mercoledì 17 aprile 2024

 

IL FENOMENO EREMITICO NEI SECOLI XI e XII

 

1.      Descrizione del fenomeno

Il secolo X dell’era cristiana é passato alla storia con il nome di “secolo di ferro": i segni di decadenza intristiscono un po’ tutti i settori della vita umana. Ma ciò non deve indurre nella tentazione di giudicare la situazione in una maniera assolutamente negativa, quasi si trattasse di una decomposizione di morte: dentro l'imponente mole di una umanità, che provoca o sopporta il dissolversi “del” mondo, c'è l azione microscopica, ma esuberante e vitale, di chi crede nella Vita e la cerca con prepotente fantasia. Cosi l'aff­acciarsi del Mille sarà tra il dissolversi di “un mondo”, ma anche tra una rifioritura di vita.

Mentre in Francia, in Lorena tale rifioritura è legata al nome di alcune località (Cluny, Brogne, Gorze, Verdun), in Italia si ha una rifioritura, che si connette con il nome di alcuni uomini: Nilo, Romualdo, Pier Damiani....  Sono queste delle personalità singolari, che si distinguono per una esperienza di solitudine perfetta: l'eremitismo.

S. Nilo (905 c. - 1005 c.) si segnala alla nostra attenzione non tanto per l'influsso, che ha lasciato dietro di sé - influsso peraltro assai limitato nell'ambito del monachesimo occidentale - ma piuttosto per il fatto che nel suo tempo, grazie alla sua straordinaria personalità e alla sua alta formazione ascetico-spirituale-teologica, ha reso notorio quel monachesimo di tipo orientale, che la dominazione bizantina aveva trapiantata e tenuto vivo nel Sud dell'Italia.

Nato a Rossano in una famiglia illustre, egli riceve una accurata educazione: si interessa soprattutto alle vite dei Padri ed ha contatti con il "monastero" di Merkurion (Calabria). Poi lui stesso lega il suo nome alla fondazione di centri monastici presso Rossano, indi nel Frusinate (S. Michele in Vallaluce) poi a Serperi ed infine presso Tusculum (Grottaferrata).

Perché compare il nome di Nilo nell'ambito di questa nostra trattazione sull'eremitismo italiano? La ragione sta nel fatto che Nilo, nelle sue fondazioni esprime e sottolinea una particolare tendenza del monachesimo orientale, tendenza che in qualche modo si riconnette - almeno idealmente - con alcuni caratteri all'eremitismo italiano occidentale. Il monachesimo orientale é composito: conosce tre "taxeis": l’eremitismo in senso assoluto (en athlètikè anachôrèsei kai monìa), I’eramitimo in senso relativo degli esicasti (metà enòs è polù dùo èsuchàzein) ed infine la forma cenobitica (en koinobiô upomonètikôs kathesthai).

Questa classificazione é proposta da Teodoro Studita nel suo testamento spirituale e si fonda sulla legislazione di Giustiniano e sulla "Scala Paradisi" di S. Giovanni Climaco: per la documentazione rimando a: A. PERTUSI, Aspetti organizzativi e culturali dell’ambiente  monacale greco dell'Italia meridionale : L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XIi. Atti della seconda settimana di studio Mnedola 1962, Milano 1965, 382 - 383, nata 2: 383, nota 3.

Credo che non sia errato dire che un po' tutta la storia dei monachesimo orientale é attraversata dalla tensione tra queste varie forme: vediamo un S. Basilio pronunciarsi per la forma cenobitica; vediamo un S. Giovanni Climaco inclinare piuttosto verso la forma esicastica; assistiamo durante la lotta iconoclastica ad un declino della forma cenobitica; rivediamo poi in auge il cenobitismo con la riforma di Teodoro Studita (+ 825).

Nilo dichiara apertamente la sua avversità alla vita cenobitica e pare che le sue fondazioni non siano altro che monasteri a regime eremitico, sul tipo delle "laure di S. Saba      (+ 532). A determinare Nilo in questo senso non é soltanto una ragione di connaturalità caratteriale, ma anche una particolare situazione storica: il monachesimo orientale trapiantato in Italia meridionale solo con la dominazione normanna riesce a trovare una certa stabilità politica, che consenta l'assunzione della spinta cenobitica impressa dal riforma di Teodoro Studita: prima, dall'anno 827, la vita dei monaci é piuttosto sconvolta dalla presenza minacciosa e spesso intollerante della dominazione araba. A ciò si deve aggiungere anche il fatto che la mancanza di sicurezza politica si riflette sulla condizione economica, determinando una situazione diffusa di miseria, che non può certo consentire una interpretazione della vita monastica in senso cenobitico, mancando i fondi necessari per creare la struttura  del cenobio. Per questa ragione, anche ai tempi di Nilo, vediamo prevalere nel Sud le "laure", insieme con la tendenza a spostarsi verso le regioni centrali.

Ciò ci consente forse di dire che Nilo si staglia nell'ambito del suo contesto monastico non come una presenza critica, o in qualche modo innovatrice: ne è piuttosto una delle più alte affermazioni! Sotto questo aspetto Nilo non può essere collocato accanto ai grandi eremiti del Nord.

 

Romualdo: la sua gigantesca figura giunge a noi attraverso la testimonianza dei suoi discepoli: certo la cosa suscita non pochi problemi dì critica storica, ma non é questa la sede opportuna per affrontarli.

(Per la questione critica intorno alla "Vita b. Romualdi", scritta da Pier Damiani, rimando a:

J. LECLERCQ, San Pier Damiano. Eremita e uomo di Chiesa, Brescia 1972, 22 24.

G. TABACCO, Romualdo di Ravenna e gli inizi dell'eremitismo camaldolose : L eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 73 - 74, nota 3.)

Mi limito pertanto a proporre alcuni dei risultati dell'indagine critica. Anche Romualdo é figlio di illustre famiglia: il padre è duca di Ravenna. La sua  vocazione monastica si esprime intorno all'anno 972, quando entra nel convento di S. Apollinare in Classe per riparare un delitto, commesso dal padre: in questa volontà riparatrice si manifesta certo la notevole sensibilità religiosa di questo giovane, che si prefigge un ideale di perfezione ben diverso da quello, che dominava in quei tempi di decadenza e violenza.

Questa intensa carica religiosa da una parte lo fa avvertito dei limiti presenti nella vita cenobitica non in quanto tale, ma così come la trova realizzata nei suo tempo, dall'altra fa maturare in lui la convinzione che la realizzazione del suo ideale di perfezione può compiersi soltanto su un'altra strada, E non si può dire che l'esperienza cenobitica non abbia contribuito in nessun modo alla scelta di Romualdo: é nel cenobio che Romualdo familiarizza con la "consuetudo” benedettina, cui si riferirà ogni sua fondazione; é nel cenobio che Romualdo, accostando le vite dei Padri, individuerà con maggiore chiarezza l'altra via: la sua via!

E così ritroviamo Romualdo nelle paludi veneziane, alla sequela dell'eremita Marino: direi che ne rimane avvinto, se accetta di trasferirsi con Marino ed alcuni altri nobili veneziani (l'ex doge Pietro Urseolo) fin sui Pirenei, presso il monastero di S. Michele di Cussano (in Guascogna): per quasi dieci anni vi conduce vita anacoretica.

Di ritorno in Italia, nel 988, subito si impone per la sua personalità vigorosa e carismatica, suscitando ammirazione ed imitazione. Potremmo dire che diventa centro di un moto di attrazione e di convergenza: intorno a lui si raccolgono diversi discepoli. Ma il suo non é soltanto un apostolato di risultanza: in maniera positiva si dedica ad una intensa attività di riforma, che lo fa girovagare per tutta l'Italia centrale. Lo troviamo nel 998 abate di S. Apollinare in Classe. Su invito di Ottone III poi abbandona l'incarico, si sposta a Montecassino; indi soggiorna nei pressi di Ravenna. Tra uno spostamento e l'altro fonda qua e là degli eremi: Camaldoli, Val di Castro. Finalmente nel 1027 chiude, in perfetta solitudine la sua vita a Val di Castro.

L’iniziativa eremitica, che si sviluppò intorno a Romualdo, con ogni probabilità, dovette avere la sua forza di coesione non tanto in una regola scritta, ma piuttosto nell’influsso carismatico, che la singolare personalità del maestro esercitava sull’ambiente circostante. Come si sa una situazione di questo tipo, piuttosto spontaneista, a lungo andare, man mano che scema lo stimolo contingente, finisce con il decomporsi: una cosa del genere si verificò negli eremi romualdini alla morte del maestro: diversi eremi si disciolsero. In questo contesto assume notevole importanza la figura di Pier Damiani:  grazie a lui il movimento eremitico trova una base teologica, organizzativa ed anche economica: in tal modo all'opera di Romualdo é stato assicurato un futuro.

 

Pier Damiani, nasce nel 1007 a Ravenna, come Romualdo. In giovane età sì dedica con notevole profitto allo studio delle arti liberali, frequentando le scuole di altre città, come Faenza e Parma. Insieme con la vita intellettuale Piero coltiva la vita interiore: pensa ed agisce da uomo, che si é dato completamente a Dio. Si fa infatti ordinare sacerdote.

Il suo cammino spirituale lo porta più oltre : entra a Fonte Avellana, un eremo di derivazione romualdina, ed a ventotto anni, nel 1035, "veste la cocolla".

Fonte Avellana é ancora una fondazione poco definita; la comunità, che vi dimora, é certo assi fervente, ma di scarsa cultura: in tal modo Pier Damiani viene presto a trovarsi un po' al centro dei suoi confratelli.

Potremmo dire che a questo punto Fonte Avellana cresce di tono e si segnala come comunità modello: il monastero di Pomposa prima, quello di S. Vin­cenzo presso Fossombrone poi, si contendono la presenza di Pier Damiani.

E’ questa un'esperienza notevole per il nostro eremita, perché gli offre l'opportunità di sperimentare in prima persona l'organizzazione della vita benedettina.

Solo per obbedienza aveva accettato di lasciare il suo eremo; solo per obbedienza nel 1043 torna al sempre sospirato suo eremo per reggerlo come priore. Intraprende così la sua attività di strutturazione della vita eremitica.

In particolare, per l'attività legislativa si ispira a Benedetto, a Cassiano, agli Apoftegmi, alle vite dei Padri del deserto: si tratta fondamentalmente di un ricupero del monachesimo prebenedettino, con una sottolineatura preferenziale della vita eremitica (cfr J. LECLERCQ, S. Pier Damiani, op. cit., 68.

Da qui trae i principi; le concrete modalità di attuazione sono quelle, che gli suggerisce non una considerazione astratta dell’eremitismo, ma una osservazione equilibrata e discreta delle consuetudini già in atto nella comunità presso cui vive. Questo atteggiamento é senz'altro originale: senza rifiutarla in maniera radicale, osa su diversi punti allontanarsi da quella regola benedettina, che il Capitolare di Ludovico il Pio dell'anno 816 aveva prescritto a tutti i monaci. Frutto dell'attività legislativa di Pier Damiani sono, fra l'altro, l'opera sul "Tenore di vita degli eremiti e

i beni dell'eremo" (1045 - 1050) e la "Regula eremitarum" (1057).

Sotto il profilo economico é certo indicativa la scelta operata da Pier Damiani: le comunità vengono dotate di fondi terrieri. Da ciò si vede come povertà e lavoro non siano l’ideale eremitico: povertà e lavoro sono concepiti in funzione dell'ideale eremitico, che è la tensione assoluta Dio: ci può essere un modo di essere poveri, ci può essere un modo di lavorare, che impediscono la tensione assoluta a Dio, in quanto sono contagiati dall’assillo di rinvenire giorno dopo giorno almeno un minimo per vivere!

La “tensione assoluta a Dio" é una caratteristica positiva, ma  - di riflesso - implica un atteggiamento negativo: il tendenziale distacco da tutto ciò  che non é Dio, non come negazione di tipo dualistico-manicheo, ma come affermazione della sua relatività: la solitudine dice questo.

Risultato di questa strutturazione di Fonte Avellana é il collegarsi a lei di altri centri, come Sitria e Monte Acuto, o anche la fondazione di nuovi complessi come Suavicino, Ocri, Gamugno: nasce così una congregazione.

A questo punto l’eremitismo italiano assume un carattere preciso, ben de definito, che vedremo poi riproposto dalla congregazione di Camaldoli, nelle Eremiticae Regulae, redatte dai priore Rodolfo (1074 - 1089) ed in qualche modo anche nella vita della congregazione di Vallombrosa, fondata nel 1036 da Giovanni Gualberto; il monolitismo del monachesimo occidentale é finalmente infranto!

 

2.     I tratti caratteristici

L’ideale eremitico consiste nella tensione assoluta a Dio, realizzata percorrendo la “aridam perfectionis semitam”.

Questo arduo cammino di perfezione comporta una rigorosa, estrema radicalizzazione della preghiera, della solitudine e dell’ascesi.

 

La preghiera

Si persegue l’ideale della preghiera continua: ogni attimo deve essere orazione. Ciò si compie fondamentalmente in tre modi: 1) opus Dei ridotto e sobrio; 2) oratio secreta, che è fatta di meditazione della Sacra Scrittura e di recitazione di salmi ed impegna per grande parte della giornata; 3) giaculatorie o orazioni furtivae, che accompagnano le attività, che non sono propriamente di preghiera.

Senza giungere a dire che l’eremitismo voglia direttamente reagire allo stile cluniacense, si deve tuttavia ammettere che vi troviamo una tendenza opposta: al primato della celebrazione esteriore e comunitaria viene contrapposto quello della preghiera interiore ed individuale.

Abbiamo qui un segno evidente del distacco dalla religiosità esteriore altomedievale ed un inizio della spiritualità nuova, legata alla situazione nuova, che si sviluppa a partire dalla metà del secolo XI: non più esaltazione del gruppo, della struttura, del quadro esterno, ma scoperta dell’individualità, della interiorità e delle sue varie componenti.

"Sede in cella quasi in Paradiso; proice post tergum de memoria totum mundum; cautus ad cogitationes, quasi bonus piscator ad pisces. Una via est in psalmis; hanc ne dimittas.... Destrue te totum, et sede quasi pullus, contentus ad gratiam Dei, qui,  nisi mater donet, nec sapit, nec habet quod comedat” (BRUNONIS, Vita quinque fratrum, a cura di E. Kade, MGH SS, XV, 738).

Si sviluppa la preghiera affettiva; la relazione passionale con l’uomo Gesù, con Maria; l’attenzione e la partecipazione mistica alla vicenda umana del Signore: prodromi remoti della devotio moderna.

E’ chiaro che una preghiera siffatta, che accanto all’opus Dei dà tanto rilievo all’interiorità individuale, pone al fianco dell’ideale della comunità cristiana primitiva un nuovo ideale, quello della sequela e della imitazione di Cristo.

 

La solitudine

Già abbiamo accennato alla caratteristica fondamentale: la tensione assoluta a Dio. La preghiera ne è l’espressione massima.

Anche la solitudine e la fuga dal mondo, sono viste in funzione della unione con Dio nella preghiera: esse hanno un contenuto primariamente positivo: sono il modo di vivere dediti all'assolutezza di Dio (quasi pullus), sono il segno del primato della realtà soprannaturale, sono l’affermazione  della relatività del temporale: questo non é un negare il mondo secondo un pessimismo stoico o neoplatonico, ma anzi é un assicurare al mondo una vera consistenza: l'unica sua vera consistenza! Neppure questa ricerca di fuga dal mondo va connessa con le tendenze manichee di certe forme ereticali: diversa è la concezione, che soggiace ai due stili di vita, anche se materialmente affini.

E’ insomma l'ideale del "soli Deo vivere".

L’ansia di solitudine determina la scelta dei luoghi: foreste sconfinate, incolte, dove l’ampiezza è in funzione della lontananza dai centri abitati; reclusione in piccole capanne o in grotte: ma tutto con un grande senso di umanità: il senso dell'ospitalità; il senso della disponibilità a dare consigli (la conversatio); l’amicizia verso gli animali. La solitudine non é asocialità, non è individualismo, ma anzi é relazione con l'universo intero, se viene vissuta come partecipazione-imitazione di Colui,che sulla Croce, mentre muore nell’abbandono totale, giunge ad abbracciare il mondo intero. Una riprova di questo sta nel fatto che spesso troviamo gli eremiti impegnati sul fronte della vita apostolica: in genere questa loro attività non ha un carattere sistematico: si tratta piuttosto di una disponibilità alle occasioni, che si presentano. La predicazione degli eremiti talora sconvolge un po' il quadro delle istituzioni ecclesiastiche tradizionali: non si attengono ai limiti di circoscrizioni e giurisdizioni; spesso si tratta di laici. Qui ritroviamo anticipati i caratteri della predicazione dei francescani mendicanti: poiché si tratta di appartenenti allo stato laicale, svolgono una predicazione di tipo morale: i temi strettamente dottrinali sono lasciati ai sacerdoti. Con quale diritto fanno questo?

A questo proposito, penso che sia significativo un episodio della vita di Bernardo di Thiron: questi, durante una sua predica nella cattedrale di Coutan­ces osa sferrare un attacco al preti sposati: l'arcidiacono si sente colpito personalmente e muove all’eremita questa obiezione: "Cur ipse, quia monachus ac mundo mortuus erat, viventibus praedicaret?”. Bernardo risponde, richiamando una frase di S. Paolo "Imitate me, come io imito Cristo" e conclude che, per predicare, i cristiani devono morire ai mondo. Ciò a maggior ragione vale per chi insegna agli altri: solo chi ha praticato la rinunzia al mondo in maniera totale può predicare (GAUFFRIDUS GROSSUS, Vita Bernardi Tironensis, PL 172, 1398 A, § 52). Ma negli eremiti ciò che più “predica", ciò che più fa impressione sugli altri, é la loro vita austera, asceticamente rigida.

Va rilevato che l’eremitismo soprattutto in Italia dagli inizi di rigorosa anacoresi si evolve nel senso dell’eremitismo di gruppo, abbastanza organizzato attorno a un capo e con pratiche in comune.

Qui si esprime una tendenza epocale, che poi sarà tipica della riforma gregoriana, la tendenza a porre la vita communis alla base della riforma e del rinnovamento, Del resto spingono in questa direzione fattori molto concreti e molto contingenti:

-       l’esigenza intrinseca all’eremitismo della conversatio more sanctorum Patrum;

-       il fatto che la vita esemplare del solitario esercita un’attrazione sulla curiositas delle masse e sull’ansia di perfezione dei più religiosi;

Conseguenza di ciò fu un impegno apostolico degli eremiti, che all’inizio non fu sistematico, ma solo di risultanza.

Il troppo afflusso tuttavia spingeva gli eremiti a spostarsi da un luogo all’altro in ricerca di nuove solitudini. Originariamente si ebbe quindi una instabilità di risultanza, ma nel corso dei secoli XI e XII si fonderà con l’idea della peregrinatio per portare il vangelo, dando vita al fenomeno dei predicatori itineranti.

Altra conseguenza dell’afflusso intorno all’eremita fu il sorgere di gruppi di seguaci e quindi lo sviluppo di una specie di comunità. Ciò comportò ovviamente problemi di organizzazione e di strutturazione.

Mi limito a richiamare due aspetti particolari:

1 - il formarsi delle regole: alla base vi è la consapevolezza che ad una massa non si possono chiedere tutte quelle austerità, che si imponevano le eccezionali personalità degli iniziatori: "Poiché questi esercizi (le discipline; le prostrazioni ed altre penitenze) per qualche fratello non sono convenienti é dunque meglio lasciare a tutti la libertà di scelta in questo campo, piuttosto che imporre una Regola....Tutto é stato composto secondo una giusta discrezione, lasciando da parte ogni eccesso di austerità” (testi di s. Pier Damiani citati da J. LECLERQ, S. Pier Damiano, 58).

2 - il formarsi di cenobii, accanto agli eremi. Essi non sono concepiti come luogo di preparazione alla vita eremitica (come avveniva nel monachesimo antico),  anche se talora si dà il caso che di fatto qualcuno passi dal cenobio all'e­remo. Essi sono concepiti come frutto della vitalità apostolica della vita ere­mitica: gli eremiti, con la santità della loro vita, attirano attorno a sé molta gente, ma non tutti coloro, che ricercano la perfezione, sono in grado di cimentarsi nella lotta in solitudine; per costoro si creano i cenobii; la santità della vita è garantita dalla vicinanza, dall'aiuto e dalla guida degli eremiti: priore del cenobio deve essere sempre un eremita. Nel cenobio poi viene portato l'eremita, quando, per malattia, ha bisogno di cure particolari: altrimenti non si dà mai che un eremita si trasferisca nel cenobio. Da ciò emerge come l'eremo sia considerato lo stato di perfezione per eccellenza, cui ogni altro tipo di vita monastica, anche quello cenobitico, deve fare riferimento.

Questo sviluppo del fenomeno eremitico ci pone un primo problema: la connotazione sociologica. Chi e quali ceti sociali hanno contribuito a tale sviluppo? Le fonti ci impediscono di attribuire questo sviluppo a un gruppo particolare: nobili, borghesi, rustici, chierici, laici e monaci compaiono impegnati nell’impresa eremitica. Non reggono quindi le tesi di coloro che tendono a ridurre il fenomeno eremitico a fenomeno di borghesia. Secondo questa tesi, gli eremiti sarebbero dei borghesi, che si staccherebbero dal loro ambiente tutto dedito alla speculazione economica. Non è da escludersi che diversi borghesi siano giunti all’eremitismo anche con questo intento, ma limitarsi a ciò sarebbe una riduzione indebita del fenomeno eremitico. Lo stesso si deve dire della tesi che tende a ridurre l’eremitismo a persone, che vivevano sottoposte a vincoli feudali (piccoli nobili, milites, contadini) e che per liberarsi da tali vincoli avrebbero fatto ricorso al pretesto della scelta religiosa.

Lo sviluppo del fenomeno eremitico ci pone anche un secondo problema: le sue origini e la sua fioritura. Qui si dovrebbe fare una osservazione di carattere generale: solitamente a li­vello  di riflessione storica si nota la tendenza a porre l'accento più sul fenomeno nel suo complesso, quasi ipostatizzandolo, che sulle persone, che vivono e costituiscono quel fenomeno. Da ciò consegue che l'agire della persona umana viene ridotto a una mera e necessaria risultanza di una serie di cause estrinseche: i condizionamenti del passato, i condizionamenti sociali.... In fondo sto criticando l'uso, frequente ma non mai documentato sufficientemente, della ca­tegoria di "causalità" in sede storica: più che di cause sarebbe meglio parla­re di condizioni, occasioni, circostanze, che hanno facilitato l'originarsi e lo svilupparsi di un certo fenomeno.

In base a questo rilievo, mi sembra inaccettabile la posizione di coloro che fanno derivare direttamente la rifioritura eremitica dai mali del tempo, spiegandola come reazione ad essi: "nemo dat quod non habet", direttamente dal negativo non può sgorgare il positivo!

Credo che l'attenzione debba cadere piuttosto sulla persona, che ha la capacità e la volontà di percepire i mali del suo tempo e di reagire ad essi:  qui, nella persona, troveremmo una personale concezione di perfezione, che spinge verso modalità di vita molto rigide, non inquadrabili nella istituzione monastica del tempo. Su tali concezioni rigoriste influiscono molteplici elementi. Prima di tutto va sottolineato il temperamento dei grandi protagonisti: sono per la maggior parte degli intellettuali (Romualdo, Pietro Orseolo, gli altri veneziani, Pier Damiani sono gente il cultura, non sono degli "illitterati") e si sa che normalmente l'intellettualismo cammina di pari passo con il radicalismo. (cfr L. GENICOT, L’éremitisme du XI siécle dans son context économique et social : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 61). Questa istruzione consente loro il contatto diretto con la Sacra Scrittura, con i Padri, da qui attingono le modalità espressive della loro sete di perfe­zione: del resto sempre nel cristianesimo la novità, la fantasia si esprime come un ritorno alle origini!

Ed é così, come affermazione di individualità, come ricerca di più libere espressioni personali, ricerca rivolta all'acquisizione di una religiosità più intima, é così che nasce il nostro fenomeno.

E poi c'è il magnetismo esercitato da queste grandi personalità sull'ambiente circostante, che é decadente sì, ma ancora permeato da un potente afflato religioso.

A ciò ai aggiunga l'azione della fama, lo stimolo della curiositas, della novi­tas e subito diventa comprensibile il formarsi di un movimento intorno agli iniziatori. Del resto quello era tempo in cui le idee correvano, circolavano e penetravano nelle masse: oramai cominciava a sgretolarsi la struttura curtense della società, l'aumento della popolazione in quel X secolo, aveva causato il fenomeno della specializzazione professionale e quindi aveva creato I'esigenza di sviluppare gli scambi, di ricorrere a rapporti commerciali! Lo scambio di beni inevitabilmente é anche scambio di idee e queste diventano facile preda della massa, quando si hanno concentrazioni della popolazione, fenomeni di urbanizzazione, come appunto nel nostro periodo, quando la ripresa del commercio pone al centro della vita economica non più la campagna ma la città. Anche l’idea eremtica in questo contesto ebbe più facile circolazione e quindi più facilità di adesione.

 

L’ascesi:  come abbiamo detto prima, negli eremiti ciò che più “predica", ciò che più fa impressione sugli altri, é la loro vita austera, asceticamente rigida. Questa penitenza ha come ha come significato fondamentale la “conversio ad Deum", che impegna in una lotta tenace e decisa contro Satana (aversio a peccato). Sotto questo profilo il movimento eremitico richiama in qualche modo l'antico “ordo paenitentium”, un po' come ultimo stadio della sua evoluzione: si sa che l'ordo paenitentium si era venuto man mano trasformando in uno stato di élite, composto da fedeli ferventi, che decidevano di fare penitenza nello stato di conversione; non è difficile vedere in questa evoluzione un avvicinamento allo stato monastico (cfr E. DELARUELLE, Les ermites et la spiritualité populaire : L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 222- 226).

Lo scontro con il male é ritenuto dall'eremita inevitabile e da combattere in prima linea: pertanto guarda con una certa diffidenza la perfetta organizzazione di certe comunità, che finisce col diventare un riparo dalle tentazioni, anziché un aiuto nella lotta contro le tentazioni.  

Espressione di questa ascesi-lotta sono il digiuno, le genuflessioni reiterate, le flagellazioni. Un posto particolare spetta al lavoro: è per l'eremita un mezzo di  mortificazione, ma anche un mezzo per procurarsi dei proventi da
offrire in elemosina ai più poveri. Sulla determinazione del tipo di lavoro influisce parecchio il luogo di residenza: se é la campagna abbandonata, si tratterà di un lavoro agricolo; se é la foresta, si lavorerà il legname; se é una località vicino a qualche grande centro, si ricorrerà alla questua e all'elemosina.

Il lavoro però va visto anche in relazione con la scelta di povertà, non solo individuale, ma anche comunitaria; diventa allora un modo di vivere l'appartenenza alla categoria dei “non-proprietari”, alla categoria di coloro, che vivono non di rendite, ma del lavoro quotidiano. Bisogna dire che l’eremitismo, non appena giunge a forme di vita di gruppo, deve fare ricorso al possesso di fondi terrieri: nei secoli X e XI la vita di scambio è ancora molto ridotta e si deve vivere ancora su basi autarchiche, se si vuole scongiurare il rischio dell’indigenza. In questo contesto terriero diventa necessaria anche l’attività lavorativa con il rischio di venire distolti dalla tensione assoluta a Dio. Ma a partire dagli ultimi decenni del secolo XI, con lo sviluppo delle città, della borghesia finanziaria, del commercio, l’eremitismo tenderà ad allontanarsi dalla forma del possesso terriero per radicalizzare l’ideale di povertà, al punto che nel linguaggio spesso la povertà diventerà ancor più della solitudine la nota qualificativa della vita eremitica: ci si avvia così verso gli ordini mendicanti.

 

3.    Note per una comprensione del fenomeno eremitico italiano

Per comprendere l'eremitismo italiano dei secoli XI e XII anche in ciò, che ha di specifico ed originale, penso che si debba seguire l'indicazione metodologica di dom J. Leclercq, che invita appunto a considerare tale fenomeno secondo una triplice prospettiva: va prima di tutto considerato in relazione con la vita eremitica nel suo evolversi; va poi considerato nella sua relazione con la realtà monastica del suo tempo; lo sguardo deve infine aprirsi ad una valutazione più ampia, che tenga conto della intera realtà ecclesiale (cfr J. LECLERCQ, L'érémitisme en Occident jusq’à l’an Mil : L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 419).

D'altra parte è nostra convinzione che non si dia mai un fatto che sia asetticamente ecclesiastico e pertanto possa essere isolato da tutti gli altri elementi del contesto vitale: ciò poi diventa particolarmente vero nella società alto-medievale, che é tutta sottesa dall'intenzio­ne di costruire la vita come traduzione temporale dei regno di Dio ! (Y. CONGAR, L’ecclésiologie du haut Moyen-Âge, Paris 1968, 248).

Questa considerazione ci farà preoccupati ed attenti, perché il nostro discorso non prescinda dal quadro e dalle trame delle strutture, delle istituzioni, della mentalità, ecc., che caratterizzano quel momento. (C. VIOLANTE L' eremitismo : Studi sulla cristianità  medievale, racc. da P.Zerbi, Milano 1972, 131).

Ai fini di rilevare in maniera sintetica l'evoluzione dell'eremitismo, potrebbe tornare utile seguire i contenuti che il termine "eremus” viene man mano assumendo (cfr J. LECLERC, L'érémitisme en Occident. op. cit., 29-31). Nella prima epoca patristica il termine "eremus" serve a contraddistinguere un atteggiamento spirituale di netta impronta biblica: é quell'atteggiamento per cui ogni cristiano cerca di prolungare e riprodurre in sé il mistero del deserto, che compare nella vicenda dell'Esodo, di Elia, di Eliseo, di Giovanni Battista e del Signore. Con Origene si inizia ad usare "eremus"  secondo una orientazione mistica: é il luogo-simbolo in cui si fa la conoscenza del Verbo, attraverso la meditazione della Scrittura. In Agostino poi troviamo la sintesi delle due precedenti accezioni nella nozione di "deserto interiore".

Con l’apparire del monachesimo il termine “eremus" subisce una profonda trasformazione: da attitudine spirituale, comune a tutti i cristiani, diventa un genere di vita, riservato ad una categoria particolare di cristiani, che in solitudine di vario tipo perseguono l’ideale dell’unione con Dio.

Dobbiamo dire che il movimento eremitico non ha mai avuto in Occidente uno sviluppo vasto come in Oriente: anzi con le deliberazioni di Aquisgrana dell'anno 816, che impongono il monachesimo secondo la regola benedettina, l’eremitismo viene ridotto ad un significato particolare: un ritiro ascetico, lontano dal cenobio di singoli cenobiti aspiranti a più elevato grado di perfezione personale: tale ritiro non comportava il discioglimento del vincolo di obbedienza all'abate.  

Considerata in questa prospettiva, la rifioritura eremitica dei secoli XI e XII appare senz’altro come un fatto nuovo: non nel senso che é scoperta di una forma nuova di vita cristiana, ma nel senso che tenta di far rivivere in solitudine nuova, quella realtà che trovava descritta nelle vite dei Padri del deserto. Particolare di questa rifioritura è il progressivo accentuarsi della forma comunitaria, della tensione apostolica e della povertà.

Si tratta di un genere dì vita, che lascia libero campo al mondo individuale di ogni vocazione: da ciò deriva che l’eremitismo è un insieme di casi particolari, è una pluralità di forme, difficilmente riconducibili a un quadro preciso (cfr J. LECLERC, L'érémitisme en Occident. op. cit., 31-36).

Schematizzando, senza pretese di completezza, possiamo parlare di eremitismo stabile, eremitismo itinerante, eremitismo individuale, eremitismo esicastico, eremitismo a mo' di laura... Da qui si arguisce che l’eremitismo dei secoli XI e XII ripropone quelle che sono le caratteristiche costanti dell’eremitismo. Da queste brevi annotazioni emerge che l'eremitismo é una riproposizione dell'evangelismo semplice, popolare, frutto di una mentalità essenziale, che riduce l'esistenza  alla dimensione fondamentale di lotta dalla parte di Cristo, contro Satana e il male.

II discorso ci porta ad affrontare il problema dell'eremitismo dal secondo angolo prospettico, cioè quello della sua relazione con la realtà monastica del suo tempo.

Dal XIX secolo è in atto nella storiografia una certa tendenza, che riduce il monachesimo alla forma cenobitica e pertanto giunge a mettere l'eremitismo in contrasto con il monachesimo: l’eremitismo sarebbe in qualche modo in contrasto con il monachesimo, perché non ne riproduce il carattere cenobitico, che é ritenuto l'elemento distintivo e normativo della vita monastica: ad esso ci si deve riferire per dire se siamo o no alla presenza di una esperienza monastica. Orbene lo studio del monachesimo antico, prebenedettino, mostra con inequivocabile chiarezza che tale contrasto non esiste: l'eremitismo é considerato una forma del monachesimo, anzi la forma originaria (μόνχος, μόνος). Questo rilievo dovrebbe imporre dunque alla storiografia una posizione esattamente contraria a quella sopra descritta.

Per dire se siamo o no di fronte ad una esperienza autenticamente monastica dobbiamo fare riferimento non già alla presenza del carattere cenobitico, ma alla presenza di qualche cosa che é essenziale all'eremitismo: possiamo infatti dire che l’eremitismo rappresenta il caso limite – e perciò paradigmatico – della vita monastica, in quanto nell’eremitismo abbiamo una radicalizzazione delle esigenze di preghiera, fuga dal mondo e ascesi, esigenze che descrivono ogni forma di vita monastica.

Stante questa osservazione, si deve dire che é insostenibile l’interpretazione dell’eremitismo come negazione del cenobitismo in quanto tale: del resto sia Romualdo (contatti con sant’Apollinare in Classe; san Michele di Cussano; Montecassino; con Odilone di Cluny) sia Pier Damiani (contatti con Pomposa; san  Vincenzo presso Fossombrone) hanno tenuto molteplici rapporti con monasteri di vita cenobitica. Sia Romualdo, sia Pier Damiani hanno esercitato, potremmo dire, quella che abbiamo visto essere la funzione dell'eremitismo in seno al monachesimo e cioè il richiamo di alcune cose, che sono costitutive della vita monastica in quanto tale.

Ma per cogliere il valore di questo richiamo di riforma, che viene all'eremitismo, penso che si debba tenere presente che proprio allora nel suo interno il cenobitismo stava vivendo un momento di riforma, non solo all'estero (Cluny; Brogne; Gorze; Verdun) ma anche in Italia: vari monasteri nel Nord e nel Centro, dipendenti da Cluny, ne subiscono l'influsso; Farfa pure accoglie le consuetudini cluniacensi senza perdere la propria autonomia; Alferio, discepolo di Odilone, fonda, con l'aiuto di Waimaro di Salerno l'abbazia di Cava dei Tirreni, ispirandosi a Cluny. Ebbene viene da chiederci quale valore viene ad assumere il richiamo dell'eremitismo in questo contesto.

La risposta ci viene offerta, credo, dalla cosiddetta "crisi del monachesimo” (cfr J LECLERQ, La crise du monachismo aux XI et XII siècles : Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, 70 (1958), 19 – 41).

Qui direi che troviamo il giudizio sul tipo di riforma condotta da Cluny: una riforma moderata, carente di un’ampia prospettiva storica, non condotta fino alle estreme, più profonde conseguenze: in fondo Cluny rimane una istituzione strettamente legata a un tipo di società, che é oramai in via di superamento e pertanto rimane inevitabilmente coinvolta nel declino di tale società.

Ben diverso invece é il tipo di riforma portato avanti dagli eremiti: l'assoluto desiderio di Dio consente loro di percepire la relatività ed i limiti delle istituzioni esistenti e di ricercare spazi nuovi più rispondenti alle loro grandi aspirazioni personali. In fondo potremmo dire che nella costante tensione tra istituzione e persona l'eremitismo pone I'accento su quest'ultima.

Dalla storia poi si vede che l'intuizione della priorità della persona porta sempre uno sprazzo di fantasia, di creatività. E veramente l’intuizione eremitica svolge nella storia del monachesimo medievale una funzione dinamica ed orientatrice: sull'eremitismo si plasmeranno nuovi ordini: i premonstratensi, che vogliono condurre vita eremitica nel loro stato canonicale: i certosini di san Bruno… Dall'eremitismo trarrà influssi lo stesso movimento benedettino (Pietro il Venerabile di Cluny).

Particolarmente significativo è l’influsso eremitico sulla congregazione di Pulsano, fondata da Giovanni di Matera: cosi Alessandro III ne esprime l'ideale (bolla del 9 febbraio 1177): "Iuxta votum atque promissionem vestram laboribus manuum seu vestrorum animalium, eorumque nutrimentis, atque elemosynis fdielium contenti sitis et super terram alia quaelibet non quaeratis” (citato da T. LECCISOTTI, Aspetti e problemi del monachesimo in Italia : Settimane di studio del centro italiano di studi sull’Alto Medio Evo, IV, Spoleto 1957, 335).

Qui si vede come l’influsso dell'eremitismo spinga verso quella che sarà la novità degli ordini mendicanti.

Non possiamo certo ritenere che gli eremiti avessero coscienza di tutto questo. Però possiamo senz'altro dire che la loro volontà di autonomia e quindi di rottura nei confronti del monolitismo monastico del loro tempo, sono gravide di conseguenze: possiamo certamente dire che di fatto l’eremitismo si è posto, si organizzato su una base non feudale. Agli eremiti il merito di aver saputo afferrare le nuove istanze, ancorandole a una profonda religiosità: in tal modo hanno contribuito a far sì che il nuovo non si affermasse solo come disgregazione ed eresia, ma anche, e in maniera assai più ampia e determinante, come autentica riforma ecclesiale.

Ma credo che sia possibile avanzare l'ipotesi che non vi è soltanto un influsso dell'eremitismo sul mondo monastico circostante; vi è pure un'azione del mondo monastico italiano sull'originarsi dell’eremitismo. Il monachesimo italiano non ha mai dovuto assumere il compito di evangelizzatore e civilizzatore di popoli ancora rudi; non si è mai trovato impegnato nell'opera di dissodatore di terre incolte: si è subito trovato tra popoli quasi totalmente cristianizzati e plasmati dalla profonda tradizione della civiltà romana. Questa situazione ha consentito al monachesimo italiano dì offrire più che un apporto culturale ed economico-sociale, un apporto religioso capace di penetrare in profondità.

Ci rimane da considerare la relazione dell’eremitismo con la Chiesa universale. Già in precedenza abbiamo accennato al valore apostolico di questi solitari. Ora vorremmo in particolare prendere in esame l'indicazione che viene dal movimento eremitico circa il rapporto della Chiesa con il mondo del tempo.

L' Alto Medio Evo è caratterizzato da una profonda unitarietà: tutta la vita é costruita a partire dall'esigenza del servizio di Dio, non solo a livello religioso, ma anche a livello politico. La fede nell'unico Dio diventa convinzione che vi è una sola verità: lo Stato serve Dio garantendo, diffondendo, difendendo questa unica verità. Ma lo Stato è impero, cioè universalità, e pertanto tutto l'impero si struttura in maniera unitaria, intorno a quest'unica verità.

Sulla scia di questa concezione Carlo Magno si sente apostolo della cristianità non solo fuori la Chiesa, ma anche dentro la Chiesa: e la Chiesa viene inquadrata nella struttura feudale: ad esempio episcopati ed abbazie sono distribuiti come feudi.

Sotto Carlo Magno la cosa non comporta gravi conseguenze: Carlo Magno é dotato di "bona voluntas"e di “vera potestas", per cui riesce a garantire in tutto l'impero una autentica vitalità cristiana. Ma dopo di lui la debolezza di Lu­dovico il Pio, la spartizione dell’impero, le invasioni dei Normanni, dei Musulmani e degli Ungari, frantumano l'unità dell'impero e collocano la struttura feudale in balia dei particolarismi della nobiltà laica locale. Ciò si riflette a livello ecclesiale nella nomina dei vescovi e degli abati in base a criteri tutt'altro che religiosi; ciò produce un fenomeno di secolarizzazione dei beni ecclesiastici: in generale viene a crearsi un clima di tensione e violenze.

In questo contesto si instaura la restaurazione imperiale fatta dagli imperatori tedeschi: in fondo si rimane ancora nell'ambito della struttura feudale. Cioè non si sottopone a verifica il sistema nella sua globalità, ma si cerca soltanto di garantirne il funzionamento, assicurando la stabilità e la forza del potere centrale. La riforma di Cluny si muove nello stesso senso: conserva la struttura feudale, se ne garantisce la vitalità attraverso la forte personalità dei suoi abati: come l’imperatore tedesco si designa un successore tra i suoi figli, l'abate morente si sceglie il successore tra i suoi monaci. Ma é evidente che rimangono gli stessi rischi  di prima.

Il movimento eremitico ha il coraggio di strutturarsi al di fuori del sistema tipicamente feudale e fondare la propria vitalità non sull'efficienza del sistema ma sull’impegno delle singole individualità. Da qui si vede come tutta la forza deIl’eremitismo stia nella sua interiore e personale carica religiosa. Questa carica religiosa gli consente la massima libertà nei confronti delle strutture esistenti: la povertà gli consente di vivere in maniera totalmente autonoma e in questa autonomia abbiamo la fonte di nuove possibilità.

Ponendosi su questa base non feudale, meno legata alle strutture, l’eremitismo si è messo in contatto salutare con le nuove aspirazioni: povertà, apostolato, vita secondo il vangelo, sapendo assumerle in maniera tale che non degenerassero in forme ereticali, ma anzi contribuissero a promuovere un rinnovamento ed un arricchimento della vita ecclesiale.

Quindi per via della sua intensa e autonoma carica religiosa l'eremitismo riesce a ricuperare su di un piano di ortodossia quei valori di povertà, autonomia spirituale, che l'istituzione aveva isterilito, formalizzato, giuridicizzato. Così l’eremitismo viene ad assumere nel suo tempo una obiettiva funzione antiereticale.

La tensione di rinnovamento e di riforma interpretata dall’eremitismo non svolse solo questa benefica funzione antiereticale, ma anche divenne presenza dinamica e orientatrice per il monachesimo in generale e per l’intero apparato ecclesiale.

Il monachesimo, infatti, toccato dalle istanze di povertà e apostolato degli eremiti, maturerà una spinta verso il mondo nuovo della borghesia cittadina e del proletariato urbano: questa spinta si concreterà nelle nuove forme di vita religiosa: gli ordini mendicanti.

La vita ecclesiale in generale, toccata dalle istanze spirituali dell’eremitismo, giungerà a riconoscere e ad affermare che è possibile vivere la perfezione cristiana attraverso il minimo di istituzione.  E così la perfezione cristiana da prerogativa esclusiva dell’ordo monastico diventerà meta possibile per ogni individuo cristiano.

In questa linea scaturirà la distinzione tra  lo stato di vita ed i meriti personali e insieme verrà messa in discussione l’antica concezione, secondo la quale i tre stati di vita (monachesimo, clero, laicato) erano anche tre gradi diversi di santità.

L’attività apostolica svolta dagli eremiti laici non autorizzati alla predicazione non ingenerò solo confusioni e pericoli, ma anche impose il ricupero di di alcune importanti nozioni.

Per esempio divenne sempre più chiara la distinzione tra l’insegnamento autorevole del vangelo, che è proprio del clero e la testimonianza evangelica, che è propria di ogni cristiano.

Inoltre divenne sempre più chiaro che chi ha il munus docendi deve essere anche nella sua vita testimone evangelico: non basta più il dato oggettivo dell’ufficio, è doveroso anche il dato soggettivo della vita. Va quindi riconosciuto che l’eremtismo dette un contributo efficace alla riforma del clero.

Infine l’azione apostolica degli eremiti affermò l’urgenza di precisare i ruoli propri dei chierici e quelli specifici dei laici.

 

Per questa lezione mi sono servito di:

 

·       O. CAPITANI, San Pier Damiani e l’istituto eremitico : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 122 – 163

 

·       Y. CONGAR, L’ecclésiologie du haut Moyen-Âge, Paris 1968

 

·       E. DELARUELLE, Les ermites et la spiritualité populaire : L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 212 – 241

 

·       L. GENICOT, L’éremitisme du XI siécle dans son context économique et social : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 45 – 69

 

·       T. LECCISOTTI, Aspetti e problemi del monachesimo in Italia : Settimane di studio del centro italiano di studi sull’Alto Medio Evo, IV, Spoleto 1957, 311 – 337

 

·       J LECLERQ, La crise du monachismo aux XI et XII siècles : Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, 70 (1958), 19 – 41

 

·     J LECLERQ- F. VANDENBROUCKE – L. BOUYER, La spiritualité du Moyen Age, Paris 1961

 

·     J LECLERQ, La spiritualità del Medioevo (= Storia della spiritualità cristiana 3/1), Bologna 1969, 191 -210    

 

·     J LECLERQ, L’éremitisme en Occident jusqu’ à l’ an Mil : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 27 – 44

 

·     J. LECLERQ, Epilogue : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 593 – 595

 

·     J. LECLERQ, S. Pier Damiano. Eremita e uomo di Chiesa, Brescia 1972

 

·     G. G. MEERSSEMAN, Eremitismo e predicazione itinerante dei secoli XI e XII : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 164 – 179

 

·     J. SAINSAULIEU, s.v. Ermites : Dictionnaire d’Histoire et de Géographie ecclésiastique, XV, coll. 766 – 787

 

·     G. TABACCO, Romualdo di Ravenna e gli inizi dell'eremitismo camaldolose : L eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 73 – 119

 

·     C. VIOLANTE L' eremitismo : Studi sulla cristianità  medievale,                                                     racc. da P.Zerbi, Milano 1972, 127 – 143

 

·     C. VIOLANTE Il monachesimo cluniacense : Studi sulla cristianità  medievale, racc. da P.Zerbi, Milano 1972, 3 – 67