sabato 6 aprile 2024

 

IL MONACHESIMO ANTICO IN ORIENTE

 

1 – Gli inizi

Dallo studio della storia della Chiesa nei primi tre secoli abbiamo appreso che molto presto si é sviluppata la tendenza a seguire Cristo, praticando una vita di rigore ascetico: la più significativa caratterizzazione esterna era costituita dalla attuazione dei consigli evangelici di povertà e vergi­nità. Come si sa, questi asceti vivevano all'interno delle varie comunità cristiane.

A partire da questa premessa possiamo dire che il monachesimo comparve, quando degli asceti decisero di separarsi dalla vita ordinaria della comunità cristiana per vivere l'istanza ascetica in un contesto diverso.

La fonte più antica, che ci informi del fenomeno, é senz'altro la "Vita Antonii", che oramai quasi unanimemente viene attribuita ad Atanasio, vescovo di Alessandria e campione dell'ortodossia contro l'arianesimo. Dalle molteplici discussioni tra gli specialisti si evince che la stesura sarebbe avvenuta verso il 365 (poco prima secondo J. G. EICHHORN e P. de LABRIOLLE; invece poco dopo secondo i Maurini).

Se si tiene presente che Atanasio aveva conosciuto personalmente il protagoni­sta della sua 'biografia" e che questi sarebbe morto verso il 356, si deve am­mettere che l'opera gode di una sorprendente contemporaneità!

Per un'adeguata utilizzazione della "Vita Antonii" in sede storica, occorre evidentemente definire a quale genere letterario essa appartenga: sono state avanzate le ipotesi più disparate: c'é chi (J.-LIST; L. BOUYER) vi vede la cristianizzazione del genere dell'encomio, tipico dell'antica retorica; chi invece rimanda (K. HOLL; R. REITZENSTEIN; B. STEIDLER) al genere del θεῖος ἀνήρ (theiòs anèr) reperibile nella vita di Apollonio di Tiana, scritta un secolo prima da Filostrato e più recentemente riproposto da Giam­blico (+ 330 c.) nella sua vita di Pitagora. Sotto questo profilo Atanasio intenderebbe "contrapporre il santo cristiano, che cerca di trovare la via verso Dio con l'aiuto di Dio, al filosofo pagano, che in pratica é quasi un Dio egli stesso" (A. MOMIGLIANO, Storiografia  pagana e cristiana nel secolo IV d.C : Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Torino 1975, 104). Qualcuno inoltre (P. de LABRIOLLE) ritiene che Antonio sia piuttosto occasione per sviluppare un discorso sulle quattro virtù cardinali.

Infine ricordiamo anche l'ipotesi di coloro (F. LOT) che connettono la "Vita An­tonii" con il genere letterario dell'aretalogia (aretè qui nel senso di mi­racolo, fatto meraviglioso).

Forse proprio questa pluralità di ipotesi potrebbe rivelare che la "Vita An­tonii" si ispira non a un particolare e determinato genere letterario preesistente, ma a più generi letterari e per questa via giunge a creare un nuovo genere letterario: quello dell'agiografia cristiana (G. TURBESSI).

Trattandosi di agiografia, é prima di tutto proposta di un modello di vita spirituale autenticamente cristiana (Gregario di Nazianzo, elogiando Atanasio, a proposito della "Vita Antonii" nella Orazione 21, 5 così si esprime: "una regola di vita monastica in forma di narrazione"), però é anche legittimo ri­tenere che in secondo piano si possano anche discernere i fondamentali li­neamenti  storici.

Nato verso il 251, Antonio si dedicò all'esperienza monastica verso il 270, quando si ritirò ai margini del suo villaggio natale (Qeman): per quindici anni fu anacoreta, tra altri anacoreti, sotto la guida spirituale di un vecchio eremita. L'indicazione é molto preziosa: ci porta a dedurre che Antonio non fu affatto l'inventore della vita monastica: c'é una preistoria del mo­nachesimo, che alla storia non ha consegnato altro che un tenue indizio di esistenza. E' vero che Girolamo dà l’impressione di sollevare il velo di mistero, che avvolge questi inizi, narrando la vita di un Paolo, eremita dal 250 al 341; la critica storica però nutre forti sospetti nei confronti di quest'opera, avanzando l'ipotesi che il protagonista di questo romanzo monastico non sia che un'invenzione letteraria del focoso e fantasioso dalmata. Si deve quindi riconoscere che Antonio merita il titolo di padre del monachesimo, essendo il primo personaggio che, grazie ad Atanasio, ma ancor più grazie alla sua eccezionale statura morale, ha lasciato una traccia chiara nella storia del monachesimo.

Comunque sia, va rilevato che la comparsa del monachesimo si colloca in un momento storico preciso: nella seconda metà del secolo III. E, si badi, la cosa é piena di significato. Verso il 260 il cristianesimo entrò in un pe­riodo di stasi delle persecuzioni, che si protrasse per un quarantennio, cioè fino alla persecuzione di Diocleziano, e passa alla storia con il nome di "piccola pace". In tale contesto la Chiesa si trovò sottoposta a due tensioni diverse e contrastanti.

Da una parte la Chiesa tese a diventare una “grande Chiesa" sia riaccoglien­do con misericordia i "lapsi" delle persecuzioni precedenti, sia aprendo le porte ad un numero rilevante di convertiti. Il fenomeno evidentemente com­portò in abbassamento di livello, un affievolirsi del comune entusiasmo dei primissimi cristiani. La cosa divenne macroscopica dopo la svolta costanti­niana, quando il cristianesimo si vide accolto dal secolo, in un certo qual modo vi si installò e talvolta troppo confortevolmente" (H.- I. MARROU, Le origini e i primi sviluppi del monachesimo : Nuova storia della Chiesa, I, Torino 1970, 318). "Le masse allora surrettiziamente riportarono nel cri­stianesimo superstizioni, germi pagani: il paganesimo é l'erba cattiva, che rifiorisce senza posa nel cattolicesimo.... Si attenuarono invece la tensio­ne escatologica, il senso di alterità rispetto al mondo e si instaurò una specie di identificazione Chiesa-mondo" (F. LOT, La fin du monde antique et le début du moyen âge, Paris 21968, 61).

Dall'altra parte questo contesto di "piccola pace" prima e di "grande pace" poi favorì nei circoli più ferventi, soprattutto tra gli asceti, un'ulterio­re rigorizzazione della loro vita. Alcuni,  improvvisamente, presero la via della contrapposizione netta alla "grande Chiesa", costruendo in alternati­va delle settarie chiese dei puri, dei santi, in cui il fondamento ed il criterio di appartenenza consistevano nella fedeltà ed integrità dell'uomo più che nella misericordia salvifica di Dio (Novaziano, Novato e Felicissimo). Altri invece, senza condannare la "grande Chiesa", di cui continuarono ad accettare l'autorità e ricevere i sacramenti, ricercarono la perfezione evangelica nella povertà, nel celibato, nella separazione dal mondo, compreso il mondo ecclesiale nella esteriorità delle sue relazioni ed espressioni (cfr J. GRIBOMONT, s.v. Monachisme  : DSAM, c.1540).

Non credo che si penetri esattamente il fenomeno, quando lo si presenta pri­mariamente e direttamente come una reazione al dilagare della mediocrità in seno alla grande Chiesa (nemo dat quod non habet): mi pare più rispondente al vero e alla logica considerare la nascita e l'esplosione del monachesimo primariamente e direttamente come una ricerca positiva di una nuova forma di perfezione evangelica. Nella fase delle persecuzioni perfezione evange­lica era il martirio. In epoca di pace però il martirio diventava idea improbabile e improponibile. Urgeva quindi rinvenire una nuova forma di assoluta dedizione a Dio e di assoluto distacco dallo spirito del mondo, secondo l'esigenza evangelica dell'essere nel mondo senza essere del mondo. Come all'epoca, delle persecuzioni fu l'ambiente fervente degli asceti a inoltrarsi con maggiore coraggio sulla strada del martirio, così in epo­ca di pace fu ancora l'ambiente fervente degli asceti a inventare e incre­mentare la nuova forma di perfezione: il monachesimo. Un chiaro segno di questa evoluzione dal martirio all'ascetismo radicale si riscontra per esempio in Metodio di Olimpo (III secolo), Convivio o discorso sulla verginità, VII, 3 (PG XVIII,128-129): “Le vergini si impegnano a subire una sorta di martirio perpetuo. Infatti non é che sopportino il peso del loro corpo solo negli attimi fuggevoli del martirio: lo sopportano per tutta la vita. Non hanno paura di sostenere la lotta senza tregua e veramente olimpica della castità e di opporre resistenza agli assalti torturanti delle passioni".

Certo non si può escludere che di riflesso la scelta monastica comportasse anche un giudizio sulla evoluzione - in parte involutiva - della vita eccle­siale, ma si trattava di un giudizio, che riproduceva lo stile del giudizio profetico: si trattava cioè di un giudizio, che in positivo diventava segno e stimolo e richiamo ideale di perfezione. Si deve insieme riconoscere che, finché venne da un monachesimo, che considerava l'umiltà garanzia suprema di saggezza, questo richiamo non assunse mai la forma presuntuosa e supponente, tipica di chi assolutizza la propria esperienza, imponendola come l'unica forma autentica di vita cristiana (J. GRIBOMONT, op. cit., c. 1540).

Al c.16 della Historia monachorum in Egypto (PL XXI,391) si legge: "Non si deve in questo mondo disprezzare nessuno, sia che si occupi degli affari della cam­pagna, sia che si occupi dei traffici del commercio, perché non vi è condi­zione in questa vita nella quale non sì incontrino anime fedeli a Dio e che compiano nel segreto le azioni che piacciono a Lui. Il che mostra che ai suoi occhi é gradita non tanto la professione, che uno abbraccia, né colui, che per il genere di vita scelto possa sembrare più perfetto, ma piuttosto, ai suoi occhi sono gradite la sincerità, la disposizione dello spirito, uni­te alle opere buone."

 

2 - Antonio prototipo del monachesimo in forma anacoretica

Nel delineare l'itinerario e l'esperienza spirituali di Antonio ci lasciamo guidare da una intuizione di R. REITZENSTEIN: secondo questo autore, Atanasio metterebbe in luce un fondamentale dinamismo, che si articolerebbe in tre momenti.

Primo momento (V.A. 1-7) : sarebbe caratterizzato esteriormente da un graduale distacco dal mondo delle relazioni esterne. La premessa é rappresentata dalla famiglia benestante e cristiana, dalla quale Antonio ricevette una formazione, che già comportava l'eliminazione di quei rapporti, che nei giovani inducono dissolutezza (V.A. 1).

Dopo questa prima riduzione dei rapporti esterni, il momento decisivo é rappresentato da un in­tervento di Dio: la scelta monastica é prima dì tutto una iniziativa divina, che si esprime come chiamata, vocazione: "Dopo la morte dei genitori, rimase solo con una sorella assai  piccola e, a diciotto anni o venti, si prendeva cura da solo della casa e della sorella.

Non erano trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando, secondo il solito, si recò in Chiesa... e capitò che proprio allora venisse letto nel vangelo il passo in cui Cristo dice al ric­co: «Se tu vuoi essere perfetto, vai, vendi tutti i tuoi beni e dalli ai poveri e di nuovo ritorna da me e avrai un tesoro nei cieli» (Mt 19,21)" (V.A. 2). Così, all'insegna della obbedienza a Dio, si compie il secondo grande distacco, il distacco dalla domus, cioè dalla sorella e dal patrimo­nio!

Si dedica ad un'esperienza monastica di tipo anacoretico, non lontano dal suo villaggio, sotto la guida di un vecchio eremita e stabilendo contatti con altri anacoreti: rimangono dunque ancora delle relazioni; non siamo ancora. alla perfetta e radicale solitudine eremitica, perché siamo ancora agli inizi dell'ascesi, della lotta spirituale e l'aiuto degli altri é ancora necessario al principiante. E’ possibile vedere qui quale interpretazione dava Atanasio del monachesimo cenobitico: ascesi insieme con altri, inferiore  e preparatoria rispetto all'ascesi eremitica!

La vita ascetica comportava lavoro con le proprie mani; carità verso i po­veri; preghiera continua; lettura assidua della Scrittura anche al fine della memorizzazione; lunghe veglie notturne, digiuno (un pasto al giorno; talora anche meno; niente carne; niente vino).

Alla fine di questa prima fase Antonio appare amabile agli occhi di Dio e agli occhi degli uomini (V.A. 4) e capace di dominare e vincere le seduzioni asserventi del mondo esterno (V.A. 5): ciò dipende prima di tutto dalla grazia di Dio, dall'opera del Salvatore. Il primo momento durò quindici anni.

Secondo momento_(V A. 8-13) : é caratterizzato da un graduale distacco dal mondo delle passioni interiori. La vita anacoretica ha portato Antonio alla capacità della lotta solitaria, in vita perfettamente eremitica. L'ambiente esterno é costituito prima da un sepolcreto lontano dal villaggio e poi dal deserto selvaggio (Pispir) ancora più lontano dal villaggio. La scelta di questi ambienti non é casuale, rispon­de ad una mentalità spirituale (cfr K. HEUSSI, Der Ursprung des christlichen Mönchtums, Tubinga 1936, 111; A. GUILLAUMONT, La concezione  del deserto presso i monaci dell'Egitto : A. SAITTA, Dall'impero di  Roma a Bisanzio  (= 2000 anni di storia 2), Bari 1979, 361-378).

Nella storia della spiritualità la nozione di deserto è ambivalente.

Si aveva del deserto in primo luogo una concezione realistica, finanche pessimista: comune ai popoli dell'antico Vicino Oriente, trovava particolare rilievo presso i Sumero-Accadici, che l'associavano al culto degli dei della fertilità e si affermò anche tra gli Ebrei.

"Il deserto é ciò che si oppone alla terra abitata e coltivata, sia la regione per natura deserta e sterile, sia quella che é diventata tale in seguito alle devastazioni della guerra o alle maledizioni di Iahvè: sono luoghi abitati unicamente dalle bestie selvatiche (iene, sciacalli, gatti selvatici, ecc.) e dai demoni, essendo del resto la distinzione tra gli uni e gli altri assai incerta. E’ laggiù che vengono respinti i rifiutati, gli esclusi: Caino, Agar e Ismaele, il capro espiatorio caricato dei peccati di Israele… Si rileggano le narrazioni dell'Esodo e, nei profeti, tra gli altri testi, il capitolo 20 di Ezechiele: il tempo del deserto é anche il tempo dell'infedeltà, del vitello d'oro, della contestazione a Meriba ed anche del castigo, poiché nessuno appartenente alla generazione del deserto doveva en­trare nella terra promessa, ove scorrevano latte e miele. In Egitto, paese che fu se non proprio la patria, almeno la terra di predilezione del monachesimo, troviamo monaci... per i quali l'idea del deserto é quella da sempre familiare all'Egiziano, attinente alla configurazio­ne geografica dell'Egitto, dove più violento che altrove é il contrasto tra la campagna coltivata, la stretta valle del Nilo, e l'immensità delle zone desertiche, deserto libico ad occidente, deserto arabo, più montagnoso ad oriente... Anche qui (il deserto) si riveste di un carattere religioso e mitico:  la terra coltivata, irrigata dall’inon­dazione del Nilo, la "terra nera" (Kémi, Io stesso nome che gli Egi­ziani davano al loro paese) é proprietà del dio della vita, Osiris e del suo figlio Horus, ai quali si oppone Seth, il dio del deserto, della "terra rossa", sterile, dio ostile e malvagio. Il deserto non è sol­tanto la terra, sterile, ma anche la regione dei sepolcri, il campo della morte, dove l'Egiziano non si avventurava mai senza timore; non poteva in­contrarvi, nel migliore dei casi, che bande di nomadi, di pelle nera, Libi­ci, Mazichi, Blemmi ed altri, che erano per lui degli stranieri, il più del­le volte ostili; e soprattutto, degli animali pericolosi e temuti, dei ser­penti..., dei carnivori.., ai quali la sua immaginazione, aggiungeva ani­mali fantastici e terrificanti. Questi animali, compagni e servitori di Seth, sono per l'Egiziano fattosi cristiano dei veri demoni, confusi con i falsi dei del paganesimo, che infestano ancora i templi in rovina disseminati nel deserto... Questa concezione del deserto, tipicamente egiziana, é illustra­ta alla perfezione nella Vita di sant'Antonio.... Il deserto vi appare come l'habitat per eccellenza dei demoni ed é per questo che l'ascesi, nel deserto, é presentata soprattutto come una lotta contro i demoni....V'é un legame molto stretto tra anacoresi nel deserto e attacchi demoniaci... : il motivo è che il demonio difende il suo territorio contro l'asceta che ha l'audacia di avventurarvisi...: “Allontanati da noi" gridano i demoni ad Antonio in mezzo ad un frastuono veramente infernale, "che legame c'é tra te e il de­serto?" (V.A. 13).

Antonio spiega come stanno le cose (V.A. 22). Ai tempi del paganesimo i demoni erano padroni in ogni luogo; ma, all'avvento di Cristo, hanno dovuto cedere il posto. Satana, il principe dei demoni, si lamenta con Antonio del fatto che, con la propagazione del cristianesimo, non ci sono più città o luoghi ove risiedere; gli restavano almeno dei siti aridi e spopolati; ma il deserto stesso si riempie di monaci (V.A. 41)... Se il demonio otta contro Antonio con tanto accanimento, é per difendere l'unica proprietà, che gli rimane....

Se si considera questo fenomeno nella prospettiva delle antiche concezioni del deserto, quelle degli antichi semiti e degli antichi Egizi, la lotta dell'asceta contro il demonio, la conquista che egli fa del deserto, habitat dei demoni, è il prolungamento in qualche sorta del combattimento del dio della fertilità, della terra coltivata, contro le po­tenze della sterilità del caos. Ma le fonti monastiche preferiscono considerare l'ascesi monastica nel deserto in una prospettiva specificamen­te cristiana.... Il combattimento dell'asceta nel deserto contro il demonio evoca in modo irresistibile il racconto della tentazione di Gesù, che riposa appunto sull'antica e realistica concezione del deserto da me analizza­ta. La scena raffigura la vittoria di Cristo su Satana, mediante la quale si inaugura l'opera di redenzione. In questa prospettiva, il monaco, recan­dosi nel deserto per lottare contro il demonio e trionfare su di lui, ri­produce e in certo modo continua l'azione redentrice.... Anche il monaco come Cristo é un atleta che va nel deserto per affrontare i demoni, per lottare con loro, come si esprime Cassiano: "Aperto certamine ac manifesto conflictu", " a viso scoperto, gli occhi negli occhi", come traduce piuttosto liberamente, ma con felice risultato Dom Pichéry."

L'Antico Testamento però, accanto a questa visione realistico-pessimista, sviluppa una concezione "idealistica", "mistica" del deserto.

"Essa si riferisce sia al passato di Israele, sia ai tempi messianici, esca­tologici. E' legata al ricordo che gli Ebrei avevano dell'Esodo, della marcia nel deserto del Sinai, nel corso della quale  Dio aveva suggellato un'alleanza con il suo popolo: è l’epoca del fidanzamento con Iahvè... Rimase sempre una certa nostalgia di quest'epoca, nutrita in modo particolare dai profeti.

La riconciliazione con Iahvè si manifesterà mediante un ritorno al deserto, luogo dell'amore e dell'intimità divina...".

Su questa concezione idealistica, soprattutto con Filone di Alessandria, si é poi innestato un tema ellenistico, frequente nella letteratura del I se­colo a.C. e dei primi secoli della nostra era: “Una specie di aspirazione romantica alla solitudine, al ritiro nel deserto si impadronisce dell'uomo stanco delle città; il cittadino disincantato di Roma e di Alessandria si costruisce degli eremi idilliaci, immagina delle sorti di conventi, dove, in una vita studiosa e pura, ritroverà la pace.... Questa associazione tra il deserto e la purezza, la fuga nel deserto presentata come mezzo per sfug­gire alla contaminazione, si ritrova in alcuni scritti ebraici di questa stessa epoca: Giuda Maccabeo si ritira con una decina di persone nel deser­to giudaico... per non essere contaminato dalla macchia che consegue alla profanazione del tempio da parte di Antioco Epifanio (2Macc 5,27). Parimenti i settari di Qumran si sono stabiliti nel deserto vicino al mar Morto per fuggire dalle macchie che il clero asmoneo impone alla città santa...

Questo tema del deserto, considerato come il luogo per eccellenza dove l'uomo gode la calma, (si gioca sulle parole ἔρημος, έρημία, "deserto" e ἠρεμία, "calma", “tranquillità"), si ritrova dopo Filone e sotto la sua influenza in tutta una stirpe di autori cristiani (Clemente d'Alessan­dria, Origene, Metodio d'Olimpo). A partire dal IV secolo… questo tema fa la sua comparsa nella letteratura monastica (Basilio, Gregorio di Nazianzo, Girolamo)..." (cito da A. GUILLAUMONT, op. cit.).

Al di là dei temi mitologici e letterari si deve scorgere una importante realtà psicologica: la solitudine é la situazione privilegiata, in cui l'uo­mo può scoprire ed affrontare tutte le forze oscure, che porta in sé. Per questa via il termine μοναχός (monachòs) raggiunge pieno significato: solitudine esteriore e, ancor più in profondità, unità, unificazione interiore mediante la rinuncia a tutto ciò che é fonte di divisione, di frazionamento, non sol­tanto nelle sue attività esteriori ma anche nella sua vita psichica; unità, unificazione mediante l'ἡσυχία    (esichia), parola difficile da tradurre, perché indica contemporaneamente la solitudine, la tranquillità, quello stato di vita in cui il monaco potrà praticare senza distrazioni "il ricordo di Dio", l'esercizio costante della presenza di Dio, il “soli Deo vivere” (Cfr A. GUILLAUMONT, op. cit. 374-375;  P. MIQUEL, s.v. Monchisme : DSAM  c. 1549).

La solitudine di Antonio si protrasse per venti anni circa. Conclusione: Antonio si trovò svincolato da ogni sudditanza nei confronti di Satana e animato dalla carità integrale.

Terzo momento (V.A. 14 – fine) : la carità divina fa di Antonio un  θεῖος ἀνήρ, capace di stabilire con gli uomini relazioni nuove, espressive di un vero amore e quindi apportatrici di autentico bene.

Per esprimere la perfezione raggiunta, caratterizzata da assoluta dedizione a Dio e totale distacco dal mondo delle passioni esteriori ed intime, Atanasio ricorre a molteplici esemplificazioni:

·         Antonio è abilitato ad. una vera paternità spirituale: intorno a lui si raccolgono molti discepoli, desiderosi di averlo come padre, maestro, medico: la fuga dal mondo si risolve dunque in una più alta e responsabile partecipazione alla storia dell'umanità;

·         Antonio é come un martire: durante le persecuzioni del 305 Antonio raggiunse Alessandria, avvicinò e confortò i confessori, nella spe­ranza che qualcuno lo notasse e lo condannasse al martirio: subì invece il martirio incessante del non-martirio (V.A. 46); ma in tale modo Antonio poté rendere alla Chiesa un servizio maggiore e insieme si sottopose al martirio quotidiano della sua coscienza e della lotta contro le prove della fede (V.A. 47): é manifesta l'intenzione di Atanasio di equiparare la perfezione ascetica del monaco alla perfezione del martire;

·         Antonio é stato reintegrato nella perfezione originaria, prelapsaria, quando Adamo aveva potere anche sulle bestie feroci (V.A. 50);

·         Antonio é divenuto un sicuro e tenace assertore della retta fede (V.A. 68-69) contro le varie sette scismatiche ed ereticali: ver­so il 335 Antonio intervenne direttamente contro gli ariani, rag­giungendo Alessandria e sostenendo con la sua predicazione le tesi di Atanasio.

La morte-apoteosi si sarebbe verificata verso il 356, quando per i suoi 105 anni Antonio poteva vantare la longevità patriarcale!

Nota bene: oltre alla Vita Antonii, disponiamo di altre fonti letterarie per la ricostruzione della figura e dello sfondo spirituale del grande patriarca:

·         Una serie di 38 apoftegmi (PG LXV, 76a - 88b): la scelta e la ste­sura letteraria si collocano in un ambiente a noi più vicino. Tut­tavia emerge una immagine di Antonio più autentica, in quanto non ancora raggiunta dal processo di esaltazione eroica, che si riscontra invece nella Vita Antonii (cfr J. GRIBOMONT, op. cit., 1540-1541).

·         Sette lettere: conosciute da Girolamo (De viris illustribus, 88) in una versione greca, che a noi non é pervenuta, sono invece reperibili in alcuni frammenti in copto (la lingua della stesura originale: Antonio non conosceva il greco), in due versioni latine (PG XL, 999-1066; PG XL, 972-1000) ed in una versione georgiana. L'autenticità é probabile (F. KLEJNA; L.v. HERTLING; G. GARITTE). Meritano menzione per tre ragioni: a) il linguaggio appare molto oscuro non solo per la assai travagliata tradizione letteraria, ma anche per il fatto che l'autore non dispone ancora di un vocabolario monastico ben definito; b) Antonio, pur mostrando di disporre e di una non vasta cultura e di una limitata capacità logica, appare imbevuto di un origenismo spinto: si deve pertanto concludere che Atanasio, nello scrivere la vita, ha attenuato i toni origenisti; c) va ridimensio­nata la tendenza a distinguere un monachesimo dotto (quello della seconda fase) da un monachesimo popolare ed evangelico (quello delle origini), tendenza seguita anche da L. BOUYER, La spiritua­lità dei Padri (= Storia della spiritualità cristiana 2), Bologna 1968, 255. Non Si deve fare coincidere la non-conoscenza del gre­co con l'assenza di ogni formazione culturale: l'Egitto nel quadro della sua tendenza autonomistica aveva sviluppato una sua tradizione culturale copta (cfr G. GARITTE; E. STEIN).

·           R. DRAGUET, Une lettre de Sérapion de Thmuis  aux disciples d'Antoine: Museon XIV (1951), 1 - 25: si tratta di. una lettera, che Serapione inviò ai discepoli di Antonio, per consolarli in seguito alla re­cente morte del loro maestro: é anteriore alla Vita Antonii e porta una importante conferma circa l'esistenza di Antonio, circa  
la sua eccezionale statura morale, circa l'esistenza di un gruppo che in lui trovava modello di vita.

cfr J. GRIBOMONT, op. cit., 1540-1541; A. SAITTA, Dall'impero di Roma  a Bi­sanzio (= 2000 anni di storia 2), Bari 1979, 415-419.

 

3 - Gli sviluppi dell'anacoretismo in Egitto

a) le fonti:

+ Historia monachorum in Aegypto sive de vitis Patrum (PL XXI, 388-462)

contenuto: in 33 capitoli di diversa lunghezza viene narrato un viaggio all'interno degli ambienti monastici egiziani: si sarebbe effettuato nel 394-395, vi avrebbero preso parte sette laici e un diacono, ai quali fu possibile accostare direttamente quasi tutti ì centri monastici. Per quanto concerne il monachesimo della Tebaide invece non fu possibile la testimonianza oculare, perché la marcia, inoltrandosi in zone esposte ai briganti ed ai barbari, diventava assai rischiosa: quindi gli otto si limitarono a raccogliere le voci e le tradizioni!

datazione: 400 circa

autore: secondo C. BUTLER sarebbe un certo Timoteo, arcidiacono della Chiesa di Alessandria. Girolamo nella sua lettera CXXXIII a Ctesifonte contesta aspramente l'opera per il suo indulgere nei confronti di monaci origenisti e ne attribuisce la paternità a Rufino di Aquileia: in realtà Rufino fu soltanto il traduttore di un originale greco, che Girolamo non ebbe modo di conoscere. Pure é priva di fondamento l'attribuzione ad un Petronio di Bologna, sug­gerita da Gennadio nel "De viris illustribus”, XLII.

 

+ Apophtegmata patrum:

descrizione: si tratta fondamentalmente di tre raccolte di detti degli eremiti e anacoreti:

- I raccolta: in greco; ordina i detti secondo il cri­terio degli autori

in successione alfabetica (PG LXV, 71 - 440);

- II raccolta: l'originale greco é ancora inedito; é stata pubblicata una versione latina, che risale al VI secolo ed é opera di due diaconi romani (poi ascesi al papato): Pelagio e Giovanni; caratteristi­ca: i detti sono ordinati per tematica (PL LXXIII, 381-1062);

- III raccolta: in latino; é una recensione ibrida elaborata dal diacono Pascasio nel VI secolo secondo il criterio della distribuzione per tematiche.

Queste tre collezioni sono ben lontane dall'esaurire tutto il materiale.

datazione: il passaggio dalla tradizione orale alla stesura scritta si ebbe verso il 450 ad opera di un discepolo dell'eremita Pimenio.

 

+   Historia Lausiaca:

contenuto: narra le vite di parecchi padri del monachesimo egiziano. Lausiaca da Lauso, il ciambellano di Teedosio II, che sollecitò l'opera e ne ottenne la dedica; accanto ad una propensione per il miracolistico sì rileva una preoccupazione di obiettività, che induce a esporre anche gli eccessi, i limiti e le debolezze del fenomeno monastico.

autore: Palladio, dapprima monaco in Egitto, poi vescovo di Hele­nopolis in Bitinia.

data: intorno al 420. Ci é giunta in tre recensioni latine, in redazioni greche e siriache parecchio divergenti fra loro! (PG XXXIV, 995-1260: testo greco artificiosamente interpolato su una traduzione latina del 1555!)

 

+   Collationes Patrum XXIV di Giovanni Cassiano, pubblicate dal 420 al 429.

 

Sia la Historia Lausiaca sia le Collationes, pur riportando fatti e testimo­nianze primitive, risentono del successivo lavoro di sistemazione dottrina­le, compiutosi soprattutto sotto l'influsso di Evagrio Pontíco (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, Bologna 1968, 223), Anche A. SAITTA, Dall'impero di- Roma a Bi­sanzio, op. cit., 410-415; K. BAUS - E. EWIG, L'epoca dei concili. IV - V secolo (= Storia della Chiesa, dir. H. Jedin, II) Milano 1977, 385.

 

b) i centri monastici: .

+ Alto Egitto: in Tebaide si sviluppa un monachesimo in forma anaco­retica in connessione con l’esperienza di Antonio.

+ Basso Egitto (zona circostante il delta del Nilo): si segnalano tre aree monastiche:

·      NITRIA (oggi Barnugi, a sud di Alessandria, verso il deserto libico) Iniziatore fu Ammone (verso il 330).

·      CELLE (a un giorno di marcia a sud di Nitria): insediamento monastico collegato con Nitria. Caratteristico di queste due fondazioni é il tentativo di mitigare l'isolamento individualistico: gli anacoreti vivevano in capanne disseminate, ma il sabato e la do­menica convergevano per la celebrazione liturgica nella Chiesa centrale. Figura di spicco nel centro di Celle fu Macario di Alessandria (+394).

·         SKETIS (a circa 40 miglia a sud di Nitria, odierno Wadi-el-Natrûn fu la sede di Macario il Grande ( o l'Egiziano) a partire dal 330 c. per un arco di sessanta anni.

·         MONTE SINAI: in questo periodo delle origini il monachesimo qui sviluppatosi non fu che un'appendice del monachesimo egiziano: infatti, anche se originario della Palestina, proveniva dal centro monastico di Sketis quel Silvano, che con dodici compagni nel 380 sì insediò nella zona del Sinai. Importante fonte per lo studio del monachesimo sinaitico è la Peregrinatio o Itinerarium di quella vergine, cui gli studiosi ora attribuiscono il nome di Silvia ora quello di Eteria ora anche il nome di Egeria!

 

4 – Gli sviluppi dell’anacoretismo siriano

a) le fonti:

Mi limito a segnalare quelle più importanti in ordine a questo nostro tema: sono due e sono ambedue opera di uno stesso autore: Teodoreto di Ci­ro. Nato ad Ahtiochia verso il 393, in giovane età si fece monaco nel monastero di Apamea. Creato nel 423 vescovo della città di Ciro, in Si­ria, nel 449 si trovò costretto ad abbandonare la sede episcopale, per­ché sospettato di connivenze con i nestoriani ed i monofisiti. Finì i suoi giorni nel monastero di Apamea (+ 457).

·         Storia religiosa (o monastica): tratta esclusivamente degli anaco­reti siriani (PG LXXXII, 1283-1496).

·         Storia ecclesiastica: scritta poco dopo la precedente, espone gli avvenimenti fino all'anno 428 (PG LXXXII, 882-1280).

b) le origini:

Gli ultimi studi sono propensi a considerare la nascita ed il primo svi­luppo del monachesimo siriano come un fenomeno autogeno, determinatosi nell'alveo dell'ascetismo siriano: gli influssi egiziani si sarebbero fatti sentire solo in epoca post-costantiniana. Il monachesimo siriano sarebbe dunque un fenomeno indipendente e parallelo rispetto a quello egiziano (cfr G. TURBESSI Ascetismo e monachesimo e benedettino (= Uni­versale Studíum 78) Roma 1961, 121).

Ma per una più adeguata comprensione del carattere del monachesimo siria­no é senz'altro più utile e più importante prestare attenzione all'origine e alla evoluzione del cristianesimo siriano. La cristianizzazione fu introdotta non dalle comunità cristiane ellenistiche, ma da quelle giu­daiche: in Siria pertanto l'influsso aramaico dette al kerigma cristiano un orientamento fondamentalmente ascetico, che determinò una partico­lare visione ecclesiologica. La Chiesa, detta Qeyâmâ (= patto), era formata esclusivamente dagli asceti: al Battesimo e alla vita sacramentale erano ammessi solo coloro che si impegnavano a condurre una vita vergina­le. Non sorprende pertanto se nel II secolo proprio qui in Siria si sviluppò intorno a Taziano il movimento degli encratiti, che rigettava­no no il matrimonio, l'uso della carne e del vino (ἐγκράτεια = dominio di sé, raggiunto attraverso la pratica costante della temperanza e dell'astinenza).

Verso la fine del III secolo lo stile del cristianesimo ellenistico raggiunse anche la Chiesa siriana, che cominciò ad aprire le porte anche ai non-asceti. Tuttavia gli ambienti di più rigoroso ascetismo volle­ro mantenersi nella vecchia tradizione e riservarono a sé il nome di Qeyâmâ, presentandosi come "figli e figlie del patto". Allorché questi "perfetti" si portarono a vivere il proprio ascetismo lontano dalle comunità cristiane, anche in Siria prese avvio il monachesimo (cfr A. VÖÖBUS, History of Asceticism in the Syrian Orient: A Contribution to the History of Culture in the Near East, Louvain, 1958- 1988).

 

c) forme e centri del monachesimo siriano

I primi anacoreti comparvero sul finire del III secolo in Mesopotamia e per quasi tutto il quarto secolo l'anacoretismo rimase la forma dominante. Fu però interpretato secondo varie modalità:

·      i reclusi (καθειργμένοι): per un certo periodo o per sempre si facevano “murare” in    un sepolcro o in una grotta…;

·      quelli che vivevano all’aperto (παίθριοι): si rifiutavano di avere una dimora, per essere sempre esposti al pubblico: agiva an­che la preoccupazione pedagogica di coinvolgere gli astanti nella espe­rienza ascetica. In pubblico si praticavano poi le più bizzarre e maceranti forme ascetiche: gli stazionari vivevano in piedi quasi perpetuamente; i dendriti ponevano la loro residenza stabile tra i rami degli alberi; gli stiliti ( ad es. Simeone il Vecchio c. 390-459) sulla cima di una colonna, esposti alle intemperie e al solleone, pregavano e predicavano; altri si aggiravano tra la gente, trascinando pesanti catene di ferro.

Qui traspare la prima particolarità del monachesimo siriano: la tendenza ad un ascetismo estremo, che talora o spesso scadeva in eccessi impres­sionanti. “Questi si possono facilmente comprendere quando si pensa che in quelle immense regioni non ci fu una regola, universalmente accet­tata, che, come quella di Pacomio, abbia impresso un orientamento fisso e definito. L'ascesi libera, eremitica vi fu preminente e l'iniziativa personale non fu "mortificata", ma anzi favorita, specie quando i mona­ci erano anche sacerdoti, pastori e missionari... L'individualismo asce­tico portò la mortificazione corporale fino agli estremi delle possibilità umane..." (G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, op. cit.,123).

E’ illuminante in proposito la testimonianza di Teodoreto di Ciro (Storia religiosa, 27): "Alcuni lottano, vivendo in comunità..., altri preferiscono la vita dell'eremita e mirano a intrattenersi solamente con Dio. Altri ancora esaltano Dio, abitando in tende e capanne, altri in grotte e caverne. Molti...sopportano i danni delle intemperie: ora gelano nel freddo più intenso, ora bruciano agli ardenti raggi del sole. Alcuni stanno sempre in piedi; altri dividono la giornata tra lo star seduti e la preghiera. Alcuni si rinchiudono all'interno di recinti, protetti da muri ed evitano i contatti umani, altri rifiutano un siffatto isolamen­to e stanno a disposizione di tutti coloro che vogliono vederli".

Seconda peculiarità del monachesimo siriano é la dedizione all'attività missionaria e pastorale: la regione era ancora in gran parte pagana ed i monaci, per necessità, si fecero missionari; molti poi furono promossi al sacerdozio e all’episcopato (L. BOUYER La spiritualità dei padri, op. cit., 250). Potrebbe qui tornare significativa una affermazione su Efrem (nato a Nisibi in Mesopotamia verso il 306 e morto ad Edessa verso il 373), che forse non praticò mai la vita monastica, ma molto vi influì con i suoi scritti: "Per Efrem é connaturale il restare in mezzo ad un gruppo di asceti e il consacrarsi nello stesso momento al servizio della comunità cristiana. Postula semplicità verso Dio e varietà di atteggiamento verso gli uomini. Essere allo stesso tempo lontano e vicino agli altri, isolato dallo spirito del mondo e accessibile a tutti…" (testo di W. CRAMER, The Christian Father: What He Should Be, And What He Should Do , citato da A. SAITTA, Dall’impero di Roma a Bisanzio, op. cit., 260).

Qui in Siria dunque, sia pure per ragioni estrinseche e contingenti, il monachesimo per la prima volta manifesta la tendenza a trasformarsi da modalità particolare di vita cristiana (che si tratti di un chierico o di un laico non importa) a modalità di vita di un gruppo elitario e direttivo: si arriverà alla clericalizzazione del monachesimo e alla "monachizzazione" del clero!

Il monachesimo siriano trovò localizzazione nella Calcide; sui monti di Antiochia (in queste  due zone comparve nel 374 anche Girolamo); nei din­torni di Edessa; sulle montagne della Mesopotamia settentrionale.

Legato a questa esperienza monastica siriana é senz'altro Giovanni Cri­sostomo: Giovanni Crisostomo é non solo dimostrazione di un monachesimo impegnato pastoral­mente fino a ricoprire l'ufficio episcopale; é anche espressione di una resipiscenza degli ambienti ecclesiastici locali nei confronti delle esagerazioni ascetiche: nelle sue opere infatti (Comparatio regis ad  monachum. Adversus oppugnatores vitae monasticae) spinge l'eremitismo a interpretare l'ascesi non tanto come lotta contro il corpo, ma piut­tosto come lotta senza quartiere contro le passioni.

 

5 - Pacomio, l'inventore del monachesimo cenobitico

a) le fonti:

·  Vita Pacomii: delle sei biografie pervenuteci le più importanti sono la Vita I e la Vita II.

·   Paralipomena: una serie di racconti a sé stanti,che risalgono agli inizi del secolo V.

·   PALLADIO, Historia Lausiaca cc. XXXII e XXXI I.

·  Regola di Pacomio: ci é giunta solamente nella versione latina, che Girolamo compì su una traduzione greca dell'originale copto. Di questa versione latina conserviamo due recensioni: una brevior e una longior. Frammenti copti, sco­perti nel 1919, hanno dimostrato che la longior é la recensione originale, mentre la brevior sarebbe una riduzione operata per adattare la regola ai monasteri europei, che certo non potevano adottare tutti gli usi egiziani (longior: PL XXIII, 61-86).

·  Doctrina de institutione monachorum: opera di Orsiesi, secondo successore di Pacomio: utile per conoscere gli immediati svi­luppi del sistema pacomiano (PG XL, 869-894; PL CIII, 453-476)

·   Lettera sulla Pasqua: versione latina, curata da Girolamo, di uno scritto di Teodoro,  

vicario di Orsiesi: altra fonte, che il­lumina circa il dopo-Pacomio (ML XXIII, 104-106).

·   Lettera di Ammonio al patriarca di Alessandria Teofilo: scritta tra il 399 e il 401, é ricca

di notizie su Pacomio, Teodoro e sulla vita di Pêbu.

b) Pacomio:

Nacque verso il 290 da una famiglia ancora pagana, che risiedeva in un villaggio della Tebaide superiore. Per capire gli orientamenti spirituali successivi è opportuno considerare come avvenne il suo approccio decisivo con il cristianesimo. Arruolato di forza nell'esercito esercito imperia­le, un giorno a Tebe si trovò incarcerato con le altre reclute: sul fare della sera il gruppo dei prigionieri ricevette la visita coraggiosa di un gruppetto, che recava conforto e cibo. Si trattava di un gruppo di cristiani. Nell'episodio va sottolineato non tanto e non solo il fatto che Pacomio fosse un militare e quindi covasse una propensione per l'inquadramento; piuttosto va rilevato che Pacomio accostò il cristianesimo come carità, come dedizione agli altri: da questa caratteristica fu attratto, abbandonò, non appena fu possibile, la vita militare e si fece battezzare.

Volle subito (c. 307) abbracciare una vita cristiana di rigore, associandosi agli anacoreti, che presso Scenesît seguivano l'esempio e la scuola spirituale dell'eremita Palamone.

Non fu solo un contatto salutare con le alte vette della vita monastica, fu anche una sofferta osservazione della assai più estesa bassura. Per molti la solitudine infatti diventava individualismo, bizzarria spirituale, sregolatezza, arbitrio. Per i vari gruppi di anacoreti, che con il passare del tempo si espandevano in maniera impressionante, diventava sempre più minaccioso   il problema della sopravvivenza materiale: le scarse risorse del deserto oramai non garantivano più alla folla di asceti il minimo indispensabile per vivere, fosse pure ad un regime di massima riduzione delle esigenze. Bisognava trovare il modo per evitare che la scelta anacoretica diventasse una scelta di suicidio.

Alcuni pensarono di risolvere il problema, portandosi dove trovavano il cibo. Certo, il perpetuo girovagare alla ricerca della carità altrui, liberava dall'assillante ed assorbente esigenza del lavoro e tuttavia non favoriva affatto la serena concentrazione nelle cose di Dio e nella ascesi e per di più collocava il monaco girovago nella inaccettabile ca­tegoria dei parassiti. Era senz'altro più rispondente al carattere ascetico della vita monastica trovare la soluzione del problema della sopravvivenza nel lavoro degli stessi monaci, insieme però bisognava evitare che tale lavoro finisse con il compromettere o attenuare lo sforzo spirituale del monaco. In questo contesto a Pacomio la scelta di un'orga­nizzazione comunitaria della vita monastica dovette apparire come note­volmente raccomandabile: il lavoro d'insieme e razionalizzato garantiva alla vita spirituale uno spazio adeguato; la vita d'insieme e guidata da una regola e da un superiore avrebbe impedito le degenerazioni individualistiche! Infatti verso il 323 Pacomio decise di dare vita ad un monachesimo vissuto comunitariamente.

 

c) la vita comunitaria:

Dalla Vita Antonii é apparso chiaramente che per il monachesimo-antico la solitudine, l'isolamento non rappresentavano affatto il fine del monachesimo, ma erano solo dei mezzi, delle condizioni per perseguire nel miglior modo possibile il fine del monachesimo, che è la carità, come relazione di profonda comu­nione con Dio, che diventa fonte di meravigliose e benefiche relazioni con gli uomini. Con Pacomio il monachesimo antico, anche sulla base dell'esperienza, giunge a percepire con chiarezza che solitudine ed isolamento non sono mezzi e condizioni assolutamente neces­sari al perseguimento del fine monastico: si riconosce che per molti solitudine ed isolamento possono risultare di impedimento più che di aiuto, ma con ciò non si conclude che per molti la professione monastica é impraticabile, bensì si conclude che la perfezione monastica può essere raggiunta anche su vie, che non contemplano solitudine ed isolamento assoluti. Con ciò non si deve pensare che per Pacomio il monachesimo cenobitico avesse soltanto la plausibilità del fenomeno di risultanza, della soluzione di ripiego. Chi si era fatto battezzare per il fascino di un cristianesimo, che gli si presentava come coraggiosa dedizione agli altri, non poteva certo considerare semplice soluzione di ripiego un genere di  vita, che si regolava sul principio: "Tutti devono esserti di aiuto, tutti tu devi aiutare". Infatti Pacomio concepiva e presentava la koinonia della sua istituzione come una ripresa ed una riproposizione di quell'i­deale di Vita cristiana, che trovava espressione nella comunità cristia­na delineata dagli Atti degli Apostoli. D'ora in poi sempre il monachesimo cenobitico vivrà di questa intuizione pacomiana.

E' ancora legittimo l'uso dei termini monaco/monachesimo” in questo con­testo cenobitico, visto che “monaco” e “monachesimo” derivano da monos?

Sì, é possibile per tre ragioni: anche alla vita cenobitica si arriva dopo una scelta di isolamento dalla       famiglia, dal patrimonio, dalla società; anche nella vita cenobitica si tende all’ideale della unificazione interiore ed infine nella vita cenobitica si realizza l’ideale dello "habitare in unum cor unum et anima una" (P. MIQUEL, op. cit., 1549).  

Quanto al termine cenobitismo: é evidentemente costruito sulla espressione greca κοινός βίος (koinòs bìos). Il termine non é usato da Pacomio, che invece preferisce parlare di ἱερά κοινωνία (ierà koinonìa): è stato introdotto nel linguaggio monastico da Nilo il Vecchio o il Sinaitico (morto dopo il 426), che lo mutuò dal linguaggio neo-pitagorico (Giamblico per esempio nella sua "Vita di Pitagora" se ne serve, per indicare i pitagorici della Magna Grecia: cfr A. SAITTA, Dall’impero di Roma a Bisanzio, op. cit. 249-257).

Ci sia, infine, consentita un'ultima osservazione: Pacomio é "inventore" del cenobitismo come Antonio fu inventore dell'anacoretismo e padre del mo­nachesimo: non mancarono tentativi cenobitici prima dl Pacomio, ma solo quello di Pacomio riuscì e si consegnò alla storia con una struttura stabile e ben definita!

 

d) la dimensione verticale della vita comunitaria

L' assoluta dedizione e sottomistione a Dio nella vita cenobitica pacomiana si riflettono in una triplice forma di sottomissione.

Si deve massima e primaria attenzione alla Sacra Scrittura (H. BACHT), che deve ispirare tutta la vita del monaco, come ha ispirato Pacomio nella stesura della sua regola monastica (cfr la leggenda secondo cui la regola sarebbe opera di Dio, consegnata da un angelo a Pacomio).

Si esige perciò che ogni monaco sappia leggere, perché possa stabilire un contatto assiduo con il testo sacro. Anche si dispone che il superiore si fondi sulla Bibbia sia nell'esercizio della sua autorità (quindi la Bibbia offrirebbe al superiore il criterio per una autentica interpretazione della regola), sia nell'opera di istruzione religiosa dei monaci. Sottomissione si deve anche alla regola. La sua redazione si é compiuta sia a partire dalla ispirazione biblica, sia sulla base della quotidia­na esperienza: il che da una parte significa che Pacomio non si rifece a teorie ascetiche già definite e teologicamente elaborate; dall'altra spiega come mai la regola non abbia un carattere sistematico, ma sia arrivata all'attuale struttura in 194 articoli attraverso una stesura graduale, suggerita dalla osservazione della vita quotidiana della comunità. Si dove pertanto riconoscere che é scaturita una regola saggia nella sua discrezione, una regola che a tutti consente di esserne osservanti, ma senza intima afflizione ed angoscia (P. POURRAT, La spiritualité 
chrétienne
, I, Paris 71943, 133): da una parte su certi punti secondari dell'ascesi individuale consente una grande libertà, dall'altra però contro le trasgressioni di un certo rilievo prevede delle punizioni, che vanno dalla pubblica prosternazione davanti ai fratelli in Chiesa o in refettorio fino alla pubblica fustigazione, alla riduzione del vitto ai soli pane ed acqua e - misura estrema - anche la definitiva esclusione dal monastero. La regola di Pacomio ebbe una irradiazione grandissima non solo sul monachesimo orientale, ma anche su quello occidentale; non so­lo sul monachesimo antico, ma anche su quello più recente ( ad. es. gesuiti).

Si deve infine sottomissione alle autorità monastiche costituite. Si di­stinguono vari livelli di autorità. Al vertice abbiamo l'abate generale: era a capo di tutti i vari monasteri pacomiani, che costituivano un ordine accentrato. L'abate generale dal 337 risiedeva a Pêbu (in un pri­mo momento a Tabennesi, prima fondazione di Pacomio), ma visitava frequentemente la varie comunità. A livello locale occupava il primo posto di responsabilità il “padre del monastero", coadiuvato da un “secondo".

Ogni monastero nel suo interno si articolava in più case, ciascuna del­le quali raccoglieva dai trenta ai quaranta monaci, svolgeva un'attività specifica (tessitura, forno, pesca, pascolo...) ed era retta dal "superiore della casa" (οἰκιακός), coadiuvato da un "secondo" (δεύτερος).

Come si vede, la virtù che si impone, nella dimensione verticale della vita comunitaria è l'obbedienza: da un lato essa svolge una importante funzione comunitaria, garantendo un organico sviluppo della vita d'insieme, dall'altra essa esercita un ruolo considerevole nella vita dell'in­dividuo, che, attraverso la mortificazione e la lotta contro l'egoismo e la superbia, giunge ad acquisire il controllo della propria volontà (H. - I. MARROU, Le origini e i primi sviluppi del monachesimo, op. cit., 326).

Se nell'anacoretismo l’obbedienza alla guida spirituale assumeva il ca­rattere di un temporaneo esercizio tecnico, che mirava ad imbrigliare intelligenza e volontà, in vista dell'autocontrollo e dell’autonomia, ora nel sistema pacomiano l’obbedienza diventa una componente irrinun­ciabile e perenne della vita monastica (K. BAUS - E. EWIG, L'epoca dei  concili, op. cit., 380). Tuttavia il sistema pacomiano non solo pone degli argini alla soggettività di base con l’obbedienza, ma anche impedisce il perso­nalismo di vertice: i capi  da una parte, come l'ultimo dei monaci, devo­no obbedienza alla Regola e alla Legge di Dio, dall'altra devono confrontarsi con il "capitolo generale": esso si riuniva due volte l'anno: in occasione della Pasqua per le celebrazioni liturgiche e per il rinnova­mento spirituale; alla fine del mese di agosto per la discussione su problemi organizzativi ed economici. Insieme si deve però riconoscere che nel sistema pacomiano la funzione di guida non é tanto un ruolo carisma­tico esercitato da personalità carismatiche, ma diventa piuttosto un uf­ficio istituzionalizzato, esercitato da persone che si impongono prima dì tutto per ragioni istituzionali!

 

e) la dimensione orizzontale della vita comunitaria

Sotto questo profilo la vita comunitaria deve comportare l'assenza di ogni privilegio, che susciti gelosia, invidia, vanagloria. Questa preoc­cupazione si esprime fin dal momento del reclutamento: alla vita monastica possono accedere sia poveri sia ricchi, purché liberi, però tutti devono rinunciare al tanto o poco, di cui dispongono, per sottomettersi alla rigorosa povertà individuale, che tutti eguaglia!

E' interessante rilevare che il monastero pacomiano é generoso nell’apri­re le sue porte, finché non si tratti di sacerdoti: accoglie bambini, accoglie sposati, che abbiano ottenuto il consenso della consorte davan­ti a testimoni, accoglie invece con una certa riluttanza i sacerdoti ed esige da loro la rinuncia all'esercizio delle funzioni sacerdotali: queste introdurrebbero tra i monaci una pericolosa distinzione e pertanto si preferisce o partecipare alle funzioni liturgiche della chiesa del vil­laggio vicino o fare venire in monastero il sacerdote del villaggio vi­cino. (Pacomio non si fece mai ordinare sacerdote!) Tutti poi sono sot­tomessi all'unica e medesima regola; tutti godono di uno stesso trattamento quanto a vitto (normalmente due pasti al giorno; in quaresima e sempre al mercoledì e venerdì un solo pasto dopo nona) e quanto ad abito (tunica di lino; cocolla per coprirsi la testa; melote di pelle di capra).

La vita comunitaria in positivo per quanto concerne la dimensione orizzontale deve comportare la corresponsabilità, la sollecitudine reciproca.

Il principio pacomiano "Tutti devono esserti di aiuto, tutti tu devi aiu­tare" si incarna nel quotidiano impegno di tutti sia per garantire alla comunità i mezzi di sostentamento e della carità verso i poveri attraverso il lavoro, sia per rendere il monastero una autentica "famiglia di Dio" attraverso la sollecitudine non solo per la propria salvezza, ma anche per il bene di ogni fratello. Perciò odio, ira, egoismo sono elen­cati tra i mali più gravi, che un monaco possa commettere.

 

f)  la dimensione intima

Sia l'obbedienza, che caratterizza la dimensione verticale, sia l'ugua­glianza, la corresponsabilità, la sollecitudine reciproca, che caratte­rizzano la dimensione orizzontale, nascono e si sviluppano sulla radice dell'umiltà. Da una parte umiltà significa liberare la propria vita dall'amor sui e quindi impone la lotta ascetica per raggiungere la ἀπάθεια (apàtheia), cioè la quiete della propria passionalità, in tutti i suoi aspetti. Dall'altra parte umiltà significa porre la propria vita alla insegna dell'amor Dei et fratrum. Da ciò traspare che l'umiltà é non solo la categoria, che fonda la vita monastica nella sua esteriorità (dimensione verticale ed orizzontale), é anche la categoria che fonda la vita mona­stica nella sua interiorità (ascesi e comunione).

L'esercizio dell'autorità, che si radichi in siffatta umiltà, non può scadere in autoritarismo (amor sui), ma giunge a configurarsi come servizio (amor Dei et fratrum; ascesi/comunione). La stessa ubbidienza, se radicata in tale umiltà, non assume la connotazione negativa o neutra del gesto subito o formalistico, ma assurge invece a gesto espressivo della lotta contro l'amor sui, a tensione (gioiosa) all'amor Dei et fratrum. Analoga osservazione andrebbe fatta circa la preghiera, che è insieme lotta, ricerca, comunione. Nel sistema Pacomiano si prevedeva una preghiera comunitaria ( una serie di incontri durante la giornata; celebrazione eucaristica il sabato e la domenica); una preghiera perso­nale di impronta biblica; giaculatorie per dare un carattere di orazio­ne anche alle attività più ordinarie.

L'ascesi consisteva in una disciplina codificata dalla regola (lavoro; esclusione dei cibi cotti e della carne dal vitto; digiuni secondo i ri­tmi ricordati; silenzio assoluto a tavola, nel passaggio dal refettorio alla cella, durante il lavoro, durante la notte; dormire senza distendersi completamente, ma su seggiole, vestiti e tenendo la cella aperta; sanzioni disciplinari) e in ascesi volontarie.

 

g)  valutazione

Si deve senz'altro riconoscere alla istituzione di Pacomio il merito di avere saputo rispondere ai problemi materiali e spirituali, che in quel momento assillavano il monachesimo: in particolare, mentre offriva all’anacoretismo la possibilità di sfuggire all’anarchia, che minacciava di affondarlo, creava insieme la possibilità di garantire a tutti gli aspiranti al monachesimo una formazione metodica e rigorosa (L. BOUYER, La spiritualità dei padri, op. cit., 246).

Se ne avvidero i contemporanei e l'iniziativa pacomiana conseguì immediatamente un notevole successo: alla morte di Pacomio (346) l'ordine com­prendeva già undici fondazioni. Tuttavia il successo finì anche per nuocere. I monasteri, che già nel progetto iniziale prevedevano un numero considerevole di monaci, divennero straripanti, così che la governabilità sia a livello generale sia a livello locale divenne molto problema­tica. Col passare del tempo il successo comportò anche un eccessivo arricchimento dell'ordine. Tuttavia credo che meriti una considerazione primaria il fatto della istituzionalizzazione del monachesimo: la scelta monastica cessa di es­sere un fenomeno inquadrabile come aspirazione personale e diventa invece aggregazione ad una categoria sociale ben definita. In secondo luogo l'istituzionalizzazione se da una parte libera dall'anarchia e introduce i vantaggi summenzionati, dall'altra pone il rischio e la tentazione di far consistere la vita ascetica “nell’esecuzione esterna di alcune pratiche (obbedienza esterna; osservanza della regola)", svilendo sempre più il carisma, l'interiorità, la creatività di chi pratica l’ascesi (cfr H. – I. MARROU, Le origini e i primi sviluppi del monachesimo, op. cit., 326).

Questi limiti furono avvertiti già allora e ciò spiega sia come mai il successo dell'invenzione pacomiana non abbia affatto determinato la scomparsa dell'eremitismo e dell'anacoresi, sia come mai abbia conservato vigore e prestigio l'idea secondo cui il monachesimo raggiunge il suo apice solo nella vita solitaria. Giustamente il Bouyer osserva: "Il monachesimo è dell’ordine dei carismi, della libertà spirituale; appare dunque contrario alla sua natura profonda ed originaria rinchiuderlo in una legislazione, in una organizzazione, per quanto ben concepite esse siano. Non soltanto (se si vuole) l'abito non fa il monaco, ma non è neppure la regola che lo fa, né l'obbedienza materiale al superiore, né alcuna pratica regolata, ma soltanto la vita interiore, alla quale tutte le pratiche sono ordinate e che nessuna pratica, per ben ordi­nata che sia, saprebbe produrre in quanto tale. Il vero monaco non é e non sarà mai colui che arriva a conformare il suo comportamento a un quadro, anche ideale: è lo "spirituale" per eccellenza, e lo "spirituale" giudica di tutto e non può essere giudicato da alcun criterio.

Al monaco poi è essenziale abbandonare tutto per Dio solo, pertanto si deve riconoscere l'assoluta relatività del quadro sociale, in cui il monaco si trova inserito. L'opera del monaco … é un'opera che solo il monaco può compiere. I fratelli, la vita con loro, possono aiutarlo a ciò, metterlo sulla strada, ma spetta a lui solo, nel rapporto da solo a solo con Dio, di giungere o no al termine" (L.BUOYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 247).

 

6 – Il monachesimo palestinese

a) le fonti:

+ Vita di Paolo di Tebe; Vita  di Malco, Vita di Ilarione : queste tre biografie, scritte da Girolamo, non meritano molto credito: quanto vi viene narrato, é con ogni probabilità parto della fantasia dello scrittore. I più benevoli fra i critici (H. DELEHAYE) sono disposti solo a riconoscere la reale esistenza dei personaggi, che sono stati chiamati a interpretare la vicenda romanzata.

 

+ Vita di Caritone: scritto anonimo, risalente alla fine del VI secolo; di dubbio valore storico, poiché dichiara di fondarsi esclusivamente su tradizioni orali.

 

+ CIRILLO di SCITOPOLI, Vita  Eutymii: importante e credibile.

 

+ PALLADIO, Historia Lausiaca, cc. 46 e 54-55;

 

e  PAOLINO da NOLA, Lettere nn. 28; 29; 31; 45;

 

 e RUFINO da AQUILEIA, Apologia contra Hieronimum, 2,11: queste tre fonti sono      riferimenti necessari per conoscere Melania seniore.

 

+ GIROLAMO, Lettere n.108: necrologio di Paola;

 

     + GERONZIO, Vita s. Melaniae senatricis Romae : scoperta nel 1884, importante   perché scritta da un contemporaneo ed amico di Melania la giova­ne.

 

b)  premessa:

In Palestina il monachesimo non fu un fenomeno autogeno, ma fu importa­to da personaggi, in cui l'asceta si era fuso con il pellegrino. Tali personaggi, a seconda della loro provenienza orientale o occidentale, introdussero un monachesimo improntato secondo le forme dominanti nelle rispettive aree di provenienza.

 

c)  Il monachesimo palestinese di impronta orientale:

Il merito della iniziativa monastica spetta senz'altro al monachesimo orientale. Si dovrebbe qui fare il nome di Ilarione, ma - come sappiamo­ - le notizie di Girolamo non sono affatto attendibili; perciò si deve concludere che l’eremita Ilarione, benché sia il primo a guadagnarsi uno spazio nella memoria della storia, non vi lascia tuttavia che il nome!

Un primato più consistente va riconosciuto invece a Caritone: originario dell'Asia Minore (Iconio), giunse in Palestina verso il 333 e dette vi­ta a Faran, presso Gerusalemme a un sistema monastico, che diventerà ti­pico del mondo palestinese: la laura. Si tratta di un sistema intermedio tra l'anacoresi e il cenobitismo: i monaci vivevano gran parte della loro vita in solitudine entro capanne, che però erano tutte comprese in una determinata area; tutti dipendevano organicamente e perpetuamen­te dal superiore della laura e tutti, due volte la settimana, si riuni­vano per le funzioni liturgiche nella Chiesa, che si trovava al centro del villaggio monastico.

Ad Epifanio di Eleuteropolis, poi vescovo di Salamina (+403) si deve l'introduzione della forma cenobitica secondo il modello pacomiano (in loca­lità BESANDUC): si trattò di una fondazione,  che non ebbe irradiazione. La diffusione del cenobitismo in Palestina va invece ascritta a Eutimio di Melitene (Piccola Armenia): nel 411 con l'amico Teocisto a Wadi Mukellik (ad ovest di Qumrân ) fondò una sua laura, cui poi si affiancò un cenobio: nel cenobio il giovane monaco riceveva istruzione e forma­zione spirituale; quando all'abate sembrava venuto il momento opportuno, il momento della maturità spirituale, il giovane monaco entrava nella vicina laura per vivervi una forma più esigente, ma pure più elevata! Discepolo di Eutimio (+ 473) fu quel san Saba, che rappresenta senz'al­tro la figura più prestigiosa del monachesimo palestinese in versione orientale. A san Saba (439-532) viene attribuito il Typikon: si tratta insieme di una raccolta di prescrizioni ed indicazioni liturgiche e di una collezione di 150 articoli disciplinari, che compendiano usanze monastiche palestinesi e forse anche egiziane (G. TURBESSI, Ascetismo e  monachesimo prebenedettino, op. cit., 124). Col passare del tempo il Typikon si é trasformato in una specie di calendario liturgico delle comunità orientali.

 

d) il monachesimo palestinese di impronta occidentale

Il monachesimo latino si rese presente in Palestina solo sul finire del IV secolo: non si deve ritenere che abbia trovato tardi la strada per la Terra Santa: anzi se si considera che il mondo occidentale si accostò al monachesimo tra il 335-345, si deve senz'altro concludere che le fonda­zioni palestinesi rappresentano una delle sue prime espressioni.

Vi si costituirono tre centri monastici latini.

I - Sul monte degli Olivi a Gerusalemme per iniziativa di Melania se­niore. Nata verso il 341 e rimasta vedova verso il 362, si dedicò alla vita ascetica in Roma. Nel 372 intraprese una "peregrinatio mo­nastica", che ebbe come prima meta le fondazioni egiziane e si con­cluse a Gerusalemme verso il 380 con la fondazione di un monastero maschile e di un monastero femminile sulle pendici del monte degli Olivi. Qui maestro e guida fino al 397 fu Rufino di Aquileia, che favori un grande interesse per gli scritti ascetici e teologici.

Il - A Betlemme per iniziativa di Paola seniore. Altra nobildonna roma­na, che dopo essere stata assidua frequentatrice del circolo ascetico di Girolamo in Roma, seguì il suo "adorato" maestro in Palestina, portando con sé le sue cospicue sostanze e la sua figlia Eustochio. Nel 386 a Betlemme finanziò tre istituzioni: un monastero maschile, un monastero femminile ed un ospizio per i pellegrini occidentali. Il monastero femminile, per il numero elevato delle sue monache, fu articolato in tre gruppi secondo il criterio della provenienza sociale. Il monastero maschile non ebbe mai grossi problemi di numero e rimase unitariamente organizzato sotto la guida di Girolamo.

In ambedue i monasteri si sviluppò un monachesimo di contemplazione (si seguiva la liturgia latina), di azione caritativa (ospitalità ai pellegrini) e catechetica (assistenza ai catecumeni e cristiani della zona) e di studio (partecipazione viva alle polemiche teologiche del tempo: origenismo e pelagianesimo).

A Paola seniore succedettero prima la figlia Eustochio (404-419) e poi la nipote Paola la Giovane.

III - A Gerusalemme per iniziativa di Melania la Giovane, nipote di Me­lania seniore. Dopo avere perso prematuramente due figli, Melania la Giovane ed il marito Piniano decisero di dedicarsi alla vita ascetica. Abbandonata Roma per sfuggire alla invasione di Alarico (410), anche essi si dedicarono ad una specie di "peregrinatio monastica": in Si­cilia prima, nell'Africa settentrionale poi (contatti con s. Agostino), indi in Egitto ed infine a Gerusalemme (418 circa).

Dopo qualche anno di anacoresi rigorosa sul modello egiziano, Mela­nia preferì passare alla fondazione di un monastero femminile, cui fece seguito un monastero maschile. Vi si coltivò un discreto interesse teologico, ma vi furono prevalenti l'azione caritativa e l'interesse per i contatti religiosi con l'aristocrazia orientale, corte costantinopolitana compresa. Conseguenza di queste relazioni fu che alla morte di Melania la Giovane (439) le sue fondazioni passaro­no in mano greca, perdendo completamente il carattere latino.

 

e)    particolarità del monachesimo palestinese:

Sono due:

  + il monastero qui diventa centro di attività teologica: sotto questo profilo è particolarmente importante e significativa la figura di Eva­grio Pontico (345c.- 399),     che introdusse nella vita monastica le visioni di Origene, ma secondo un orientamento molto problematico!

+ Il monachesimo palestinese, molto più di quello egiziano e di quello siriano, mantenne e sviluppò contatti con la vita ecclesiale locale, diventando una specie di "fabbrica" di vescovi (Epifanio di Salamina, Domno di Antiochia, Stefano di Jamna, Martirio di Gerusalemme...).

    

7 – Basilio, colui che porta il monachesimo sulle vette della dottrina e della organizzazione monastica

 

a) le fonti:

+ SOZOMENO, Storia ecclesiastica, III, 14: 31-17;

 

+ EPIFANIO di SALAMINA, Panarion, 75

a queste due opere si deve fare riferimento per raggiungere la figura di Eustazio di Sebaste, che ha introdotto il monachesimo nell'Asia Minore e in un certo senso ha iniziato Basilio alla vita monastica.

 

+ BASILIO, Piccolo Asketikon, che ci é giunto soltanto nella versione latina di Rufino d'Aquileia ed in una versione siriaca. Fu elaborato prima della elevazione episcopale (370) e comprende circa 200 questioni, in cui Basilio risponde ai problemi dei suoi compagni monaci, ri­facendosi alla dottrina spirituale maturata durante una "peregrinatio monastica" in Egitto, Siria, Mesopotamia, Palestina e perfezionata successivamente nella riflessione e contemplazione della sua persona­le esperienza spirituale.

BASILIO, Grande Asketikon: redazione successiva ed ampliata dell'ope­ra precedente. Le questioni, oramai salite quasi a 400, sono state così distinte dagli editori:

·      Regulae fusius tractatae (Grandi Regole): presentano le prime 55 lun­ghe questioni, dove in forma di colloqui spirituali vengono affrontati i principi dell'ascesi monastica, con una certa preoccupazione sistematica.

·      Regulae brevius tractatae (Piccole Regole): presentano le altre 313 questioni, dedicate ai vari problemi particolari della quotidiana vita monastica senza alcuna preoccupazione sistematica: si segue la forma della domanda e risposta (cfr PG 31, 889-1306).

Come si vede, ci limitiamo a elencare le opere di carattere monastico, confidando nella competente integrazione, che viene proposta nel corso di Patrologia.

 

b) il contesto in cui Basilio maturò la sua visione monastica:

Un posto di primaria importanza va riconosciuto alla famiglia, in cui Basilio si trovò a vivere: famiglia ricca, di tradizione senatoria, colta (il padre era un retore molto stimato) e cristiana da più generazioni (vi si contavano dei martiri cristiani; i nonni, consci dell'umana debolezza di fronte alla prospettiva della morte violenta, vollero mettere al sicuro la propria indefettibilità nella fede cristiana, rifugiandosi nel deserto per condurvi vita ascetica, che preparasse lo spirito ad affrontare con forza il martirio, qualora ciò si fosse reso necessario; una sorella di Basilio, Macrina, divenne monaca; due fratelli divennero vescovi: Gregorio di Nissa, e Pietro di Sebaste; tut­ti e tre sono venerati come santi.

Questa estrazione familiare consentì prima di tutto a Basilio di ottenere una accurata formazione culturale: fu discepolo del padre a Neocesarea; continuò gli studi di retorica e sofistica a Cesarea di Cappadocia; li perfeziono a Costantinopoli prima e ad Atene poi, dove fu compagno ed amico di Gregorio di Nazianzo.

L'ambiente familiare favorì pure in Basilio l'esigenza di perfezione nel­la vita cristiana, che fu letta - secondo gli orientamenti spirituali del tempo - in prospettiva monastica: "Avendo letto il Vangelo e avendo in esso rilevato che mezzo assai efficace per conseguire la perfezione era quello di vendere le proprie sostanze, di spartirne il ricavato tra i fratelli poveri, di essere totalmente liberato dalle preoccupazioni del­la vita presente e di non permettere che per qualche indulgenza l'anima abbia a volgersi alle cose terrene, io bramavo rinvenire qualcuno tra i fratelli che avesse intrapreso a camminare su tale strada. Allora insieme con lui mi sarei accinto ad affrontare la traversata del profon­do fiume della vita. Ne scoprii parecchi: ad Alessandria, nel resto dell’Egitto, in Palestina, in Siria, in Mesopotamia (allude ad una sua peregrinatio monastica, svoltasi negli anni 357 - 358). Rimasi ammirato per la loro astinenza nel mangiare, per la loro capacità di sopportare la fatica del lavoro; mi impressionò la loro costanza nel pregare e la loro capacità di dominare la voglia di dormire: nessun bisogno di natu­ra li poteva piegare, abili nel conservare sempre alto e libero il pen­siero dell'anima loro anche nella fame, nella sete, nel freddo, nella nudità: al corpo non badavano, non gli riservavano nessuna attenzione! Come se vivessero in una carne, che non era la loro, mi dimostrarono con la loro vita che cosa vuol dire essere quaggiù come forestieri, che hanno in cielo la loro città. Ammirai questa virtù, dichiarai la loro vita beata perché essi mostravano nel loro agire di recare la morte di Cristo nella carne loro E io stesso mi decisi a diventarne emulo, nella misura in cui ciò mi sarà possibile" (lettera 223, a Eustazio di Sebaste).

Infatti dal 359 c. fino al 370, anno della elevazione episcopale, Basilio si impegnò con alcuni compagni nella vita monastica, ritirandosi nella località solitaria di Annesi (Ponto). Qui l'uomo di cultura lavorò tenacemente per acquisire anche una salda formazione teologica, accostando la produzione teologica da Gregorio Taumaturgo a Origene (dunque non avvertiva nessun dissidio tra lo studio e l'impegno  ascetico-spirituale).

Qui il cultore della perfezione spirituale si dedicò anche alla riflessione ed all'azione per spingere il monachesimo dell'Asia Minore verso le alte vette della perfezione e della organizzazione monastica, liberandolo da quei grossi limiti, che invece in quel momento lo mortificavano e lo rendevano fortemente sospetto.

Infatti sotto l'influenza di Eustazio di Sebaste (300 - 377) si era svilup­pato in Asia Minore un monachesimo, che si rifaceva al rigorismo siriano e lo radicalizzava a tal punto da assumere tonalità encratiste.

In tre aspetti soprattutto rappresentava un pericolo per la sana eccle­siologia:

+ la ricerca della povertà estrema era fondata sulla convinzione che la rinuncia ad ogni avere é condizione necessaria per la salvezza: ciò evidentemente comportava la riduzione della vera Chiesa all'ascetismo più rigoroso e l'esclusione di ogni altra forma di vita cristiana;

+ la scelta della vita verginale implicava un estremo disprezzo del matrimonio, al punto che siffatti monaci si rifiutavano di partecipare all' Eucaristia celebrata da sacerdoti sposati;

+ le disposizioni rigoriste della disciplina monastica talora giungevano a contrapporsi alla abituale disciplina ecclesiastica: i monaci al carattere festivo della domenica contrapponevano la pratica del digiuno domenicale e invece di prendere parte alla celebrazione litur­gica della comunità cristiana locale, preferivano dare vita in case private a celebrazioni di gruppo.

Basilio, benché amico di Eustazio, maturò un lento ma progressivo distacco, che divenne addirittura separazione, quando Eustazio nella questione ariana si oppose all’omousios e si fece assertore dell'omoiusios.

 

c) la vita comunitaria

Basilio - caso piuttosto isolato nella storia della spiritualità monastica - afferma categoricamente la superiorità della vita cenobitica su quella solitaria degli eremiti o degli anacoreti: " Come si potrebbe nella vita solitaria realizzare il bello e gioioso stare insieme, nella stessa dimora, dei fratelli?... Il convivere di fratelli, insieme raccolti, rap­presenta infatti un valido terreno di prova, una magnifica via di progresso, un esercizio incessante ed una meditazione continua dei precetti del Signore. Questa vita d'insieme tende alla gloria di Dio... Si tratta di uno stile di vita simile a quello che praticavano i "santi" menzionati dagli Atti degli Apostoli: i fedeli si mantenevano in unità e tutto mettevano in comune" (Regulae fusius tractatae, VII, 4).

Questa posizione si sviluppa a partire da un triplice fondamento:

·         Fondamento scritturistico: Abramo, Elia, Giovanni Battista, modelli tipici della vita anacoretica, da Basilio - come già aveva fatto Pacomio - vengono sostituiti con il rimando all'ideale della comunità apostolica primitiva di Gerusalemme, delineata dagli Atti degli Apo­stoli. Anche una profonda meditazione del tema della carità, secondo la prospettiva paolina e giovannea, conduce Basilio a ritenere che siffatto esercizio della carità sia possibile prima di tutto e meglio nella vita cenobitica (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 264 e H.-I. MARROU, Le origini ci primi sviluppi del monachesimo, op. cit., 327.e 328).

·         Fondamento gnostico-alessandrino: il vero gnostico non può formarsi e vivere che in vita comune, in quanto deve rendere gli altri parteci­pi delle sue ricchezze (cfr L. BOUYER, Le origini ci primi sviluppi del monachesimo, op. cit., 264; H.-I. MARROU, Le origini ci primi sviluppi del monachesimo,  op. cit., 328).

·         Fondamento ellenico-aristotelico: "E' anche vero che dietro il cristianesimo tutto evangelico di Basilio si trova, perfettamente in accordo con esso e da esso illuminato, l'umanesimo greco. Le considerazioni ini­ziali (nelle Regole) sul carattere  fondamentalmente sociale dell'uomo parafrasano Aristotele e sono tutte impregnate del senso ellenico della vita umana come vita in una polis " (L. BOUYER, La spritualità dei padri, op. cit., 26).

In generale si deve senz'altro rilevare che Basilio rigorizza, in un certo senso radicalizza, il ruolo della comunità. Pur scostandosi dalle forme anacoretiche, Pacomio aveva costruito un ce­nobitismo, che conservava diversi tratti dell'anacoretismo: la casa co­me versione cenobitica della colonia di anacoreti; la cella per la medi­tazione ed il riposo; la discrezione individuale nel determinare modali­tà di ascesi, che inasprissero la disciplina fissata dalla regola; il numero rilevante dei monaci, che impone una varia articolazione della vita comunitaria. Basilio invece vuole che la vita comunitaria non sia soltanto un elemento dell'esperienza monastica, ma giunga invece ad essere lo sfondo normale, primario, in cui la vita spirituale si sviluppa: sfondo primario anche rispetto all'individuo stesso, Le prove sono molteplici: quando si tratta dell'obbedienza, il tema del bene immediato dell'individuo, che l'obbedienza dovrebbe favorire e garantire, quasi scompare dietro alla giustificazione di natura comunitaria: l’obbedienza cioè assicura l'armonia della vita d'insieme. Perché possa veramente e totalmente attuarsi una vita comunitaria si riduce notevolmente il nu­mero dei monaci; si eliminano le suddivisioni interne; si sottopongono tutti e direttamente ad un unico e medesimo superiore (prevosto); si escludono le celle individuali e si creano dei dormitori. Vengono pure messe al bando le libere ed individuali radicalizzazioni della discipli­na, perché, suscitando vanagloria, invidia, confronti e scoraggiamenti, possono compromettere l’armonia dl vivere insieme: le veglie ed i digiuni supplementari sono previsti come delle eccezioni, che devono essere approvate dal prevosto, garante dell'armonia.

“Quel che sarà dunque santificante nella vita del cenobita così conce­pita, è l'adattamento alla vita della  comunità in quanto tale, che appare in fin dei conti come il mezzo per eccellenza e insieme lo scopo dell'ascesi monastica. Basilio ha dunque significato un mutamento radica­le all'interno del monachesimo: il monachesimo basiliano è quasi agli antipodi del monachesimo primitivo: da opera di liberazione essenzialmen­te solitaria è diventato una istituzione essenzialmente comunitaria.... La separazione dalla vita corrente resta il solo tratto comune: ma que­sta separazione tende a sostituire una società mediante un'altra e non ad impegnare in un’avventura spirituale essenzialmente solitaria...". (L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 267-268).

Se la fuga dal mondo diventa in qualche modo scelta di una società diversa, ne consegue necessariamente che per il monaco la solitudine perde ogni carattere di isolamento fisico e materiale e diventa - come per tutti gli altri – una dimensione spirituale: silenzio,  raccoglimento interiore…

 

d) La dimensione verticale della vita comunitaria

Vi si distinguono tre livelli di dipendenza: Sacra Scrittura, Regola, autorità monastica.

Al primo grado di autorevolezza troviamo la Sacra Scrittura, cui però Basilio concede un ruolo assai più rilevante di quello, che le riserva invece la regola pacomiana. Lo studio della Bibbia diventa per il monaco basiliano il primo grande lavoro, in cui viene guidato dalle regole interpretative suggerite dal grande padre e maestro Basilio (P. POURRAT, La spiritualità chretienne, I, 153).

In questa prospettiva (priorità della Bibbia) dobbiamo senz'altro dire che Basilio contesterebbe la qualifica di "regole", che noi assegniamo alle sue disposizioni, perché per Basilio in esse é autenticamente normativo solo ciò che é citazione biblica!

La storia della spiritualità riconosce alle regole Basilio una grande moderazione: categoriche negli enunciati fondamentali, concedono invece ampio spazio di decisione al superiore e al singolo monaco, quando sono in gioco questioni di scarsa importanza. Prescrivendo esercizi identi­ci per tutti, Basilio ha sentito la necessità di chiamare i suoi mona­ci al cimento con difficoltà medie, accessibili a tutti. Per evitare il pericolo che il monaco vi si sottometta formalisticamente, con ossequio soltanto esteriore, Basilio ha prescritto lo studio assiduo della regola, che in tale modo dovrebbe imporsi come "mentalità, habitus mentale" e quindi ricevere un'osservanza "di buon cuore" (P. POURRAT, op. cit.,158-159).

Poiché l'esperienza spesso dimostra che la pluralità di centri di potere degenera in contrapposizione ed anarchia, Basilio ha stabilito un'unica istanza di potere: in ogni comunità non può esserci che un superiore, il preposto, che non deve patire limitazioni né dall’alto (ogni monastero é autonomo, non dipende da un potere centrale supe­riore) né dal basso (mancano superiori di gruppi di case: si prevede un consiglio di anziani, ma ha solo un ruolo consultivo). Benché dotato - come s'è visto - di autorità assoluta, il prevosto deve agire secondo il criterio della paternità spirituale: deve sempre essere sacerdote; deve sempre comportarsi con umiltà pazienza e dolcezza; deve cioè rendere la sua autorità amabile, così, che gli si obbedisca non per costrizione fisica o morale, ma per intima persuasione. Esplicitamente Basilio invita il prevosto a non formulare mai seccamente i comandi che sempre devono essere motivati con rimandi alla Sacra Scrittura.

Dunque nella regola basiliana e nella autorità secondo tale regola non c’è nulla di simile alla spiritualità dell’ "age contra": si vuole de­cisamente un'obbedienza, che nasca dalla amabilità e dall'amore, poiché si sa che ogni altra obbedienza, coatta e dilacerante, finirebbe con il compromettere l'ideale dell'armonia (P. POURRAT, La spiritualità chretienne, I, 148; 158 -159).

In tale prospettiva anche le sanzioni disciplinari subiscono una interessante evoluzione: colpiscono non il corpo ma il cuore del monaco negligente, che per un certo periodo viene privato della compagnia dei fratelli.

 

e) la dimensione orizzontale della vita comunitaria

Garantita dal saggio esercizio dell'autorità e dalla fedele sottomissio­ne dei monaci, l'armonia appare come la dimensione normale, in cui si esprime la vita della comunità monastica. Nell' impostare le loro rela­zioni i singoli monaci devono tutto finalizzare non solo al bene parti­colare delle persone, che sono in causa, ma anche e prima di tutto al bene comunitario. Con ciò non si mira affatto alla comunità massificante e spersonalizzante, al contrario si vuole che la vita d'insieme, la composizione in unità di cuore e di anima, sì compia attraverso un tipo di convivenza tutta giocata all'insegna delle dirette relazioni interpersonali tra i vari monaci: proprio per questo Basilio esige che le sue comunità monastiche siano ridotte, a misura d'uomo: vuole che l'armonia del sistema sia data prima di tutto dall'armonia intersoggettiva del­le persone, che si accettano positivamente e si amano come dei "tu" ben definiti e proprio perché sono "quei tu" ben definiti!

 

f) la dimensione intima

Secondo Basilio la categoria, che deve dominare la dimensione intima, è l'amore, che nasce, cresce, matura attraverso la partecipazione sempre più consapevole alla vita comunitaria.

Sotto questo profilo l'adesione alla vita comunitaria é insieme la grande ascesi-lotta, che converte all'amore e il conseguimento anticipato della condizione escatologica di comunione totale.

Il carattere ascetico del vivere comunitario é espresso chiaramente dalla disciplina, dalla ἐνκράτεια: dopo avere abbandonato con la fuga il ne­mico-mondo, il monaco in comunità e con la comunità deve affrontare an­cora due nemici: il demonio ed il corpo del peccato. Qui Basilio, pur "condividendo l'ammirazione greca per il cosmo, rimane un uomo del suo tempo, poiché vede nel corpo, con Platone, un estraneo all'anima, e, con Plotino, un grave peso che ingombra l’anima, la sorgente delle impurità, che la corrompe. L'ἐνκράτεια, rinuncia ai piaceri sensuali e più genericamente a tutti i legami che provengono dal corpo, come quelli familiari, é dun­que al centro dell'ascesi: essa permetterà alla libertà di fiorire per compiere tutti i comandamenti del Cristo formulati nella Scrittura e che sono la regola ultima del monachesimo" (L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 267).

Anche in H. – I. MARROU, Le origini e i primi sviluppi del monachesimo, 328, si afferma: "la penitenza ha una sua ragion d'essere anche nella concezione platonica, che considera l'anima come prigione del corpo: liberarsi da tutto ciò, che sa di terrestre per aderire maggiormente a Dio".

Anche in G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, op. cit., 130 – 131, si legge: "La sua ascesi é impregnata dello spirito evangelico, ma tiene con­to anche dell'insegnamento della filosofia platonica e neoplatonica nei rapporti tra anima e corpo, il quale ultimo é considerato un po' come la fonte dell'impurità e della corruzione”.

La disciplina, completamente sottratta all'iniziativa individuale, com­portava veglie, digiuni (un solo pasto giornaliero in quaresima; un solo pasto al mercoledì e al venerdì durante gli altri periodi dell'anno; mai carne e vino); grandi momenti di silenzio; riposo in dormitori, mantenendosi vestiti. Un posto di rilievo spetta al lavoro manuale, che Basilio presenta come assolutamente necessario al monaco, perché possa dirsi pienamente obbediente a quel Dio, che ha ordinato ad Adamo: "Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita..., con il sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gn 3, 17.19). Il monaco, lavorando, si garantiva la pratica del consiglio evangelico della povertà, poiché faceva sua la condizione materiale di coloro che non hanno rendite e vivono del lavoro delle loro mani (i poveri). Le rendite del lavoro monastico dovevano dunque servire per il sostentamento dei monaci stessi nel corpo e anche nello spirito: il lavoro doveva anche offrire risorse per l'esercizio della carità verso i fratelli bisognosi: i monaci ba­siliani parteciparono cosi attivamente alle opere sociali della Chiesa, praticando con generosità l'ospitalità verso i pellegrini; istituendo orfanatrofi e scuole.

L'attività più raccomandata da Basilio era l'agricoltura, i cui prodot­ti non venivano tanto smerciati sui mercati delle città vicine, ma piuttosto venivano scambiati tra i vari monasteri basiliani.

In connessione con le pratiche ascetiche ricordiamo sia l'esame di coscien­za, sia la pratica della direzione spirituale o apertura di coscienza: il monaco si rivolgeva al confratello, che mostrava particolari doti di discernimento dello spirito (non si trattava necessariamente di un sa­cerdote: il carisma prevaleva sull’ufficio) e gli confidava non solo i peccati ma anche le ispirazioni, le suggestioni, i pensieri, le inclina­zioni: il direttore spirituale poteva così discernere ciò che era dito di Dio e ciò che invece era inganno del Maligno. Al direttore spiritua­le il monaco doveva obbedienza incondizionata, poiché in lui doveva ri­conoscere il "suo Gesù maestro" (G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo  prebenedettino, op.cit.,178-179),

Il vertice della vita cenobitica era raggiunto nella preghiera comunita­ria: qui la comunione fraterna, diventando presenza di Cristo, consenti­va all'anima di vivere un incontro intimo e familiare con Dio e di adem­piere "per Christum" al suo dovere di adorazione, rendimento di grazie e propiziazione. Nelle tradizionali ore canoniche (mattutino, terza, sesta, nona, vespero, compieta) tutti i monaci si riunivano nello stes­so locale per celebrare una liturgia, che era un insieme di orazioni e di salmi. Perché questa preghiera riuscisse nel migliore dei modi dove­va collocarsi in un contesto di raccoglimento, ascesi (serenità e tran­quillità dell'anima attraverso la purificazione dalle passioni) ed ele­mosina.

 

g) sviluppi

Con Basilio il cenobitismo raggiunse la sua forma più perfetta. Tuttavia per una esatta valutazione degli sviluppi occorre distinguere opportuna­mente tra forma cenobitica ed ideale monastico.

La forma cenobitica del monachesimo sia in Oriente (dopo il VI secolo anche nell'Egitto di Pacomio), sia in Occidente si rifece in gran par­te al sistema basiliano. L'ideale monastico basiliano, che voleva il cenobitismo al vertice della perfezione monastica, non ebbe successo in­vece in Oriente, dove la vita monastica non cessò mai di tendere attra­verso il cenobitismo verso l'anacoresi e l'eremitismo. Maggiore fortuna l'ideale monastico basiliano ebbe in Occidente, sia pure nella forma mi­tigata della regola di s. Benedetto (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei  Padri, op. cit., 268 e G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, op. cit.,131).

 

8 - Gli eccessi stravaganti del monachesimo

 

a)  I girovaghi: si tratta di una parola ibrida, in cui sono fusi insieme un termine greco: γυρεύω (= girare, vagare) ed un termine latino: vagus. S. Benedetto nel I capitolo della sua Regola così li descrive: “Per tutta la vita si fanno ospitare per tre o
quattro giorni nei diversi centri monastici sparsi nelle varie pro­vince; sempre vaganti e mai stabili, sono dominati dalle loro voglie e dai piaceri della gola".

 

b)      i sarabaiti: l'etimologia é incerta: secondo alcuni si tratterebbe di una parola di derivazione aramaica (SARAB = ribelle), secondo altri il termine avrebbe un'origine copta (SAR = disperso più ABET = monastero) e quindi indicherebbe quei monaci, che vivono dispersi, perché slegati da ogni struttura monastica. Cassiano nelle sue "Collationes Patrum" (18, 7) propende per l'origine egiziana del vocabo­lo, che così viene spiegato: "si allontanavano dalle comunità dei cenobi e ognuno per proprio conto badava alle sue necessità".

Una presentazione di questa genìa monastica ci é offerta anche da s. Benedetto sempre nel I capitolo della sua Regola: "Una 'terza nefasta specie di monaci è quella dei sarabaiti: non provati, come oro nella fornace, dalla pratica istruttiva di una regola, ma rammolliti come piombo, con le opere si mantengono ancora fedeli al secolo; con la tonsura invece dichiarano che mentiscono a Dio. A due a due, a tre a tre, o anche soli senza pastore, chiusi entro ovili, che sono loro proprietà e non del Signore, seguono come legge la voluttà dei desideri: chiamano santo quel che a loro piace e da loro viene scelto, dichiarano illecito ciò che a loro non garba".

 

c)         i messaliani o euchiti: messaliano è parola di origine siriana e si­gnifica "uomo di preghiera"; euchita invece é vocabolo di origine  greca (εὐχή = preghiera;  εὔχομαι = pregare). I due termini quindi hanno identico significato. Rinveniamo vaghe notizie sul fenomeno in Efrem il Siro (Orazione XXII), in Gregorio di Nissa ( De virginitate, XXIII,3) ed in Epifanio di Salamina (Panarion 4,11). Più ampio nel riferi­re é invece Teodoreto di Ciro ( Storia Ecclesiastica IV, 11, 1 - 8). Lo sfondo dottrinale ci é rivelato da due sinodi, che presero posi­zione contro i messaliani (sinodo di Side in Panfilia, 390 c.,  e sinodo di Costantinopoli, 426).

La svalutazione dei sacramenti si accompagnava con l'esaltazione massima della preghiera incessante, quale unica possibilità di eliminare il peccato e scacciare il demonio dall'anima dell'uomo. Insieme con questa pars destruens la preghiera incessante svolgeva una pars construens: permetteva la percezione diretta, sensibile di Dio, delle mozioni dello Spirito e del futuro. Per perseguire l'ideale della preghiera incessante il messaliano si rifiutava di lavorare, di vivere delle rendite di qualche proprietà (amministrazione = distrazione dalla preghiera) e si affidava alla elemosina dei fedeli. Anche il concilio di Efeso del 431 si schierò contro le tesi messaliane.