviata segretamente a Pipino attraverso un pellegrino franco).

Pipino dal canto suo si trovava nella necessità di consolidare il proprio potere in Gallia, dove era contrastato dalla opposizione di alcuni grandi, capeggiati dal fratello Carlomanno, che su invito di Astolfo era uscito dal monastero e tornato in Francia per determinare una politica filo-longobarda. In tale situazione un nuovo e più stretto legame col papato dovette apparire a Pipino estremamente proficuo, sia per ottenere la benedizione di Dio (Pipino era un credente), sia per ottenere una maggiore solidarietà del popolo. Perciò nell'estate (753) mandò a Roma una delegazione (Crodegango, vescovo di Metz e il duca Autcaro) per rassicurare il papa e scortarlo in Francia.

A questo punto ci si potrebbe domandare quale progetto politico circa l'Italia fosse vagheggiato dal papa e da Pipino. La risposta scaturirà da alcuni elementi emergenti dall'incontro in Francia e dalla campagna di Pipino in Italia.

 

b)    l'incontro in Francia

Si noti prima di tutto che Stefano Il, lasciata Roma il 14 ottobre 753, non marciò direttamente verso la Francia, ma fece tappa a Pavia, alla corte del re Astolfo per espletare una missione che gli era stata assegnata dall'imperatore bizantino e che consisteva nell'ingiungere al re longobardo di abbandonare territori imperiali usurpati. Da questo fatto e dagli appelli precedenti alla corte imperiale di Costantinopoli traspare che il papa, pur rivolgendosi ai Franchi, non intendeva minimamente alterare la situazione giuridica dei territori italici; erano e dovevano rimanere territorio imperiale!

Dopo l'inutile sosta di Pavia il viaggio proseguì verso la Francia. Il primo incontro con Pipino avvenne al palazzo reale di Ponthion (presso Châlons il 6 gennaio 754, festa dell'Epifania. Interessante notare il cerimoniale con cui Pipino accolse il papa: lo attese a tre miglia dal palazzo. Appena il papa arrivò, Pipino scese da cavallo, secondo il protocollo imperiale compi la proskunesis di fronte al papa e poi prestò al papa l'officium stratoris, cioè a piedi scortò il papa fino al palazzo, guidandone il cavallo per le briglie: questo gesto diventerà tipico e sarà poi compiuto da tutti gli imperatori medievali!

Il cerimoniale dice la venerazione di Pipino per il successore di S. Pietro e in qualche modo anticipa l'idea secondo cui la protezione prestata alla Sede Apostolica non sarà di tipo sovrano.

Seguì poi la fase dei negoziati. Essa ebbe un primo momento a Ponthion il 7 gen­naio, quando il papa ottenne da Pipino la promessa giurata di “impegnarsi con tutte le forze per restituire al papa l'esarcato di Ravenna, come pure tutti i diritti e i territori della Res Publica Romanorum" (Liber Pontificalis, I, ed. L. Duchesne, Paris 1886, 448). 

Se da una parte l'espressione riportata dal Liber Pontificalis ci testimonia che in Pipino non c'era alcuna intenzione di estendere la sua sovranità sulle even­tuali conquiste italiane, dall’altra l'espressione non sfugge ad una certa ambiguità: restituzione al papa a che titolo? I territori della Res Publica Romanorum non sono impero romano?

In base alla promessa fatta, Pipino cominciò a lavorare in una duplice direzio­ne: trattative diplomatiche con Astolfo per indurlo ad una pacifica restituzione; trattative con i grandi franchi per dissipare ogni opposizione e conquistarli alla causa del papato. Su ambedue i fronti Pipino dovette registrare un nulla di fatto: Astolfo rifiutò ogni intesa; al campo marzio di Berny-Rivière i grandi franchi si mostrarono scettici: l'intervento in Italia avrebbe comportato per i Franchi solo una spesa, il guadagno invece sarebbe stato totalmente del papa!

Riprendendo le trattative con papa Stefano Il, che si era nel frattempo stabilito presso il monastero di Saint-Denis, Pipino probabilmente pregò il papa di intervenire personalmente alla dieta che si sarebbe dovuta tenere in aprile a Quierzy, per giocare di fronte ai grandi tutto il peso della sua autorità. Ed infatti a Quierzy l'intervento del papa dissipò ogni resistenza e si addivenne ad un patto. Il Liber pontificalis alla "Vita Adriani” accenna ad un documento, contenente la promessa dì Quierzy, che sarebbe stato ripreso e rinnovato da Carlo Magno in occasione della sua visita a Roma nel 774. Da questo accenno si può arguire che le promessa di Quierzy assunse una forma documentaria, tale documento però a noi non é pervenuto!

Sempre in quel passo della "Vita Adriani" troviamo i contenuti della promessa "carisiaca": vi si parla di “donazione fatta a S. Pietro e al suo Vicario" e si tracciano i confini di tale donazione: da Luni, località ligure, comprendendo la Corsica, attraverso il monte Soriano, il monte Bardone (attuale Cisa), Parma, Reggio, Mantova, Monselice, l'esarcato di Ravenna, fino alle province venete e all'Istria, includendovi anche i ducati di Spoleto e Benevento (cfr Liber Pontificalis, I, ed.  L. Duchesne, Paris 1886, 496-497).

Non deve suscitare meraviglia il fatto che non si parli del ducato romano: da tempo dipendente dall'autorità papale, fu senz'altro considerato un possesso pacifico del papato. Si deve invece notare che il confine ivi tracciato comprende un'area vastissima, che non sarà mai donata al papa né da Pipino né da Carlo Magno. Nasce allora un grosso problema critico: il testo é autentico o é un falso? E se é autentico, come lo si deve spiegare?

Secondo alcuni (L. SALTET, La lecture d'un texte et la critique contemporaine : Bulletin de  littérature ecclésiastique 41(1940) 176-206; E. GRIFFE, Aux oridines de l'Etat pontifical : Bulletin de littérature ec­clésiastique 55(1954) 65 – 89) si tratterebbe di una mera invenzione romana introdotta nel racconto mediante interpolazione successiva.

Secondo altri ci sarebbe stato davvero un documento con simile contenuto (il principale assertore di questa posizione è L. DUCHESNE, Les premiers temps de l'Etat pontifical.754-1073, Paris 31911 (tr. it. I primi tempi dello stato pontificio, Torino 21967, 66); idem, Liber Pontificalis, I, ed. cit., CCXXXVI - CCL). La posizione di Duchesne, massimo conoscitore del Liber Pontificalis, ha raccolto unanimi consensi tra gli storici successivi).

Solitamente viene accolta questa seconda tesi: ma quale sarebbe allora il con­tenuto reale reale del documento?

Due sono le spiegazioni, che generalmente vengono proposte.

·         La promessa di Quierzy conterrebbe una vera donazione, che però mai si realizzò nei termini indicati, in quanto si trattò di una donazione condizionata: cioè il papa sarebbe entrato in possesso dei suddetti territori solo se un'eventuale guerra avesse portato allo scioglimento del regno Longobardo. Pipino però non eliminò Astolfo e Carlo Magno dal canto suo non soppresse il regno longobardo, ma ne divenne lui stesso re. A noi la spiegazione pare improbabile, poiché nulla ci fa pensare - ed i fatti successivi lo confermeranno - che a Quierzy Pipino ipotizzasse la distruzione del regno longobardo e la sua spartizione col papa (cfr P. KEHR, Die sogennante Karolingische Schenkung von 774 : Historische Zeit­schrift  70 (1893). 385-441).

·         Seconda spiegazione: a Quierzy non si promise nessuna donazione, ma semplicemente Pipino si sarebbe impegnato a riportare in Italia un assetto territoriale, che garantisse il papato contro il pericolo longobardo. Più precisamente:

+ circa la vecchia provincia bizantina (Istria, Venezia, Ravenna) Pipino si sarebbe impegnato a riportarla allo statu quo ante: cioè Astolfo avrebbe dovuto abbandonarla;

+ circa i ducati di Spoleto e Benevento: Pipino si sarebbe impegnato a difende­re la loro autonomia nei confronti del potere centrale longobardo (E. CASPAR, Pippin und die römische Kirche, Berlin 1914, 99 - 153 (rist. Darmstadt 1973).

Ma sia contro la prima spiegazione, sia contro la seconda abbiamo il comportamento di Stefano Il, che già dal 755 cominciò a rivendicare i territori in questione: la questione rimane dunque aperta. Ad ogni modo anche dalla promessa di Quierzy traspare che Pipino non intendeva tenere per sé i territori imperiali strappati ai Longobardi.

Alla fase dei negoziati fece seguito la solenne consacrazione regale di Pipino e dei suoi due figli, Carlo e Carlomanno, compiuta dal papa in Saint-Denis.

In questa occasione Stefano II attribuì ai tre anche il titolo di "patricius Romanorum". Il patriziato era una istituzione bizantina, di carattere onorifico elevato, cui non era necessariamente connesso un ufficio. Tale dignità veniva solitamente conferita dall'imperatore ed i destinatari erano certi funzionari dell'impero, ad es. l'esarca di Ravenna, ed anche alcuni capi barbari, che con questo titolo venivano in qualche modo legati alla politica imperiale.

Ora ci domandiamo: Stefano Il, conferendo il patriziato, ha forse usurpato una prerogativa imperiale? E quale era il suo intento nel fare ciò?

Qui bisogna distinguere la posizione espressa dagli studiosi di storia occiden­tale da quella espressa dagli studiosi di storia orientale.

Gli studiosi di storia occidentale in gran parte ritengono che Stefano II avrebbe agito di sua sola iniziativa, usurpando coscientemente e volutamente un diritto imperiale. Ciò facendo, Stefano II avrebbe manifestato la sua volontà di as­sicurare alle terre ricuperate da Pipino una notevole autonomia nei confronti del potere imperiale ed una più forte dipendenza dalla amministrazione papale. Nelle intenzioni del papa infatti il patrizio Pipino avrebbe dovuto sostituire l'esarca di Ravenna: sia chiaro, lo avrebbe dovuto sostituire nelle funzioni militari soltanto, non già nelle funzioni di governo civile, che sarebbero passa­te al papa. In questa prospettiva Pipino, quale patricius Romanorum, si sareb­be trovato a dovere svolgere il ruolo di tutore militare del papato, il ruolo di miles papae, di defensor Romanae Ecclesiae. In questa attribuzione del tito­lo di patrizio, connessa con una consacrazione regale, avremmo il primo ac­cenno di un'idea, che avrà notevole rilievo nell' impero medievale: con la consacrazione il potere imperiale viene chiamato a svolgere il ruolo di defensor ecclesiae (cfr F.L. GANSHOF, Note sur les origines byzantines du titre "patricius Romanorum!' : Annuaire de l'Institut de Philologie et d'Histoire Orientales et Slaves 10(1950) 261 - 282; TH. SCHIFFER, Winfrid-Bonifatius und die christliche Grundlegung Europas, Freiburg 1954, 261-263; R. FOLZ, Le couronnement impérial de Charlemagne, Paris 1964, 42; P. CLASSEN, Karl der Grosse, das Papst­tum und Byzanz. Die BegrUnduns des karolingischen Kaisertums : Karl der Grosse, I, hrsg. v. H. Beumann, Düsseldorf 1968, 552; J. DEER, Zum Patricius-­Romanorum-Titel Karls des Grossen : Archivium Historiae Pontificiae 3(1965) 31 - 86; lo stesso studio é reperibile anche in Zum Kaisertum Karls des Gros­sen. Beitrage und Aufsätze, hrsg.G. Wolf, Darmstadt 1972,240-308).

Gli studiosi di storia orientale invece ritengono impossibile che Stefano II ab­bia osato usurpare un diritto imperiale, poiché la mentalità romana di allora era ancora molto legata all'impero. Secondo questi storici dunque l'imperatore bizantino non avrebbe soltanto incaricato Stefano II di recarsi a Pavia per trattare con Astolfo, ma avrebbe anche autorizzato il papa a conferire la dignità patrizia a Pipino, qualora Astolfo non avesse receduto dalle sue posizioni: in tale modo l'imperatore sperava che Pipino si sarebbe dedicato a liberare i territori italiani in nome dell'imperatore. Papa Stefano II abilmente volle connettere il conferimento del patriziato con il rito della consacrazione, perché in tale modo sarebbe apparso non tanto come un appello alla solidarietà imperiale, ma piuttosto come un impegno alla tutela degli interessi della Chiesa romana (F. DÖLGER, Besprechung der Arbeit von L.F. Gahshof : Byzantinische Zeitschrift 45 (1952) 187-190; F. DÖLGER, Besprechung der Arbeit von H. Dannenbauer : Byzantinische Zeitschrift 52(1959) 110-112; F. DÖLGER, Europas Gestaltung im Spiegel der fränkisch-byzantinischen Auseinandersetzung des 9. Jahrhunderts : Byzanz und die europäische Staatenwelt, Ettel 1953, 293-294; H. DANNENBAUER, Das römische Reich und der  Westen vom Tode Justinians bis zum Tode Karls des Grossen : Grundlagen der mittelalterlichen Welt, Stuttgart 1958, 44-93).

Comunque sia, sta il fatto che Pipino non usò mai il titolo di patrizio, né - come vedremo - mai volle agire come un delegato imperiale: tutto ascrisse al­la  sua devozione verso s. Pietro! 

Ci resta infine da considerare la natura del foedus caritatis, che venne a stabilirsi tra Pipino ed il papato. Le fonti, di cui disponiamo, non ci consentono di interpretarlo come una "commendatio" del papa a Pipino, quasi che Stefano II si fosse inginocchiato davanti a Pipino commendandosi alla sua tutela secondo il rituale di vassallaggio in uso nel regno franco. Pipino attraverso questo omaggio sarebbe stato chiamato a fare da tutore della Chiesa romana, che verrebbe a riconoscergli diritti particolari, ad es. il diritto di essere consacrato dal papa! Le fonti di cui disponiamo, non ci consentono neppure di interpretare il foedus come una commendatio reciproca, per così dire a doppio senso, quasi che accanto al vassallaggio del papa nei confronti di Pipino si fosse stabilito anche il vassallaggio di Pipino nei confronti di S. Pietro e dei suoi successori. Riteniamo in verità che non si debba cercare di ricondurre il foedus a forme giuridiche particolari e ben definite: il foedus dovette consistere in alcu­ne finalità, in alcuni intenti politici molto concreti, che ambedue i contraen­ti si proposero e si impegnarono a perseguire.

 

c)    Il duplice intervento di Pipino in Italia

Nell'agosto del 754, passando per il Moncenisio, Pipino penetrò in Italia e rapidamente mise alle strette Astolfo, assediandolo in Pavia. Allo sconfitto Pipino impose delle condizioni di pace abbastanza moderate:

+     riconoscere una certa sovranità franca sul regno longobardo;

+     ritirare le truppe longobarde dalle province di Venezia ed Istria;

+     restituire Ravenna "cum diversis civitatibus".

Se vogliamo capire come mai di lì a qualche mese divenne necessario interve­nire di nuovo, dobbiamo senz'altro soffermarci almeno per un attimo su que­sta pace.

La trattative furono condotte da un Pipino, che, pur conoscendo poco la questione italiana, non fece ricorso a consiglieri di parte pontificia. Ne risultò pertanto un trattato notevolmente ambiguo: vi si parla di restituzioni, ma non si precisa a chi vadano fatte: al papa? All'imperatore? Neppure vengono determinate le modalità, di restituzione. Questa ambiguità fu abilmente sfruttata da Astolfo: evacuando i territori di Venezia e dell'Istria, attuò la condizione di resa più chiara e precisa; volle anche compiere la restituzione di Ravenna, ma, sfruttando il silenzio del trattato, non la consegnò al papa: astutamente affidò la città all'arcivescovo di Ravenna, intuendo che in tale modo si rendevano possibili due evenienze: prima di tutto un contrasto tra papa e arcivescovo di Ravenna e quindi una tensione all'interno del fronte italico, in secondo luogo una soddisfazione bizantina per il fatto che non veniva favorito quel papato, che aveva voltato le spalle al sovrano tradi­zionale per legarsi ai Franchi, questa soddisfazione bizantina poteva essere un'efficace premessa per un’alleanza Longobardo-Bizantina da contrapporre al fronte Papato-Franchi. Continuò invece a tenersi le altre città!

Astolfo tuttavia non si limitò alla inadempienza delle condizioni di pace, bensì nel dicembre del 755 si spinse addirittura sotto le mura di Roma. Lo dovettero indurre a tanto ardimento quelle stesse ragioni, che avevano spinto Pipino a stipulare una pace frettolosa e a ritornare rapidamente in Gallia. Qui larghi strati dei grandi contro la improduttiva campagna italiana avevano costituito un partito di vivace dissenso, che realisticamente a quelle condizioni preferiva un buon vicinato con i Lon­gobardi!

Papa Stefano II, di fronte alla nuovamente disinvolta e minacciosa politica di Astolfo, non poté fare altro che richiamare Pipino agli impegni assunti a Quierzy. Nei primi mesi del 756 il re franco scese una seconda volta in Italia, im­pose a Pavia un nuovo assedio e ad Astolfo una nuova resa. Nella seconda pace Pipino cercò sia di rimediare i limiti e le ambiguità del trattato precedente sia di conferire all'impresa franca un carattere più produttivo per il mondo franco stesso:

+ colpi più duramente la potenza longobarda, esigendo che il riconoscimento della sovranità franca si esprimesse con il versamento di un tributo annuo e richiedendo quale indennità di guerra la terza parte del tesoro della corona;

+ precisò le modalità di restituzione delle città dell'esarcato: doveva essere fatta a S. Pietro attraverso un delegato franco (Fulrado, abate di Saint-Denis questi poi avrebbe depositato sulla confessio sancti Petri le chiavi delle città restituite); la restituzione includeva solo le città conquistate da Astolfo e non quelle di Liutprando!

Per capire in base a quale diritto Pipino fece compiere queste restituzioni a S. Pietro bisogna ricordare un episodio verificatosi durante questa seconda spedizione in Italia: all'accampamento di Pipino un giorno si presentò una delegazione bizantina per rammentare l'appartenenza all'impero dei territori in questione; dal canto suo il re franco rispose di agire "pro amore beati Petri et venia delictorum”. Da ciò si arguisce che Pipino non volle tenere in considerazione alcuna il diritto imperiale, ma volle invece affermare il suo diritto di guerra, considerando tali territori suoi per conquista e a questo titolo facendone dono a S. Pietro.

Solo con questa seconda pace il papato acquistò un diritto chiaro e pertanto il 756 può dirsi il vero inizio materiale dello stato pontificio, che giunse a com­prendere 21 città, distribuite nei territori dell'Esarcato di Ravenna, della Pentapoli e del Ducato Romano. Venne così a formarsi un’amministrazione pontificia vera e propria, culminante nella persona del papa, cui popolo e ufficiali prestavano giuramento di fedeltà. Tuttavia si faccia bene attenzione: siamo solo agli inizi e non si può ancora parlare di "Stato Pontificio" sovrano ed indipendente, perché si tratta di territori, che continuano ad appartenere all'impe­ro e sul piano ideale giuridico si mantiene il legame con l'impero (le monete portavano ancora l'effigie dell'imperatore, i documenti erano ancora datati secondo gli anni di governo dell'imperatore).

Però si deve anche rilevare che sul piano pratico abbiamo una tale autonomia di azione, che si può parlare di un' effettiva (anche se non giuridica) indipendenza. Ad ogni modo la situazione era tale che sotto il profilo propriamente giu­ridico non si poteva ancora parlare di Stato Pontificio: meglio parlare di Patrimonium sancti Petri.

 

d)La situazione dopo gli interventi di Pipino fino all'avvento di Carlo.

Ci limiteremo ad alcuni accenni relativi alla politica interna e alla politica estera sia del regno longobardo, sia del regno franco, sia del papato.

Regno longobardo: il fatto saliente della politica interna é rappresentato dalla successione ad Astolfo, morto in un incidente di caccia nel dicembre 756. Conquistò il trono longobardo il duca della Tuscia longobarda, Desiderio. Quanto alla politica estera va rilevato che Desiderio ottenne il trono, appoggiandosi a Fulrado, rappresentante di Pipino in Italia e al papa con la promessa che, una volta re, non solo avrebbe mantenuto gli impe­gni assunti da Astolfo, ma sarebbe addirittura andato oltre, restituendo anche le città conquistate da Liutprando. Raggiunto il potere, Desiderio mise da parte le promesse e fece ritorno alla vecchia politica di espansione e di controllo su tutta l'Italia: legò più fortemente al potere centrale di Pavia i ducati di Spoleto e di Benevento, cercò di stabilire un'intesa con il potere bizantino per controbilanciare il blocco papato-Pipino.

Regno franco: la sua politica interna fu caratterizzata da continui tentativi per mantenere sotto controllo le tendenze autonomistiche della Baviera e dell'Aquitania; ciò influì notevolmente sulla politica estera: ai ripetuti appelli dei papi Pipino rispose non con nuovi interventi armati in Italia, ma con trattative diplomatiche, che verso il 763 determinarono una specie di tregua tra papato e Desiderio.

Il papato: il 26 aprile 756 morì Stefano Il, cui fu dato come successore il fratello Paolo I. La politica interna del nuovo papa mirò a consolidare l'apparato amministrativo, ricorrendo soprattutto all'opera dei proceres ecclesiae, cioè l'alta borghesia ecclesiastica capeggiata dal primicerio Cristoforo. Il prevalere dei proceres provocò risentimenti in un altro gruppo dell'apparato pontificio: gli iudices militiae, cioè la nobiltà militare romana, capeggiata dal dux Teodoro di Nepi, detto Toto. Il risentimento esplose alla morte di Paolo I (767): Teodoro di Nepi con gli iudices militiae si impossessò di Roma e, senza neppure una parvenza di elezione, impose come papa suo fratello Costantino. Il primicerio Cristoforo e suo figlio Ser­gio per uscire illesi dal colpo di mano dovettero fingersi intenzionati a seguire una improvvisa vocazione monastica in un monastero del ducato di Spoleto. Lontano da Roma, Cristoforo si trovò in grado di organizzare la riconquista del potere, assicurandosi la collaborazione del duca di Spoleto e dello stesso re Desiderio, cui non parve vero di potere porre finalmente le mani sul papato. Nel luglio del 768 Cristoforo con i Longobardi poté penetrare in Roma, eliminare il dux Teodoro e sbalzare Costantino dalla Sede Apostolica.

Le truppe longobarde si affrettarono ad imporre un loro papa nella persona di prete Filippo, ma questi non durò che un giorno: Cristoforo, oramai padrone della situazione, promosse una regolare elezione canonica, da cui uscì papa Stefano III.

Ci siamo attardati su questo fatto, in quanto lo riteniamo em­blematico: dimostra che il consolidamento del potere amministrativo nelle mani del papa portò alla drammatica conseguenza che se una famiglia voleva conquistare il potere politico doveva prima assicurarsi il potere papale: questo fatto peserà gravemente sulla storia successiva del papato!

Stefano III, per consolidare la sua posizione, convocò a Roma un sinodo, che si tenne nell'aprile del 769 e vide la parteci­pazione dei vescovi del ducato romano, dell'Esarcato di Raven­na, del regno longobardo e del regno franco (13 vescovi fran­chi). Il sinodo non si limitò a condannare Costantino, ma anche procedette a regolare le modalità di elezione del papa, attribuendo diritto passivo di elezione solo ai cardinali non vescovi e diritto attivo solo al clero romano: al laicato venne riservata l'acclamazione dell'eletto: si noti che questa acclamazione era giuridicamente necessaria!

Nella datazione del documento sinodale fu tralasciata la data secondo gli anni di governo dell'imperatore: un sinodo, che vedeva la partecipazione di vescovi, che in gran parte non erano sottoposti alla giurisdizione imperiale, non poteva ricono­scere una sua sottomissione alla sovranità imperiale. E' anche questo un segno dell'esigenza sempre più sentita di una Chiesa romana, che nella situazione di pluralità politica si presen­tasse sempre più autonoma.

Quanto alla politica estera del papato si deve dire che in questo periodo si segui la tradizionale politica anti-longobarda e filo-franca. Lo mostra il comportamento di Paolo I: preferì levare ripetuti appelli ai Franchi contro ipotetiche minacce da parte di una fantomatica alleanza longobardo-bizantina, piuttosto che per­correre la via della normalizzazione dei rapporti con l'imperatore. Fin da subito, fin dal momento della sua elezione, volle inviare la comunicazione non più al rappresentante del potere imperiale in Italia, ma al re dei Franchi Pipino, patricius Romanorum, defensor Romanae ecclesiae. Il legame coi Franchi però non significava affatto subordinazione, ma solo garanzia per il mantenimen­to dell'autonomia del Patrimonium.

 

4 La relazione papato - re Carlo

 

a) Gli inizi del regno di Carlo

Alla morte di Pipino (24 settembre 768) il regno franco fu diviso tra i due figli: il ventiseienne Carlo ed il diciassettenne Carlomanno. Sotto questo profilo Pipino continuò quella concezione privatistica del regno, che era già stata dei Merovingi.

La diarchia si protrasse fino al 4 dicembre 771, quando Carlomanno morì: in tale fase si riscontrano due caratteristiche:

+ tensione tra i due fratelli, provocata dal tipo di spartizione operata da Pipino, che assegnò a Carlo le province atlantiche dalla Guascogna alla Frisia ed a Carlomanno le terre interne e mediterranee: tale spartizione favoriva Carlo sia sotto il profilo economico (terre più ricche) sia sotto il profilo strategico (Carlomanno si trovava accerchiato dai territori di Carlo e dei Longobardi);

+ Carlo per avere sopravvento sul fratello si legò al re Longobardo, Deside­rio, sposandone una figlia (770) (Benché la tradizione letteraria - Manzoni - attribuisca a questa figlia di Desiderio il nome di Ermengarda, noi rispettiamo l'anonimato, che si riscontra nelle fonti storiche!).

Questa situazione franca ebbe un riflesso a Roma. Prima di tutto la notizia di un matrimonio tra un re franco (non si sapeva quale dei due fosse) e una figlia di Desiderio provocò in Roma un clima di allarmismo e sdegno, come tra­spare da una lettera di Stefano III, in cui si afferma che i Longobardi non sarebbero un popolo, ma soltanto una progenie di lebbrosi: un nobile franco dovrebbe guardarsi bene dal mescolare il suo sangue con quello di tale razza. La lettera poi passa agli avvertimenti: badino bene i Franchi che se rompono il foedus con S. Pietro, compromettono la loro salvezza; i due re si ricor­dino che ambedue sono già validamente sposati; sappiano tutti che il papa é pronto a lanciare il suo anatema sul popolo franco (Codex carolinus n.45 : M G H Epistolae III, 560; il Codex carolinus raccoglie la corrispondenza intercorsa tra il papato e i carolingi).

Tanto sdegno si placò alla fine dell'estate 770, quando si presentò al papa Bertrada, la madre dei due re franchi e strappò al papa un atteggiamento di accondiscendenza.

In secondo luogo la situazione franca determinò in Roma la formazione di due correnti politiche: la prima, capeggiata da Cristoforo, continuava nella de­cisa opposizione ai Longobardi e teneva rapporti soprattutto con Carlomanno; la seconda, capeggiata da Paolo Afiarta, propugnava invece un'alleanza con i Longobardi, che per vendicarsi del tradimento perpetrato da Cristoforo nel 768, avevano intrapreso una politica dura nei confronti di Roma.

Nella quaresima del 771, quando re Desiderio si presentò a Roma con il prete­sto di pregare sulla tomba di S. Pietro, si ebbe un attimo di sbandamento nel partito di Cristoforo: Paolo Afiarta subito ne approfittò per eliminare dal­la scena il rivale, per assicurarsi il potere e spingere ad un'intesa con i Lon­gobardi quello stesso papa, che ancora l'anno precedente aveva apostrofato tale popolo come stirpe lebbrosa.

Con la morte di Carlomanno Carlo si trovò solo al potere in tutto il regno franco: la cosa ebbe una rilevante conseguenza a livello di politica estera: la rottura con Desiderio. Questi, grazie ad una saggia politica matrimonia­le, era divenuto suocero non solo di Carlo, ma anche dei duchi di Baviera e di Benevento. Poi grazie alla politica di Paolo Afiarta era giunto anche a controllare il papato: per questa via Desiderio dunque si era assicurato una po­sizione di primo piano in Occidente, cui certo il regno franco, finché rima­neva diviso, non poteva recare pregiudizio. Si capisce pertanto come Desiderio non abbia gradito affatto la riunificazione del regno franco sotto Carlo ed abbia cercato in ogni modo di comprometterla, sostenendo il diritto ereditario dei figli di Carlomanno, ancora minorenni ed ospiti alla sua corte. Dal canto suo Carlo rispose, rimandandogli la figlia. Anche a Roma, con la morte di Stefano III, entrò in crisi l'alleanza con i Longobardi.

Nel 772 infatti divenne papa Adriano I che era nipote del dux e primicerio Teodoto; apparteneva quindi alla aristocrazia romana e alla cerchia dei collaboratori sia di Paolo I sia di Stefano III. Adriano I impose alla politica pontificia una nuova impronta. Non si capisce se Paolo Afiarta si sia sbagliato nel valutare Adriano, oppure non sia riuscito a contrastare l'elezione; comunque sia, sta il fatto che papa Adriano manifestò presto l'intenzione di essere lui ad amministrare il patrimonio di S. Pietro, senza dipendere da questo o quel partito romano e senza sacrificare l'autonomia a questa o quella allean­za (E' interessante rilevare che nel Codex carolinus manca la lettera, in cui Adriano avrebbe dovuto comunicare al re Franco-Patricius Romanorum la sua elezione: senz'altro Adriano non inviò mai tale scritto per affermare fin da principio la sua autonomia anche nei confronti dei Franchi).

A partire dalla volontà di autonomia interna si liberò velocemente di Paolo Afiarta: lo inviò a Pavia per trattare il rinnovo della pace con Desiderio e quindi approfittò dell'assenza del filo-longobardo per aprire un'inchiesta, che scovasse i responsabili dell'assassinio di Sergio, figlio del primicerio Cristoforo. Risultò che responsabile del delitto fosse proprio Paolo Afiarta, che fu senz'altro condannato all'esilio (Papa Adriano ordinò all'arcivescovo di Ravenna di arrestare Paolo Afiarta, quando sarebbe passato per quella città, ed inviarlo a Costantinopoli per sottoporlo al giudizio e alla sentenza imperiale: l'arcivescovo per ec­cesso di zelo procedette di sua iniziativa alla esecuzione).

A partire dalla volontà di autonomia estera, papa Adriano non si piegò alle due pesanti condi­zioni, che Desiderio esigeva per rinnovare la pace: incontro con il papa in Ro­ma e consacrazione regale dei figli di Carlomanno. Adriano fu irremovibile, av­vertendo lucidamente che una venuta di Desiderio a Roma poteva significare la perdita dell'autonomia e la consacrazione regale dei figli di Carlomanno gli avrebbe senz'altro procurato l'ostilità di re Carlo e dei Franchi.

Al no del papa Desiderio rispose con delle rappresaglie, miranti anche a vendi­care la defenestrazione di Paolo Afiarta: e così i Longobardi ancora una volta si presentarono alle porte di Roma!

 

b) Gli interventi di Carlo in Italia

Minacciato dai Longobardi, papa Adriano si ritrovò a dovere percorrere a sua volta la via degli appelli alla monarchia franca. Re Carlo dal canto suo non ebbe esitazione: insieme con la devozione a S. Pietro agiva in lui l'esigen­za di ridimensionare re Desiderio, che da una parte, sostenendo la causa dei figli di Carlomanno, metteva in discussione la legittimità di parte del suo potere in Francia, dall'altra, volendo soggiogare il papato ai Longobardi, metteva in discussione quel ruolo singolare che il popolo franco con Pipino aveva assunto in seno alla cristianità occidentale (patriziato-defensio Romanae ecclesiae).

Verso la fine dell'estate 773 Carlo scese in Italia, rapidamente strinse d'assedio Pavia, che cadde dopo nove mesi (giugno 774).

Di questo primo intervento di Carlo in Italia ricordiamo due cose:

+ la soluzione della questione longobarda: Carlo, diversamente dal padre tolse dalla scena il re: Desiderio andò a finire i suoi giorni in monastero; per diritto di conquista poi (quindi non per elezione, né per consacrazione-incoronazione) collocò se stesso sul trono longobardo: si noti che formalmente il regno longobardo non scomparve assorbito dal regno franco, ma continuò a sopravvivere: col regno franco aveva in comune la persona del re, dal regno franco invece si distingueva, in quanto mantenne per vari anni la struttura amministrativa dei Longobardi.

+ La visita a Roma: Pipino non si era mai spinto fino a Roma; Carlo invece nella primavera del 774, mentre era ancora in corso l'assedio di Pavia, volle recarsi a Roma per celebrarvi la Pasqua. In proposito ci poniamo tre questioni:

- fu un'iniziativa meramente devozionale? Si deve senz'altro dire che Carlo si spinse fino a Roma non solo per ragioni devozionali, ma anche secondo un preciso intento politico: Pipino non aveva mai fatto uso del titolo di patricius Romanorum, Carlo invece, proprio a partire da questo inter­vento in Italia, se ne servì normalmente nella intitulatio dei suoi documenti, annettendovi evidentemente un significato non solo onorifico, ma anche giuridico.

- Quale atteggiamento assunse papa Adriano? Il Liber Pontificalis (Liber Pontificalis I, ed. L. Duchesne, Paris 1886, 496) nella Vita Adriani ci informa di una reazione di sorpresa, poiché quell'in­tervento dei Franchi in Italia, che era stato desiderato come un gesto in favore dell'autonomia romana, minacciava ora di trasformarsi in un'affermazione della sovranità franca. Papa Adriano pertanto cercò di affermare i suoi principi nel cerimoniale, con cui fece accogliere Carlo:

·         si voleva riconoscere in Carlo il patricius Romanorum-defensor ecclesiae
e perciò gli si riservarono gli onori, con cui venivano accolti a Roma i patrizi-esarchi di Ravenna: il sabato santo, 2 aprile 774, Carlo fu accolto a 30 miglia da Roma dagli iudices militiae con bandiere; ad un miglio il corteo fu salutato dalle scuole della milizia e dai fanciul­li, che agitavano palme e rami di ulivo e cantavano litanie; sui gradini della basilica di s. Pietro infine il papa stesso si fece incontro a re Carlo.

·      Si voleva però insieme affermare che Carlo era sì defensor, ma non pa­drone e sovrano, perciò non gli si consentì di prendere dimora sul colle palatino, residenza imperiale, dove pure si stabiliva l'esarca di Ravenna, quando veniva a Roma. Carlo, quale sovrano straniero, dovette accamparsi fuori Roma nei prati adiacenti a s. Pietro. Prima di entra­re nella città per prendere parte alle celebrazioni pasquali Carlo do­vette giurare di rispettare la sicurezza della città. (Il sabato santo Carlo prese parte alla cerimonia dei battesimi in s. Giovanni in Laterano; il giorno di Pasqua partecipò prima alla Messa in s. Maria Maggiore e poi al banchetto papale nel palazzo lateranense; il lunedì di Pasqua presenziò alla messa in S. Pietro, dove gli furono cantate le laudes regiae; il martedì nuovo incontro in s. Paolo fuori le mura).

·           Quali le conseguenze politiche? Furono tratte il mercoledì di Pasqua in un incontro che si tenne in S. Pietro: su proposta di papa Adriano, Carlo rinnovò la promessa di Quierzy (Negli anni successivi Carlo si presentò a Roma altre due volte: per la Pasqua 781; nell'inverno 786 e primavera 787: non sappiamo se celebrò il Natale a Roma, senz'altro fu presente per la Pasqua. Tali visite signifi­carono per la sede apostolica l'acquisizione di qualche nuova località, ma non si arrivò mai a concederle un territorio esteso quanto la promessa di Quierzy aveva fatto sperare al papato).

c) La configurazione giuridica del Patrimonium Sancti Petri sotto papa Adriano.

Papa Adriano I, come abbiamo detto, nel cerimoniale con cui ricevette Carlo nel 774 mostrò di pensare il Patrimonium come un'entità territoriale ampiamente autonoma non solo nei confronti dei Bizantini, ma anche nei confronti dei Franchi. Tale orientamento trovò espressione concreta intorno agli anni 781 e 782, quando papa Adriano smise di datare i documenti secondo gli anni di governo degli imperatori di Bisanzio; ma, si noti, non vi sostituì gli anni di governo di Carlo, introdusse invece i suoi propri anni di pontificato. Allo stesso modo cominciò a fare coniare monete argentee, ma non vi impresse né il nome e l'effigie imperiale, né il nome e l'effigie di Carlo, ma il suo proprio nome e la sua propria effigie. In queste iniziative é legittimo scorgere sia la volontà di una totale libertà nei confronti dell'impero, sia la volontà di non lasciarsi soggiogare dalla sovranità franca: abbiamo dunque un passo importante versa l'idea di una signoria papale, indipendente da ogni sovranità terrena. E qui ci pare di rilevare una notevole consonanza tra la politica di Adriano e le tesi espresse dal Constitutum Constantini.

Nel Constitutum Constantini si possono distinguere tre parti:

1.    Costantino annuncia la sua propria conversione e propone la sua propria professione di fede: il falsificatore con una certa libertà si serve di mate­riale preesistente.

2.    Viene presentata la storia della conversione di Costantino. L'imperatore, colpito dalla lebbra, si presentò ai sacerdoti pagani per essere purificato. Costoro gli suggerirono di fare un bagno nel sangue di un bambino. Di fronte alle lacrime della madre del bambino prescelto, Costantino rinun­ciò all'attuazione del suggerimento dei sacerdoti pagani. Quella notte ebbe un sogno: due personaggi sconosciuti lo elogiarono per la decisione presa e lo invitarono a recarsi sul monte Soratte, dove avrebbe trovato nascosto in un monastero papa Silvestro. Ed infatti sul Soratte Costantino incontrò il papa, che gli svelò l'identità dei due personaggi misteriosi sognati: si trattava di s. Pietro e di s. Paolo. Presto l'imperatore si decise ad abbracciare la fede cristiana e mentre riceveva il battesimo, si trovò mondato dalla lebbra. Anche per questo racconto il falsificatore poté disporre di una fonte precedente, i "Gesta papae Silvestri", leggenda composta a Roma nel secolo V.  

3.    Contiene le concessioni e donazioni fatte da Costantino a papa Silvestro: dapprima si afferma che Roma gode di una potestà, di una dignità, di un vigore e di un onore tali da imporsi su tutti gli altri patriarcati. In se­condo luogo si fa dono al papa delle basiliche di s. Giovanni in Laterano, s. Pietro e s. Paolo (le basiliche costantiniane). In terzo luogo dota ta­li chiese di patrimoni, che comprendono l'Italia e un po' tutto l'Occiden­te. Costantino afferma di trasferire la propria sede a Costantinopoli, per­ché ritiene che non sia giusto che l'imperatore terreno abbia potere dove risiede la suprema autorità, stabilita dall'imperatore celeste. Infine vengono concessi al papa gli onori imperiali: residenza nel palazzo imperiale del Laterano, diadema (poi sostituito da Silvestro per umiltà con la mitra) manto purpureo, diritto al corteo imperiale, diritto a godere dell'officium stratoris; al clero romano vengono attribuiti gli onori senatoriali.

 

Come si sa, il Constitutum Constantini rappresenta una delle questioni più dibattute in sede di critica storico-letteraria.

Tutti convengono nel ritenerla una falsificazione (in realtà durante l'Alto Medioevo il Constitutum Constantini non fu mai utilizzato come documento, che fondasse particolari pretese e diritti: si conosce un tentativo di parte pontificia per ottenere da Ottone III (inizi XI secolo) certe donazioni, l'imperatore però affermò di concedere tali donazioni per sua sola benignità, non riconoscendo al Constitutum Constantini alcun valore. La cosa non deve sorprendere: il Constitutum Constantini per la sua lunghezza rivelava immediatamente di non potere risalire ad un tempo, in cui si usava come materiale scrit­torio il papiro, perché ne sarebbe risultato un rotolo eccessivo per le sue di­mensioni).

Si sono create invece diverse divergenze, quando si è cercato di stabilire dove, quando e perché si sia operata siffatta falsificazione.

Schematizzando e semplificando, ricordo qui solo le due tesi più importanti.

A partire dal fatto che i codici più antichi del Constitutum Constantini sono stati trovati in Francia, si é sostenuto che il luogo della falsificazione dovrebbe essere cer­cato in Francia, e più precisamente alla corte carolingia. Da questa osser­vazione dipende la determinazione sia del quando, sia del perché. La falsificazio­ne sarebbe stata opera alla corte carolingia per giustificare l'incoronazione imperiale del Natale 800; la data, della falsificazione risalirebbe quindi ai primi decenni del secolo IX.

Studi recenti, in particolare del Fuhrmann (H. FUHIMANN, Konstantinische Schenkung und Silvesterlegende in neuer Sicht : Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters 15(1959) 523-540; idem, Konstantinische Schenkung und abendländisches Kaisertum : ibid. 22(1966), 63-178), hanno mostrato che i codici rinvenuti in Francia lasciano trasparire l'esistenza di un originale, con­fezionato negli ambienti romani. L'ambiente della falsificazione sarebbe pertanto la cancelleria pontificia, lo scopo della falsificazione sarebbe da ricercarsi negli interessi della Sede Apostolica, in particolare nella sua volontà di autonomia sia nei confronti dei Bizantini, sia nei confronti dei Franchi; la data della falsificazione sarebbe da collocarsi negli anni che intercorrono tra il 756 (seconda pace di Pavia) ed il 795 (morte di papa Adriano).

Noi riteniamo che si debba preferire quella ipotesi, che meglio riesce a col­locare il Constitutum Constantini in un periodo e in un contesto, dove dominino le stesse idee che il Constitutum Constantini esprime. Perciò propendiamo per una collocazione del Constitutum Constantini nella seconda parte del secolo VIII.

Domandiamoci: qual é l'intento che soggiace ad una falsificazione? Affermare nuovi diritti? No di certo! In tal caso in­fatti il documento rivelerebbe subito la sua natura di falso, offrendo una situazione giuridica nettamente diversa dalla situazione di fatto. L'intento di una falsificazione in genere é quello di dare legittimazione documentaria a usi e situazioni già in atto, ma prive di fondazione documentaria.

Ora si consideri il fatto che il Constitutum Constantini parla di officium stratoris: si dovrebbe dunque trattare non dell'affermazione di un uso nuovo, ma della codificazione documentaria di un uso già in atto: avremmo qui dunque un ele­mento che ci consente di dire che il terminus a quo non può essere prima del 754, quando per la prima volta Pipino prestò l'officum stratoris al papa.

Ancora si consideri il fatto che il Constitutum Constantini parla di dominio su Roma e sulla provincia occidentale, parla di onori imperiali da ascriversi al papa: ebbene é con Stefano II che i papi cominciano ad assumere in maniera consistente l'amministrazione autonoma di parte della provincia occidentale dell'impero di allora, provincia occidentale che si riduceva appunto all'Italia Bizan­tina.

L'autore del Constitutum Constantini vorrebbe dunque dare base documentaria alla situazio­ne conseguente gli avvenimenti del 756. Quanto agli onori imperiali: vanno collocati in un contesto, che vede l'accentuazione dell'idea di un dominio sovrano del papa: e sotto questo profilo il momento privilegiato dovrebbe essere rappresentato dal pontificato di papa Adriano. Lo scopo del documento dovreb­be essere questo: dare un fondamento documentario alla autonomia papale sia nei confronti dell'imperatore bizantino, sia nei confronti dei Franchi, che nel loro intervenire in Italia devono badare al fatto che hanno a che fare con un papa, che é una sorta di imperatore! (Una presentazione sintetica della questione é offerta da Y. M.-J. CONGAR, L'ecclésiologie du Haut Moyen Age. De Saint Grégoire le Grand à la désunion entre Byzance et Rome, Paris 1968,198-200, nn. 10 - 15. Il terminus ad quem non può essere dopo l'850, data della compilazione delle false decretali dello Pseudo-Isidoro, dove il Constitutum Constantini viene citato!).