lunedì 25 marzo 2024

 

L’organizzazione della gerarchia nell’Alto Medio Evo

 

 

L’EPISCOPATO NELL’ALTO MEDIOEVO

 

Per capire lo sviluppo che la figura del vescovo ha subito nel corso di questo periodo della storia occorre prestare attenzione in maniera particolare a due elementi.

Primo elemento: la mentalità di coesione, che già conosciamo: la ecclesia universalis è anche societas terrena, il potere regale possiede anche connotazioni sacrali, sacerdotali; il potere sacerdotale ha connotazioni arche temporali, regali.

Questa visione unitaria è propria sia del mondo germanico, sia del mondo romano.

Secondo elemento: l’interpretazione esistenziale di questa menta­lità di coesione e su questo punto romanità e germanesimo divergono: qui ha le sue radici lo scontro che si verificherà
nella riforma gregoriana.

La romanità organizza l'unità, la coesione assegnando il ruolo primario e paradigmatico allo spirituale: ciò si attua prima di tutto teoricamente, ma poi trova conseguente applicazione anche a livel­lo pratico: per es., se rimaniamo al caso particolare di cui ci stiamo occupando, la legislazione canonica romana nell'episcopato pone in primo piano l'ufficio spirituale e vi connette il patrimo­nio solo come mezzo, utile per un adeguato esercizio dell'ufficio spirituale, Il germanesimo, attraverso l'opera di evangelizzazione, riceve la visione romana, ma questa rimane esclusivamente su un piano teori­co: sul piano pratico, che è poi il piano su cui il germanesimo è vincente, ci sono già usi e consuetudini inveterati, molto empirici e  assai radicati; e qui a guidare non sarà la nuova visione teorica, ma la vecchia empiria.

Si tratta di un sistema di vita che ha come fondamento la res , il patrimonio, il possedimento terriero, fondamento non solo della vita economica, ma anche della vita politica e della aggregazione sociale: chi non possiede terra dipende dal padrone delle terra, chi possiede poca terra dipende da chi possiede un più vasto appezzamento di terra. Il potere economico è dunque anche potere politico. Si noti come alla base di tale potere abbiamo non un principio di diritto pubblico, ma un principio di diritto privato: la proprietà privata.

Vediamo come tali elementi influirono sulla figura del vescovo. La mentalità di coesione spinse sempre più a connettere alle mansioni spirituali del vescovo anche mansio­ni temporali: si giunse così con i carolingi ai vescovi integrati nella struttura politica dell'impero, con funzioni anche civili; gli imperatori tedeschi poi svilupparono la figura del vescovo-con­te, del vescovo-principe per arginare le pretese ereditarie della nobiltà feudale laica.

L'interpretazione dell'esistenza, condotta secondo quei criteri molto empirici e primitivi, che assegnavano un ruolo primario al patrimonio, portò ad accentuare sempre più nell'episcopato l’aspetto temporale della proprietà terriera e a collocare in secondo piano gli interessi propriamente spirituali. Il potere di gover­no di un vescovo era proporzionale al suo potere economico, al suo patrimonio. Questo fatto determinò una duplice modalità di azione nei confronti dell’episcopato da parte del potere centra­le e dei poteri locali. Da una parte con donazioni, concessioni, privilegi, immunità, protezione si consolidò sempre più la base temporale del potere episcopale e gli si garantì un ruolo nella societas christiana, che doveva essere retta sia dal potere dei re sia dal potere dei sacerdoti. Dall'altra, proprio per questa rilevanza temporale dell'episcopato, il potere politico esercitò il massimo controllo sui  vescovi.

Ciò si manifestava soprattutto nel processo di elevazione di un vescovo.

Nel periodo tardo-antico dell’impero romano l'elezione del vesco­vo spettavo al clero ed al popolo della città; il metropolita e gli altri vescovi suffraganei della            provincia ecclesiastica svolgevano azione di controllo per garantire la regolarità del processo elettivo e l’idoneità dell’eletto; infine Il metropolita con almeno altri due vescovi procedeva alla consacrazione dell'eletto. Con lo svilupparsi della comunità cristiana cittadina e con il diffondersi del cristianesimo anche nelle campagne divenne sempre più inattuabile una elezione fatta da tutto il clero e da tutto il popolo: si giunse così a costituire un gruppo ristretto di elettori, composto dal clero digniore della città (poi il capitolo della cattedrale) e dai laici più influenti. Al clero e al popolo della circoscrizione episcopale rimaneva tuttavia un'impor­tante funzione da svolgere: acclamare colui che era stato eletto dal gruppo ristretto degli elettori, tale acclamazione si teneva quasi sempre nel contesto della cerimonia di consacrazione e pertanto divenne parte integrante di tale rito. Si noti che l'acclamazione era giuridicamente necessaria, perché si potesse parlare di elezione pienamente canonica. Metropolita e vescovi della pro­vincia continuavano a svolgere azione di controllo.

Ora i centri di potere germanici, divenuti cristiani, in questo processo elettivo di un vescovo trovarono alcuni spazi per poter esercitare il loro influsso. Un primo spazio era rappresentato dal gruppo ristretto degli elettori: qui la nobiltà terriera ebbe pra­ticamente libero campo, sia collocando propri membri tra i cano­nici del capitolo della cattedrale, sia occupando il posto che spettava ai laici più influenti. L'intervento delle varie famiglie nobiliari, dettato spesso più da interessi di casato che da preoc­cupazione ecclesiale, portava frequentemente alla contrapposizione di vari candidati o a irregolarità di procedura. In tali fran­genti avrebbe dovuto intervenire la gerarchia ecclesiastica provinciale per scegliere l'eletto più idoneo o addirittura per avocare a sé l’elezione, ma tale intervento nella maggior parte del
casi era impossibile, in quanto il sistema romano delle province era stato sconvolto sia dall’insediamento dei popoli germanici in Occidente sia dal prevalere del particolarismo locale nella fase di decadenza della monarchia merovingia.

L'intervento della gerarchia ecclesiastica provinciale fu pertanto rimpiazzato dall’intervento dell’autorità che dominava          in quel luogo: nobile locale o re merovingio. Venne così a formarsi un diritto del potere temporale di intervenire nell’elezione di un vescovo per confermare l’elezione avvenuta o addirittura per imporre un proprio candidato.

Gli imperatori carolingi prima e gli imperatori tedeschi poi non fecero altro che proseguire su questa strada: quale suprema istanza di controllo, da una parte si riservarono il diritto di concedere al gruppo elettorale ristretto il permesso di procedere alla elezione, magari raccomandando un proprio candidato e dall'altra si riservarono l'esame e la conferma dell'eletto. Talora l'impe­ratore rendeva superflua la procedura di elezione, in quanto prov­vedeva lui stesso alla nomina del vescovo, concedendo al clero e al popolo solo la formalità dell'acclamazione. Grazie a questa forma di controllo, il vescovo divenne per il potere temporale una delle persone più fidate e perciò al vescovo vennero sempre  più concessi privilegi, donazioni, poteri di carattere temporale. Tra i vescovi-conte  e il sovrano divenne  molto opportuno saldare strettamente il legame reciproco. Infatti spesso i vescovi-conte si trovarono nella necessità di trovare il sostegno del sovrano per fare fronte ai membri delle grandi famiglie aristocratiche, che miravano sia a impadronirsi delle proprietà fondiarie della Chiesa sia ad assicurarsi la facoltà di decidere la successione episcopale. E pure spesso i sovrani si trovarono dal canto loro nel bisogno di cercare l’appoggio dei vescovi per fronteggiare i duchi, i conti, i grandi proprietari terrieri, che insidiavano il loro potere. Gli imperatori e i vescovi insieme dettero così vita alla Chiesa dell’impero: minacciati da forze laiche e regionali, i vescovi si accostarono sempre più all’imperatore, e l’imperatore a sua volta nell’intento di evitare alleanze fra vescovi e potentati locali poneva sempre ogni cura nel nominare vescovo di un territorio un prelato, che non fosse originario della regione. E così i vescovi si trovarono a lottare nel loro proprio interesse contro i nemici del potere imperiale: cfr J. DHONDT, L’alto Medioevo (= Storia Universale Feltrinelli 10), 225-226.

Ora si noti prima di tutto che queste attribuzioni temporali non erano connesse intrinsecamente con il carattere spirituale dell'episcopato, ma erano un'aggiunta dovuta all'autorità temporale.

In secondo luogo si noti che tale connessione divenne permanente: temporalità          dovuta al potere temporale, ufficio spirituale, ricevuto da Dio, divennero in forza della mentalità di coesione un unum inscindibile.

In terzo luogo si ricordi che secondo la men­talità germanica, per ragioni empiriche, in tale unità l'aspetto prevalente era rappresentato proprio dalla temporalità. Allora si arriva a capire come l'attribuzione del potere episcopale al vescovo eletto spettasse prima di tutto al potere politico: que­sti mediante l'investitura per baculum et anulum (a partire da Enrico III), concedeva il beneficium dell'episcopatum, che era un'unità, costituita prima di tutto dalle temporalità ed in secon­do luogo dalla mansione spirituale. Ma, secondo la logica feudale, l'investitura, la concessione del beneficium presupponeva il giu­ramento di fedeltà, l’homagium del vescovo, che in tal modo si obbligava a prestare al signore il servitium feudale: il vescovo poi versava il noto relevium, come tassa-dono per il favore ricevuto. Alla morte del vescovo il signore godeva dei noti ius spolii et ius regaliae.

Solo dopo l'investitura si poteva procedere alla consacrazione dell’eletto.

Per transenna: si noti che con questo sistema si garantiva all'episcopato stabilità e sicurezza, questa stabilità e questa sicurezza spesso erano pagate con la mondanizzazione del vescovo, che doveva dedicare parecchie energie a compiti secolari. Ancora si noti come l'inserimento dell'episcopato nel sistema germanico abbia portato ad accentuare l'interpretazione di tale funzione in termini di potestas et honor personali, mettendo in ombra l'idea evangelica del ministerium e l'idea romana dell' officium.

In connessione con questo sviluppo l'episcopato divenne facilmen­te soggetto a due tipi di mali: l'elezione di indegni, dovuta al fatto che la preoccupazione politica finì spesso con il trascurare totalmente le esigenze spirituali: e questi indegni evidentemente non si adattarono mai a vivere secondo le norme canoniche: ed il segno più evidente di ciò fu la lesione dell'obbligo del celibato.

La simonia: il dovere ottenere l'episcopatus come beneficium anche temporale e cospicuo, il dovere concedere l'episcopatus come beneficium divennero spesso occasione di illecita compra-vendita di una mansione, che era e doveva essere eminentemente spirituale.

 

LA COSTITUZIONE DELLA CHIESA NELL’ALTO MEDIOEVO

 

F. KEPMF, Il papato dal secolo VIIIalla metà del secolo XI : Problemi di storia dell Chiesa. L’Alto Medioevo. II corso di aggiornamento per professori di storia ecclesiatica dei Seminari d’Italia. Passo della Mendola 30 agosto-4 settembre 1970, Milano 1973, 59-71

 

Y. CONGAR, L’écclésiologie du haut Moyen-Age, Paris 1968, 131-246

 

H. M. KLINKENBERG, Der römische Primat im 10. Jahrhundert : Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 72 : Kanonistische Abteilung, 41(1955), 1-37

 

LA COSTITUZIONE ECCLESIASTICA INTERDIOCESANA

Il periodo altomedievale rappresenta un momento di grandissima importanza nella storia della costituzione ecclesiastica in Occidente: la tensione fra una tendenza romana ed una tendenza non-romana, già presente nel periodo antico, in questa fase della storia non solo trova nuova vita, ma anche tende ormai a comporsi nella prospettiva indicata da Roma.

 

1 - il punto di partenza è rappresentato da alcuni passi neotestamentari

·         Mt 16, 18-19: il solo Pietro riceve le chiavi

·         Mt 18, 18 : il potere è conferito a tutti gli apostoli

·         Gv 21, 15-17: il compito pastorale è posto in stretta relazione con Pietro

·         Gv 20, 22-23: il dono dello Spirito Santo e il compito di rimettere i peccati sono posti in relazione con tutto il gruppo degli apostoli.

 

2 – la ricezione di questi dati nel mondo patristico

La dualità emergente dal Nuovo Testamento (dato della collegialità e dato petrino), stando a certe interpretazioni, verrebbe smarrita nel periodo della riflessione patristica. Secondo queste interpretazioni, infatti, vi si delineerebbero fondamentalmente due linee.

La prima, che avrebbe come capo corrente san Cipriano, assolutizzerebbe il dato della collegialità al punto di sacrificare il dato petrino.

La seconda linea cara agli ambienti romani e capitanata dal san Leone Magno, assolutizzerebbe il dato petrino al punto di sacrificare il tema della collegialità.

In realtà questa interpretazione è riduttiva: ambedue le correnti, ad un’analisi più attenta delle fonti, rivelano di attenersi al dato neotestamentario della simultanea presenza dei due elementi. Si diversificano per la diversa accentuazione, che in esse assumono i due elementi: l’una, quella di Cipriano, si sforza di interpretare il dato petrino a partire dal primario aspetto collegiale; l’altra, quella romana, tende a intendere l’aspetto collegiale a partire dalla priorità petrina.

Si noti che nel periodo patristico il dato della successione è pacifico: è pacifico che il collegio episcopale succeda al collegio apostolico, assumendone le prerogative. E’ pacifico che un vescovo, ad es. quello di Roma, succeda al primo vescovo di quella sede direttamente, ereditandone le prerogative. Il problema invece riguarda l’interpretazione del ruolo di Pietro, che il vescovo di Roma erediterebbe per successione: la priorità di Pietro, da tutti riconosciuta, comporterebbe dunque indiscutibilmente una priorità del vescovo di Roma. Ma quali sono i contenuti di tale priorità? Si tratta di una priorità potestativa, giurisdizionale o morale? Se ciò che Pietro ha ricevuto in Mt 16 è il potere apostolico del collegio apostolico, unitariamente assunto, sotto questo profilo successore di Pietro è il collegio episcopale, della cui unità il vescovo di Roma è typos.

Ecco allora la posizione di Cipriano, che riesce a conciliare il dato petrino con il dato collegiale, ricorrendo ad una particolare interpretazione di Mt 16, 18-19. Per Cipriano il potere delle chiavi, il potere di legare e sciogliere, di cui vi si parla, altro non è che la missione apostolico-episcopale, affidata a tutto il collegio apostolico e poi, per successione, al collegio del vescovi.

Cipriano riconosce che Mt 16, 18-19 pone una relazione particolare tra Pietro e la missione apostolico-episcopale, ma interpreta tale relazione in questi termini: Pietro in tale passo svolge u­na funzione tipica (da typos) il potere di legare e sciogliere quindi è affidato a lui non come individuo, ma come immagine dell'unico collegio apostolico, che deve guidare l'unico gregge di Cristo. Pietro allora non riceve una prerogativa singolare, Pietro riceve un potere che è comune a tutti gli altri apostoli e che va esercitato in spirito di comunione.

Continuando su questa linea interpretativa, il “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam” da altri autori, ad es. S. Agostino, non è letto come affermazione di una posizione singolare e fondamentale di Pietro nel collegio apostolico, in quanto la pietra sarebbe non Pietro ma Cristo.

Da quando detto appare chiaramente che per questa linea logica Mt 16 rappresenta il principio, l’origine dell'episcopato collegiale, in cui Pietro svolge una particolare funzione tipica in ordine all’unità: ne traspare un'ecclesiologia, che dà singolare rilievo al valore della collegialità episcopale, alle autonomie locali, in quanto il potere dei vescovi è autoctono, non deriva da un potere superiore, né è subordinato a un potere centrale superiore.

Il secondo tipo di costituzione ecclesiale è legato agli ambienti romani: due sono i dati fondamentali: il papa è successore di Pietro e Pietro ha un ruolo prioritario nel collegio apostolico.

Il cristianesimo primitivo circonda presto Roma di grande stima e venerazione, essendo la città in cui Pietro e Paolo hanno versato il loro sangue: anzi tale stima e venerazione sviluppano l’idea mistica secondo cui Pietro e Paolo continuano a rendere presente in Roma la loro opera.

E’ interessante rilevare che i vescovi di Roma precisano l'idea della sopravvivenza dell'opera di Pietro e Paolo in Roma con l’affermazione di esserne loro continuazione vivente: PAPA, PETRUS IPSE.

Le testimonianze in questo senso si moltiplicano alla fine del IV secolo e nel corso del V secolo: papa Damaso, papa Siricio, papa Sisto  III.

San Leone non fa altro che raccogliere questa tradizione e darle una sistemazione definitiva, accostando all’idea del “papa, Petrus ipse” una interpretazione monarchica del ruolo di san Pietro.

Secondo s. Leone Mt 16,18-19 non presenta soltanto l’origine del potere di legare e sciogliere, comune a tutti gli apostoli riuniti in un unico collegio, di cui Pietro sarebbe Typos, ; secondo s. Leone Mt 16,18-19 presenta anche l’origine del primato petrino: il “super hanc petram aedificabo ecclesiam meam" è inteso come riferito non a Gesù Cristo, ma alla persona di Pietro, cui verrebbe riconosciuto un ruolo fondamentale e fontale, singolare ed esclusivo: il potere di legare e sciogliere degli altri apostoli trova fondamento e saldezza in Pietro, cui appunto è stato affidato il compito di confermare i fratelli nella fede.

Questo ruolo di Pietro è continuato dal vescovo di Roma, che è ipse Petrus: ciò viene spiegato da Leone ricorrendo al concetto  di Vicarius Petri:  in esso Leone ravvisa un duplice significato: un significato giuridico-istituzionale: i vescovi di Roma, quali successori in eadem Sede, ereditano le prerogative del predecessore; e un significato mistico-sacramentale: vi è una presenza operante di Pietro nell'esistenza storica dei vescovi di Roma (quindi “papa, ipse Petrus” non solo perché succede nelle prerogative petrine, ma anche perché è Pietro che continua ad agire misticamente nella sua esistenza).

Che cosa comporta questo ruolo singolare di Pietro e dei suoi successori nella sede di Roma? Si risponde, facendo ricorso ad una espressione paolina, che poi diventerà usuale nel vocabolario della cancelleria pontificia: a Pietro e ai suoi successori è affidata la sollicitudo, la cura omnium ecclesiarum, per cui la sede di Roma viene ad assumere in seno alla ecclesia universalis il ruolo di caput.

All'espressione “caput” soggiacciono due suggestioni: una suggestione storico-politica: il riferimento è a Roma caput imperii e una suggestione fisiologica: la testa come origine e guida di tutte le facoltà del corpo.

Secondo questa prospettiva si arriva a concludere che tra il vescovo di Roma e gli altri vescovi vi è sì una similitudo honoris (il compito apostolico), ma vi è anche una discretio pote­statis, in quanto il compito apostolico trova in Pietro la sua origine, il suo principio, la sua forma, da cui gli altri vesco­vi dipendono ed a cui devono fare riferimento.

E' chiaro che questa visione ecclesiologica romana tende ad una costituzione ecclesiastica di tipo monarchico.

Comunque sia, va sottolineato che tale concezione rimase pratica­mente circoscritta all'area geografica della provincia ecclesia­stica romana: nelle altre zone si impose praticamente la visione di Cipriano: significativo il fatto che almeno dal quinto secolo nelle messe di ordinazione di un vescovo si leggeva Mt 16, 13-19. Questa la posizione ecclesiologica quale emerge a livello dottri­nale, passiamo ora a considerare qual è la costituzione ecclesiastica, che si è determinata a livello pratico.

 

3 - La costituzione ecclesiastica nel periodo tardo-antico.

Il fondamento è rappresentato da due principi, che abbiamo visti sottolineati con vigore da Cipriano,

-     il principio della collegialità della funzione episcopale

-     il principio della successione diretta dei vescovi agli apostoli, senza partecipazione della santa sede: ciò conferisce all’episcopato un carattere autogeno.

Su tale fondamento vengono a costituirsi vari livelli di collegialità episcopale con notevole autonomia.

Il primo livello di collegialità episcopale è rappresentato dalle province: i vescovi di una determinata provincia dell'impero romano costituiscono una particolare unità ecclesiale.

Data la costituzione fondamentalmente collegiale, la pro­vincia ecclesiastica ha la sua suprema istanza nel concilio provinciale. Il concilio provinciale ha:

-        potere amministrativo: decide l'erezione di nuove diocesi, con­trolla e conferma le elezioni dei vescovi; in casi eccezionali decide la traslazione di un vescovo da una sede ad un'altra

-        potere giudiziario: il concilio provinciale diventa un tribu­nale che giudica i vescovi della provincia accusati di qualche irregolarità e giunge perfino a deporli, giudica anche le contese fra vescovi della provincia.

-        potere legislativo.

Tra i vescovi della provincia ecclesiastica si distingue il metropolita: quanto a poteri è primus inter pares (il concilio provinciale              è la sola suprema istanza): i vescovi della provincia ecclesiastica pertanto non gli sono subordinati, quanto ad onore il Metropolita gode di una certa priorità, che si esprime nel diritto di convocare e presiedere i concili provinciali e nel dovere di svolgere una funzione di sorveglianza ed ispezione su­gli altri vescovi, in modo. che sia garantita l'applicazione delle decisioni conciliari.

La provincia ecclesiastica per il suo carattere collegiale ed au­togeno si distingue dai vicariati apostolici di Arles e Tessalo­nica, che furono istituiti dai papi nel corso del V sec, come rappresentanza del vescovo di Roma e con poteri delegati.

Un secondo livello di collegialità è rappresentato dalle convergenze interprovinciali. Nell'Africa settentrionale e nella Spagna Visigotica i vescovi delle varie provincie spesso si riuniscono in un concilio regionale, che, sotto la presidenza del primate, delibera sia a livello amministrativo, sia a livello giudiziario, sia a livello legislativo: il primate dell'Africa settentrionale ha la sua sede a Cartagine, il primate della Spagna Visigotica ha
la sua sede a Toledo.

Una prima osservazione: è chiaro che, data la presenza in seno alla Chiesa occidentale di tali istituti autoctoni con azione ampia­mente autonoma, non si può pensare ad un esercizio di tipo monar­chico del potere primaziale del vescovo di Roma, siamo dunque lontani dalla visione di san Leone. Anche la prerogativa di uni­co patriarca dell'Occidente va collocata e letta nell'ambito di una Chiesa che non conosce ancora la radicalizzazione del contra­sto tra Occidente ed Oriente e pertanto ha ancora il suo unitario centro di gravitazione nell'area mediterranea: e qui il vescovo di Roma è patriarca accanto ad altri patriarchi (Alessandria, An­tiochia, Costantinopoli, Gerusalemme).

Una seconda osservazione: riguarda il ruolo primaziale: abbiamo vi­sto che anche Cipriano riconosceva a Pietro ed ai suoi successori sulla sede di Roma un ruolo prioritario, consistente in una fun­zione tipica in ordine all'unità della Chiesa. Ci chiediamo: questa principalitas trovò espressione anche a livello giuridico-isti­tuzionale ed in quali termini?

L’espressione giuridico-istituzionale della principalitas di Roma si ebbe al concilio di Sardica del 343: i vescovi d’Occidente riconobbero nel vescovo di Roma la suprema istanza di appello per la Chiesa universale in ordine alle più importanti questioni importanti disciplinari (can. 3-5), le cosiddette causae majores, che praticamente riguardano i vescovi.

Ma va rilevato che Sardica non volle affatto sacrificare le pre­rogative delle autonomie locali alla causa del primato romano: si tratta prima di tutto di una suprema istanza non assoluta, esclusivamente di appello e l'appello presuppone evidentemente la procedura
disciplinare locale e la richiesta di intervento da parte del vescovo interessato. Roma dunque non ha un diritto automatico di intervento! In secondo luogo Roma nello svolgere il suo ruolo di suprema istanza di appello per questioni disciplinari deve rispettare le prerogative autonome locali, cioè qualora decida di non confermare la sentenza pronunziata in prima istanza dal concilio provinciale o regionale contro un vescovo, Roma deve ordinare una nuova istruttoria per opera dei vescovi della provincia vicina o per opera di delegati papali inviati sul posto.

Un'ultima osservazione: le sentenze sia disciplinari sia dogmatiche pronunciate da Roma non sono ritenute ex sese vincolanti: quando sono accolte non è in nome di un formale potere di Roma di interpretare la fede e la disciplina della Chiesa, ma come conseguenza di una verificata consonanza tra la decisione romana e la tradizione ecclesiale: si capisce allora come alcune decisioni romane siano state respinte: non bastava che fossero romane, occor­reva che fossero anche ecclesiali!

 

4 – La crisi istituzionale dei secolo VII e VIII

Casella di testo: til'insediamento dei popoli germanici sull'area occidentale, la tensione sempre più forte tra Oriente e Occidente, l'espansione isla­mica determinarono il crollo di alcune istituzioni ecclesiali, che in Occidente ponevano spazi di autonomia tra Roma e le Chiese locali. Vediamo a grandi linee questo fenomeno.

Le strutture provinciali e metropolitane subirono uno sconvolgimen­to quasi totale: le province italiane, sottoposte come furono sia alla spartizione territoriale sia ai contrasti bellici tra Longobardi e Bizantini, si trovarono praticamente nell'impossibilità di fare sopravvivere  l’istituto ecclesiastico metropolitano, che invece esigeva una situazione di pacifica collaborazione.


Le province del regno merovingio a partire dal 639 furono investite e frantumate dall'anarchia particolaristica della nobiltà locale: sedi episcopali della stessa provincia vennero così a trovarsi dominate da diversi signori locali ed anche qui un discorso di
collaborazione divenne praticamente inattuabile: non per nulla bisogna attendere i tempi di Pipino il breve e Carlonanno perché si torni a celebrare dei concili,   ma non saranno più concili
provinciali, saranno concili del regno, convocati e guidati non già da un metropolita ma dall'autorità temporale.

Analoga sorte toccò alle province ecclesiastiche dell’Europa orientale, che in parte furono occupate dagli Avari e dagli Slavi, in parte divennero preda degli Arabi, in parte rimasero sottoposte all’imperatore bizantino e pertanto venne meno quell'unità cultura­le e politica, che consentiva anche un lavoro di collaborazione ec­clesiale.

Altra struttura intermedia tra la principalitas di Roma e le Chie­se locali era rappresentata dalle sedi primaziali di Cartagine e di Toledo: ma, come si sa, sia l’Africa settentrionale verso la fine del VII sec. sia quasi tutta la Spagna visigotica a par­tire dal 711 furono conquistate dagli Arabi: la vita cristiana molto presto si estinse in Africa settentrionale, continuò inve­ce in Spagna, ma in maniera completamente isolata.

Anche l’istituto patriarcale rappresentava una forma di autonomia interdiocesana rispetto alla principalitas di Roma, perché il vescovo di Roma condivideva la sua prerogativa di patriarca con altri quat­tro Patriarchi orientali. Ebbene anche a questo livello si ebbe una trasformazione. Per via della espansione islamica le sedi pa­triarcali dell'area imperiale si ridussero praticamente a due: Roma e Costantinopoli. E tra Roma e Costantinopoli i rapporti divennero sempre meno di collaborazione e sempre più di netta contrap­posizione. Influì senz'altro in questo senso la situazione politica. L'impero romano, privato di terre in Occidente in seguito agli stanziamenti germanici, privato delle coste mediterranee in
seguito alla espansione islamica, vide ridursi la sua area di dominio alle terre orientali: Roma divenne sempre più una città periferica, Costantinopoli assunse invece sempre più una posizione centrale.

Questa situazione politica ebbe riflessi anche a livello ecclesiale: Leone III fu indotto a trasferire dalla giurisdizione patriarcale della Roma periferica e ribelle a quella della centrale Costantinopoli le terre che politicamente gravitavano intorno a Costantinopoli (Sicilia, Italia meridionale, Macedonia, Dalmazia, Grecia), in tal modo veniva a crearsi coerenza tra l'apparato politico e l'apparato ecclesiastico. A questo punto da una parte il
patriarca di Costantinopoli si sentì ancora più stimolato ad avanzare le sue pretese di primato ecumenico, dall'altra il vescovo di Roma si trovò costretto a contare sempre meno sull'Oriente ed a rivolgersi sempre più verso l'Occidente cristiano. E la Chiesa universale si trovò così coinvolta nella contrapposizione dei due blocchi politico-culturali: una Chiesa sempre più latina da una parte, una Chiesa sempre più greca dall'altra; da una parte un patriarca romano, con pretese di giurisdizione universale, ma con effettive possibilità di azione solo in Occi­dente; dall'altra, un patriarca costantinopolitano, pure animato da pretese ecumeniche, ma a sua volta ridotto al solo Oriente nelle effettive possibilità di azione: insomma alla struttura patriarcale subentrò la contrapposizione di due primati.

 

5 - La ricostruzione carolingia

a)    Si perde l’idea dell’autonomia delle strutture interdiocesane.

In connessione con la ricostruzione politica, i primi carolingi si occuparono anche della riorganizzazione ecclesiastica. Per riportare ad una certa unità la vita ecclesiale, che con il crollo delle strutture provinciali pure era venuta a trovarsi in situa­zione di dispersione particolaristica, si pensò di rimettere in vigore le vecchie sedi metropolitane e di crearne anche di nuove.

Un primo passo in questo senso fu compiuto dai concili riformatori degli anni 743-747. Come si sa, decisiva in quella circostanza fu l'opera di Bonifacio, e ciò spiega come mai la ricostruzione della struttura metropolitana non fu affatto una semplice riedizione del sistema tardo-antico, dove i principi di collegialità apostolica e di successione diretta conferivano alle province ecclesiastiche un potere autogeno, autonomo e collegiale.

La ricostruzione carolingia, ispirata da Bonifacio, trovò il suo modello non nelle strutture provinciali antiche ma nella organizzazione ecclesiastica inglese.

In Inghilterra continuava a vivere il sistema metropolitano introdotto dai missionari romani, inviati da papa Gregorio Magno: all’origine di tale sistema non vi erano i principi della collegialità e della successione diretta, ma vi era il fatto della missione da parte del papa.

Attraverso Bonifacio dunque penetrò  nel mondo carolingio l’idea che l'organizzazione ecclesiastica sia a livello diocesano, sia a livello interdiocesano non fosse un atto autogeno, ma sempre comportasse l'intervento del papa: non per nulla lo stesso Bonifacio, prima di intraprendere la sua missione evangelizzatrice si era recato a Roma per avere l'autorizzazione pontificia. Questa affermazione del potere papale in una sfera, che prima, era di dominio episcopale, trova significativa espressione nell'evoluzione,che ha subito il conferimento del pallio e del titolo di arcivescovo. Il pallio era un'insegna liturgica con valore onorifico: derivata dal cerimoniale della corte bizantina, in Occidente era divenuta prerogativa-esclusiva del vescovo di Roma. Questi però cominciò a concedere l'uso del pallio ad alcuni altri vescovi come segno di stima, quindi senza annettervi alcun parti­colare valore giurisdizionale.

Gregorio Magno, Bonifacio, Onorio I, ai direttori della missione evangelizzatrice in Inghilterra concessero insieme con la facoltà giuridica di ordinare vescovi suffraganei, tipica dei metropoliti, anche l'uso onorifico del pallio e del titolo di arcivescovo.

In tal modo in Inghilterra venne a crearsi un legame estrinseco ma costante fra funzione metropolitana da una parte e onorificen­za del pallio e titolo arcivescovile dall'altra, data l'identità sia della persona concedente, il papa, sia della circostanza di concessione.

Papa Gregorio III si comportò allo stesso modo con Bonifacio e per questa via il legame estrinseco fra la funzione metropolitana e le summenzionate onorificenze venne trapiantato anche sul continente. I carolingi, nel ricostruire le sedi metropolitane, si rivolsero alla Santa Sede sia per ottenere l’autorizzazione giuridica sia per ottenere il pallio e il titolo arcivescovile. A questo punto il legame estrinseco si trasformò in sovrapposizione: i papi fecero della concessione della concessione del titolo arcivescovile ai metropoliti non più solo un fatto onorifico ma anche un fatto giurisdizionale: conferimento dei poteri metropolitani da parte del papa. Infatti la Santa Sede cominciò a porre ai metropoliti eletti condizioni, che legavano l'esercizio delle fun­zioni metropolitane alla concessione dei pallio:

·      prima condizione: chiedere il pallio entro tre mesi, accludendo una professione di fede;

·      seconda condizione: non ordinare vescovi suffraganei e non assidersi sulla cattedra episcopale durante i pontificali prima di aver ricevuto il pallio.

Certamente lo scopo di tali postulati era di legare più stretta­mente i metropoliti alla Santa Sede: si consideri poi il fatto che il pallio, consacrato dal papa, veniva conservato, prima di essere consegnato ai metropoliti, nella nicchia dei palli sopra la tomba di san Pietro, allora si comprende come facilmente venne a formarsi l'idea che il metropolita sarebbe una specie di vicario del papa, con partecipazione delegata e parziale al suo primato. Questa identificazione tra metropolita e vicario apostolico si­gnifica il rovesciamento totale dell'antica istituzione metropolitana, fondata sull'origine autoctona delle associazioni episco­pali interdiocesane.

b)        Scomparsa del carattere collegiale:

altro mutamento di questa rinnovata istituzione metropolitana, rispetto al sistema antico, è rappresentato dalla scomparsa del carattere collegiale. Questa scomparsa va connessa con la scomparsa del diritto pubblico: oramai tutte le funzioni vengono interpretate secondo la logica del diritto privato, che concede il potere in base a considerazioni estremamente personalistiche.

I nuovi metropoliti infatti all'inizio cercarono di far diventare prerogative personali quelle che nel si­stema antico erano prerogative del concilio provinciale: dirit­to di controllo sull’elezione dei vescovi e diritto di giurisdizione sui vescovi. Per tale via i metropoliti tentavano di trasformare la supremazia d'onore in supremazia giurisdizionale sugli altri vescovi della provincia, che scadevano dal rango di vescovi suffraganei al rango di ausiliari.

La cosa evidentemente suscitò l'opposizione dei vescovi suffraganei, che tentarono in ogni modo di ostacolare i metropoliti. Tale opposizione trovò espressione nelle false decretali dello Pseudo-Isidoro, redatte verso la metà del sec. IX.

Intenzione precipua, che presiede alla compilazione della false decretali, è l’affermazione dell’autorità monarchica dei singoli vescovi nelle loro rispettive diocesi contro le limitazioni di tale ruolo ad opera dei metropoliti, dei laici, dei corepiscopi.

Va rilevato che ciò che viene difeso non è la collegialità della funzione episcopale, ma la logica opposta di indipendenza e autonomia.

In particolare l’affermazione del ruolo episcopale contro il potere dei metropoliti viene fatta limitando tale potere dall'alto attraverso un'esaltazione del ruolo primaziale del papa: il ruolo di suprema istanza di appello per le causae majores, che il con­cilio di Sardica riconosceva al papa, viene esteso fino a riservare al papa tutte le causae majores riguardanti i vescovi:

·           si riconosce al papa il diritto di accogliere l'appello di un vescovo non solo a concilio provinciale ultimato, ma anche  nel corso del concilio stesso: in tal modo ogni vescovo si garantiva la possibilità di sottrarsi al giudizio del metropolita;

·           ancora, per via dell'esclusiva papale in ordine alle causae majo­res, le decisioni sinodali contro vescovi diventavano vincolan­ti solo se approvate dal papa;

·           ancora si riconosceva al papa il diritto non solo di convocare e confermare i concili generali, ma anche il diritto di dare il proprio assenso alla convocazione e alle deliberazioni dei concili provinciali.

Come si vede in tal modo le false decretali sottraggono i con­cili provinciali al controllo dei metropoliti e li sottopongono in gran parte al controllo della Santa Sede.

I compilatori delle false decretali fondano tali affermazioni sia su 115 documenti attribuiti ai pontefici romani, ma in realtà intera­mente fabbricati, sia su 125 altre decretali autentiche, ma alterate con varia interpolazioni. Nel complesso l’operazione tende a imporre alla Chiesa del passato strutture, preoccupazioni, affermazioni che invece sono di quest'epoca particolare di cui ci stiamo occu­pando. Con ciò si incorre nel grave limite di mettere completamente in ombra il processo storico di sviluppo delle istituzioni ecclesiastiche e conseguentemente di suggerire un'idea di Chiesa fin dall'inizio stabilmente costruita su un'autorità romana siffat­ta. Va poi rilevato che le false decretali sono testimonianza di uno sviluppo passato e stimolo per uno sviluppo futuro. Testimonianza di uno sviluppo passato: con le false decretali noi vediamo che certe idee che prima erano tipiche dell'ambiente romano ora cominciano a penetrare e guadagnare terreno anche altrove, e ciò è senz'altro spiegato anche dal fatto che un po’ tutta la riorganizzazione ecclesiastica carolingia prese come riferimento gli usi ed i libri romani. Stimolo per uno sviluppo futuro: le decretali pseudo-isidoriane non trovarono subito piena accoglienza e totale applicazione, tuttavia ebbero nei sec. IX e X una notevole divulgazione, e in tal modo anch'esse contribuirono a preparare la riforma gregoriana.

Per ridurre il potere dei metropoliti i vescovi non si limitarono ad una esaltazione del potere primaziale del papa, fecero anche ricorso ad una limitazione dal basso. Infatti nel timore che il concilio provinciale diventasse occasione di affermazione dei metro­politi, i vescovi cominciarono a disertare tali assemblee, che divennero sempre più rare: a ciò contribuì anche il fatto che il potere temporale preferì fare ricorso ai concili di tutto l' episcopato nazionale.

Concludendo: come si è visto, la crisi dei secoli VII e VIII ha ridotto la scala gerarchica occidentale a due gradini: vescovo e papa.

Il livello intermedio delle autonomie interdiocesane e interprovinciali è venuto a mancare. La- ricostruzione carolingia riporta ai tre livelli: vescovo-metropolita-papa ma il livello intermedio del metropolita non è più affermazione della diretta successione apostolica, della collegialità episcopale, di certa autonomia locale ma diventa piuttosto affermazione della dipenden­za da Roma, che d’altra parte riesce a fare sue alcune prerogative che nel periodo tardo-antico erano proprie delle organizzazioni interdiocesane. Dunque se da una parte abbiamo un progresso dell’istituto primaziale del papato, dall’altra abbiamo l'eclissarsi di un principio rilevante della costituzione ecclesiastica: la collegialità episcopale, che è pure soggetto di suprema potestà nella Chiesa. La perdita di sensibilità su questo punto è anche conseguenza del distacco che si è operato tra Occidente e Oriente: una Chiesa latina più dialogante con la Chiesa orientale avrebbe meno facilmente smarrito il senso della collegialità episcopale.

 

6 - Altri diritti acquisiti dal papato

Già abbiamo accennato a come il fatto della fondazione di nuove strutture ecclesiastiche in Inghilterra da parte del papato si sia trasformato attraverso Bonifacio in un diritto di intervento papale nella fondazione di nuove diocesi e province.

Secondo importante avanzamento giuridico del papato: è rappresentato dalla particolare relazione che viene a instaurarsi tra papato e monachesimo: parecchi monasteri,  per sfuggire agli assalti particolaristici della nobiltà durante la decadenza carolingia, fecero ricorso alla Santa Sede o chiedendone la protezione, o offrendosi come sua proprietà. Venne così a costituirsi in Occidente una fitta rete di monasteri sottoposti alla protezione o alla proprietà papale e come sappiamo ciò concluse all'istituto giuridico dell'esenzione monastica (fine sec. X inizio sec. XI). Per tale via il papato giunse ad avere in sua diretta dipendenza e a sua totale disposizione un intero ordo ecclesiastico di estensione eccezionale: tale relazione giuridica permane tuttora!

Una terza acquisizione giuridica per il papato è rappresentata dalla canonizzazione dei santi. Fino al X sec. la canonizzazione dei santi era compiuta dai singoli vescovi nella propria diocesi; ma nel 993 alcuni ambienti tedeschi pregarono papa Giovanni XV di procedere alla canonizzazione di Ulrico, vescovo di Augsburg; venne in tal modo aperto un cammino che nel XIII sec. si concluderà con l'affermazione del diritto esclusivo della Santa Sede in ordine  alle canonizzazioni.

Altra acquisizione: riserva di assoluzione di certe colpe gravi.

La devozione a Pietro, clavigero e ostiario del cielo, aveva presto spinto alcuni fedeli a recarsi a Roma per ottenere l’ assoluzione dei propri peccati dal  papa, vicarius Petri.

Anche alcuni vescovi, nella stessa prospettiva devozionale, per l’assoluzione di certi gravi crimini, anziché ricorrere alla propria potestà, preferirono mandare il peccatore dal papa: si noti bene; la cosa non era dettata dalla convinzione di un proprio limite potestativo, ma dall’intento di sottolineare la gravità del crimine, facendo intervenire il vicarius Petri. Tale prassi in fondo implicava il riconoscimento di una giurisdizione diretta della Santa Sede su ogni fedele. Però si deve dire che sull’argomento nel nostro periodo non si ha ancora la fissazione di norme giuridiche precise: da qui l'opposizione di alcuni vescovi nei confronti degli interventi papali,  che scavalcavano i diritti dell'episcopato locale.

Da questa carrellata possiamo senz’altro concludere che i papi della riforma gregoriana, benché fecero seguito ad un papato decaden­te, non partirono affatto da zero nell'affermare la prerogative primaziali, in quanto, come abbiamo visto, non tanto per propria iniziativa ma piuttosto come risultanza di certe situazioni, il papato aveva cominciato a fare importanti acquisizioni sul terreno giuridico; si tratta ora di vedere se a ciò corrisponda o soggiaccia una concezione dottrinale particolare.

 

7 - La visione dottrinale della costituzione ecclesiastica  nell’alto-medio evo

Le false decretali dello Pseudo-Isidoro potrebbero fare pensare che nel corso dell'alto medio evo anche fuori Roma si sia imposta la concezione ecclesiologica romana, con la sua tendenza ad attribuire al papato un ruolo monarchico nella Chiesa. In realtà le false decretali sono piuttosto una voce isolata nell'ambito dell'alto medio evo, voce isolata che si colloca nel particolare contesto storico della frantumazione dell’impero carolingio, sanzionata definitivamente dal trattato di Verdun dell'843.

Già dicemmo che col trattato di Verdun l’unità dell'imperium christianum non ha più riscontro alcuno a livello realistico-territoriale, diventa soltanto un fatto ideale ecclesiastico: è chiaro che in siffatte condizioni è il papa più che l'imperatore ad assurgere ad espressione dell'unità.  Ecco perciò che nell’850 - proprio nello stesso periodo in cui si compilarono le decretali pseudo-isidoriane - Ludovico II non si fece più incoronare imperatore ad                                Aquisgrana dal padre Lotario, ma a Roma dal papa Leone IV.

In altri contesti storici, caratterizzati dalla presenza dominante di Carlo Magno o degli Imperatori ottoniani, evidentemente l’interpretazione romana del primato con la sua tendenza di tipo monarchico aveva scarsa aderenza alla realtà dei fatti: la mentalità di coesione, che portava a pensare la Chiesa alto-medioevale anche come società temperale, non poteva teorizzare molto facilmente una esclusiva posizione egemonica del vescovo di Roma, ignorando completamente la forza imperiale.

Si capisce allora come al di fuori di Roma la quasi totalità degli autori sia nella linea non tanto leonina, ma piuttosto ciprianea: così Beda, così Incmaro di Reims, così Rabano Mauro, così Pascasio Radberto, così Oddone di Cluny, così Raterio di Verona, così Attone di Vercelli.

In questa prospettiva si deve dire che le acquisizioni di diritti, fatte dal papato in questo periodo, non vanno tanto lette come traduzioni e conseguenza pratica di una concezione teorica, che assegna al papa un ruolo monarchico nella Chiesa, ma sono piuttosto
preparazione di una tale mentalità, che si affermerà solo con la riforma gregoriana.

Dimostrazione di ciò ci è offerta dalie collezioni canoniche: quasi tutte le collezioni canoniche a partire dalla Dionyso-adriana fino a quella di Burcardo di Worms, che si colloca. all'inizio
del sec. XI, trattano nel primo libro "De primatu Ecclesiae”: vi si parla del potere dei vescovi e            in tale contesto si accenna anche al vescovo di Roma, come episcopus primae sedis, ma dotato di una potestas clavium che è della stessa natura della potestas clavium
degli altri vescovi (Questa tesi è stata messa in discussione e in qualche modo corretta da M MACCARRONE, La teologia del primato romano del secolo XI. Le istituzioni ecclesiastiche della societas christiana dei secoli XI-XII, Milano 1971, 33-38).

Le collezioni canoniche che verranno alla luce nel contesto della riforma gregoriana invece cominceranno a dedicare il primo libro al tema “De potestate et primatu apostolicae sedis”. Rimane allora da spiegare come mai nel nostro periodo il papato abbia acquisito tali diritti. Una prima e fondamen­tale ragione sta non nel terreno delle idee, ma nel terreno dei fatti, della circostanze storiche: la crisi dei sec. VII e VIII ha distrutto le strutture di autonomia collegiale e ha indebolito il senso della collegialità: come abbiamo visto tale situazione ha consentito al papato di assumere a livello pratico una posizione più prestigiosa, di quella che allora gli si riconosceva a livello dottrinale.

Una seconda importante ragione è rappresentata dalla devozione molto viva nei confronti di san Pietro, ostiario del cielo, che si traduce anche in grande venerazione per la sede di Roma e per il vescovo di quella sede. Tale devozione, trapiantata dai monaci romani in ambiente anglosassone, è stata poi diffusa da Bonifacio e Villibrordo anche tra i popoli germanici, che addirittura giunsero a interpretarla con maggiore ardore. Ebbene per via di una siffatta devozione l’ambiente alto-medioevale fu portato ad accogliere e giustificare con  benevolenza i vantaggi che il papato veniva a mano a mano acquisendo sul terreno giuridico.