sabato 2 marzo 2024

 

LA RELAZIONE POTERE SACERDOTALE E POTERE IMPERIALE NEL PERIODO TARDO-ANTICO

 

Per comprendere come si pose e come si sviluppò questa relazione è fondamentale prestare attenzione alla visione cosmologica dominante.

Si davano e si intrecciavano due schemi culturali.

Il primo era di suggestione stoica: concepiva il cosmo come un unico corpo universale, in cui tutto il reale trovava composizione unitaria. In chiave cristiana ciò portò ad una interpretazione cristologica ed ecclesiologica della realtà: Cristo ricapitola in sé tutti e tutto, dando vita ad unico corpo, l’Ecclesia, di cui Lui è il Capo, quale unico e supremo re e sacerdote.

Il secondo schema culturale era di suggestione platonica: il platonismo, come si sa, cercava di superare il dualismo tra mondo sensibile e mondo intelligibile, interpretando il mondo sensibile come immagine del mondo intelligibile, che nel bene trova unità e fulgore. Sia l’antichità classica sia il cristianesimo dei primi secoli applicarono a questa dualità (visibile – invisibile) lo schema alto/basso e cielo/terra e pervennero a questa conclusione: tra basso e alto, tra terra e cielo vi è continuità, in quanto tra loro intercorre una relazione simbolica. Secondo l’idea antica di simbolo, il sensibile, il terrestre sarebbero la parte del simbolo, che diventa comprensibile solo quando può essere accostata all’altra parte del simbolo.

Come si vede, la cosmologia espressa dai due schemi presenta due caratteristiche fra loro connesse: l’unitarietà e la sacralità. Va quindi fatto notare che la radicale e insanabile separazione tra Impero romano e cristianesimo, che si ebbe nella storia dei primi tre secoli, non può essere vista e interpretata come la volontà tenace e risoluta della sfera secolare-politica di non lasciarsi soggiogare dalla sfera sacrale-religiosa: il dato dell’unitarietà era pacifico e pure era pacifico che il sacrale-religioso avesse priorità, come si manifestò nei tentativi di Aureliano e di Diocleziano di dare al potere imperiale connotazioni divine. Il contrasto tra Impero romano e Chiesa si sviluppò a partire dal fatto che l’Impero, quale unità che raccoglieva sia la sfera sacrale sia la sfera politica, vide il cristianesimo come empietà dissacrante, sacrilega, non inquadrabile nell’unitarietà ma anzi lesiva di questa unitarietà.

Non si può quindi pensare che la conversione dell’imperatore Costantino e il passaggio dello Stato al Cristianesimo avrebbero dovuto trasformare la precedente separazione e contrapposizione tra Stato e Cristianesimo in un sistema di separazione tra Chiesa e Impero: non lo consentiva la concezione di unitarietà sacrale radicata in quella cultura. Semplicemente il Cristianesimo venne ad occupare la posizione che era prima occupata dal paganesimo nella unitarietà sacrale di sistema.

Però questo subentro del cristianesimo sollevò un problema nuovo: fino a che punto all’interno dell’unitarietà sacrale si possono dare distinzioni di ambiti e di funzioni?

Su questo problema si svilupparono due tendenze diverse. Chi sono gli interpreti di queste due posizioni diverse? Non sono potere imperiale da un lato e potere ecclesiastico dall’altro, sono invece realtà ecclesiale orientale e realtà ecclesiale occidentale.

 

Realtà ecclesiale orientale

Qui alla guida dell’unità politico-sacrale stava decisamente l’imperatore. In questa maniera, sia chiaro,  non veniva disatteso il principio della priorità dello spirituale, in quanto l’imperatore era considerato la più alta autorità spirituale. Alla mistica imperiale dell’epoca di Diocleziano subentrò una mistica imperiale cristiana, che per esempio trovò espressione alta ed elegante in Eusebio di Cesarea. Significativa in proposito è l’orazione solenne che Eusebio di Cesarea tenne davanti a Costantino in occasione del XXX anniversario (anno 335) della sua elevazione al potere imperiale (Laudes Constantini, c 1-10). L’impero viene presentato come εικών (immagine) del Regno celeste e quindi l’imperatore viene qualificato ύπαρχος (rappresentante) in terra del Padre, che regna nei cieli.

Riflettiamo su questo modo di pensare.

Prima di tutto dal fatto che l’Imperium è εικών del Regno celeste deriva che l’Imperium romanum deve essere Imperium christianum: è dunque dal cristianesimo che Impero e imperatore devono mutuare ideologia, eticità. Ma questo fa sì che si sviluppa una sorta di ministerialità imperiale, che colloca l’imperatore accanto al potere sacerdotale nell’impegno di rispondere alle varie esigenze della causa cristiana.

In secondo luogo il tema dell’εικών e dell’ύπαρχος fonda la singolarità e la preminenza del ruolo imperiale: alla rigorosa monarchia celeste deve corrispondere una rigorosa monarchia in terra.

In terzo luogo, essendo l’imperium εικών del Regno di Dio, viene a determinarsi coincidenza, sovrapposizione tra Imperium christianum ed Ecclesia, che pure è immagine del Regno celeste. Successivamente la Chiesa Orientale userà il termine sinfonia per esprimere questa coincidenza, sovrapposizione. È chiaro che per via del carattere monarchico del Regno di Dio, l’imperatore, essendo ύπαρχος del Padre, viene ad assumere nella sinfonia un ruolo prioritario e quindi la collaborazione tra potere imperiale e potere sacerdotale vedrà la preminenza imperiale.

Si può discutere se questa visione di Eusebio di Cesare abbia in qualche modo ispirato l’azione di Costantino o se altro non sia stato che un espediente adulatorio per offrire una giustificazione dottrinale alla prassi costantiniana, che interveniva pesantemente nella vita della Chiesa non solo per concederle favori, ma anche per esercitarvi pesanti ingerenze. Comunque il dato di fatto è questo: nella parte orientale dell’Impero e della Chiesa dopo Costantino queste idee trovarono pacifica accoglienza e conseguente applicazione.

Abbastanza presto vennero in evidenza gli inconvenienti che questo ordine di cose determinava. Il sistema della Chiesa imperiale o dell’Imperium Christianum, di chiara impostazione cesaro-papista, si trovò retto da imperatori, che non disponevano di un’adeguata formazione cristiana con conseguenze negative. Ad esempio a reggere la Chiesa imperiale nei primi momenti della controversia ariana fu un Costantino, che era dotato di una cultura generale non eccezionale e di una conoscenza del cristianesimo molto rozza: non sorprende quindi se il grande imperatore in un primo momento mostrò di non essere in grado di capire bene il problema e in una sua lettera al vescovo di Alessandria e al suo prete Ario sostenne che il problema della consustanzialità del Verbo con il Padre era una “questione futile”, un “gioco per bambini insensati”, paragonabile alle cavillose dispute scolastiche dei filosofi, “sciocchezze nelle quali ciascuno può pensarla come vuole” (H. RAHNER, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo – Documenti della chiesa dei primi secoli con introduzione e commento, Milano 1970, p. 46). In un secondo momento, quando la questione aveva assunto proporzioni tali da minacciare la pace dell’Impero, non la considerò più una “sciocchezza”, però intervenne con la tipica maniera contraddittoria di chi, non percependo esattamente i contenuti della questione teologica, è disposto a fare ricorso, senza coerenza logica, ad ogni mezzo che possa, comunque sia, portare a una soluzione pratica.

Ma qui traspare un secondo limite: questi imperatori dotati di una scarsa formazione cristiana da un lato furono più sensibili ai problemi e alle esigenze politiche dell’Impero (la pace ad esempio) e dall’altro si trovarono a disporre di un sistema, che consentiva loro di subordinare la Chiesa alle loro mire prevalentemente politiche. Questo si manifestò negli imperatori Costanzo e Valente, che si schierarono decisamente a favore del fronte ariano, perché percepivano che questa eresia aveva una maggiore convenienza politica. Un monoteismo, come quello professato dalla Chiesa della fede nicena, che si articolava in una Trinità di persone dotate di omousia, certamente appariva meno atto del monoteismo ariano a fondare l’unicità singolare del potere imperiale: il monoteismo ariano infatti affermava che Gesù è incarnazione di un Logos, che non è consustanziale con il Padre ma che da lui deriva  come sua creatura mutevole e fallibile, pertanto Chiesa e potere sacerdotale, poiché erano state fondati e costituiti da questo Gesù Cristo, non avevano nessun argomento per rivendicare una superiorità nei confronti di un imperatore, che è invece ύπαρχος di Dio Padre, unico sovrano di tutto.

Giustamente Hugo Rahner nell’opera prima citata alla pagina 56 scrive che una Chiesa priva “del contrappeso della fede nella divinità di Cristo”  non dispone di quel “senso del trascendente, che può fare considerare lo Stato sempre e soltanto una cosa di secondaria importanza in paragone al potere sublime della partecipazione alla natura divina di Cristo”.

Se questo è vero, non è impossibile scorgere una fondamentale consonanza ideale tra questi imperatori despoti e gli ariani: come gli imperatori erano preoccupati soprattutto di salvaguardare il tradizionale quadro istituzionale, anche a costo di una sacrificante subordinazione del cristianesimo, così gli ariani, per salvaguardare il quadro mentale ellenistico, furono disposti a ricorrere a interpretazioni e reinterpretazioni della fede cristiana, che erano riduttive ed aberranti.

Possiamo perciò affermare che con Costanzo e Valente si sviluppò in Oriente una vero proprio dispotismo imperiale sulla religione cristiana, che trovò espressione sia a livello pratico sia in sistemi di principio: a livello pratico si ebbero ripetuti interventi miranti determinare gli organismi magisteriali della Chiesa in senso eterodosso, facendo ricorso anche a vere e proprie pratiche persecutorie (Atanasio, Ilario, Dionigi di Milano, Eusebio di Vercelli, Lucifero di Cagliari, papa Liberio ne furono vittime). Sul piano delle enunciazioni di principio troviamo emblematica un’espressione dell’imperatore Costanzo: “Ciò che io voglio, deve valere come legge della Chiesa” (H. RHANER, op. cit. , p.50).

Nel corso del V secolo prevaricazione del potere imperiale fu l’esilio di Giovanni Crisostomo; prevaricazione del potere imperiale fu quel concilio di Efeso del 449, che vide la prevalenza dei monofisiti Dioscuro di Alessandria ed Eutiche e che papa Leone qualificò con il termine di latrocinium (Acta Conciliorum Oecumenicorum, ed. E. Schwartz II 4,51); prevaricazione del potere imperiale furono i vari documenti dogmatici elaborati ed imposti dal potere imperiale nel corso della controversia monofisita: l’imperatore Flavio Basilisco (475-476) con il suo Enkyklion condannò il credo di Calcedonia e l’Epistola dogmatica di papa Leone; l’imperatore Zenone (dal 474 al 475 e poi dal 476 al 491) con l’Henotikòn (482) mise sotto silenzio il credo del concilio di Calcedonia, condannò anche Eutiche e Nestorio e invece accolse i 12 capitoli di Cirillo d’ Alessandria; prevaricazione del potere imperiale fu anche il canone 28° del concilio di Calcedonia del 451, che, esclusivamente a partire da visioni e preoccupazioni politiche, ritenne di dovere dare alla sede costantinopolitana un dubbio rilievo primaziale del tutto simile a quello della sede romana, un rilievo che alterava profondamente la tradizionale costituzione ecclesiastica, che contemplava sia una certa preminenza romana sia un particolare prestigio delle sedi patriarcali di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme per via della loro presunta fondazione apostolica (cfr canoni VI e VII del concilio di Nicea).

Nel VI secolo il dispotismo imperiale trovò rigorosa incarnazione in Giustiniano (527-565): questi da un lato mostrò di avere un altissimo concetto di sé come imperatore, presentandosi come “inviato da Dio come legge vivente per gli uomini” (Novella 105, 2, 4) e dall’altro spesso apparve succube della bellezza e degli intrighi della sua abilissima moglie, Teodora, che simpatizzava per i monofisiti.

Su queste basi Giustiniano sviluppò una politica ecclesiastica che vide sia i papi Silverio e Vigilio sottoposti a dure vessazioni sia l’arrogante definizione imperiale di questioni dogmatiche quali l’ortodossia o meno di Origene e l’ortodossia o meno dei Tre Capitoli (scritti di Teodoro di Mopsuestia, di Teodoreto di Ciro e di Iba di Edessa).

Nel VII secolo i successori di Giustiniano continuarono a intervenire sul terreno dottrinale: per esempio con la formula di fede detta Ekthesis, emanata dall’imperatore Eraclio nel 638, che proponeva un monotelismo di compromesso tra ortodossia e monofisismo nei suoi vari derivati (monoenergismo): per la pace e l’unità dell’Impero veniva sacrificato il dogma con un compromesso.

Nel 648 l’imperatore Costante II emanò l’editto Typos, con cui pretese di riportare la pace e l’unità, abolendo l’Ekthesis, ma anche mettendo tutti a tacere, sia ortodossia sia eterodossia. Il dissenziente papa Martino subì l’esilio, il dissenziente Massimo Confessore oltre all’esilio subì secondo la leggenda la mutilazione della lingua e della mano destra.

Sulla stessa scia si collocano le pesanti ingerenze dell’imperatore Giuliano II in occasione del concilio Trullano II (391-392), che nei suoi canoni regolò molteplici aspetti della vita ecclesiale orientale e fra l’altro sancì la parità di dignità del patriarca di Costantinopoli e del vescovo di Roma. Papa Sergio I si rifiutò di apporre la sua firma. Ricordiamo infine quanto la questione iconoclastica fu alla mercé del dispotismo imperiale orientale.

In occasione delle gravi e deplorevoli circostanze menzionate non mancarono certo in Oriente grandi voci di dissenso, che contestarono la competenza dell’imperatore in questioni ecclesiastiche, appellandosi alla priorità di Dio e delle sue leggi anche nei confronti dell’imperatore: Atanasio, Basilio, Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, Massimo il Confessore, Giovanni Damasceno, Teodoro Studita, ma, benché erano voci di altissimo valore, rimasero piuttosto isolate in un mondo ecclesiastico orientale succube.

Tentiamone una spiegazione: è comprensibile che i cristiani, vescovi compresi, nei primi anni della liberazione e dello sviluppo fossero abbagliati dallo splendore del dominio imperiale, ma non è comprensibile come questo atteggiamento poté perdurare anche quando il dominio imperiale divenne pesantemente dispotico.

Non è certo senza importanza il fatto che queste terre orientali conobbero nel loro passato più o meno remoto la presenza di formidabili teocrazie regali: l’Egitto faraonico, l’impero babilonese, l’impero assiro, l’impero persiano, l’impero macedone di Alessandro, che dette vita alla civiltà ellenistica con la sua irradiazione universale e a modo suo il potere nel mondo d’Israele. Si può quindi ritenere che in queste terre orientali la teocrazia regale divenne un pacifico patrimonio culturale: l’impero stesso, che era di origine repubblicano-democratica, venendo a contatto con l’Oriente e subendo il fascino della cultura orientale,  si orientalizzò e compì la famosa evoluzione dal principato al dominato.

Questo connubio dell’Impero con la tradizione teocratica orientale ebbe particolare fortuna in Oriente, dove l’imperatore poteva disporre di una aristocrazia, che proveniva in gran parte dai ranghi della burocrazia  e di un esercito, che dipendevano dal suo volere. L’imperatore, assumendo sempre più incontestabilmente il ruolo effettivo di dominus, si trovò nella facoltà di sostenere con la forza dei fatti l’assunzione teorica della concezione teocratica orientale e poi, forte di questa assunzione, l’imperatore vide legittimato il suo dominato anche sulla Chiesa.

Anche la comunità ecclesiale orientale era di suo propensa a questo tipo di presenza: avendo alle spalle una tradizione culturale all’insegna della teocrazia regale, quando si presentò il caso di avere imperatori cristiani a disporre di tale dominato teocratico, la Chiesa orientale ritenne notevolmente conveniente accettare il sistema teocratico per due ragioni soprattutto.

Prima ragione di convenienza: la comunità ecclesiale orientale ebbe una vita notevolmente agitata da divisioni e contrapposizioni, che riguardavano sia la base sia i vertici, vescovi compresi: fu ritenuta quindi provvidenziale la presenza di un’autorità suprema, capace di garantire e imporre l’unità. Le vie meramente ecclesiastiche (concili, dibattiti) si rivelarono di scarsa efficacia e quindi si vide nella forza dell’autorità imperiale la sola possibilità di avere una parola risolutiva.

Seconda ragione di convenienza: la Chiesa orientale intuì che, sostenendo l’interpretazione teocratica del potere imperiale, avrebbe spinto questo potere imperiale a cristianizzare l’impero. Mi spiego, divenendo un dominato, il potere imperiale non si presentava più come potere che veniva dal basso per fondazione democratica. Per via di questo rimando a Dio, quale origine del potere imperiale, il cittadino si trovava spinto dalla sua fede religiosa, in nome della sottomissione alla volontà di Dio, a prestare obbedienza all’imperatore dominus. Ma il rimando a Dio diventa produttivo di tale obbedienza generale solo se cade in un contesto di unità di fede. Si pensi al caso di Costantino: concedendo pari diritto di esistenza a tutte le religioni, Costantino si collocava in un contesto di pluralismo religioso, Se vuole ottenere sottomissione al suo potere deve, secondo lo schema teocratico, far derivare il suo potere da una divinità generica, nella quale tutti i seguaci delle diverse religioni possano ritrovarsi. In realtà proprio la genericità di questa divinità poteva condurre all’esito opposto: nessuno dei seguaci delle varie religioni dell’impero riconosceva in quella divinità generica il proprio Dio e quindi nessuno si sentiva vincolato all’obbedienza e alla sottomissione.

La fondazione teocratica per diventare produttiva di consenso doveva disporre di due cose: la scelta di una religione da parte del’imperatore e la decisione dell’imperatore di imporre a tutti questa religione. La Chiesa orientale intuì questo e si sottopose incondizionatamente al dominus christianus, proponendosi così all’imperatore come la religione che doveva scegliere e imporre al fine di rendere efficace il discorso teocratico.

Quindi la prospettiva da perseguire sarebbe questa: l’imperatore come dominus doveva impegnare la sua forza effettiva per spingere verso quell’unità religiosa, che gli era necessaria per rendere efficace il suo rimando teocratico;  poi in quanto monarca teocratico doveva impegnare la sua forza effettiva insieme con la sua autorevolezza di principio per controllare questa base religiosa, mantenendola unita e fedele alla sua causa imperiale.

A  spianare questo cammino teocratico del potere imperiale in Oriente contribuì anche il fatto che molto presto qui il cristianesimo era divenuto maggioranza numerica, sia pure dilacerata da divisioni interne.

Mi pare che tradizione culturale e situazione politica possono aiutarci a capire perché mai la realtà ecclesiale orientale accettò tranquillamente la teocrazia imperiale: ma questo non vale certo a giustificare le mortificazioni del dogma e della costituzione ecclesiastica, che derivarono da questo ordine di cose e che ahimè furono troppo passivamente accettate.

Queste mortificazioni sono segno chiaro che la realtà ecclesiale gestì il discorso dell’unitarietà della storia, dell’umanità in maniera problematica, tralasciando quelle distinzioni e quelle autonomie, che sono necessarie per la tutela dell’integrità della fede e della vita ecclesiale.

 

Realtà ecclesiale occidentale

Rispetto a quella orientale disponeva di una diversa tradizione culturale e di una diversa situazione politica.

La tradizione culturale occidentale non conosceva un passato teocratico e poi aveva subito l’orientalizzazione in una forma molto superficiale.

Sotto il profilo politico, poi, la parte occidentale non aveva accettato il nuovo corso dell’Impero: l’aristocrazia senatoria occidentale aveva mantenuto un atteggiamento conservatore e costringeva il potere imperiale ad esprimersi in Occidente con moderazione.

La  Chiesa Occidentale pertanto non solo non fu culturalmente incline ad assolutizzare il ruolo dell’imperatore nella vita ecclesiastica, ma anche non ebbe ragioni particolari di convenienza per procedere in questa direzione.

Anche in Occidente si ebbero divisioni, discussioni nella vita della Chiesa, anche in Occidente le scelte ecclesiastiche non si rivelarono sempre efficaci e però qui in Occidente non si sentì la tentazione di ricorrere al potere imperiale per una rapida ed efficace soluzione dei problemi. Questo potere infatti, come dicemmo, in Occidente era meno indiscutibile ed a livello locale si dipendeva maggiormente dai patroni.  Qui abbiamo un elemento importante per capire come mai in Occidente si sia con maggiore decisione cercato l’autorità suprema, che dirimesse le questioni ecclesiali, all’interno dell’apparato ecclesiastico stesso. Significativo che il sinodo riunito a Sardica nel 342 per discutere la questione ariana abbia visto i vescovi occidentali riconoscere al vescovo di Roma il ruolo di suprema istanza di appello per le cause maggiori. E’ significativo che gli stessi vescovi di Roma con decisione sempre maggiore in tale contesto abbiano sviluppato sia la dottrina sia la posizione primaziale.

 Va poi ricordato che per quasi tutto il IV secolo il Cristianesimo in Occidente rimase fenomeno di minoranza di fronte ad un paganesimo, che prevaleva non solo numericamente ma anche per peso politico, perché sostenuto dall’aristocrazia senatoria. Si capisce quindi come mai gli imperatori considerarono le questioni ecclesiastiche occidentali di secondaria importanza e non vi intervennero gran che; si capisce anche come mai gli imperatori non spinsero in Occidente per rendere presente il dominato, fondato teocraticamente e garantito da una base cristiana unitaria; si capisce infine come mai in Occidente si sia mantenuta la tradizione della distinzione degli ambiti e delle competenze, di autonomia del potere spirituale nell’ambito ecclesiale, secondo la tradizione che si era creata e consolidata nei primi tre secoli, quando l’Impero pagano non sentì certo propensione a ingerirsi nella conduzione ecclesiastica cristiana.

Ecco allora in che cosa consiste la diversa visione occidentale: pur mantenendo l’unitarietà, in questa unitarietà si pone una distinzione di ambiti e di competenze; il dato della priorità direttiva del potere spirituale fu mantenuto in vigore anche qui in Occidente, ma con due sviluppi molto diversi: prima di tutto vi si ricorse per fondarvi la contestazione delle ingerenze imperiali nelle cose spirituali, in secondo luogo e in secondo tempo vi si fece ricorso per dare prevalenza nella compagine unitaria non già al potere dell’imperatore, ma al potere sacerdotale. Ma va subito precisato che questa prevalenza del potere sacerdotale fu affermata solo in prospettiva spirituale, morale, mai ci fu rivendicazione di una priorità giurisdizionale sull’imperatore nella conduzione degli affari temporali. 

Vediamo ora come si espressero queste idee. L’occasione fu sempre offerta da ingerenze dell’autorità imperiale in cose ecclesiastiche.

Un primo momento di affermazione significativa della visione occidentale si ebbe nel IV secolo nel contesto della controversia ariana. Molteplici voci

-          Osio di Cordova, Lettera all’imperatore Costanzo (355 o 356) in ATHANASIUS, Historia Arianorum, 44

-          papa Giulio, cfr suo scritto in ATHANASIUS, Apologia secunda, 21-35

-          Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo

-          Lucifero di Cagliari, Moriendum esse pro Dei Filio, 4, 11 e De Athanasio II, 11

-          Eusebio di Vercelli, Lettera I, inviata all’imperator Costanzo

-          Ottato da Milevi, Contra Parmenianum Donatistam, III,3.

L’espressione più alta e sintetica della posizione occidentale fu senz’altro sant’Ambrogio, che non si limitò a porre delle affermazioni di principio, ma anche sviluppò un’azione energica per imporre tali principi.

I principi basilari sono due:

1.       Autonomia del potere spirituale nelle cose spirituali: superando il diritto romano che integrava la religio nello jus publicum, Ambrogio introdusse la distinzione tra religio e res publica. Alcuni esempi:

a.       Nella Lettera 20: enuncia il principio: “ea quae sunt divina, imperatoriae potestati non esse subjecta”;

b.      Nel Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis troviamo altre due affermazioni di rilievo:

·   “ad imperatorem palatia pertinere, ad sacerdotem ecclesias”;

·   alludendo all’imperatore cristiano, afferma: “imperator enim intra ecclesiam non supra ecclesiam”.

c.       Nella Lettera 40 afferma che in materia religiosa l’imperatore deve seguire le istruzioni della Chiesa. L’imperatore cristiano, come ogni cristiano, è tenuto alla legge morale cristiana, della quale maestro e giudice è il sacerdote. Ne fece esperienza Teodosio, al quale appunto questa lettera 40 era indirizzata: Ambrogio gli faceva sapere che non avrebbe più offerto il sacrificio eucaristico in presenza di un imperatore in peccato, finché egli non avesse ritrattato. Il riferimento era al caso di Callinico (388), in cui l’imperatore Teodosio aveva imposto al vescovo di Callinico di ricostruire a sue spese la sinagoga ebraica della città, che era stata distrutta dai cristiani. Ambrogio contestò la decisione, sostenendo che ai cristiani non è lecito costruire edifici non cristiani. Teodosio osò presentarsi in chiesa e Ambrogio dal pulpito ribadì la sua accusa e la sua decisione. Quando Teodosio promise che avrebbe rivisto la sua decisione Ambrogio riprese a celebrare. Immediatamente esprimo un giudizio negativo sul comportamento di Ambrogio. Per lui la faccenda era puramente religiosa e quindi di pertinenza esclusiva del vescovo. Per lui quindi un imperatore in materia religiosa non aveva nessuna facoltà di intervenire e condannare un vescovo. Ma a dire il vero c’era in gioco anche un principio di diritto naturale: c’è stato un torto e quindi va riparato. Ma Ambrogio non prese in considerazione questo aspetto, mostrando una chiara tendenza a leggere la realtà esclusivamente sub specie religionis e quindi agli Ebrei e ai loro edifici non riconosceva diritti. Del resto Ambrogio, che condivideva la mentalità della unitarietà sacrale, era convinto che il Cristianesimo era la nuova e vera forma della sacralità. Come anche nella faccenda di Simmaco, Ambrogio non era in nessun modo disposto ad  ammettere che le religioni non- cristiane venissero messe sullo steso piano della religione cristiana, che è la sola che ha diritto di esistere. Ordinare quindi a una comunità cristiana di ricostruire una sinagoga ebraica era pertanto per Ambrogio un assurdo logico e giuridico. Pertanto dobbiamo riconoscere che di fronte a un Teodosio, che vorrebbe agire in Occidente con i criteri della visione orientale, Ambrogio oppose la visione occidentale. Però senz’altro dobbiamo anche riconoscere che è assai discutibile l’occasione scelta da Ambrogio. Ben diversamente si comporterà due secoli dopo san Gregorio Magno: siccome considerava gli Ebrei come Romani, riconosceva loro sul piano legale una perfetta uguaglianza di diritti; quando dei cattolici danneggiarono edifici e sinagoghe di Ebrei, fu loro comminato di risarcire i danni in nome del violato diritto di proprietà. 

d.      Nel 390 Teodosio aveva ordinato di massacrare la popolazione di Tessalonica dopo che questa si era ribellata. I Tessalonicesi avevano infatti ucciso Buterico, il comandante goto della guarnigione romana, perché aver arrestato un famoso auriga e vietato i giochi. L’ira di Teodosio esplose a tal segno da ordinare il massacro della popolazione, fatta convenire nello stadio per assistere a dei giochi e poi richiusa dentro lo stadio: in tre ore furono assassinate più di 7000 persone.  Quando Teodosio tornò a Milano, Ambrogio, per non incontrarlo, si allontanò dalla città e poi gli inviò una lettera (Lettera 51), dicendogli tra l’altro: “Ti scrivo non per umiliarti, ma perché gli esempi dei re ti spingano a cancellare dal tuo regno questo peccato. Lo cancellerai umiliando la tua anima davanti a Dio”. Per otto mesi, fino al Natale del 390, Teodosio si sottopose alla penitenza, riconoscendo pubblicamente il suo peccato. Ed Ambrogio a quel punto non gli risparmiò il suo elogio.

Appare dunque molto chiara la distinzione degli ambiti. Altrettanto chiara fu la distinzione dei mezzi. Come esempio si veda quel che Ambrogio scrisse nella Lettera 20: “Anch’io ho le mie armi, ma nel nome di Cristo. Anch’io posso offrire il mio corpo alla morte. Anche noi abbiamo la nostra «tirannia»: la tirannia di un vescovo consiste nell’essere debole, perché sta scritto: quando sono debole sono forte”.

2.      La collaborazione del potere imperiale: l’imperatore deve aiutare la Chiesa e deve contribuire al bene delle anime. Ambrogio vede nell’imperatore un ministro della Chiesa, che deve fare ricorso alle prerogative del potere, di cui gode in campo temporale, per consentire l’applicabilità, l’attuazione delle decisioni del potere spirituale. Per esempio l’imperatore deve intervenire in quella faccenda ecclesiastica, che è un concilio: prima per consentire che si celebri (comunicare la convocazione, facilitare lo spostamento dei vescovi partecipanti) e poi per consentire che si attui (l’imperatore non deve decidere, ma dare vigore alle decisioni dei vescovi, vigilare perché siano osservate). Si profila già l’idea dell’imperatore braccio secolare della Chiesa. Va però precisato che Ambrogio era ben lungi dal ridurre il ruolo imperiale esclusivamente a questo compito intracclesiale; semplicemente affermava che con la cristianizzazione dell’Impero l’imperatore cristiano aveva acquisito, accanto alle sue funzioni tradizionali, anche questo ruolo all’interno della vita della Chiesa. Trattandosi però di una funzione intraecclesiale doveva essere esercitata non arbitrariamente, ma in collaborazione subordinata rispetto al potere sacerdotale.

Nel V secolo furono due le voci più significative: Agostino e papa Gelasio.

Agostino: nell’elaborazione della sua visione, da una parte dipese dalle Scritture e da Ambrogio, dall’altra dipese dalla concreta situazione politica. Agostino visse in una situazione politica, che non conosceva grosse tensioni tra potere imperiale e Chiesa nella parte occidentale dell’impero. Infatti gli imperatori occidentali (Onorio, Valentiniano III, la reggente Galla Placidia) furono figure piuttosto deboli e molto deferenti nei confronti della Chiesa. Basti ricordare quel che scrisse di quei tempi san Gerolamo nel libro XIII del suo commento a Isaia: “Vediamo i Cesari romani sottomettere il loro collo al giogo di Cristo, costruire chiese con i fondi pubblici, legiferare per impedire persecuzioni da parte dei pagani e ribellioni da parte degli eretici” (PL 24, 616, cap. 60).

Questo contesto spinse Agostino ad accentuare notevolmente il tema della collaborazione tra Impero e Chiesa. Di fronte alla debolezza dell’Impero, che si trovava esposto agli assalti dei barbari e alla disgregazione interna, Agostino richiamò la Chiesa sia al dovere della preghiera, sia al compito di una sempre più incisiva formazione morale dei cristiani, perché così si sarebbero sentiti spinti ad essere anche dei buoni cittadini. Di fronte alla indomabile eresia donatista, che dilacerava aspramente la vita della Chiesa e insieme ingenerava disordine nella vita pubblica, Agostino sostenne la legittimità e la necessità dell’intervento imperiale.

Alla base di questa esigenza di collaborazione non stavano solo ragioni contingenti di convenienza, alla base c’era anche il principio antropologico della fondamentale unità dell’uomo: sia la Chiesa sia lo Stato sono al servizio dell’uomo integrale e insieme devono collaborare per salvaguardare, tutelare l’uomo nella sua integrità.

Il dato della distinzione, anche se passò in secondo piano, non fu affatto trascurato, anzi in Agostino trovò una maggiore rigorizzazione teoretica: i due poteri differiscono quanto a natura, essendo l’uno fisico e l’altro morale, differiscono anche quanto a oggetto: l’uno si esercita sulla vita esteriore dei vari popoli, l’altro sulla vita spirituale dell’intera umanità. Tra i due poteri c’è anche una differenza di mezzi: l’uno si serve della spada, l’altro della carità. Si dà poi distinzione anche di fini: l’uno tende a un fine temporale, l’altro a un fine eterno. Il discorso della distinzione dei poteri da un lato porta a riconoscere l’autonomia di ciascun potere nella propria sfera, dall’altro porta anche all’affermazione esplicita della gerarchizzazione dei due poteri: quello spirituale è superiore quanto a natura, quanto a oggetto, quanto a mezzi e quanto a fini. Ecco il terzo aspetto del discorso agostiniano: quanto prima in Ambrogio era implicito, ora viene chiaramente esplicitato. L’argomentazione agostiniana servirà poi come base di quel filone di dottrina politica che prenderà il nome di “Agostinismo politico”  e che lascerà una profonda impronta in tutto il pensiero medievale. Va però detto chiaramente che la preminenza del potere sacerdotale in Agostino non ebbe uno sviluppo ierocratico, in quanto molto chiara fu e rimase la distinzione di ambiti e compiti. Il discorso della priorità si mantenne sempre in una prospettiva morale.

 

Papa Gelasio (492-496): W. ENSSLIN, Auctoritas und Potestas. Zur Zweigewaltenlehre des Papstes Gelasius : Historisches Jahrbuch 74(1995), 661-668.

Papa Gelasio si trovò ad agire in un contesto politico notevolmente mutato: aveva iniziato la sua attività come cancelliere pontificio sotto papa Simplicio (468-483), proprio negli anni in cui sparì l’imperatore nella parte occidentale dell’Impero. Come si sa, i Romani videro in tale avvenimento non già la fine dell’Impero in Occidente, ma semplicemente il ritorno all’unicità imperiale. Non deve sorprendere quindi se il papato continuò a mantenere rapporto con la corte costantinopolitana  e a esprimere il suo parere sulla vita ecclesiale orientale. Furono quelli gli anni degli imperatori dogmatici: Basilisco con il suo Enkyklion, Zenone con il suo Antienkykiklon e con il suo Henotikòn. Furono anche gli anni in cui la questione monofisita produsse lo scisma acaciano, che si protrasse per 35 anni (484-519). I papi dunque ebbero parecchie occasioni per intervenire, richiamando anche quella che secondo loro doveva essere la corretta dottrina politica. Ispiratore di questi interventi fu sempre il cancelliere Gelsaio, finché toccò a lui di fare il papa e quindi di venire allo scoperto. Fondamentali sono la sua Lettera 12, indirizzata all’imperatore Atanasio (494) e il capitolo 11 del Quarto trattato sul vincolo dell’anatema.

1.      Si dà dualità di potere alla guida del mondo: l’aucoritas sacrata pontificum e la regalis potestas. Queste distinzione non sottintende nessuna particolare giudizio sulla natura dei due poteri. W. Ensslin (opera citata, p. 664 ss) ha mostrato che Gelasio successivamente non ha più ripreso e sviluppato questa distinzione, ma anzi l’ha eliminata, usando il termine potestas sia per il potere sacerdotale sia per il potere imperiale.

2.      Ciascuno dei due poteri è autonomo nella sua sfera; ciascuno dei due poteri nella sua sfera gode di autorità suprema; ciascuno dei due poteri ha la sua origine nel volere divino. Pertanto per ciò che concerne le regole dell’ordine pubblico le autorità religiose devono obbedire alle leggi imperiali e viceversa nelle cose divine il potere imperiale deve piegare il capo a coloro che hanno la responsabilità nelle cose divine. Questa responsabilità nelle cose divine, che compete a tutti i vescovi, spetta prima di tutto al vescovo della Sede Romana, cui la Divinità suprema ha voluto dare la preminenza su tutti i vescovi.

3.      Il pondus maggiore è portato dal potere sacerdotale, perché è chiamato a rendere conto davanti a Dio anche per gli stessi re. Si noti: a partire dal fine ultimo, il giudizio divino, non si ha solo una semplice ripresa del tema agostiniano della priorità del sacerdozio, ma anche si arriva ad un’applicazione politica: l’azione degli imperatori cristiani per quel che concerne la sua rilevanza in ordine al giudizio divino, in altre parole: per quel che concerne la sua rilevanza morale, cade sotto la responsabilità del potere sacerdotale. Si tratta dunque di una priorità che non va oltre l’ordine morale. Non deve poi sfuggire che il discorso non mira a porre il potere spirituale in concorrenza con quello imperiale, ma al contrario tende ad offrire all’imperatore indicazioni e motivazioni per una collaborazione, che rischierebbe di essere disattesa dagli imperatori sia in particolare per una non esatta valutazione della competenza sacerdotale nella vertenza dogmatica in corso sia in generale per una non considerazione della illuminazione morale, che le coscienze morali dei sovrani devono ricevere dal potere sacerdotale. I sovrani, infatti, devono realizzare la pace e la giustizia, ma si dà vera pace e vera giustizia solo se si compiono nel rispetto della verità e della Legge divina: in questo l’aiuto del sacerdote è di primaria importanza!

Gli uomini di Chiesa nell’affrontare il problema dei due poteri hanno avuto finora di fronte l’Impero, cioè una entità di diritto politico dotata di una sua visione dello Stato, di un suo sistema e apparato statale. Con l’avvento dei popoli germanici il quadro mutò radicalmente.

I regni germanici non erano entità di diritto pubblico, ma solo aggregazioni costituite da una fitta rete di relazioni personali di carattere privato. Ciò ebbe conseguenze di grande rilievo:

1.      Nel contesto di unitarietà sacrale l’istituzione Chiesa non ebbe più di fronte come interlocutrice un’altra istituzione (l’Impero) e quindi venne a determinarsi la coincidenza mondo-ecclesia universalis.

2.      Il re germanico non era responsabile di un sistema statale di diritto pubblico, non era ufficiale pubblico: il re era il più grande proprietario, che aveva con il suo regno un rapporto di padronato, che è come dire che il regno cadeva completamente nella sfera del privato, il regno era sostanzialmente il re. Quindi la conduzione del regno si configurava come una faccenda di rilevanza personale, che dipendeva in toto dalla coscienza del re, come “dovere” di regnare, come fatto etico. La conduzione politica si poneva quindi sub specie religionis: consisteva nell’impegno del re per porre sé ed i suoi sudditi in un situazione di fedeltà alle legge divina.

3.      I re germanici non disponevano di una propria ideologia politica, perciò furono spinti a cercarla nella cultura tardo-antica, che veniva loro trasmessa dal clero. Il clero si rifaceva ai testi classici della dottrina politica, quale era stata enunciata dai grandi Padri occidentali. Pertanto i re germanici furono educati a intendere la loro regalis potestas in termini di ministerialità ecclesiale. Ma si dava una differenza enorme di situazione: nel mondo tardo-antico il discorso della ministerialità ecclesiale era rivolto ad un potere imperiale, che aveva coscienza della sua consistenza ed autonomia statale, ora invece nel contesto germanico era del tutto ignorata la consistenza statale e quindi la ministerialità ecclesiale finiva con l’imporsi come l’unica chiara prerogativa della funzione regale.

Da quanto detto traspare che nel contesto occidentale la realtà temporale politica non possedeva più una consistenza autonoma, ma veniva considerata esclusivamente nella sua valenza religiosa e quindi veniva inclusa nella Chiesa come un suo aspetto, una sua funzione.