sabato 13 aprile 2024

 

IL MONACHESIMO ANTICO IN OCCIDENTE

 

1 - Gli inizi

 

Gli studiosi oramai tendono a lasciare cadere la tesi, secondo cui anche in Occidente il monachesimo si sarebbe sviluppato autonomamente all'inter­no del preesistente ascetismo. Pare invece più appropriato ritenere che l'a­scetismo occidentale si indirizzò verso le forme monastiche intorno alla metà del eccolo IV soltanto e sia stato determinato a questo da chiari influssi del monachesimo orientale e “per circa un secolo il monachesimo in Occidente fu una semplice appendice di quello orientale: i suoi protagonisti prin­cipali o erano nativi dell'Oriente o, se anche erano nati in terra latina occidentale, si erano dati alla vita monastica in Oriente prima di ritornare nell'Occidente" (A. SAITTA, Dall'impero di  Roma a Bisanzio  (= 2000 anni di storia 2) Bari 1979, 226; cfr K. BAUS - E. EWIG, L'epoca dei concili. IV - V secolo (= Storia della Chiesa, dir. H. Jedin, II) Milano 1977, 411).

Molteplici furono le possibilità di influsso. I frequenti pellegrinaggi di occidentali in Oriente non si limitavano a raggiungere i luoghi santi della Palestina, ma anche penetravano negli ambienti monastici dell’Egitto, della Siria, della Palestina (si           pensi a Rufino, Melania senior e junior, Paola, Eustochio...). Atanasio, biografo di Antonio, dovendo più volte scontare la  pena dell'esilio in Occidente (335 a Treviri; 340-343 a Roma; 345 ad Aquileia) contribuì senz'altro all'irradiazione dell'ideale monastico. Verso il 370 Evagrio d'Antiochia poi con intelligenza (ma anche con una cer­ta libertà) tradusse in latino la "Vita Antoni", che ebbe una grande diffusione ed una rilevante efficacia propagandistica in ordine all'ideale monastico: ce lo testimonia Agostino nelle sue "Confessioni": "Un certo giorno ecco viene a trovarci, Alipio e me,.. , un certo Ponticiano, nostro compatriota in quanto africano, che ricopriva una carica cospicua a palazzo. Ignoro cosa volesse da noi.... Dirò che era cristiano e battezzato.... Ci raccontò la storia di Antonio, un monaco egizia­no, il cui nome brillava in chiara luce tra i tuoi servi, mentre per noi fino ad allora era oscuro. Quando se ne avvide, si dilungò nel racconto, istruendoci.... Tutti eravamo meravigliati: noi, per quanto erano gran­di (le tue meraviglie), lui per non essere giunte al nostro orecchio.... Ponticiano infervorandosi, continuò a parlare per un pezzo e noi ad a­scoltarlo in fervido silenzio. Così venne a dire che un giorno, non so quando, ma certamente a Treviri, mentre l'imperatore era trattenuto dal­lo spettacolo pomeridiano nel circo, egli era uscito a passeggiare, con tre suoi camerati nei giardini contigui alle mura della città. Lì, mentre camminavano accoppiati a caso, lui con uno degli. amici per proprio conto e gli altri due ugualmente per proprio conto, si persero di vista. Ma questi ultimi, vagando, entrarono in una capanna abitata da alcuni tuoi servitori poveri di spirito, di quelli cui appartiene il regno dei cie­li, e vi trovarono un libro ov'era scritta la vita di Antonio. Uno dei due cominciò a leggerla e ne restò ammirato, infuocato. Durante la let­tura si formò in lui il pensiero di abbracciare quella vita e abbandonare il servizio del secolo per votarsi al tuo. Erano in verità dei fun­zionari, di quelli cha vengono chiamati agenti amministrativi. Improvvisamente pervaso di amore santo e di onesta vergogna, adirato contro se stesso, guardò fisso l'amico e gli chiese: «Dimmi, di grazia, quale ri­sultato ci ripromettiamo da tutti i sacrifici che, stiamo compiendo? Cosa cerchiamo, a quale scopo prestiamo servizio? Potremo sperare di più, a palazzo, del rango di amici dell'imperatore? E anche una simile condizione non é del tutto instabile e irta di pericoli? E quanti pericoli non bisogna attraversare per giungere a un pericolo maggiore? E quando avverrà che ci arriviamo? Invece amico di Dio, se voglio, ecco lo divento subito». Parlava e nel delirio del parto di una nuova vita tornò con gli occhi sulle pagine. A mano a mano che leggeva un mutamento avveni­va nel suo intimo, ove tu vedevi che la sua mente si svestiva del mondo, come presto apparve. Nel leggere, in quel rimescolarsi dei flutti del suo cuore, a un tratto ebbe un fremito, riconobbe la soluzione migliore e risolse per quella. Ormai tuo, disse all'amico suo: «Io ormai l'ho rotta con quelle nostre ambizioni. Ho deciso di servire Dio e questo da ora. Comincerò in questo luogo. Se a te rincresce di imitarmi, tralascia di ostacolarmi». L'altro rispose che lo seguiva per condividere con lui l'alta ricompensa di così alto servizio. Ormai tuoi entrambi comincia­vano la costruzione della torre, pagando il prezzo adeguato e cioè l’ab­bandono di tutti i propri beni per essere tuoi seguaci. In quella Ponti­ciano e l'amico, che con lui passeggiava in altre parti del giardino, mentre li cercavano, giunsero là essi pure, li trovarono e li esortaro­no a rientrare, visto che il giorno era ormai calato. Ma i due palesaro­no la decisione presa e il proposito fatto, nonché il modo come era sorta e si era radicata in loro quella volontà. Conclusero pregando di non molestarli, qualora rifiutassero di unirsi a loro. I nuovi venuti per­sistettero nella vita di prima, ma tuttavia piansero su di sé, come di­ceva Ponticiano, mentre con gli amici si felicitarono piamente e si raccomandarono alle loro preghiere, per poi tornare a palazzo strisciando il cuore a terra, mentre essi rimasero nella capanna, fissando il cuore in cielo. Entrambi erano fidanzati; quando le spose seppero l'accaduto, consacrarono anch'esse la loro verginità a te" (SANT’AGOSTINO, Le confessioni, (traduzione di Carlo Carena), Roma 1965, 233- 4).

 

2 - Il monachesimo in Gallia

a) le fonti:

+ Gli inizi assumono contorni precisi con s. Martino, che noi possiamo conoscere attraverso le opere di SULPICIO SEVERO (+ 420 circa), un laico che, rimasto vedovo,  si dedicò ad una vita di "conversione”, che ricalcava le forme monastiche, seguite dagli ambienti di s. Martino. Notizie su Martino ed il suo monachesimo si  trovano disseminate qua e là nelle seguenti opere di Sulpicio Severo:

·  Cronaca universale

·  Dialoghi

·  Tre lettere.

Direttamente a Martino e alla sua esperienza Sulpicio Severo ha dedicato la celebre

·  Vita Sancti Martini, che rappresenta l'archetipo dell'agiografia latina: “correttamente interpretata, contiene, sotto un involucro assai stilizzato, un importante nucleo storico, di cui non si potrebbe con­testare l'autenticità" (J. FONTAINE, Vie de  Saint Martin, Paris 1967, cit. da A. SAITTA, Dall'impero di Roma a Bisanzio, op.cit., 474)

Questi scritti di Sulpicio Severo sono stati editi in CSEL, 1).

+ Necessari riferimenti per ricostruire la vita di s. Onorato e gli ini­zi di Lerino sono:

·  ILARIO di ARLES, Sermo de vita sancti Honorati (PL L, 1249-1279);

·  Vitae sanctorum Honorati et Hilarii, ed. S. Cavallin, Lund 1952;

·  EUCHERIO, De laude eremi (CSEL 31, 179-194

+ Sugli inizi del monachesimo marsigliese siamo illuminati dagli scrit­ti monastici del fondatore:

·  GIOVANNI CASSIANO, De institutis.coenobiorum et de octo principaliurn vitiorum remediis

·  GIOVANNI CASSIANO, Collationes Patrum

+ Utili riferimenti per la ricostruzione del contesto gallico e franco sono:

·  GREGORIO DI TOURS, Historia Francorum   (MGH scr. rer. mer.- I)

                In gloria confessorum (MGH scr. rer. mer. I)      

Vitae Patrum  (MGH scr. rer. mer. I)

·  PAOLINO da NOLA, Lettere

·  GIROLAMO, Lettere

·  SALVANO, De gubernatione Dei (CSEL 8)

Ad Ecclesiam (CSEL 8)

·  RUTILIO NAMAZIANO, De reditu suo

·  Carmen de Providentia Divina (PL II)

·  FORTUNATO, Vita sancti Paterni (MGH auct. antiq. IV)

·  Vita Patrum iurensium  (MGH scr. rer. mer. III)

·  Vita Caesarii (MGH scr. rer. mer. III)

·  Vita Theudarii (MGH scr. rer. mer. III)

·  Vita sancti Germani (MGH scr. rer. mer. VII)

·  Vita Columbani (MGH scr. rer. mer. IV).

 

b) S. Martino

Nacque a Sabaria (Pannonia) verso il 316 (quindi dopo il cosiddetto editto di Milano) e divenne cristiano a diciotto anni, quando già da tre an­ni prestava servizio nell'esercito imperiale. Dopo venticinque anni di servizio militare, nel 356, decise di dedicare la sua vita esclusivamente alla militia Christi: come asceta itinerante vagò per le regioni balcaniche, passando anche dal paese natale per recare l'estremo saluto ai genitori. Poi affascinato dalle esperienze monastiche orientali (E. GRIFFE, Der Hl. Martinus und das gallische, Mönchtum : Askese und Mönchtum (= Wege dei Forschung 409) hers. K.S. Frank, Darmstadt 1975, 264)), volle vivere come eremita in una cella situata nei pressi di Milano: voluit sed non potuit. Poco prima Martino si era lasciato conquistare dalla personalità di Ilario di Poitiers, esule per la sua strenua difesa del credo niceno, giungendo così a condividerne la posizio­ne antiariana; a Milano invece era vescovo un ariano, che non poteva certo sopportare la presenza dell'asceta, che con la sua vita compiva una efficace propaganda dì segno contrario! Divenne inevitabile il tra­sferimento dell'eremitaggio sull'isola di Gallinaria. Il ritorno di Ilario dall'esilio significò per Martino la decisione di raggiungere il maes­tro a Poitiers (fine 360 o inizio 361). Rifiutata la proposta di un inquadramento nel clero locale, Martino preferì continuare la sua espe­rienza eremitica, ritirandosi nella località di Ligugé (8 km a sud di Poitiers). A questa fondazione di Martino viene solitamente riconosciu­to l'onore del primato nella storia del monachesimo gallico, ma anche questa volta si tratta di un primato dotato di una preistoria: Sulpicio Severo nella sua "Vita sancti Martini" (V,3) afferma che nella zona di Poitiers vivevano dei "fratres" dediti ad una rigorosa ascesi ancor prima del 356: “con ogni probabilità erano monaci. Il monachesimo gallico esisteva dunque senza dubbio già prima di s. Martino, però effetti­va certezza storica viene raggiunta solo con la fondazione di Ligugé " (CH. COURTOIS, Die Entwicklung des Mönchtums in Gallien vom heiligen Martin bis zum heiligen Columban : Mönchtum und Gesellschaf im Frühmittelalter (= Wege der Forschung 312) hrsg. F. Prinz, Darmstadt 1976, 13 n.1). Il solitario, che era stato ufficiale nell'esercito imperiale e veniva da lontano, fu presto sulla bocca di tutti e toccò il cuore di alcuni, che si posero sotto il suo esempio e la sua guida per vivere anch'essi come eremiti nella solitudine di Ligugé.

Nel 371, quando venne a mancare il vescovo di Tours, si volle Martino come suo successore: e Martino, dopo notevoli pressioni, accettò, " rimanendo il monaco, che era: stessa umiltà nel cuore, stessa povertà negli abiti" (Vita Sancti Martini , 10). In Tours il escovo Martino assolveva le sue incombenze liturgiche e amministrative; si spingeva poi nelle campagne circostanti per distruggere quanto persisteva della presenza pagana e per edificare comunità cristiane. Il monaco Martino invece amava ri­fugiarsi nella solitaria landa di Marmoutier per coltivarvi la sua gran­de aspirazione al cammino verso Dio in solitudine ed ascesi perfette. Pertanto a Tours intorno al vescovo non si formò il monasterium clericorum, che troveremo invece a Vercelli e ad Ippona: e ciò proprio perché il vescovo di Tours pensava l'ideale monastico in prospettiva eremitica.

Ma a Marmouitier, come già a Ligugé, chierici e laici seguirono l'esempio di Martino, costituendovi una colonia eremitica.

"Vi vivevano circa ottanta discepoli,che si volevano formare sull'esempio del loro maestro spirituale. Là nessuno possedeva in proprio nulla. Tutto apparteneva alla comunità. Vendere e comperare - cosa frequente presso gran parte dei monaci - là non era possibile. Oltre il lavoro di scrittura non vi era consentito altro lavoro manuale. E a questo lavoro si dedicavano solo quelli giovani: gli anziani invece si consacravano esclusivamente alla preghiera. Quando non era tempo di digiuno, prendevano il pasto insieme. Non conoscevano il vino a meno che fosse necessario per prestare cura a qualche malato. Quasi tutti portavano vesti di peli di cammello: un abito più raffinato era ritenuto peccami­noso. Questa austerità sorprende maggiormente se si considera che mol­ti monaci provenivano dalle classe aristocratica.... Poi abbiamo rivisto parecchi di questi monaci come vescovi. In verità, quale città, quale chiesa non avrebbe desiderato un vescovo, che provenisse dal monastero di Martino?" (Vita sancti Martini, 10).

Sull'esempio di Marmoutier si costituirono nella zona altri centri mona­stici: alla sepoltura di Martino (397) si sarebbero presentati per l'ul­timo omaggio ben duemila monaci (SULPICIO SEVERO, Epistola III ad Bassulam, 18 : CSEL 1, 150).

Questo monachesimo, che faceva capo a Martino, rimase ad un livello mol­to spontaneo: non conobbe regole, organizzazione codificata: assunse Martino come sua "regola viva"! Ma ciò evidentemente finì con il trasmet­tere a tutto il movimento la dicotomia della vita di Mattino: questi era apostolo e monaco nello stesso tempo, ma non per un'armonica fusio­ne dei due ideali, bensì per un'estrinseca e sofferta giustapposizione. La fuga dal mondo, la solitudine, intese in maniera radicale, decisamente fisica, a malincuore furono ridotte a dei ritiri temporanei, per fare fronte alla necessità di quel momento, che vedeva il mondo gallico entra­re nella grande stagione delle conversioni (cfr CH. COURTOIS, Die Entwicklung des Mönchtums in Gallien, op. cit., 20 - 21).

Con la scomparsa della "regola viva" il movimento venne trovarsi sen­za istruzioni scritte, senza un'istituzione definita, che ne garantis­se la durata, e senza una guida indiscutibilmente autorevole: il nuovo vescovo Brizio, benché sia venerato come santo, non ebbe forza per imporsi come guida carismatica di un movimento, che rimaneva fondamentalmente carismatico (cfr E. GRIFFE, Der hl. Martinus, op. cit., 261).

 

c) S. Onorato e la fondazione monastica di Lerino

Nato e cresciuto in una famiglia illustre, sentì agli inizi del V secolo il desiderio della perfezione cristiana e volse lo sguardo ad Oriente, tentandovi una peregrinatio monastica, che però non ebbe successo.

Con l'amico Caprasio si ritirò allora sull'isola di Lerino, per condur­vi vita anacoretica di tipo egiziano. La data precisa della fondazione di Lerino non può essere determinata: dal XVII secolo, con una certa probabile approssimazione, si indica l'anno 410 (cfr CH. COURTOIS, Die Entwicklung des Mönchtums in Gallien, op. cit., 23 n.1). Nel ventennio successi­vo sull'isola vennero a ritirarsi monaci in numero sempre più rilevante e così Onorato si trovò costretto a trasformare la sua anacoresi in un cenobio, cui dette una regola di vita, probabilmente scritta, anche se,  non essendoci pervenuto il testo scritto, non ci é possibile precisarne il contenuto (CH. COURTOIS, Die Entwicklung des Mönchtums in Gallien, op. cit., 23, n.37).

Su questo punto é possibile stabilire un raffronto con il primo monache­simo gallico: Lerino ne mantiene l'esigenza di distacco radicale, fisi­co (si tratta di un'isola), però segna anche un superamento sia evolvendo decisamente verso la forma cenobitica, sia introducendo una chia­ra tendenza alla regolamentazione, che trasforma il monachesimo da movimento spontaneo di individualità ferventi in movimento definito quanto a metodologia di formazione e di vita e quanto a configurazione giu­ridica. Ancor più del monachesimo martiniano il sistema lerinense parte­cipò alle esigenze apostoliche dell'epoca, offrendo alla chiesa della Gallia figure eminenti di vescovi (Onorato divenne vescovo di Arles; da Lerino uscirono anche Ilario di Arles, Cesario di Arles, Lupo di Troyes, Massimo di Riez, Fausto di Riez, Eucherio di Lione).

Si deve rilevare che nei monaci lerinensi il connubio apostolato-monachesimo appare meno sofferto, anzi talora porta addirittura alla fondazione di monasteria clericorum, quale forma di vita ideale per il clero citta­dino chiamato a collaborare con un vescovo di provenienza lerinense.

Si deve anche rilevare che i monaci di Lerino frequentemente sono scel­ti come vescovi non solo perché provenienti da un ambiente, che garanti­sce un'alta spiritualità, ma anche perché provenienti da un ambiente aristocratico, avvezzo all'esercizio del potere: Lerino infatti divenne meta di parecchi giovani aristocratici.

Per iniziativa di un certo Romano il monachesimo lerinense ebbe una feli­ce irradiazione sul Giura.

Lo spirito lerinense, che noi non possiamo ricostruire a partire dalla regola di Onorato, perché non ci è pervenuta, può essere in un certo senso raggiunto attraverso l'opera legislativa di Cesario di Arles. Nato a Chalon-sur-Saône, in età ancor giovane decise di praticare l'ideale mo­nastico sull'isola di Lerino: ben presto però la sua salute cagionevole lo costrinse ad abbandonare i rigori monastici. Il vescovo Eonio di Arles, dovendo reperire una guida per un monastero della sua città (un monasterium clericorum), si rivolse senz'altro a Cesario, che poi nel 502 gli succedette sulla cattedra episcopale. Nei ,quaranta anni di ministero episcopale Cesario continuò ad occuparsi della vita monastica, elaborando due regole.

Sia nella più breve  "Regula ad Monachos" (PL LXVII, 1099 -1103) sia nel­la più estesa "Regula ad virgines" (PL LXVII, 1107-1116), Cesario si rifà sia alla Sacra Scrittura, sia alla produzione monastica di Cassiano e di Agostino (lettera 211), sia alle usanze monastiche di Lerino. La sua personale difficoltà a sostenere un tipo di vita eccessivamente severo lo ha spinto a prospettare un tipo di vita monastica, che assegna il primato all'interiorità e mitiga la mortificazione del corpo (si prevede la possibilità del vino e della lettura a tavola); H. v. SCHUBERT, Geschi­chte der christlichen Kirche im Frühmitelalter,  Darmstadt 21976, 61). “Grande innovazione, con la quale egli annuncia e prepara l'opera di s. Benedetto, sarà oltre all'esistenza rigorosa di una comunanza effet­tiva di tutte le cose del monastero (comunismo anche dei vestiti), quella della stabilità (appartenenza perpetua alla stessa casa e sottomissio­ne per tutta la vita alla regola ed all'abate di quella casa), con cui intendeva porre freno a quella fioritura disordinata di tentativi molte­plici, ma senza avvenire, in cui il monachesimo occidentale si era fino ad allora troppo esaurito (L. BOUYER, La spiritua­lità dei Padri (= Storia della spiritualità cristiana 2), Bologna 1968, 509).

Nel fissare l'ufficiatura in termini notevolmente estesi (più estesa dell'ufficio benedettino), Cesario indica e interpreta una tendenza verso un monachesimo prevalentemente liturgico-rituale-cultuale, che poi troverà codificazione nelle consuetudini di Benedetto di Aniane (+821) e più ancora nel sistema cluniacense (cfr P. POURRAT, La spiritualité  chretienne, I, 403).

E' di un certo interesse rilevare che nel corso dei secoli "la regula ad Virgines" di Cesario seppe stare in onorevole concorrenza con la stessa regola di Benedetto nella orientazione dei monasteri femminili.

 

d) Cassiano e la fondazione di S. Vittore di Marsiglia

Il monachesimo di Cassiano appare determinato dalla convergenza di tre elementi: la sua personale esperienza monastica acquisita in Oriente; la situazione del monachesimo gallico al momento del suo arrivo; la si­tuazione politica dell'epoca.

Originario della Dobrugia, provincia orientale di lingua latina, molto  presto si dedicò all'esperienza monastica in centri di grande rilievo: Betlemme prima e in Egitto - a Sketis - poi per dieci anni. Ordinato diacono a Costantinopoli verso il 400, divenne sacerdote ad An­tiochia intorno al 413. Qui avrebbe conosciuto due vescovi, che avevano dovuto abbandonare le loro sedi in Gallia: Lazzaro di Aix e Eros di Arles: probabilmente ambedue erano stati discepoli di Martino, probabil­mente informarono Cassiano delle difficoltà in cui versava il monachesi­mo gallico dopo la morte del grande padre-fondatore, probabilmente Lazzaro, tornando in Gallia, a Marsiglia, nel 417, si fece accompagnare da Cassiano con l'intento di impegnarlo in un'azione di riforma ed organiz­zazione del monachesimo in Gallia    (H. - I. MARROU, Jean Cassian à Marseille : Revue du Moyen Age 1(1954) 5-6; E. GRIFFE, Der hl. Martinus, 265-266). Dal vescovo di Marsiglia, Proculus, Cassiano ottenne per la sua attività una Chiesa, che si trovava nel sobborgo di S. Vit­tore e divenne il centro monastico di Cassiano. Il monachesimo gallico agli occhi del nuovo arrivato appariva segnato da "abitudini odiose": uno zelo sregolato nel salmodiare, che spingeva ad una recitazione precipitosa e poco interiorizzata per il gusto di accumulare il più possibile salmi su salmi; una diffusa "voluptas otii”, conseguente ad una scarsa considerazione del lavoro manuale; una perniciosa instabilità di vita in parecchi monaci, i quali, per amore di indipendenza, si ritenevano in diritto di mutare posto e di prestare all’abate solo una sottomissione temporanea (cfr G. CASSIANO, De institutis coenobitorum, 2,7: 3,5; 10,23). Tutto ciò Cassiano attribuiva alla mancanza di una precisa norma per la vita di perfezione e pertanto a tutto ciò ritenne di dovere ovviare, elaborando una “norma interiore ed esteriore per la sequela di Cristo” (A. SAITTA, Dall'impero di  Roma a Bisanzio , op. cit., 301; E. GRIFFE, Der hl. Martinus, 276).

Nacquero così il “De institutis coenobitorum et de octo principalium vitiorum remediis” (424 c.) e le “Collationes Patrum" (426-428 c.), dove Cassiano "esprime tutte le ricchezze della tradizione monastica in un'ultima sintesi.... Difficilmente si sarebbe potuto fare in una maniera mi­gliore per trasmettere sotto una forma assimilabile il meglio dell'espe­rienza egiziana, illuminata da un Evagrio filtrato da un origenismo improntato alla più larga moderazione" (L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 496). Quindi a Cassiano l'Occidente deve la diffusione delle con­cezioni monastiche orientali.

Fine che presiede a tutta la vita spiri­tuale del monaco é la ricerca di Dio e del suo Regno. Condizione per giungervi é la purezza di cuore, che é insieme eliminazione di tutti i legami malvagi con il "mondo" esterno ed interiore (gli otto vizi) ed espansione della divina carità (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 497). Rifacendosi a una quasi unanime convinzione orientale, Cassiano codifica nel contesto monastico occidentale il principio della priorità di valo­re dell’anacoresi, come vita di perfetta solitudine con Dio. Il ceno­bitismo viene quindi presentato sia come il lungo e necessario eserci­zio di preparazione all'anacoresi per i monaci spiritualmente più vigo­rosi, sia come la meno eroica vita di perfezione per coloro, che non sarebbero capaci di affrontare e sopportare l'ardua prova della solitu­dine. In questo contesto di "gradazione" della perfezione cristiana merita senz'altro di essere considerato un altro apporto, discutibile certo, di Cassiano alla mentalità spirituale occidentale: “In Cassiano il modello di perfezione immaginato tra il secolo IV e V assume una diver­sa caratterizzazione, che prescinde da Agostino: non più un monachesimo volto alla conversione dei cristiani alla pienezza della fede, alla costruzione di una Chiesa per tutto il popolo, ma un monachesimo che ten­de a considerare la perfezione come un’opera peculiare che riguarda solo l'anima di chi entra nel cenobio.... Solo il monaco é cristiano e il monaco non si occupa del mondo e della storia: chi vive nel secolo, il secolare, é equiparato. ai gentili, é un pagano, é in qualche modo fuori della vera Chiesa. Quello che nella chiesa primitiva era possibile generaliter, ora lo é solo peculiariter, privatim, per pochi. Ai mona­ci é concesso il senso spirituale della Scrittura, che introduce ai mi­steri dei Regno; agli altri invece il solo senso letterale. L'equipara­zione cristiano-monaco- e secolare-pagano, la divisione infra-eccelsiale é il prezzo storico per potere ancora proporre alla cristianità costantiniana la piena sequela di Cristo come storicamente possibile" (C. LEONARDI, Alle origini della crisi della cristianità medievale: Giovanni Cassiano e Salviano di Marsiglia : Studi medievali, 1977, 543-549). Questa immagi­ne storica di Chiesa durerà molto: "una Chiesa dove la perfezione cri­stiana é possibile in quanto strutturata in un istituto di perfezione, in quanto viene istituzionalizzata nella condizione monastica: il cenobio é visto non solo come separazione dal mondo, ma anche come separazione dai cristiani che vi vivono, dai non perfetti" (A. SAITTA, Dall'impero di Roma a Bi­sanzio, op. cit., 301). Ma con la fondazione di un monastero cenobitico in contesto cittadino Cassiano da una parte ha il merito di avere introdotto nel monachesimo gallico una nozione meno fisica, più interiore di isolamento, dall'altra ha efficacemente contribuito a intendere la vocazione monastica non tanto come una vocazione alla solitudi­ne, ma piuttosto come una vocazione all'obbedienza.

Questa scelta diventa pienamente comprensibile, se si considera il momen­to storico in cui Cassiano dovette operare: essendo le Gallie da qualche anno esposte agli assalti delle orde germaniche, anche ai monaci si im­poneva il problema della sicurezza: gli uni la perseguirono, insediando­si in località così isolate da non potere essere raggiunte dai "barbari"; gli altri (Cassiano ne fu il modello) preferirono la protezione delle mura cittadine; quasi tutti optarono per la coesione monastica, sancita dalla regola e dalla vita cenobitica (cfr C. COURTOIs,  Die Entwicklung des Mönchtums in Gallien, op. cit.,22-29).

Grazie alla cristianizzazione merovingia del regno franco, grazie alla stabilità politica verificatasi nel secolo VI, il monachesimo in Gallia conobbe una imponente fioritura: del resto proprio la metodologia mona­stica, ben definita dalle regole, aveva fatto perdere al monachesimo gallico il carattere eccezionalmente severo e lo aveva sempre più fatto apparire come un'esperienza praticabile da un gran numero di uomini.

 

e) Colombano e la fondazione di Luxeuil

Di origine irlandese (540 c.), monaco secondo il sistema irlandese a Bangor, Colombano si trasferì nel regno franco verso il 590, dove det­te vita a varie fondazioni, di cui la più celebre é Luxeuil. Intorno al 610 per dissapori con la regina Brunechilde dovette abbandonare il regno: in Italia a «Bobbio fondò un celebre monastero, dove morì verso il 615.

Solitamente (cfr P. POURRAT, La spiritualité chrétienne, op. cit., 405-407) viene contrapposto al discreto Benedetto come interprete di un monachesimo più rude (ufficiatura più lunga; sanzioni penali più rigorose; regola complessivamente di difficile applicazione per la sua severità). In realtà  quello di Colombano è un monachesimo di "sintesi": sia perché nella sua regola compaiono diverse reminiscenze benedettine (cfr J. DUBOIS, s.v. Monachisme : DSAM c. 1559), sia perché più di tutti i suoi più o meno illustri predecessori fondatori ha sentito l'esigenza di sviluppare tra le sue varie fondazioni una specie di solidarietà monastica, che in qualche modo prelude ai sistema successivo della congre­gazione monastica (cfr C. CURTOIS, Die Entwicklung  des Mönchtums in Gallien, 14).

 

 3 – Il monachesimo in Africa: il caso Agostino

a) le fonti:

Le notizie pi preziose ci sono offerte da s. Agostino in diverse sue opere. Ci limitiamo ad indicare le più importanti fra le opere tipica­mente monastiche:

         De opere monachorum: su richiesta di Aurelio, vescovo di Cartagine, Ago­stino polemizza con certe esperienze monastiche del suo tempo e dell'ambiente africano, delineando la sua propria concezione monasti­ca, che per i monaci ritiene opportuno il lavoro come fonte del proprio sostentamento.

·         Lettera 211: indirizzata alla comunità monastica femminile, di cui era stata superiora la sorella di Agostino. Vi si distinguono due parti:

ü la obiurgatio (1 - 4) in cui Agostino rimprovera le monache per le sedizioni, che travagliano la comunità;

ü la regularis informatio (5 -16): si tratta di una regola monastica. Gli studi più recenti ed autorevoli (L. M. J. VERHEIJEN, Die Regel des Hl. Augustin. Der gegenwärtige Stand der Forschung : Askese und Mönchtum in der alten Kirche (=  Wege der Forschung 409) hrsg. v. K.S.Frank, Darmstadt 1975, 349-368) attribuiscono ad Agostino solo la prima parte: la obiurgatio, considerano invece la regularis informatio come un adattamento per monache della regola (il praeceptum), che Agostino aveva dato ai monaci di Ippona, un adattamento che praticamente è una copia verbale della vera e propria regola autenticamente agostiniana, con un minimo di varianti per l'ambiente femminile: il problema del chi avrebbe compiuto l'adattamento e del dove si sarebbe compiuto rimane aper­to (L. M. J. VERHEIJEN, Die Regel  des Hl. Augustin, op. cit., 361-362).

 

·               Praeceptum (o Regula tertia), contrariamente alle vecchie tesi, che lo ritenevano una versione maschile della "Reguiaris informatio", og­gi si propende a vedervi l'autentica regola di Agostino, dal quale sarebbero derivati i successivi testi di legislazione monastica, che si richiamano ad Agostino (L. M. J. VERHEIJEN, Die Regel des Hl. Augustin, op. cit., 355-360)). Il cosiddetto. "Ordo  monasterii" (o regula secunda) quanto a stile si scosta in maniera chiara dalle maniere espressive tipicamente agostiniane (L. M. J. VERHEIJEN, Die Regel des Hl. Augustin, op. cit., cit. 358), si può azzardare l'ipotesi che sia una prefazione successivamente aggiunta al Preeceptum autenticamente agostiniano (L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 488).

·               POSSIDIO, Vita Augustini: soprattutto nei capitoli 5; 11; 22 - 26 sono reperibili notizie sul monachesimo agostiniano.

 

b) il monachesimo non agostiniano

Agostino stesso (Retractationes 2,47; De opere monachorum) ci informa di una presenza monastica, che nelle sue forme non é certo riconducibi­le all'ambiente spirituale del vescovo di Ippona: niente lavoro, peren­ne instabilità, capelli lunghi ed incolti, bizzarrie nel tratto esterno per il gusto di farsi notare, uso arbitrario della Sacra Sscrittura….

Questo monachesimo, talora esorbitante, non deve certo i suoi inizi ad Agostino, anzi forse gli preesiste. Il segno che Agostino ha lasciato nel monachesimo africano non é dunque quello dell'iniziatore, tanto me­no quello dell'inventore. Anche in questo caso Agostino assume un qual­cosa di già dato, lo plasma e trasforma, lasciandovi l'impronta eccezionale della sua personalità: ne è  risultato un qualcosa di originale e di incisivo per la vita ecclesiale del suo tempo.

c) gli inizi del monachesimo agostiniano

"Fatto prete, subito istituì un monastero accanto alla chiesa e comin­ciò a vivere con i servi di Dio secondo il modo e la norma stabiliti al tempo degli apostoli" (POSSIDIO, Vita Augustini, 5,1 ).

"Io, che voi vedete qui vostro vescovo, per la grazia di Dio, venni an­cor giovane in questa città, come molti di voi sanno. Cercavo un luo­go dove fondare un monastero per viverci con i miei confratelli. Avevo abbandonato ogni speranza in questo mondo. Ciò che avrei potuto essere, non desideravo essere: né cercai di essere quello che oggi sono. Scel­si infatti di essere umile nella casa del mio Dio, piuttosto che vive­re nelle tende dei peccatori..." (Sermone  355,2). Ad Ippona Agostino si trovò costretto a diventare ciò che non voleva, presbitero, in compenso dal vecchio vescovo Valerio ottenne di potere fondare un monastero nel giardino della chiesa maggiore.

"Raggiunsi l'episcopato. Mi avvidi che il vescovo deve usare continua ospitalità a quelli che vengono o passano da lui, che, se non lo facesse, sarebbe chiamato inospitale. Ma se questa consuetudine si fosse introdotta nel monastero (dei laici) sarebbe stato un inconveniente. Perciò volli avere con me, in questa casa del vescovo, un monastero di chierici"(Sermone 355,2).

Da queste citazioni traspare che la prima fondazione monastica di Agostino risale all'epoca della sua ordinazione sacerdotale ad Ippona (391). Al primitivo monastero per laici in un secondo momento - dopo la consa­crazione episcopale (396 c.) - si aggiunse una seconda fondazione, il monasterium clericorum.

 

d) L'ideale monastico di Agostino: la vita comunitaria

Il cardine é rappresentato (cfr la citazione di Possidio) dall'ideale della comunità apostolica primitiva, interpretato però secondo le categorie culturali, che gli prestava il neoplatonismo e secondo le esigenze della sua struttura psicologica.

Il tema cristiano della unanimitas, del vivere insieme un cuor solo ed un'anima sola, trovava echi profondissimi nella psicologia di Agostino, dove era saldamente annidato "il naturale spirito di clan degli Africani. Agostino si adoperò per non trovarsi mai solo … persino la più intima esperienza mistica ebbe luogo alla presenza di sua madre (la visione di Ostia) …. Agostino aveva, bisogno dell'attenzione costante  di un circolo di amici e di sentirsi rassicurato da essi: in altri termini sapere di essere amato (De catechizandis rudibus, 4,7) e sapere che vi era qualcuno degno, a sua volta, di esserlo… era per lui un enorme incoraggiamente a riamare (De Trinitate, VIII, 9,13) … La sua concezione dell'amicizia, come un'armonia completa di menti e di intenti (Epistola 258, 4), era adattissima a tenere unito un gruppo di uomini consacrati a Dio” (P. BROWN, Agostino d’Ippona, Torino 21971, 188-189). Pertanto ad Ippona si costituì una comunità monastica animata da un vero e proprio gusto per l'amicizia - cosa piuttosto rara nelle comunità monastiche - coltivata in tutte le sue più delicate sfumature: il rispetto per gli amici assenti diventava avversione animosa nei confronti di ogni maldicenza, come tra­spariva chiaramente dai versi, che spiccavano sulla tavola: "Chiunque creda di potere / Rosicchiare la vita degli amici assenti / Deve sapere che è indegno di questa tavola" (Possidio, Vita Augustini, 22,6).La lontananza dei confratelli era sentita con fitte di nostalgia (Epistola 84).

Alla luce del neoplatonismo poi l'ideale della comunità apostolica primi­tiva sprigionava note e tonalità particolari. Il sogno plotiniano (cfr PORFIRIO, Vita di Plotino, 12) di costituire una comunità di filosofi dal nome significativo di Platonopoli, ove si praticasse l’“otium", il "colto ritiro", trovò una realizzazione cristiana nel monastero agosti­niano, in cui, attraverso il "christianae vitae otium" (Retractationes, I, 1,1), si perseguiva l'ideale del "deificari in otio" (Epistola 10, 2), diven­tare simili a Dio nel proprio ritiro. Evidentemente il tema del "deifi­cari in otio" rimanda al principio neoplatonico di partecipazione, secon­do il quale tutte le cose provengono da Dio e insieme sono una parteci­pazione ed un'imitazione di Dio, che é "la causa dell'universo creato, la luce della verità percepita, la fonte della verità da raggiungere" (De Civitate Dei, VIII,9): cfr A. TRAPE’, S. Agostino. Luomo, il pastore, il mistico, Fossano 1976, 127.

Sia però chiaro che il tema filosofico dell’ "otium" non ha solo un riverbero culturale (amore per lo studio, per le discussioni) ma anche assume tonalità ascetiche. A questo riguardo mi limito a due esemplificazioni. Il tema classico dell'ascesi monastica, quello della fuga, del distacco dal mondo esteriore, alla luce del plotiniano "Rientra in te stesso e contempla” (PLOTINO, Enneadi, I,6), viene riespresso in termini di interiorità (cfr per es. De libero arbitrio, 2,16 41). Anche il tradizionale tema del distacco dal corpo e dalle passioni che ne scaturiscono, vie­ne riletto secondo l'essenziale distinzione neoplatonica tra sensibile e intelligibile: “Se le anime che noi abbiamo sono eterne e divine , dobbiamo concludere che quanto più lasciamo ad esse liberamente dispiegare l'attività loro propria, cioè quella di ragionare, ricercare e sapere, e quanto meno sono implicate nei vizi e negli errori dell'umanità, tan­to più facilmente potranno ascendere e tornare al cielo" (De Trinitate, XIV 19 26: si tratta di una citazione di CICERONE, Hortensius, framm.97).

"(Per vedere Dio) l'anima ha bisogno di tre disposizioni: che abbia occhi di cui possa bene usare, che guardi, che veda. Occhio dell'anima é la mente immune da ogni macchia del corpo, cioè già separata e purificata dai desideri delle cose caduche” (Soliloqui, 1,6,12).

Così commenta il "beati i pacificatori": "Pacificatori sono nel loro intimo coloro che, avendo vinto e assoggettato alla ragione... tutti i movimenti dell'anima ed avendo domato i desideri carnali, sono diventati in se stessi un Re­gno di Dio… Essi godono di quella pace che é data in terra agli uomi­ni di buona volontà, … la loro é la vita del saggio, completo e perfet­to..." (De sermone dominico in monte, 1,2,9).

In questa prospettiva la pratica della povertà, della castità, dell'obbedienza, tipica dell'ideale monastico, in Agostino viene a connettersi con l'esigenza neoplatonica di divenire "lanterna", cioè intelletto splendente di verità, collocato su di un corpo ridotto a completa sottomissione (P. BROWN, Agostino d'Ippona, op. cit., 131). Vigoroso é il tema della povertà: "Soprattutto in quella società nessuno doveva avere alcunché di proprio ma tutto per loro doveva essere in co­mune, e ad ognuno doveva essere dato secondo le proprie necessità” (POSSIDIO, Vita Augustini, 5,1). "E poiché mi disponevo a vivere nel monastero con i fratelli, il vecchio Valerio, di santa memoria, conosciu­to il mio disegno e la mia volontà, mi diede quell’orto nel quale ora é il monastero. Cominciai a raccogliere fratelli di buona volontà, che non avevano nulla come io non avevo nulla e disposti ad imitare il mio esempio. Di modo che, come io avevo venduto la mia piccola proprietà e l'avevo data ai poveri, così facessero anche coloro che volevano vive­re con me; saremmo vissuti tutti così del bene comune; anzi ci sarebbe diventato comune il grande e fertilissimo podere che é Dio"(Sermone 355, 2). "Le sue vesti, i calzari, la biancheria da letto erano di qualità media e conveniente, né troppo di lusso né di tipo troppo scadente.... Usava di una mensa frugale e parca, che però fra le verdura e i legumi aveva qualche volta anche la carne, per riguardo agli ospiti o a qualcuno che non stava bene, e aveva sempre il vino.... Usava d'argento soltanto i cucchiai ma il vasellame per portare i cibi a tavola era o di terracotta, o di legno o di marmo, e ciò non perché non potesse, ma perché non voleva" (POSSIDIO, Vita Augustini, 22, 1-2.5; cfr anche 23 e 24). "Non dite di nulla «E' mio», ma ogni cosa sia comune tra voi; dalla vostra superiora sia distribuito a ciascuno di voi il vitto e il vestia­rio, non però a tutti in egual misura, poiché non tutte avete la medesi­ma salute ma ad ognuna secondo le sue necessità.... Coloro che, quando entravano in monastero possedevano qualcosa nel mondo, lo mettano di buon grado in comune:           coloro invece che non possedevano, non cerchino di avere in monastero ciò che non potevano avere neppure nel mondo" (Epistola 211, 5). “E’ meglio avere meno bisogni, che possedere più cose… L’abito non dia nell'occhio e non cercate di piacere per le vesti, ma per il contegno... Vestitevi servendovi di un solo guardaroba. Allo stesso modo nessuna lavori mai per se stessa, per procurarsi indumenti e pagliericcio, o cintura, o mantelli, o veli per la testa, ma tutti i vostri lavori siano compiuti per il bene comune, con maggiore impegno e con più assidua diligenza che se ciascuno facesse ciò per sé. La carità, infat­ti, di cui sta scritto che non cerca il proprio tornaconto, va intesa nel senso che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni" (Epistola 211,9 -12). "Nessuno faccia dono d'un mantello o di una tonaca di lana o di qualsiasi altra cosa, se non per essere mes­sa in comune. Io stesso, memore del mio proposito di avere tutto in co­mune, prendo dal guardaroba comune quanto mi serve.... Nessuno mi offra un mantello prezioso: sì, forse potrebbe convenire ad un vescovo, ad A­gostino però non si addice, perché é un uomo povero, nato da poveri.... Voglio averne uno, che poi possa essere dato a un qualsiasi mio fratello,quando ne abbia bisogno, uno che possa essere portato convenientemente anche da un presbitero, da un diacono o suddiacono.... Se me ne danno uno migliore, lo vendo, come sono solito fare; così, non potendo met­tere in comune il mantello, in comune metto il ricavato: lo vendo e ne do il ricavato ai poveri" (Sermone 355,13).

Dai passi citati appare che la povertà é un mezzo per vivere tutti del e per il bene comune, in maniera certo non indigente, ma neppure fastosa e sempre attenta alle esigenze obiettive dei singoli. La povertà svolge non solo una funzione ascetica ma anche sociale: il principio “E’ meglio avere meno bisogni, che possedere più cose" sfocia nell'esigenza di essere in grado di dare di più agli altri (A. TRAPE', S.Agostino, op. cit., 178), ai più poveri definiti "compauperes", compagni di povertà: "Si ricordava sempre dei compagni di povertà e dava loro attingendo a quel che serviva per sé e per coloro che abitavano insieme con lui, cioè delle rendite della chiesa e anche delle offerte dei fedeli" (POSSIDIO, Vita Augustini, 23,1). Già questa carità ci fa intuire che il monachesimo agostintano non era chiuso in se stesso: intendiamo ora approfondire l'aspetto delle relazioni con il mondo e la grande Chiesa.

Convertendosi al cattolicesimo, Agostino aveva lasciato cadere ed aspramente criticato il dualismo manicheo, cui aveva aderito in un primo momento. Pertanto per il cattolico Agostino il distacco dal mondo non era più, come ai tempi del manicheismo, una svalutazione del mondo, ma un'affermazione della assoluta priorità di Dio, che dei beni creati é la causa suprema e di cui i beni creati sono partecipazione ed imitazione limitata, perché creati dal nulla: "Immaginate, fratelli, che un uomo faccia un anello per la sua fidanzata e che costei amasse l'anello più del fidanzato, che lo ha fatto per lei…. Lasciamo, certo, che ella ami il suo dono: ma se ella dovesse dire: «L'anello mi basta! Non voglio più vedere la sua faccia! », che cosa diremmo di lei? ... Questo pegno le é dato dal fidanzato, affinché nel suo pegno egli stesso sia amato. Dio, dunque, vi ha dato tutte queste cose. Amate lui, che le fece!" (Tractatus in epistolam Ioannis I, 2,11).

Pertanto il distacco monastico altro non é che l'affermazione emblemati­ca del cristiano-pellegrino: questi é uno sradicato dalla sua patria, sente la nostalgia della sua terra, ma insieme é un residente temporaneo, "che deve accettare un'intima dipendenza dalla vita che lo circonda: deve rendersi conto che questa vita é stata creata da uomini come lui, per conseguire un qualche bene, che egli é lieto di condividere con lo­ro, per migliorare una determinata situazione, per evitare qualche male più grande; deve essere sinceramente grato delle condizioni favorevoli che gli offre. In pratica Agostino aveva finito per aspettarsi dal cri­stiano la consapevolezza della tenacia dei vincoli, che lo avrebbero sempre legato a questo mondo.... Così la “Città di Dio” lungi dall'essere un libro sulla fuga dal mondo, é un libro il cui tema ricorrente é quello del "nostro dovere nell'ambito di questa comune vita mortale" (De Civitate Dei XV,21,15): é un libro sul come vivere nel mondo, distaccati dal mondo. I membri della civitas peregrina, pertanto, manten­gono la propria identità non già col distacco, ma con qualcosa di assai più difficile: col conservare una ferma ed equilibrata prospettiva su tutto l'arco delle passioni, di cui gli uomini sono capaci nel loro stato presente: "E’ per questo che la sposa di Cristo, la città di Dio, canta il Cantico dei cantici: ordinate in me caritatem: mettete ordine nel mio amore" (Cantico dei Cantici 2,4 in De Civitate Dei XV, 22,29). Nel mondo il monaco é il richiamo radicale dell'amore ordinato! (P. BROWN, Agostino d'Ippona, 324-326). Alla ecclesiologia alternativa e sacrale dei donatisti, che pensavano la purezza come esclusione di ogni rapporto con il secolo profano ed impuro, Agostino contrappone una concezione di Chiesa come microcosmo, che in sé assume, trasforma, perfeziona ogni positività, dovunque essa si trovi: così il microcosmo Chiesa cattolica in sé realizza ed attorno a sé promuove l'unificazione della razza umana, creata da Dio in un solo uomo, Adamo (cfr P. BROWN,  Agsotino d'Ippona, op. cit., 216-217).

Come la Chiesa é microcosmo, così il monastero per Agostino é microecclesia: non rappresenta una chiesa dei puri, che si contrappone alla grande Chiesa: il monastero è pensato e voluto come incarnazione di quell'idea­le ecclesiale, che il libro degli Atti degli Apostoli aveva delineato e che tutta la chiesa in quanto tale deve perseguire. Quindi per Ago­stino l'ideale monastico quanto a contenuti non si distingue dall'idea­le ecclesiale: la distinzione si pone soltanto nell'ordine dei mezzi: il monaco rinunciando ai beni materiali, può aderire più rapidamente degli altri cristiani a quello, che é il possesso e la meta di tutti i cristiani: Dio!( cfr L. VERHEIJEN, Die Regel des Hl. Augustin, op. cit., 363).

Poiché l'ideale monastico agostiniano é essenzialmente ecclesiale, non si dà netta separazione del monaco dalla vita ecclesiale, al contrario la necessità ecclesiale può portare il monaco al diretto impegno pasto­rale (cfr Agostino ad Ippona; Possidio a Calama; Alipio a Tagaste...: il monastero di Ippona divenne un seminario di vescovi).  Cito in propo­sito passi assai significativi di Agostino:

”Se la chiesa madre richiederà i vostri servizi, non accettateli per a­vida brama di salire né rifiutateli per il seducente desiderio di non fare nulla, ma ubbidite con umile cuore a Dio... Non anteponete la quie­te della vostra contemplazione alle necessità della Chiesa; ché se nes­suno dei buoni volesse portarle aiuto nel generare nuovi figli, neppure voi avreste trovato il modo di nascere in essa" (Epistola 48, 2).

"L'amore della verità ricerca la quiete della contemplazione (otium sanctum), la necessità dell'amore accetta l'attività dell'apostolato (nego­tium justum). Se nessuno ci impone questo fardello, applichiamoci allo studio e alla contemplazione della verità; ma se ci viene imposto, dobbiamo accettarlo per la necessità della carità. Tuttavia, anche in questo caso non dobbiamo rinunciare completamente alle gioie della veri­tà, affinché non accada che, privati di quella dolcezza, restiamo oppressi da questa necessità" (De civitate Dei XIX,19).

Parlando, di Pietro che, dopo la Trasfigurazione vorrebbe rimanere sul Tabor, così ebbe a dire Agostino: "Scendi, o Pietro! Bramavi riposare sul monte; ma no, scendi, proclama la parola... lavora, sopporta la fati­ca, soffri i tormenti.... La realizzazione del tuo desiderio, o Pietro, é in serbo, ma dopo la morte! Ora egli stesso, il Signore, ti dice: «Scendi 'a terra a lavorare, a servire, ad essere disprezzato, ad essere crocifisso. E' discesa la Vita per farsi uccidere; é disceso il Pane per soffrire la fame; é discesa la Via per stancarsi sulla via; é disce­sa la Sorgente per soffrire la sete: e tu ti ricusi di lavorare? Non cercare il tuo interesse. Abbi la carità, proclama la verità: giunge­rai all'eternità e troverai la pace»" (Sermone  78, 6).

Si noti però: la necessità ha suggerito ad Agostino la "clericalizzazio­ne" estrinseca, contingente del monachesimo. La convenienza, l'opportu­nità ha determinato Agostino a "monachizzare” il suo clero: ha voluto cioè che tutti coloro che erano chiamati a guidare i fratelli verso l'unico fine ecclesiale, si servissero di quell'ordine di mezzi che rendeva più spedito il passo (cfr Sermone 355, 6): la rinuncia ai beni materiali e la vita d'insieme! Fu criticato per la sua eccessiva severità; fu anche tradito dall'ipocrisia di qualche suo sacerdote e perciò con amarezza ebbe a dire: "Io muto atteggiamento: chiunque desidera avere mezzi propri, chiunque non é pago di Dio e della sua Chiesa, risieda pure dove vuole: non lo priverò dei suoi ordini! Non voglio ipocriti... Se é disposto a vivere del solo Dio nella sua Chiesa e a non possedere nulla che gli appartenga… resti pure con me! Chiunque non se la sente, riabbia pure la sua libertà: ma si accorgerà da solo, se potrà consegui­re la sua eterna felicità!" (Sermone 355, 6).

Sulla strada della “monachizzazione” del clero Agostino aveva dei precedenti in Eusebio di Vercelli, in Paolino di Nola, forse in Victricio di Rouen: tuttavia l'impulso di Agostino fu incompa­rabilmente più vigoroso ed esteso.

Ma il vivere insieme in povertà, obbedienza, castità di questi monaci-pastori o pastori-monaci ebbe una importante conseguenza: comunità, casti­tà, povertà, sganciandosi dalla vita contemplativa e sempre più circoscrivendo la vita dei pastori, finirono col creare la figura del religioso, che vive e agisce tra i fratelli, distinguendosi da loro come membro di una casta più sacrale: a questo punto il sacerdote si distingue dal laico non solo per una diversità di funzione ecclesiale, ma anche per una diversità di stato di vita (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei  Padri, op. cit., 491-493).

 

4 – Il monachesimo in Italia

 

a)  gli inizi nel IV secolo

Anche in Italia il monachesimo si é sviluppato sul terreno del preesistente ascetismo. La genesi può essere attribuita al convergere di due fat­tori.

Nel IV secolo, in seguito alla pace costantiniana, il mondo si fece pro­gressivamente e velocemente cristiano e le comunità cristiane, dal canto loro, videro sempre più affluire cristiani mondani. In tale contesto la vita degli asceti, soprattutto delle vergini, ambientata come era all'in­terno delle varie comunità cristiane, appariva esposta a pericoli, mi­nacce, incomprensioni. I responsabili delle comunità cristiane avverti­rono pertanto l'esigenza urgente di porre degli argini allo spontaneismo ascetico: si ebbe. così una proliferazione di scritti sulla verginità (Atanasio, Ambrogio, Girolamo ad es.) miranti a regolamentare la vita delle vergini (circa l'abitazione, le uscite, la preghiera personale e la preghiera insieme con le altre vergini nelle ore indicate, il digiuno, l'elemo­sina, la vicinanza ai malati); si attribuì loro uno status quasi ufficiale (cfr il diffondersi del rito della consacrazione delle vergini, ce­lebrato dal vescovo: il rito comprendeva la "velatio", che costituiva per ­le vergini una specie di divisa).

A questa tendenza alla regolamentazione, sempre nel corso del IV secolo, si associò un secondo fattore: l'influsso del monachesimo orientale!.

Ne conseguì prima di tutto una accentuazione della tendenza alla coesio­ne fra le vergini di uno stesso centro (cfr i circoli ascetici di ver­gini e vedove romane, che negli anni 381-384 si raccolgono per esempio intorno a Girolamo, appena tornato da un ritiro monastico in Siria): ta­lora si giunse anche alla costituzione dì comunità ascetiche.

L'influsso monastico orientale in secondo luogo spinse a radicalizzare la distanza dalla vita ordinaria della comunità cristiana (P. POURRAT, La spiritualité chretienne, op. cit., 118 -122).

Ma a questo punto l'ascetismo é divenuto monastico!

Agostino nel 337 c. accenna (De moribus ecolesiae catholicae et de moribus Manichaeorum, I, 33, 70-73) ad un monastero femminile romano, in cui vivono vergini e vedove, seguendo insieme l'ideale della carità. Ambrogio a sua volta esalta la voce orante degli asceti, che sulle isole abbandonate fanno a gara col mormorio delle onde marine (Hexaemeron, III, 23-24).

Alla Epistola 48 di Agostino, dove si accenna ad una comunità monastica ritiratasi sull'isola Capraia, fa eco il De reditu suo (439-452) di RUTILIO NAMAZIANO, che sulla stessa isola colloca uomini spregevoli, che "dalla luce se ne fuggono"!. Con evidente disgusto poi lo stesso  Rutilio narra di un giovane, che tutto ha lasciato per cercare viva sepoltura sull’isola Gorgona (ibid. 515-526).

Ad Eusebio di Vercelli si deve l'introduzione in Italia del "monasterium clericorum" (dopo il 363), che rappresenta la prima fondazione monastica italiana maschile e probabilmente la prima iniziativa in tutta la Chiesa, dove monachesimo ed impegno clericale si fondono in maniera organica ed istituzionale. Il vescovo di Milano Ambrogio a sua volta é all'ori­gine di una comunità monastica maschile, che viveva fuori le mura della città di Milano (AGOSTINO, De moribus ecolesiae catholieae et de moribus Manichaeorum, I, 33,70-;  Confessioni, VIII,6,15). Noto é anche l'indefesso lavoro dà Ambrogio per la vita ascetica femminile.

 

b) Il monachesimo in Italia nel secolo V

La diffusione crescente del fenomeno é la prima caratteristica (Monteluco di Spoleto; Farfa;  Arnobio il giovane a Roma; Liberio presso Ancona; Antonio di Lerino sul Lago di Como; Eugippio presso Napoli; a Bologna intorno al vescovo Petronìo; a Brescia intorno al vescovo Onorio; a Nola intorno al vescovo Paolino; a Ravenna intorno al vescovo Piero Crisologo; a P­avia intorno al vescovo Ennodio; a Verona intorno al vescovo Zeno).

La diffusione comportò l'esigenza di una regolamentazione: poiché in Italia mancarono sia un grosso centro monastico, che si imponesse sugli altri con le sue consuetudini, sia una personalità di rilievo nazionale, si ebbe un pullulare di regole eclettiche, che si rifacevano alla letteratura monastica orientale ed occidentale allora in circola­zione (Vita Antonii; Regola di Pacomio nella traduzione di Girolamo; regole basiliane nella versione di Rufino di Aquileia; opere di Cassiano; Apoftegmi e vite dei padri del deserto): nessuna di queste regole divenne dominante.

Terza caratteristica: lo sviluppo fu ben presto inserito nel quadro de­gli ordinamenti diocesani: il legame con il vescovo e con le esigenze delle chiese locali fu quindi molto stretto. I vescovi spesso si servi­rono di monaci per incombenze pastorali e per attività liturgiche (cfr Sisto III e Leone Magno, che collocano monaci rispettivamente accanto alla basilica di s. Sebastiano ad catacumbas e accanto alla basilica Vaticana.

 

c) Benedetto

     Per tracciare la biografia di Benedetto si deve fare riferimento obbligato, anzi quasi esclusivo al secondo libro dei Dialoghi di GREGORIO MAGNO (altri riferimenti: Dialoghi,  III,16; IV, 8-9).

     Gregorio Magno volle offrire all’Italia un’agiografia, che potesse affiancare la Vita Antonii per l’Egitto e la Vita Martini per le Gallie.

     La vita di Benedetto è come il pannello centrale di un trittico, i cui pannelli laterali (libro I e libro III)  presentano una folla di personaggi secondari. Con i suoi circa 40 miracoli Benedetto eccelle rispetto a questi taumaturghi minori…. Posto al centro dei primi tre libri, Benedetto anche apre il quarto libro. L’abate di Montecassino non è dunque solo la figura dominante dell’opera, ma anche è il motivo centrale intorno al quale si articola tutta l’opera, è insomma il trait d’union tra le parti del trittico e tra questo e il quadro che lo sovrasta (A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, Abbaye de Bellefontaine 1981, 18).

     Si noti che Gregorio Magno scrisse, quando Montecassino era già stato distrutto dai Longobardi (577). Per poco rimase attivo il monastero di Subiaco. Quindi a fare memoria di Benedetto, fino al 717 – anno della ricostruzione di Montecassino -, non rimasero che la Regola e il ritratto dei Dialghi.

Un confronto tra la data di composizione dell'opera (593-594) e la data della morte di Benedetto (547) porta a rilevare la relativa vicinanza tra narrazione ed eventi narrati! L'introduzione poi pare esaltare il valore storico del testo gregoriano, affermando : "Quel- poco che sto per narrare, l'ho saputo dalla relazione di quattro suoi disce­poli: il reverendissimo Costantino, suo successore nel governo del mona­stero, Valentiniano, che fu per molti anni superiore presso il monastero al Laterano; Simplicio, che per terzo governò la sua comunità, infine Onorato, che ancora dirige il monastero in cui egli abitò nel primo periodo di vita religiosa."

La lettura dell'opera in realtà suscita parecchie perplessità sul valore sto­rico di quanto vi viene esposto.

C’è una evidente propensione al miracolistico: infatti, oggetto dello scritto altro non è che raccontare dei miracoli. Di questi si tenderà senz’altro a relativizzare l’importanza e ad attenuare il fascino, subordinandoli con insistenza alla virtù, della quale sono indice. I miracoli sono collocati con un certo ordine e connessi con le tappe successive di un itinerario verso la perfezione.

Prima parte: Ciclo di Subiaco (capitoli 1-8a): nei cc 5-8 modelli di Benedetto sono Mosé, Eliseo, Pietro, Elia, Davide. Pietro, quale taumaturgo del Nuovo Testamento, è posto al centro; agli estremi è posta la Legge (Mosè e Davide) e poi i profeti in posizione intermedia.

Questa prima parte è  costruita come un trittico.

I due pannelli laterali sono dati da: capitoli 1-3 da un lato e capitolo 8 dall’altro e presentano i fatti successivi di Roma, Affile, Subiaco, Vicovaro, persecuzione di prete Fiorenzo.

Il pannello centrale: capitoli 4-7: 4 miracoli situati tutti nell’arco di tempo, in cui Benedetto esercita il ruolo di abate senza ostacoli e raccontati in una sorta di atemporalità.

Seconda parte: Ciclo Cassinese (capitoli 8b-38). Anche questa parte è costruita come un trittico: il primo pannello laterale (capitoli 8b – 11) presenta dei fenomeni diabolici iniziali; il secondo pannello laterale (capitoli 34-38) racconta la fine; il pannello centrale (capitoli 12-33) presenta una serie di miracoli narrati non in ordine cronologico ma in ordine sistematico.

Emerge un itinerario spirituale,   in cui vengono affrontate e superate quattro grandi tentazioni secondo la tipologia di Gesù tentato e vittorioso.

I tentazione: nella solitudine di Subiaco matura il rifiuto della gloria, il trionfo sulla superbia e sulla vanità. E’ la vittoria sulla parte razionale dell’anima (logistikòn).

II tentazione: vittoria sulla lussuria mediante il sacrificio. E’ la vittoria sulla parte concupiscibile dell’anima (epithymetikòn)

III tentazione: nel contesto di opposizione dei monaci, nel contesto di persecuzione da parte di prete Fiorenzo  e a fronte delle tentazioni di aggressività fa trionfare la carità e l’umiltà sulla collera e l’odio. E’ la vittoria sulla parte irascibile dell’anima (thymikon).

Montecassino rappresenta il vertice del cammino spirituale, dove Benedetto affronta lo scontro a faccia a faccia con satana-paganesimo e ne esce dotato dei poteri soprannaturali della profezia, della potenza e della veggenza escatologica.

In tutto questo itinerario si mostra che ogni volta che Benedetto supera una tentazione gode di una crescita della capacità di relazioni benefiche con gli altri (la gente, monaci di Vicovaro, monaci suoi discepoli) e quindi della sua paternità di fondatore (cfr A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 15-43).

 

Di fronte all’evidente uso del miracolistico, dobbiamo sentirci spinti a ricercare qual é l'intento precipuo, che presiede alla biografia e qual é il genere letterario, a cui deve essere ascritta. Su questo punto Gregorio Magno é esplicito: sono fatti meravigliosi, che "devono giovare all'edificazione di tanti” (c. 7); “sono fatti meravigliosi, che devono provare la dottrina (c.32): del resto il dialogo continuo con Pietro mira chiaramente a mettere in evidenza, l'insegnamento, che il prodigio nasconde ed insieme proclama. Lo scritto di Gregorio pertanto non va collocato tra le "opere storiche”       ma tra le agiografie, che prima di tutto perseguono uno scopo parenetico, quasi catechistico (G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo in S.Benedetto,  Roma 1965, 20).

In quel declinare del VI secolo Gregorio Magno, era mosso da una grande
preoccupazione: ridare vitalità ad una cristianità, che languiva sempre più nel pessimismo e nella disperazione. Rapito alla tranquillità del monastero dalle incombenze pastorali, Gregorio - lo rivela nell'introduzione - avverte nella sua carne quanto gli affanni e le difficoltà del secolo possano rendere lontano e impercettibile il porto della sicurezza serena e tranquilla che è Dio. Ecco pertanto la provvidenziale funzione delle grandi figure dei solitari italiani: proclamare emblematicamente - al dì là e al di sopra di ogni frastuono mondano - qual é il porto, verso cui deve veleggiare l'esistenza umana; mostrare che é raggiungibi­le; mostrare come si raggiunge! Questo “come” consiste in un intreccio insolu­bile di potenza di Dio e di ascesi dell'uomo: dal momento che la mentalità elementare sia della romanità decadente sia del germanesimo invasore leggeva la potenza divina in termini miracolistici, progresso ascetico e crescendo miracolistico si snodano parallelamente.

Da una parte lo snodarsi dei miracoli, affermando la vicinanza di Dio a cattolici vissuti anch'essi in quei tempi oscuri, svolgeva una funzione consolatoria presso i fedeli scoraggiati e una funzione apologetica presso chi cattolico non era: dimostrando che Dio stava dalle parte del cattolicesimo romano, i Dialoghi servirono da efficace argomento contro i Longobardi ariani o pagani (Gregorio Magno inviò una copia della sua opera alla regina Teodolinda: PAOLO DIACONO, Storia dei Longobardi, IV,5). Dall' altra parte il cammino ascetico rappresentava una proposta di vita, accessibile anche ai fedeli di quel tempo, qualora si fossero resi fiduciosi nella potente vicinanza divina!

Il cammino ascetico di Benedetto, secondo i Dialoghi, ha come fondamento un duplice e radicale distacco: dal mondo con la sua cultura (c.1), dal corpo con le sue passioni (c.2). Ne consegue che Benedetto si viene a trovare unito in maniera profonda a Dio, di cui. riceve lo Spirito, che lo costituisce maestro di virtù per molti (c.2). In quest'opera Benedetto - in forza dello Spirito di Dio - mostra di possedere la stessa giu­stizia dei grandi giusti della Bibbia (cc. 3-11: i miracoli riproduco­no la tipologia biblica di Mosè, Eliseo, Elia, Davide, Pietro) la loro stessa capacità profetica (cc. 12-22) e       il loro stesso potere taumaturgico (cc. 23-38).

Al c. 36 dei Dialoghi si legge: “C'é una cosa però interessante, che non devi ignorare, cioè che l'uomo di Dio, oltre ai tanti miracoli che lo resero così conosciuto nel mondo, rifulse anche per una eccezionale esposizione di dottrina. Scrisse infatti anche una regola per i monaci, regola caratterizzata da una singolare discrezione ed esposta in chiarissima forma. Veramente se qualcuno vuole conoscere a fondo i costumi e la vita del santo, può scoprire nell'insegnamento della regola tutti i documenti del suo magistero, perché quest'uomo di Dio certamente non diede nessun insegnamento senza averlo prima realizzato lui stesso nella sua vita".

L’espressione “discrezione” attribuita alla regola di san Benedetto normalmente viene intesa come “moderazione”. Sarebbe meglio intenderla nel senso di discernimento degli spiriti attraverso “dura et aspera” (si veda GREGORIO MAGNO, In Librum I Regum, 4,70: cita la regola di Benedetto circa il modo di provare i postulanti e lo loda per la sua rudezza, perché è mezzo sicuro per “discernere” le vocazioni: A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 70-74).

In realtà il confronto regola-Dialoghi porta a rilevare che si dà una certa discrepanza tra le due proposte ascetiche: il Benedetto della Re­gola appare discreto e misurato, appassionato sostenitore della vita ce­nobitica, totalmente ed esclusivamente dedito all'esperienza monastica; il Benedetto dei Dialoghi invece presenta le connotazioni di una perso­nalità eccezionale, impegnata in una sua impresa personale, singolare (cfr singolarità e straordinarietà dei miracoli), che comporta anche incursioni pastorali (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 510-512). Che dire? Non o'é dubbio che si tratta di un'agiografia, che ri­sponde ad esigenze e preoccupazioni, che sono di Gregorio Magno. Se, come abbiamo cercato dì fare, a queste esigenze e preoccupazioni gregoriane viene ricondotto il miracolistico, allora al di là dello straordinario viene in evidenza un itinerario spirituale accessibile. Anche in questo itinerario spirituale emergono delle prospettive, che sono più gregoriane che benedettine: ad esempio lo sviluppo pastorale del monachesimo è chiaramente ascrivibile al papa della conversione dei Longobardi e della evangelizzazione dell’Inghilterra attraverso mo­naci; ma così facendo, Gregorio si comporta come tutti i capi di centri monastici del suo tempo, i quali pur ispirandosi ad una particolare regola, non la sentono come assolutamente cogente ma anzi la modificano secondo le loro personali inclinazioni spirituali e secondo le esigenze particolari e concrete del momento, ispirandosi ai molteplici testi della letteratura monastica! Tuttavia si deve riconoscere anche che é una agiografia, che si fonda, su un nucleo autenticamente benedettino e con­sistente in alcuni dati biografici ed in alcuni elementi fondamentali della proposta monastica di Benedetto, riconducibili alla regola benedettina: “Che un certo Benedictus ha fondato, nella prima metà del VI secolo, monasteri a Subiaco, a Montecassino e a Terracina, che ha avuto per successori gli abati Costantino, Simplicius, Onorato e per discepolo Valentiniano, il futuro superiore del Laterano, sono questi dei fatti e dei nomi di notorietà pubblica, legati a posti precisi, a edifici visibili, a comunità ben definite. L’autore dei Dialoghi non ha potuto inventarli” (A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 15).

Ora vogliamo ricordare  questi dati biografici.

"Era nato da nobile famiglia, nella regione di Norcia (verso l'anno 480; Schuster preferisce il 470).            Pensarono di farlo studiare e lo mandarono a Roma, dove era più facile attendere agli studi letterari (retorica).

Lo attendeva però una grande delusione: non vi trovò altro che giovani sbandati, che si stavano rovinando per le strade del vizio. Era ancora in tempo. Aveva appena posto un piede sulla soglia del mondo e subito lo ritrasse in­dietro. Aveva capito che anche una parte di quella scienza mondana sareb­be stata sufficiente a precipitarlo intero negli abissi. Abbandonò quindi con disprezzo gli studi, abbandonò la casa ed i beni paterni  e partì alla ricerca di un abito che lo designasse consacrato al Signore. Gli ardeva nel cuore un'unica ansia: quella di piacer soltanto a Lui. Si allontanò quindi così: aveva scelto consapevolmente di essere incolto, ma aveva imparato sapientemente la scienza di Dio." (Dialoghi II, introd.).

“Si diresse verso una località solitaria e deserta chiamata Subiaco, distante da Roma circa 40 miglia… Si affrettava dunque a passi svelti verso questa località, quando si incontrò per via con un monaco di nome Romano, gli domandò dove andasse. Conosciuta la sua risoluzione, gli offrì volentieri il suo aiuto. Lo rivesti quindi dell'abito san­to, segno della consacrazione a Dio, lo forni del poco necessario, secondo le sue possibilità, e gli rinnovò la promessa dì non dire il segreto a nessuno. In quel luogo    di solitudine, l'uomo di Dio si nascose in una
stretta e scabrosa spelonca. Rimase lì dentro tre anni e nessuno seppe mai niente... In seguito… la fama di lui si diffuse in tutti i paesi vicini..." (Dialoghi II,1).

"Non molto lontano dallo speco (presso Vicovaro) viveva una piccola co­munità di religiosi, il cui superiore era morto di recente (comunità di s. Cosimato). Tutti insieme questi uomini si presentarono al venerabile Benedetto e lo pregarono insistentemente perché prendesse il loro governo. Il santo uomo si rifiutò a lungo, con fermezza, soprattutto perché era convinto che i loro costumi non si sarebbero mai potuti conciliare con le sue convinzioni. Ma alla fine, quando proprio non poté più resistere alla loro insistenza, acconsentì. Li seguì dunque nel loro mona­stero e cominciò subito a vigilare attentamente che la vita fosse rego­lare e che nessuno si potesse permettere, come prima, di flettere a de­stra e a sinistra dal diritto sentiero della osservanza monastica. Questo li fece stancare e indispettire… e così quei malvagi si accordarono di cercare qualche mezzo per togliergli addirittura la vita.... (Benedetto) se ne tornò alla grotta solitaria, che tanto amava, ed abi­tava lì solo solo con se stesso.... Attorno a sé aveva radunati molti al servizio di Dio onnipotente, in sì gran numero, che, con l'aiuto del Signore Gesù Cristo vi poté costruire dodici monasteri, a ciascuno dei quali propose un abate e destinò un gruppetto di dodici monaci. Trattenne con sé alcuni pochi ai quali credette opportuno dare personalmente una formazione più completa..." (Dialoghi II,3).

In questa fase Benedetto “non ha nulla di specificamente «pacomiano» o «basiliano», ma piuttosto fa pensare alla Regola del Maestro, scritta per piccole comunità di una o due dozzine di monaci, del resto autorizzate a crescere; come pure fa pensare ai gruppi di monasteri fondati nella stessa provincia Valeria da un Equizio e uno Spes (Dialoghi, I, 14 e IV,11)… Nel passaggio da un sistema all’altro, la differenza dei tempi e dei luoghi ha forse più influito dei concetti e dei modelli teorici (A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 17).

"In tutte le zone circostanti la dimora del santo, si era andato svilup­pando un grande fervore religioso.... Purtroppo però c'é stato sempre il tristo costume dei cattivi di urtarsi della virtù che altri hanno e che essi non si curano mai minimamente di avere. Il prete di una chiesa vi­cina, di nome Fiorenzo..., istigato dallo spirito maligno, cominciò a bruciare di invidia per i progressi virtuosi dell’uomo di Dio… Reso ormai ceco da quella tenebrosa invidia, progettò infine un'orrenda decisione: inviò al servo di Dio un pane avvelenato, presentandolo come pane benedetto e segno di amicizia. L'uomo di Dio lo accettò con vivi ringraziamenti, ma non gli rimase nascosta la pestifera insidia che il pane celava.... Intanto però Fiorenzo, visto che non era riuscito ad uccidere il maestro nel corpo, macchinò di rovinare nell'anima i suoi discepoli… Allora il santo credette più opportuno cedere alla gelosia altrui: sistemò ben bene l'ordinamento dei monasteri che aveva costituito, stabilen­do i superiori, aggiungendo altri fratelli; poi, portando con sé solo alcuni monaci, partì per andare ad abitare altrove....

Il paese di Cassino è situato su un fianco di un alto monte.... C'era in cima un antichissimo tempio, dove la gente dei campi, secondo gli usi antichi dei pagani , compiva superstiziosi riti in onore di Apollo. Appena l'uomo di Dio vi giunse, fece a pezzi l'idolo, rovesciò l'altare e dove era il tempio di Apollo eresse un oratorio in onore di S. Martino... "(Dialoghi II,8).

Era l'anno 528. Sorsero altre fondazioni: a Terracina (Dialoghi, II,22), a Roma presso il Laterano (Dialoghi, II, intr.). In quegli anni procedette pure alla composizione della Regola      ( Dialoghi II,36).

Dal punto di vista cronologico non si deve dimenticare che la fondazione di Montecassino è stata seguita da un lungo periodo di guerre continue (535-553). Ciò ha comportato delle difficoltà enormi, di ciò la Regola di Benedetto, se la si confronta con attenzione con quella del Maestro, porta tracce assai chiare. La povertà, l’obbligo per i monaci di coltivare loro stessi le proprietà del monastero, forse una certa riduzione delle vocazioni, queste nuove condizioni hanno potuto spingere Benedetto a più prudenza. L’audace espansione di Subiaco avrebbe fatto posto a una crescita più lenta e più circospetta, a un concentrarsi delle forze e delle risorse, a un desiderio di radicamento e di sicurezza. Questa differenza istituzionale tra Subiaco e Montecassino così rilevante al nostro sguardo, interessò molto poco all’autore dei Dialoghi (A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 17).


A Montecassino Benedetto mori verso il 547: secondo A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 16 oggi si preferisce ritardare fino agli anni 555-560.

 

d) la questione della Regula Benedicti

Accanto alla Regula Benedicti (RB) ci é pervenuta un'altra regola, più ampia, ma per molti aspetti simile alla RB: si tratta della Regula Magistri.

 A - Era opinione comune che la RM fosse del VII secolo, quindi posterio­re alla RB e da essa dipendente.

B - Negli anni Quaranta è stata però avanzata la tesi opposta dal benedet­tino di Solesmes A. GENESTOUT (La Règle  du Maître et la Règle de S.  Benoît : Revue d'ascétique et de mystique 21(1940) 51-112; La Règle du Maître n'était-elle pas digne d’être utiisée par Saint Benoît? : Studien und Mitteilungen zur Geschichte des Benediktinerordens und seiner Zweige 61(1947), 77-92).

Genestout fonda la tesi dell'anteriorità della RM su argomenti di critica interna:

·      RM sarebbe stilisticamente e lessicalmente più unitaria e coerente di RB;

·      il monachesimo di RM presenterebbe caratteristiche meno evolute rispetto a   quello di RB;

·      RB in più punti mostra di voler perfezionare RM sotto il profilo istituzionale e disciplinare;

·      R.B tenderebbe a sunteggiare ed abbreviare RM.

Da allora si sono succedute le tesi più disparate: ricordiamo le più importanti.

C - R. HANSLIK, Benedicti Regula (CSEL 75) Vienna 1960 e TH. PAYR, Der Magístertext in der Ueberlieferungsgeschichte der Benediktinerregel : Studia Anselmiana 44, Roma 1959, 1-84 : sostengono che RB e RM si fonderebbero su una fonte comune, la perduta regola di Lerino. Tuttavia la RB sarebbe cronologicamente anteriore (530 c.); la RM invece risalirebbe agli anni 570-580 e si servirebbe anche della RB.

D - J. FROGER, La Régle du Maître et les sources du monachisme bénédectin : Revue d'ascétique et de mystique 30 (1954), 275-258: ritiene che la regola benedettina, a cui allude Gregorio Magno nei Dialoghi, sia in realtà la RM in una redazione probabilmente più breve. Successiva­mente Benedetto stesso, o altri, avrebbe portato la RM all'attuale am­piezza. La RB invece sarebbe una regola gallica della prima metà del secolo VII, opera dell’abate Venerando.

E - Si tratta di tesi che fanno derivare l'attuale RB dalla RM, che sarebbe pure un tentativo legislativo di     Benedetto: alcuni nella RM vedono la prima stesura, imperfetta (O.J. ZIMEERMANN; I.M. GOMEZ); altri (D.RENNER) invece ritengono che Benedetto prima della RM aves­se steso un abbozzo più breve: la RM sarebbe quindi il momento intermedio tra il primo abbozzo e l'attuale RB, che rappresenterebbe l'edi­zione definitiva, curata dal Santo.

"A parte le due ultime ipotesi (D ed E), le altre tre hanno tutte una certa probabilità di essere vere; quale però sia la vera, oggi nessuno lo può affermare con argomenti apodittici. E' certo tuttavia che l'ipo­tesi dell'anteriorità della RM sulla RB é oggi la più comune nel mondo degli eruditi" (G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo in s Benedetto, op. cit., 53: su tutta la questione cfr ivi le pagine 51-54; L. BOUYER, La spirituali­tà dei Padri, 520-521;  la più completa panoramica é offerta da B. JASPERT, Regula Magistri-Regula Benedicti : Studia Monastica 13(1971),129-171).

 

e) fonti,datazione e località di composizione della RB

     Per quanto concerne le fonti stiliamo una specie di classifica in base alla frequenza di   citazione:

§ Bibbia: sta senz'altro al primo posto. Per reminiscenza più che testualmente Benedetto cita molti libri della Sacra Scrittura, dando prova di una grande familiarità con il testo sacro. Il N.T. vi compare quasi al completo; dell'A.T. la preferenza va ai Salmi ed ai Libri Sapienziali (soprattutto Proverbi);

§ Cassiano: è l'autore monastico cui più deve;

§ Agostino 

§ Pacomio

§ Historia monachorum in Aegypto nella versione di Rufino;

§ Basilio

§ Girolamo

§ Cesario

§ regola di s. Macario

§ Cipríano

§ Sacramentario gelasiano

§ Sulpicio Severo

§ Leone Magno.

Come si vede, Benedetto dà prova di eclettismo. Tuttavia non si deve pen­sare che il risultato di tale opera sia un centone, privo di originalità: Benedetto si serve delle fonti in maniera molto libera e secondo un progetto suo personale, dando vita ad un'opera, che reca chiaramente la sin­golare impronta della sua personalità. E' certo interessante rilevare che con questa sua codificazione Benedetto esprime una tendenza epocale: in quegli stessi anni Giustiniano aveva promosso la codificazione del diritto imperiale romano, in quegli stessi anni Dionigi il Piccolo elaborava una importante collezione canonica: cfr P. de LABRIOLLE  La  vita cristiana in Occidente (= Storia della Chiesa dalle origini ai giorni nostri, dir. A. Fliche-V. Martin, IV) Torino 1972, 745).

Per la datazione della RB le fonti ci offrono indicazioni importanti: la "Vita Pacomii" é utilizzata secondo una versione latina del 527: quindi la RB ha come terminus a quo il 527! Nella RB sono reperibili anche riferimenti dalla Regula ad virgines di Cesario (534): il terminus a quo viene quindi meglio precisato. Concludendo: la redazione definitiva del­la RB può essere ascritta a due momenti:

            a) 540 c. fino al cap.66;

            b) 540-547: i cap. 67-73, più il prologo e aggiunte, disseminate qua e là nel testo. Dunque la RB non fu scritta tutta di seguito, ma a tappe suc­cessive: perciò sembra mancare di una logica coordinazione.

A questo punto è possibile anche determinare la località di composizio­ne: Montecassino: "pur ammettendo l'esistenza di orientamenti e norme sublacensi, riteniamo che la fuga a Montecassino vada messa in relazio­ne con la ricerca di un ambiente nuovo per attuare un ideale cenobitico, che oramai abbastanza chiaro e definito brillava nella sua mente". Quanto al titolo va ritenuto che noi non possediamo l'intitolazione benedettina: Gregorio Magno parla di Regula monachorum; i vari manoscrit­ti parlano ora di "sancta Regula", ora di "Regula monachorum", ora di "Regula monasteriorum".

(Per tutta questa parte cfr G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo in s. Benedetto, op. cit., 37- 46).

Dovremmo ora dedicarci all'analisi della Regola, ma ci pare senz'altro opportuno che ognuno accosti personalmente il testo.

 

f) rapporti della RB con il monachesimo anteriore

     "San Benedetto possedeva una conoscenza approfondita della letteratura monastica. Le fonti della sua regola lo provano. Ma, più della lettera, Benedetto ha fatto suo lo spirito: e proprio per questo ha potuto fare un’opera personale e nuova. I gradi principi spirituali della vita reli­giosa rimasero inalterati. Tuttavia, per assicurarne la durevole vitalità in Occidente, Benedetto elaborò a modo suo le modalità di applicazione. In tale modo la sua regola è una creazione che fa epoca nella sto­ria del monachesimo. Un confronto rapido con le precedenti regole monastiche rivela le caratteristiche proprie della regola benedettina.

Prima di tutto la sua originalità. L'originalità formale appariva a prima vista. Le regole prebenedettine non offrivano che una raccolta di massime spirituali, una serie di statuti, una lista di proibizioni, un catalogo di dettagli pratici. Nessuna era nello tesso tempo un codice completo di leggi e una esposizione di principi, capaci di organizzare perfettamente un monastero, di regolarne il buon funzionamento, di diri­gere e santificare gli abitanti. Il primo grande merito del patriarca dei monaci é stato di dare al monachesimo un codice pratico, preciso, ragionato. Accanto ai precetti, per investirli con tutta la loro luce, si rinvengono i principi che li spiegano e li sostengono, le esperienze che li giustificano. Offrendo al monachesimo una "legislazione", Benedetto ne ha fissato definitivamente gli elementi e ne ha soppresso le arbi­trarietà.

S. Benedetto ha introdotto la pratica dei voti in Occidente. Salvo quello di castità, i voti non sono menzionati né in Cassiano, né nelle antiche regole latine. In Egitto l'usanza di pronunciar dei voti non era universale. San Basilio invece li conosce. San Benedetto li ha diffusi in Occidente. Per primo, per quello che noi conosciamo, ha richiesto al professo una promessa scritta e firmata da conservarsi in monastero.

Di questi voti il più nuovo era quello della stabilità (non in maniera radicale, qualcosa di simile era stato previsto da Cesario). Rappresenta l'apporto più importante della RB nella organizzazione del monache­simo. Si può discutere sul significato esatto del voto. Bisogna tuttavia prenderlo nel senso stretto della stabilità locale, che fissa il monaco al monastero in cui ha effettuato la sua professione.

Uno degli elementi più fecondi apportati dalla regola nella vita monasti­ca è senza dubbio la sua discrezione. Dopo avere raccomandato all'aba­te questa "madre delle virtù", la RB gli propone questa norma di condot­ta: “L’abate moderi tutte le cose così che i forti desiderino fare di più ed i deboli non rimangano scoraggiati” (c.64). La sua ascesi in effetti si basa sulla purezza d'intenzione e non sulla difficoltà degli atti. Il santo non vuole imporre nulla di austero: nihil asperum, nihil grave, perché ritiene che la vita monastica debba essere accessibile a chiunque voglia cercare Dio. Anche il regime, che egli fissa é molto sopportabi­le, addirittura largo, sotto il cielo dell'Italia meridionale, nel VI secolo. In maniera molto liberale concede spazio per il riposo (otto ore circa di riposo continuo) vitto, abiti, permette il vino. Sul terreno della mortificazione corporale san Benedetto scoraggia francamente le prodezze personali: in ciò rompe con il passato dell'Oriente. In nessuna parte della sua Regola si incontra la parola “mortificazione”; in nessuna parte si fa questione di penitenze positive (discipline, catene di ferro, immersioni ascetiche…), che uno possa infliggersi volontariamente (per la quaresima il santo invita a qualche penitenza supplementare, ma si tratta di penitenze negative: subtrahat de cibo...de loquacitate…). Le sole pratiche che possono dare l'impressione di una certa austerità consistevano nell'ora piuttosto tarda dei pasti, nei digiuni frequenti, nell'astinenza perpetua. Ma non si tratta che di astinenze dalla carne di quadrupedi e per i malati, i gracili non é obbligatoria. Inoltre queste pratiche - pare - non pesavano affatto all'italiano del Sud (era il vitto ordinario della gente comune, che però trovava una integrazione varia nei prodotti della terra). Se é vero che Benedetto trascura le penitenze corporali supplementari, é altrettanto vero che egli, mettendo alla base della vita monastica i precetti ed i consigli evangelici, ri­propone evidentemente tutto il complesso di lotte e di sforzi, che que­sti necessariamente suppongono. Inoltre, forse più di tutti, insiste sull'ascesi che esigono le virtù, che lui ritiene essenziali, specialmente l'ubbidienza e l'umiltà: predica l'esercizio di queste virtù fino all'eroismo. Infine le lunghe ore di lavoro quotidiano (uno spazio di tem­po circa tre volte di quello dedicato alla preghiera) ed il giornaliero ufficio divino "pensum servitutis" rappresentano loro pure una dura mor­tificazione.

(Giornata tipo del monaco:

· 8 ore di riposo

· da 3 a 4 ore di orazione

· quasi 4 ore di studio e lettura spirituale

· da 6 a 8 ore di lavoro.)

San Benedetto é anche molto nuovo nella disposizione precisa dell'ufficio divino e nella brevità, che gli assegna. Le "piccole ore"  sono ridotte a ben poca cosa: tre salmi molto brevi. I Vesperi a loro volta non comportano che quattro salmi contro i dodici in uso nei monasteri egiziani. Ciò che gli antichi monaci recitavano in un giorno, i discepoli di Benedetto lo reciteranno in settimana. Sulla preghiera privata il santo dà delle direttive, che gli sono esclusive: sarà interiore, breve ma fervente. Ignora il lavoro e la preghiera simultanee.

Con San Benedetto il lavoro diventa oramai un elemento essenziale della vita monastica. La regola vuole che i monaci siano sempre occupati, perché il lavoro offre la garanzia della sanità dell'anima. Il lavoro (ivi compresa la lectio) dura una parte della giornata quasi tre volte maggiore del tempo consacrato alla preghiera (in estate più di tre vol­te): ciò ai vecchi, monaci sarebbe apparso inaudito!

Però non si tratta di un lavoro fine a se stesso, dove gli uni fanno e gli altri disfanno per potere ricominciare; no, sarà un lavoro utile per il monastero (PH. SCHMITZ, s.v. Benoît et Bénédectins : DSAM I, cc. 1385 1387).

 

f) Cassiodoro e la fondazione di Vivarium

Il panorama monastico italiano da noi tracciato sarebbe largamente e gravemente lacunoso, se fosse lasciato privo di un accenno a quella che senz'altro, dopo la legislazione benedettina, è la più celebre legislazione monastica d'Italia.

Noi già conosciamo il Cassiodoro collaboratore e consigliere di Teodorico e di Vitige: alla caduta di Ravenna, durante la guerra gotica (540), fece ritorno  nella sua terra di origine, la Calabria (vi era nato ver­so il 477) e dette vita nella sua proprietà di Vivarium ad una comunità monastica. Accanto alle tipiche connotazioni monastiche (clausura,  contemplazione, carità verso i malati ed i pellegrini) Vivarium dette uno sviluppo particolare all'attività culturale. Le "Istituzioni delle scritture divine a profane" di Cassiodoro enunciano chiaramente la conciliabilità tra cultura sacra e profana e quindi raccomandano un'assidua de­dizione sia alla letteratura cristiana sia alla letteratura classica!

Per questa via capolavori antichi, trascritti negli scriptoria monastici, sono sfuggiti all'oblio e sono pervenuti fino a noi.

 

 

 

RIFLESSIONE  CONCLUSIVA

“Il cristianesimo ha il monachesimo nel sangue” (R. LORENZ, Die Anfänge des abendlädndischen Mönchtums in 4  Jh. : Zeitschrift der Kirchengeschichte  77(19                     66), 2).

Questa affermazione verrebbe senz'altro sottoscritta sia dalla Chiesa Cattolico-Romana, sia dalle Chiese Orientali. Un discorso diverso invece si deve fare per le Chiese protestanti: dapprima assunsero una netta avversione al monachesimo; al presente però si può rilevare che la questione ascetico-monastica non é del tutto scomparsa dal loro orizzonte, sia perché ora trova consenso e attuazioni pratiche, sia perché ora invece viene ancora sottoposta a distanza critica e deciso rifiuto.

Ascesi e monachesimo da sempre sono stati considerati e indicati come forme particolari di vita cristiana. La vita ascetica si pone come una rinuncia volontaria a forme di vita in linea di principio lecite, a attuazioni dell’esistenza umana per sé rette. Il motivo di siffatta autolimitazione é religioso: è per il "regno dei cieli”, è   per la "gloria del Signore" .

Religiosa è anche la finalità: la rinuncia non ha nessun valore in sé: deve invece condurre ad una più elevata forma di vita religiosa. La vita religio­sa comporta sempre due aspetti: quello della rinuncia e quello della meta positiva. Così almeno vuole ogni forma di ascetismo, che sia autenticamen­te cristiana. Gli storiografi della Chiesa antica e medievale - ed anche i loro colleghi di buona parte dell'evo nuovo - considerano la vita asceti­ca come naturale espressione di vita cristiana, anzi la forma più alta di vita cristiana. Non é molto importante se il concetto, che vi sta alla base e la rappresentazione, che vi si connette, provengono dal mondo elleni­stico. Senz'altro l'annuncio cristiano primitivo contiene elementi, che so­no suscettibili di interpretazione ascetica. E si tratta non già di parole isolate, ma dell'atteggiamento fondamentale richiesto dal Nuovo Testamento.

Si pensi alla radicale richiesta di sequela di Cristo da parte del discepolo; si pensi alla sottomissione del credente alla signoria di Dio, che si manifesta in Gesù e che nella vita umana rimanda tutto il resto al secondo e terzo posto. Inoltre l'annuncio, proclamato e creduto, della imminente fine del mondo vietava al credente di stabilire un serio contatto con que­sto mondo: gli restava solamente la possibilità di stabilire col mondo relazioni, come se col mondo non avesse relazione (1Cor 7,29-31).

Perché questo annuncio giungesse a generare vita ascetica in ambito cristiano, bastava che venisse ad incontrarsi col mondo extra-cristiano, sia pagano sia tardo-giudaico, mondo improntato di spirito ellenistico, mondo colmo densamente di prassi ascetica, mondo in cui piccola non era la simpatia per le varie attuazioni di vita ascetica. Perciò la vita ascetica cristia­na deve essere intesa come una conseguenza dell'insolubile e non più revo­cabile processo di fusione di antichità e cristianesimo. Qui vale in maniera particolare la legge dell’epanorthosi (rialzo, miglioramento), formulata classicamente da Filone: "La vecchia moneta viene riconiata e di nuovo messa in circolazione".

L'ascesi pre-cristiana aveva già delineato il campo della prassi ascetica: vitto, abito, riposo, godimento della vita, possesso, vita sessuale. Que­sti ambiti rimasero il campo tipico di competenza dell'ascesi. Su questo terreno il cristianesimo non poteva introdurre nulla di nuovo sotto il profilo quantitativo. Muta pero il motivo di siffatto modo di fare: la fede in Dio creatore esclude necessariamente ogni ascesi motivata dualisticamente. Del resto il necessario muro di protezione non fu assolutamente eleva­to in maniera da impedire ogni forma di relazione!

Muta anche la meta dell'ascesi cristiana: essa é intesa a partire dalla fede cristiana in Dio e dalla connessa perfezione possibile all'uomo, anche se il vocabolario si deve servire ampiamente delle formule ellenistiche.

Un allargamento quantitativo apportato dall'ascesi cristiana può forse essere riscontrato nell'obbedienza, intesa come opera ascetica Sotto questo profilo sono normative l'autoalienazione di Gesù e il suo atteggiamento nei confronti del Padre dei cieli. Decisiva in tale senso é anche la storia del peccato originale, poiché l'esegesi tende a fare consistere il peccato originale in un peccato di disobbedienza. Conseguenza inevitabile é pertanto l'atteggiamento cristiano dell'umiltà, che dall'obbedienza viene assi­curato in misura rilevante.

Benché senza ascesi non si dà monachesimo, tuttavia non si deve semplicisticamente identificare la vita ascetica con la vita monastica; si può vivere asceticamente senza che per questo si debba assumere la forma di vita monastica. A ragione gli storici della Chiesa distinguono un tempo di ascesi pre-monastica dal tempo del monachesimo. L'asceta diventa monaco non appena in maniera visibile attua quell'istanza di fuga dal mondo, che é propria dell'ascesi: si sottrae così dal'ambiente, che fino a quel momento gli era stato familiare e fa della solitudine il suo nuovo mondo: diventa “monachos”, vivente solitario. Nella Chiesa cristiana questo processo è rilevabile dal III secolo: si delinea più facilmente in Egitto, indipendentemente dall’Egitto ha uno sviluppo anche Siria, nel corso dei primi decenni del IV secolo, poi coinvolge l'intera area ecclesiale… Il monachesimo trovò la sua prima attuazione nell’eremitismo orientale dove la forma di vita ascetica era dominata dal pensiero della solitudine. Sua cornice esterna era il deserto, oltre il mondo abitato. Non si deve però pensare ad un totale isolamento del monaco: ad impedirlo intervenivano i limiti invalicabili della natura umana, anche se i suoi bisogni erano ridotti il più possibile. Anche il monaco, che viveva nel deserto, rimaneva in contatto con il mondo: nel mondo vendeva il frutto del suo lavoro manuale; dal mondo era richiesto come esperto padre spirituale; dal mondo gli si raccoglievano intorno sempre più nuovi aspiranti alla vita monastica,che volevano essere da lui introdotti nelle pratiche della vita ascetica.

Inoltre nell'isolamento si sviluppò tra i monaci un molteplice e vivace scambio. Pertanto il primo stadio del monachesimo cristiano si presentò nella forma sociologica della colonia di anacoreti. Anche l'eremitismo quindi non poté sfuggire alla classica definizione greca, che vuole l'uomo in relazione con la società. Questa tradizione antropologica fu rinvigorita dalla teologia cristiana della creazione, secondo la quale non é buona cosa, che l'uomo viva solo.  Il Dio creatore della Bibbia fece l'uomo non come un es­sere isolato e selvaggio, ma come un essere sensibile e socievole: così affermava Basilio contro gli eremiti (BASILIO, Regulae fusius tractatae 3,1; 7,1). Di fatto nel corso del IV secolo la forma della vita monastica
si trasformò rapidamente. La disorganica colonia eremitica venne soppiantata dal chiostro, regolato con rigore. Il cenobitismo, in cui i monaci vi­vono entro uno spazio ben delimitato, secondo un identico ordinamento di vita e di lavoro, sotto un superiore dotato di grande autorità, cominciò a dominare nell'ambito monastico a partire dalla metà del secolo IV e lasciò sopravvivere l'arcaica forma primitiva dell'eremitismo come forma secondaria, tollerata o raccomandata ai monaci perfetti. I grandi strateghi della vita cenobitica furono Pacomio (+346) in Egitto; Basilio (+379) in Asia Minore; per l'ascetismo-eremitismo siriano, che pure nel IV secolo giunse al ceno­bitismo, non é possibile addurre nessun nome di organizzatore, che si sia imposto in maniera particolare.

Il monachesimo in Occidente si sviluppò in dipendenza dal monachesimo orientale, tuttavia già da tempo il terreno era preparato per la crescita della vita monastica: l'ideale di verginità praticato fin dagli inizi e altre forme ascetiche testimoniano la presenza di una ascesi premonastica anche nella Chiesa occidentale. (Abbiamo qui tradotto: K.S. FRANK, Einführung :       Askese und Mönchtum in der alten Kirche (= Wege der Forschung 409), Darmstadt 1975, 1-5).