venerdì 15 marzo 2024

 

LA CRISTIANIZZAZIONE DEI POPOLI GERMANICI NEI SECOLI V –VII

 

La nostra esposizione seguirà questa articolazione:

1.      premessa: la crisi dell’Impero

2.      il fenomeno delle migrazioni nei secoli V – VI

3.      riflessi sulla relazione Occidente – Oriente

4.      riflessi sulla strutturazione dell’Occidente

5.      Chiesa e “barbari”.

1.      Premessa: la crisi dell’Impero

In quale contesto politico-sociale avvennero li migrazioni germaniche?

L’Impero romano stava vivendo una crisi rilevante. Nel corso dei secoli III, II, I a.C. il dominio romano si era esteso su diverse regioni dell’Europa Orientale, dell’Asia Minore, sulla Siria e sulla Palestina. Ma, come solitamente si verifica nella storia dell’umanità, questo processo di espansione dette avvio ad un lento, ma inesorabile processo di contrazione. Vediamo i fattori che più contribuirono a determinare questa contrazione.

Prima di tutto l’enorme espansione dell’Impero comportò un notevole incremento della spesa pubblica: si doveva, infatti, sopperire ad una duplice necessità: finanziare il mastodontico apparato burocratico e finanziare l’esercito per la difesa dei confini divenuti sempre più estesi e continuamente minacciati dai “barbari” e dai Persiani: si pensi che alla fine del III secolo secondo la Notitia dignitatum (documento della fine del IV secolo)  l’esercito sarebbe raddoppiato, raggiungendo il numero di 500.000 uomini. Ovviamente quanto veniva devoluto a queste spese pubbliche, veniva sottratto agli investimenti produttivi.

In secondo luogo, l’economia si rivelò sempre più incapace di sostenere la spesa pubblica, per due ragioni soprattutto.

Prima ragione: attenuazione della capacità produttiva globale. A ciò concorse pesantemente la riduzione del numero degli schiavi causata in gran parte dalla politica della “pax romana”: se la guerra con i suoi prigionieri rappresentava il serbatoio a cui si attingevano gli schiavi, la “pax romana” evidentemente ne comportò il progressivo esaurimento. L’assottigliamento del numero degli schiavi fu dovuto anche all’alto tasso di mortalità precoce per via della vita di stenti e sfruttamento, al quale si associava il basso tasso della natalità. I padroni, infatti, cercavano di impedire la nascita di figli tra gli schiavi, perché per diversi  anni sarebbero stati una spesa improduttiva (era sui 13 anni che uno schiavo cominciava a rendere in pieno).Gli stessi schiavi praticavano in larga misura il controllo delle nascite per evitare di avere figli, che dovessero subire la loro stessa sorte. Gli esperti in economia sostengono che l’economia romana era stata fiorente proprio perché in larga misura schiavistica: gli schiavi sia in agricoltura sia nell’industria assicuravano la mano d’opera a basso costo e quindi larghi margini di profitto. La riduzione del numero degli schiavi determinò la crisi dell’industria, che si trovò nella necessità di fare ricorso alla più costosa mano d’opera di uomini liberi con la conseguente riduzione dei margini di profitto. Coloro, che disponevano di capitali, reputarono quindi sempre più svantaggioso investire in attività industriale e quindi orientarono gli investimenti verso l’agricoltura.

Il settore agricolo, che era già di per sé la base fondamentale dell’economia romana, dovette pure fare i conti con la riduzione degli schiavi. Prima conseguenza fu la concentrazione delle proprietà terriere nelle mani dei grandi proprietari, che rivolsero totalmente sull’agricoltura il loro impegno economico. Ovviamente i piccoli proprietari terrieri in gran numero dovettero arrendersi di fronte alla soverchiante concorrenza dei latifondisti, cedendo loro i piccoli appezzamenti di cui disponevano e trasformandosi in braccia sostitutive degli schiavi. Questa sostituzione di liberi agli schiavi comportò la trasformazione del sistema agricolo: i latifondisti, infatti, suddivisero i propri fondi terrieri in due grandi parti: l’indominicatum, gestito direttamente dal proprietario mediante lo sfruttamento degli schiavi di cui ancora disponeva; il dominicatum diviso in poderi, che venivano affittati ai vari nuclei familiari dei coloni liberi e liberti, che da un lato dovevano trarvi il loro sostentamento e dall’altro dovevano sia versare al dominus una parte del raccolto sia prestarsi a lavorare per un certo numero di giorni sull’indominicatum.

Quindi alla pratica scomparsa dell’industria subentrò un sistema di produzione agricola, che assicurando a schiavi e coloni solo possibilità di sostentamento e non di accumulo di beni, precludeva loro di fare ricorso alla vita di mercato. Il signore latifondista invece otteneva dalla vita agricola qualcosa di più del solo sostentamento. Che ricaduta ebbe tutto questo sul sistema sociale? Da un lato si produsse un fenomeno crescente di concentrazione della ricchezza e dall’altro si verificò una riduzione quantitativa dell’attività commerciale.

L’attenuazione della capacità produttiva globale fu provocata anche da una progressiva flessione demografica, determinata

·         dal diffondersi di pratiche contraccettive (era tramontato l’ideale della grande famiglia patriarcale): si dava qui una sorta di circolo vizioso: da una parte la crisi economica spingeva ad una diminuzione delle nascite e dall’altra la diminuzione delle nascite accentuava la crisi economica;

·         dal dissanguamento continuo operato dalle guerre;

·         dall’incidenza notevole di alcuni flagelli epidemici ed endemici, quali la pesta e la malaria (si sa che la peste si presentò verso il 180 d.C. e da allora i suoi colpi si susseguirono ad intervalli ravvicinati fin verso la metà del VI secolo; la malaria imperversò dal canto suo in maniera impressionante durante gli ultimi secoli dell’Impero romano e durante i primi secoli del Medio Evo.

Per una legge ferrea dell’economia, la legge della domanda-offerta, la prima conseguenza della riduzione della capacità produttiva globale fu la lievitazione dei prezzi.

Una seconda ragione rese l’economia romana sempre meno capace di sostenere la spesa pubblica: la riduzione delle riserve aurifere ed argentifere dello Stato. Lo Stato da una parte ritenne di dover far fronte all’aumento dei prezzi, mettendo in circolazione una maggiore quantità di moneta e dall’altra la monetazione gli divenne sempre più difficile, perché le riserve di oro e di argento diminuirono sempre più per il continuo venir meno degli schiavi minatori. Lo Stato allora ritenne di far fronte al problema, coniando monete, in cui diventava sempre più pesante la lega di vile metallo e si riduceva sempre più la quantità di oro e di argento. Alcuni esempi: l’aureus di Nerone conteneva dagli 8,18 ai 7,4 grammi di oro; Costantino invece fece coniare il solidus con solo 4,55 grammi di oro. Traiano faceva coniare un denaro d’argento che conteneva dai 3,90 ai 3,21 grammi di argento, Caracalla agli inizi del III secolo faceva coniare denari d’argento che al 98,5 % era di bronzo.

A fronte di questa ampia immissione di moneta svalutata, coloro che possedevano le vecchie monete pesanti, preferirono non metterle in circolazione per evitare che subissero il processo inflattivo; e coloro che invece praticavano il commercio preferirono essere pagati in natura anziché con moneta di scarso valore. Lo stesso Stato romano a un certo punto preferì raccogliere le tasse in derrate alimentari, in quanto non nutriva fiducia nella sua propria moneta. Questa scelta comportò gravi scompensi: far fronte a forti spese di trasporto e fare i conti con i furti e il deperimento delle merci.

Tutto ciò contribuì a determinare un forte squilibrio tra le esigenze della spesa pubblica e le effettive risorse economiche disponibili. Lo Stato ritenne di risolvere il problema inasprendo la pressione fiscale e quindi nei cittadini maturò un atteggiamento di crescente ostilità nei confronti dello Stato con incremento della tendenza a rivendicare autonomie particolaristiche. Nel IV secolo Siria ed Egitto interpretarono alla grande questa spinta autonomistica e la cosa ebbe ricadute anche sulla stessa vita ecclesiale sia a livello di costituzione ecclesiastica, in quanto le sedi di Alessandria e di Antiochia rivendicarono un peso maggiore sia a livello dottrinale, dove certamente lo scontro tra Alessandria e Antiochia nel dibattito cristologico risentì di questa politica particolaristica.

La grande crisi si caratterizzò anche per un secondo elemento, che si fece sentire più pesantemente in Occidente che in Oriente. Roma, quando conquistò le province occidentali delle Gallie e della Spagna, si trovò a dover fare i conti con terre sottosviluppate, che quindi da un lato erano incapaci di contrastarne l’egemonia e dall’altro diventavano mercato fiorente sul quale esportate la produzione romana. Ben diverso riflesso ebbe invece la conquista delle province orientali, che erano già civilizzate e notevolmente progredite economicamente: molto presto queste province entrarono in concorrenza produttiva e commerciale con l’Occidente, riducendolo a loro mercato. La maggior prosperità dell’Oriente ebbe in Occidente anche un pesante riflesso demografico: parecchi occidentali scelsero di trasferirsi laddove si presentavano maggiori possibilità economiche e per l’Occidente fu un esodo sia di braccia sia di capitali.

Il crescente predominio orientale si espresse per esempio nel campo culturale, determinando il fenomeno della ellenizzazione della cultura e favorendo anche il successo delle religioni orientali (il culto di Mitra e il cristianesimo stesso). Si espresse anche in campo politico: non per nulla con il III secolo si ebbe la comparsa di imperatori provenienti dalla province orientali.

Ovviamente l’Occidente, sempre più debole a livello di potere di acquisto, incominciò ad attenuare i suoi scambi commerciali con l’altra parte dell’Impero.

Ovviamente si ebbe anche lo spostarsi nella “Romania” dell’asse di gravitazione verso Oriente: lo dimostrò chiaramente Costantino, quando nel 330 trasferì la capitale a Costantinopoli.

La diversità di peso tra le due parti ebbe un duplice riflesso in sede politica. Prima di tutto si tese alla distinzione di governo: nel 364 l’esercito acclamò Valentiniano I come imperatore, ma gli impose di  associarsi un secondo Augusto per la parte orientale e la scelta cadde sul fratello Valente. Da allora, tranne per un breve periodo durante il governo di Teodosio, le due parti ebbero diversità di governo. In secondo luogo la politica dell’Impero fu sempre più determinata dall’Oriente e fu sempre più in prospettiva orientale.

Tutto questo ci fa capire come mai l’Impero subì il fenomeno delle migrazioni e come mai lo subì nella sua parte occidentale, quella più debole, quella che era meno in grado di fronteggiarlo. La parte orientale invece si servì delle armi, della diplomazia e delle maggiori disponibilità di denaro per dirottare le orde germaniche verso l’Occidente. La parte orientale si servì anche del suo predominio politico per ammassare le truppe lungo il Danubio, sguarnendo il Reno e quindi aprendo la via di penetrazione in Occidente ai popoli germanici occidentali.

 

2Il fenomeno delle migrazioni nei secoli V - VI

Possiamo distinguere 5 stadi.

I STADIO: questa terza ondata prese le mosse nel IV secolo. La scossa iniziale venne da un popolo, gli Unni, che non erano né di origine germanica né di origine celtica. “Che gli Unni siano stati una popolazione asiatica non è affatto da dubitare; ma con quale popolo precedente essi siano da identificare… argomento di discussioni e di netti contrasti”. Per la questione si può fare riferimento a: L. HAMBIS, Le problème des Huns : Revue Historique 220 (1958), p.249 ss.

Popolazione analfabeta di pastori, che vivevano in perenne nomadismo sia per rinvenire sempre nuovi pascoli sia per integrare con le razzie gli insufficienti proventi dell’allevamento e della caccia. In questo loro girovagare, gli Unni, respinti dalla Cina, si rivolsero verso l’Europa, dando qui vita ad un nuovo sommovimento di popoli: infatti, le tribù germaniche, che stavano stanziate tra il Mar Baltico ed il Reno, si trovarono sospinte verso l’Impero in cerca di un nuovo spazio, in cui stabilirsi.

I primi, che furono costretti a ciò, furono i Goti, che durante la seconda ondata, quella del II e III secolo, si erano insediati tra il Danubio e il Don e avevano dato vita a due regni distinti: il regno visigoto (attuale Romania) e il regno ostrogoto (attuale Ucraina).Gli Ostrogoti furono sbaragliati nello scontro con gli Unni: parecchi morirono, altri si riversarono nel regno visigoto e altri infine furono assorbiti dagli Unni. I Visigoti, invece, nel 376 ottennero dall’imperatore della parte orientale di penetrare nell’Impero e di stabilirsi come federati nella Tracia (attuale Bulgaria). L’oppressione dei funzionari romani spinse i Visigoti ad un ammutinamento. L’imperatore Valente cercò di contenere la ribellione, ma perse la battaglia e la vita nei pressi di Adrianopoli (378). Il suo successore Teodosio, che era più disponibile ad una politica di accondiscendenza, permise ai Visigoti di stanziarsi in Mesia (attuale Bulgaria settentrionale) e insieme offrì diversi settori della Pannonia (pianura ungherese) a gruppi sbandati di Ostrogoti, concedendo e agli uni e agli altri ampia autonomia.

 

II STADIO: primi del V secolo. Dal 395 sedevano sul trono imperiale i figli di Teodosio.

Onorio: imperatore della parte occidentale, dodicenne, incapace sia per età sia per limitatezza di ingegno e di volontà, fu affiancato dal generalissimo, magister utriusque militiae (cioè fanteria e cavalleria) Stilicone, di origine vandala e romanizzato da una generazione, che era imparentato con Teodosio, avendone sposato la nipote Serena. Stilicone fu lealissimo all’impero.

Arcadio: imperatore della parte orientale, diciassettenne, con gli stessi limiti del fratello, rimase in balia di vari curiali. Al suo governo si deve l’iniziativa di spingere i Visigoti, capeggiati da Alarico, verso l’Occidente.

                 Per difendere i confini orientali dell’Italia (Friuli e Istria), che erano minacciati prima dai Visigoti di Alarico e poi da un agglomerato di Ostrogoti, Vandali, Alani e forse Alamanni, Stilicone si trovò costretto a sguarnire il confine del Reno. Ne approfittarono Vandali, Svevi, Alani per penetrare nel territorio imperiale, devastare la Gallia e la Spagna e stabilirvisi (Vandali al sud, Andalusia; Alani al centro; gli Svevi in Galizia). Stilicone fu accusato di tradimento e fu eliminato nel 408.

                 Alarico, non avendo più nessuno che potesse contestargli il passo, riprese con i suoi Visigoti la strada dell’Italia ed inflisse all’Impero l’umiliazione del saccheggio di Roma (24 agosto 410). Si diresse poi verso il Sud per raggiungere forse l’Africa, ma morì presso Cosenza. Ataulfo, successore di Alarico, preferì cambiare direzione e si spostò in Gallia. Il suo secondo successore, Vallia, su incarico di Onorio, si dedicò alla conquista della Spagna, che divenne visigota ad eccezione e della Galizia, che rimase agli Svevi e della Betica (Andalusia), che rimase insediamento dei Vandali. Questi però nel 428-429 sotto la guida di Genserico si trasferirono nell’Africa romana.

 

III STADIO: metà del V secolo. Ricordo quattro avvenimenti significativi.

·         Nel 451 gli Unni, capeggiati da Attila, si buttarono sulla Gallia. Respinti dall’esercito del generale Ezio, ripiegarono sull’Italia, dove conquistarono Padova, Verona, Milano, Pavia e manifestarono l’intenzione di raggiungere Roma. Un’ambasciata romana, di cui faceva parte il papa Leone, distolse Attila dai suoi progetti grazie al versamento di un cospicuo tributo più che all’azione suasiva del papa. Tornato in Pannonia, Attila morì di lì a poco e il suo regno di disgregò quasi subito.

·         Onoro morì nel 423 e come imperatore della parte occidentale gli successe nel 425 Valentiniano III, figlio di Galla Placidia. Nel 455 Valentiniano III fu assassinato. Con il pretesto di vendicarlo si fece avanti il vandalo Genserico  (Valentiniano III gli aveva promesso che avrebbe dato sua figlia Eudossia in sposa a Unerico, figlio di Genserico appunto). Genserico si spinse fino alle foci del Tevere e per 15 giorni (2 – 17 giugno) tenne Roma sotto saccheggio. Pago del bottino e dimentico della vendetta, Genserico se ne tornò in Africa.

·         A partire dal 456 i Franchi intrapresero la penetrazione nel territorio imperiale, insediandosi nelle regioni della Gallia, che si affacciano sul Reno e che alla fine del V secolo assunsero il nome di Francia Rinensis. Alla metà del V secolo Angli, Sassoni, Iuti dal litorale germanico del Mare del Nord  procedettero alla conquista della Britannia.

 

IV STADIO: anni 70 del V secolo. Dal 455, dall’assassinio di Valentiniano III, si susseguirono e si contrapposero vari imperatori per lo più insignificanti. Finalmente nel 475 un patrizio di origini barbare di nome Oreste, appoggiandosi su un esercito composto da varie tribù germaniche (Sciri, Eruli, Rugi…), riuscì ad imporre come imperatore suo figlio Romolo, detto Augustolo, per il suo esiguo valore. L’esercito barbaro, che aveva favorito l’operazione, presto si mostrò malcontento del soldo che percepiva e cominciò a pretendere un terzo delle terre  italiane occupate. La risposta negativa dell’imperatore provocò una immediata ribellione, capeggiata dallo sciro Odoacre. Romolo Augustolo fu senz’altro deposto e non ci fu più nessuna successione: era l’anno 476. Odoacre assunse il potere in Italia e lo mantenne fino al 493, quando in Italia si impose l’ostrogoto Teodorico.

 

V STADIO: seconda metà del VI secolo. E’ una faccenda che interessa l’Italia. A partire dal 568 il popolo longobardo sottrasse gran parte del territorio italiano ai bizantini, che con la ventennale guerra gotica (535-553) avevano strappato l’Italia agli Ostrogoti.

 

Concludendo: in Occidente in seguito alle invasioni si ebbe questa situazione:

Ø  Regno dei Vandali: nell’Africa compresa tra l’odierno Marocco e la Tripolitania; nel 534 sarà ricuperato dell’Impero d’Oriente.

Ø  Regno dei Visigoti: in quasi tutta la penisola iberica e nella Gallia meridionale.

Ø  Regno degli Svevi: nord ovest della penisola iberica (la Galizia).

Ø  Regno dei Franchi: al Nord della Gallia con tendenza ad allargarsi verso il centro-sud della regione.

Ø  Regno dei Burgundi: nella Savoia.

Ø  Regno dei Goti: in Italia, ma poi sarà spartito tra la dominazione bizantina e e la dominazione longobarda.

A questo punto diventa d’obbligo domandarsi quale riflesso questo nuovo ordine di cose ha avuto sulla relazione Occidente e Oriente?

Diventa anche d’obbligo domandarsi come è venuto a strutturarsi l’Occidente a fronte di questo nuovo ordine.

 

3     -  Oriente e Occidente

Il fenomeno delle migrazioni dei popoli ovviamente accentuò lo squilibrio tra le due parti dell’Impero. Si trattò sempre meno di due parti di un sistema unitario e invece si avviò in maniera sempre più decisa il cammino verso quella contrapposizione dei due blocchi, che si è protratta fino ad oggi.

Lo squilibrio sul piano politico: si manifestò in maniera particolare in questi due aspetti:

·  L’articolarsi della parte occidentale dell’Impero in vari regni germanici – prodromi delle nazioni – dice che l’Occidente si trovò sottoposto ad una tendenza alla particolarizzazione, che si differenziava notevolmente dall’unità della “Romania”, che continuò a sussistere in Oriente.

· L’Occidente si organizzò in autonomia rispetto all’Oriente. A dire il vero i capi germanici si professavano in generale federati e subordinati rispetto all’imperatore, ma si trattava di una subordinazione che era solo nominale, perché di fatto agirono con una conduzione politica autonoma. Emblematico è quanto avvenne nel 476: Odoacre depose l’imperatore della parte occidentale, ne rimandò le insegna all’imperatore bizantino, ma non si affrettò a dare un nuovo imperatore per l’Occidente. Quindi mentre ufficialmente veniva affermata la subordinazione, di fatto si dichiarava insostenibile una presenza e un’azione imperiale diretta in Occidente.

Lo squilibrio sul piano economico: le invasioni germaniche non furono certamente per l’Occidente fattore positivo di ripresa, ma anzi accentuarono il fenomeno di contrazione, che era già in atto e quindi crebbe il divario rispetto all’Oriente. Va poi rilevato che il particolarismo, che si espresse in Occidente nella pluralità dei regni germanici, ebbe un’analogia a livello economico: in Occidente ad una attività economica aperta secondo prospettive universalistiche subentrò una tendenza economica sempre più chiusa, sempre più di tipo autarchico, tendenza che è caratteristica delle società piuttosto primitive, limitate sia nelle proprio esigenze di acquisto sia nelle proprie capacità di acquisto. Ovviamente questa tendenza contribuì pure a ridurre le relazioni commerciali tra Occidente e Oriente.

 

Lo squilibrio sul piano culturale: l’Oriente continuò sulla scia dell’ellenizzazione, l’Occidente invece non solo perse la conoscenza del greco, ma anche vide la barbarizzazione del latino, la scomparsa di quasi tutte le scuole, l’esaurirsi della già ridotta originalità creativa. Questo ebbe conseguenze anche a livello linguistico: l’Occidente, da un lato faticò sempre più a intendersi con l’Oriente, dall’altro dette vita ad una sorta di esperanto latino, che favorì il lavoro di amalgama tra indigeni e “barbari”. In Oriente invece il dominio bizantino non fece del greco la lingua ufficiale delle popolazioni sottomesse all’Impero e quindi fu molto difficile il formarsi di una unità culturale.

 

Lo squilibrio amministrativo e legislativo: i regni barbarici non erano in grado di conservare il troppo raffinato apparato amministrativo e legislativo dei Romani e quindi si fece ricorso alla formazione di strutture amministrative e legislative prevalentemente germaniche, nelle quali però si fece spazio agli elementi più semplici e più concreti del sistema romano (cfr editto di Rotari del 641). Quindi anche su questo terreno si accentuò la divaricazione tra Occidente e Oriente.

 

Lo squilibrio religioso:

·         a livello dottrinale Occidente e Oriente svilupparono una cristologia non sempre coincidente (cfr la questione monofisita, la questione del “filioque).

·         A livello di costituzione ecclesiastica (come vedremo più diffusamente in seguito) ad una sede romana, che esprimeva in maniera sempre più decisa e precisa il principio primaziale, e ad un Occidente, che si organizzava ecclesiasticamente sempre più in dipendenza da tale principio primaziale, si contrapponevano in Oriente una sede costantinopolitana, che avanzava a sua volta pretese primaziali e una organizzazione ecclesiastica, che dava centralità ai principi della collegialità episcopale e della successione diretta.

·         A livello di disciplina ecclesiastica si moltiplicarono le diversità: celibato ecclesiastico, il pane azzimo per l’Eucaristia, la data della Pasqua).

·         A livello di concezione della relazione Chiesa-Stato: in Oriente si mantenne la prassi cesaropapista dell’imperatore, in Occidente invece si affermò sempre più la concezione dualista, che trovò la sua più alta e precisa esposizione in papa Gelasio.

Con l’imperatore Giustiniano (527-565) si ebbe un tentativo di restaurazione unitaria:

¾    Si cercò di ricostruire l’unità politica, conquistando l’Italia, l’Africa (533-534) e la Spagna (550).

¾    Si lavorò per favorire l’unità religiosa e culturale.

¾    Si promosse l’unificazione legislativa mediante la ristrutturazione del diritto romano (rilancio dei principi dogmatici nelle Institutiones, raccolta della giurisprudenza più accreditata  nel Digestum seu Pandectae; raccolta delle leggi vere e proprie nel Codex e la raccolta delle successive costituzioni imperiale nelle Novellae: l’insieme di queste quattro parti costituiva il Corpus Iuris civilis o Corpus Iuris Iustinianeum).

Ma l’invasione longobarda del 568 mise in luce la fragilissima consistenza di questa operazione di Giustiniano.

Nuovi elementi di divaricazione tra Occidente e Oriente furono introdotti dalla invasione araba. Con i territori che conquistò l’Islam frappose una barriera territoriale tra le regioni più occidentali e quelle orientali, ridusse le aree di influenza bizantina nella parte occidentale e praticamente si assicurò il pieno possesso del Mediterraneo. In seguito a questo, divenne praticamente impossibile percorrere il Mediterraneo come via di relazioni commerciali e ideali con l’Oriente. Rimaneva la via continentale, che però fu poco praticata. I viaggi continentali, infatti, erano diventati sempre più difficoltosi sia perché le vecchie strade romane  erano cadute in rovina per la mancanza di un potere centrale che se ne prendesse cura sia perché era enorme la piaga del brigantaggio.

Al di là dei problemi, che venivano alla pratica del commercio dalla carenza di vie di comunicazione, si dava comunque il fatto che l’Occidente ai tempi della dominazione barbarica dispose sempre meno di oggetti di scambio e di capacità di acquisto

Nonostante tutto ciò, non si può concludere che Occidente e Oriente divennero totalmente estranei: le relazioni commerciali non si esaurirono del tutto; a livello culturale si mantenne qualche contatto (ad es. a Bisanzio furono edite anche le opere di Severino Boezio); i rapporti religiosi, benché tesi, rimasero molto forti; se ne ha un esempio nel fatto che la liturgia occidentale nel corso del VI secolo prese da quella orientale il Gloria, il Kyrie, alcune feste mariane (Purificazione, Annunciazione, Assunzione, Natività di Maria).

Significativo è il fatto che dal 640 al 741 abbiamo ben 12 papi di origine orientale; è anche significativo che in quel periodo vennero eretti una dozzina di monasteri greci in Occidente: a Roma, ma anche altrove, per esempio a Castelseprio, dove la chiesetta di santa Maria fu affrescata probabilmente da monaci orientali.

Può essere utile per questa parte fare riferimento a L. GENICOT, Profilo della civiltà medievale, Milano 1968, 19-32.

 

4 Struttura interna dell’Occidente

L’Occidente, quando fu investito dalle invasioni germaniche, presentava un contrasto notevole tra le regioni del Nord e quelle meridionali, mediterranee. Lo spartiacque era segnato dalle Alpi e dal corso della Loira.

Al Nord, nella Gallia belgica, nella Renania, in Inghilterra, si riscontrava un considerevole ritardo rispetto all’Italia, alla Provenza, all’Aquitania e alla Spagna: qui romanizzazione, progresso economico e vivacità culturale avevano raggiunto livelli apprezzabili.

Le invasioni germaniche ebbero come effetto immediato di esaltare questa divaricazione. Nelle regioni settentrionali, infatti, dove i caratteri romani già erano blandi,  si insediarono gruppi germanici molto compatti sotto il profilo numerico e molto primitivi sotto il profilo della civilizzazione, ne conseguì che gli elementi romani furono inevitabilmente assorbiti e barbarizzati.

I gruppi germanici, che invece si riversarono sulle regioni meridionali, presentavano invece una consistenza numerica ridotta ed un grado di civilizzazione superiore: si trattava infatti di gruppi germanici, che per un certo periodo di tempo si erano stanziati all’interno dell’Impero, nella sua parte orientale, acquistandone tratti della cultura ed anche della religiosità: ad esempio i Visigoti erano divenuti ariani e poi avevano propagato l’arianesimo tra i Vandali, gli Svevi e i Burgundi. Pertanto quell’arianesimo, che poi era stato abbandonato e avversato dall’Impero, divenne una prerogativa del germanesimo e della sua contrapposizione all’Impero romano. Nell’Europa meridionale, mediterranea, pertanto non si ebbe una radicale distruzione della romanità: qui lo stanziamento germanico più modesto e anche un po’ più progredito assunse nei confronti delle popolazioni autoctone, anche se numericamente più consistenti, un atteggiamento di moderazione, disposto anche a recepire per quanto gli riusciva le positività della società romana.

Questa evidente divaricazione tra Nord e Sud dell’Europa interessò anche la sfera religiosa: al Sud, in cui si dava una simultanea presenza di germanici ariani e di indigeni cattolici, si contrapponeva un Nord, in cui dominava il paganesimo, mentre i cristiani vi vivevano dispersi.

A partire dal VI secolo però al Nord prese avvio un importante processo di trasformazione e di sviluppo. Per comprendere questo fenomeno bisogna ricordare che l’insediamento germanico in Occidente non era stato comandato da una logica imperialistica, ma semplicemente dall’esigenza di rinvenire spazi vitali. A questo i popoli germanici furono spinti dal tipo di agricoltura, che praticavano: un’agricoltura temporanea, che non conosceva l’uso della concimazione e neppure il sistema della produzione ciclica. Questo tipo di agricoltura inevitabilmente offriva una produzione agricola insufficiente, che doveva quindi essere integrata con il ricorso alle razzie. Inoltre in questo tipo di agricoltura dopo un certo periodo di sfruttamento i terreni diventavano improduttivi e quindi si imponeva la necessità di ricercare nuove aree.

Venendosi a stanziare sul territorio imperiale, i popoli germanici vennero a conoscere dai popoli indigeni sia l’uso della concimazione, sia la prassi della produzione ciclica e quindi  vennero meno gran parte delle ragioni per cui avevano dovuto vivere in maniera bellicosa e nomade. Si aprì pertanto una fase di stabilizzazione e di progresso.

Questo è il contesto sociale, in cui la Chiesa dovette affrontare il problema della cristianizzazione dei popoli germanici.

 

5 – Chiesa e “barbari”

A.  Il problema agli inizi:

Il punto di partenza è senz’altro segnato da un vivo sentimento di angoscia e di ostilità, che trovò chiarissima ed inequivocabile espressione in Ambrogio, Girolamo, Prudenzio. In essi non trova nessuna eco il passo di Colossesi 3,11: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti”. Predominano invece gli atteggiamenti anti-barbarici della cultura romana.

Sono tipici due temi. Prima di tutto il disprezzo del cosiddetto uomo civile nei confronti del cosiddetto “barbaro”, parola di origine indoeuropea usata originariamente per indicare chi pronuncia suoni sgradevoli, inarticolati, simili a quelli degli animali. E’ interessante rilevare che con il predominio culturale e politico del mondo ellenico tale termine fu usato non solo per chi  non parlava la medesima lingua, ma anche per indicare la diversità culturale, che un acceso nazionalismo trasformava in ragione di ostilità e disprezzo: si vedano in proposito le tragedie di Eschilo e di Sofocle ed i vari tentativi in senso contrario sia di storici come Erodoto, che tentarono di mostrare la grandezza culturale dei cosiddetti “barbari”, sia di filosofi come i sofisti, che sviluppavano il tema della identità di natura e della libertà di ogni uomo.

Dai Greci del tempo ellenistico l’accezione di “barbaro” come “straniero” in senso politico e “rozzo, incivile” moralmente, passò presso i Romani e così vennero qualificate tutte le nazioni non educate secondo la civiltà greco-romana.

Allargandosi l’Impero romano e venendo a contrasti con popoli forestieri, il concetto di “barbaro” si modificò e fu utilizzato dai Romani per indicare i popoli che erano al di fuori del confine dell’Impero, che non erano stati vinti dalla civiltà romana e quindi erano dotati costumi ferini e sanguinari.

Allorché i “barbari”, penetrati nell’Impero, ne soverchiarono e in parte ne distruzzero le istituzioni, il termine venne utilizzato particolarmente per indicare lo “straniero feroce”, che non rispettava le leggi e le istituzioni civili, nemico della patria e della religione.

E fu questo l’atteggiamento, che manifestarono per lo più i cristiani.

Ambrogio, nel suo De officiis:

(II, 71): “Si fanno atti di speciale liberalità, se si riscattano prigionieri, massimamente da un nemico barbaro, che diventa misericordioso solo per l’avarizia del riscatto”.

II, 138: “Una volta noi fummo aspramente criticati, perché spezzammo i vasi sacri per riscattare i prigionieri, cosa che faceva spiacere agli Ariani. A costoro non tanto dispiaceva il fatto, quanto piuttosto importava trovare un motivo di biasimo per noi. Ma chi è così duro, crudele, insensibile da dolersi che un uomo sia sottratto alla morte, una donna alle libidini barbariche, peggiori della morte, giovani, fanciulli, bambini dalla corruzione dell'idolatria, dalla quale, per timore della morte, si lasciavano contaminare?”.

Girolamo, nell’Epistola 78, 8:

 “Ora successe che d’un tratto corsero notizie ovunque che fecero rabbrividire tutto quanto l’Oriente… masnade di Unni avevano forzato la barriera difensiva… portando ovunque stragi e panico… Che Gesù tenga lontano d’ora in poi dal popolo romano simili bestie! … Arrivavano ancora prima che se ne sentisse parlare e non avevano nessuna pietà per la religione, né per le persone degne di onore, Né per l’età, né per i vagiti dei bambini”.

Epostola 60,16:

“Freme il mio cuore, cominciando a narrare i disastri dei nostri tempi. Sono oramai più di 20 anni (396) che tra Costantinopoli e le Alpi Giulie scorre ogni giorno sangue romano…. Quante matrone, quante vergini di Dio, quanti corpi nobili e delicati sono diventati lo zimbello di queste bestie selvatiche!”.

Prudenzio, Contra Symmacum, II,816-819:

“Tanto distano il mondo romano e il mondo barbaro quanto il quadrupede dal bipede o il bruto incapace di parlare da chi è dotato di parola ed ancora quanto coloro seguono fedelmente i precetti divini distano dai culti assurdi e dai loro errori”.

Un altro tema, che induceva ad un atteggiamento antibarbarico, era rappresentato dalla tendenza a congiungere il destino di Roma con quello del cristianesimo. La pax romana e l’unità dell’Impero avevano contribuito notevolmente al successo della fede cristiana.

Ambrogio: Enarrationes in psalmos, salmo 45, 21:

“Gli uomini, vivendo sotto un unico universale Impero, appresero a professare con voce fedele l’Impero dell’unico Dio onnipotente”.

Orosio: Adversus paganos, V, I, 14:

“In qualunque luogo io approdi, anche se non vi conosco nessuno, mi sento tranquillo e non temo violenze; sono un romano fra romani, un cristiano fra cristiani, un uomo fra uomini. La comunanza di leggi, di credenze, di natura mi protegge. Dappertutto mi ritrovo in patria”.

Lattanzio: Divinae institutiones, VII, XXV, 5:

all’inizio del IV secolo aveva raccolto e diffuso tra i cristiani questa credenza:

“Appare evidente che il mondo è minacciato da prossima rovina; la sola circostanza che possa annullare il nostro timore è il fatto che la città di Roma sussiste e fiorisce tuttora. Quando però questa capitale dell’universo sarà atterrata e non sarà più che un mucchio di rovine (secondo la predizione delle Sibille), non vi sarà più ragione alcuna di dubitare che sia davvero giunta la fine del mondo. Questa città da sola conserva e sostiene tutto”.

Girolamo: Lettera 121, 11 (anno 407):

a proposito di 2Tess 2,3 (“Prima infatti verrà l'apostasia e si rivelerà l'uomo dell'iniquità”) commenta:

“Ma prima – dice – bisogna che venga la separazione. Tutte le nazioni sottomesse all’Impero gli si devono rivoltare… Dice questo insomma: il Cristo non verrà se non in seguito alla desolazione dell’Impero romano… Non vuole dire apertamente che l’Impero romano si sfascerà, in quanto gli stessi imperatori lo ritengono eterno. Tant’è vero che, secondo l’Apocalisse di Giovanni, sulla fronte della meretrice vestita di porpora sta scritta la formula della bestemmia: «Roma eterna» (Apoc 17, 4-5). Ora se lui avesse detto chiaramente e coraggiosamente che: «L’Anticristo non verrà prima che si sfasci l’Impero romano», sarebbe potuto sembrare un giusto motivo quello che si presentava per perseguitare la Chiesa, che stava nascendo allora… Basterà soltanto che venga meno e che sia tolto di mezzo l’Impero romano, che attualmente tiene sotto il suo pugno tutti i popoli, e allora l’Anticristo, sorgente di iniquità, si scatenerà”.

La prima reazione della Chiesa di fronte ai “barbari” fu dunque comandata dalla carne, in cui incarnava la sua fede, la cultura imperiale romana e quindi in un primo momento i romano-cristiani avvertirono soprattutto la tragedia e la nostalgia della loro civitas, che stava crollando. Tracce di questa nostalgia tragica sono ancora reperibili nel V secolo inoltrato e nel VI secolo: per esempio Cesario di Arles (470-543) nel suo Sermone III, 12 si compiace di ricordare il seguente aneddoto: i Goti nel passare dall’Asia all’Europa vollero disfarsi delle loro donne più brutte. “queste infelici, errando per le foreste, furono assalite da demoni e da queste unioni furtive ebbe origine la nazione degli Unni”. Nel V secolo inoltrato Sidonio Apollinare (432-489) nel suo Carme XII, parlando dei Burgundi, che erano venuti a stanziarsi nelle Gallie, si sofferma sui loro capelli resi lucidi con il burro rancido e sul loro alito fetido di aglio.

Analoghi sentimenti sono espressi da un’opera ariana della metà del V secolo, l’Opus imperfectum in Matthaeum, Homilia I: l’anonimo autore ariano nel suo attaccamento alla romanità su rivela assai lontano dallo spirito del goto Ulfila, che diffuse l’arianesimo tra i Visigoti:

“Le nazioni barbare hanno l’abitudine di dare ai loro figli nomi, che ricordano la distruzione causata dalle bestie selvagge o dagli uccelli rapaci, pensando che sia segno di gloria avere questi nomi bellicosi e sanguinari (per esempio Ulfila significa “piccolo lupo”).

Nell’Homilia XXXV il nostro autore pur ammettendo che Dio è pronto a chiamare a sé tanto i barbari quanto gli uomini civili, tuttavia rimprovera i preti che diffondono la Parola di Dio tra le popolazioni incolte, indisciplinate e barbariche, che non sanno né cercare né ascoltare con giudizio e che hanno nomi cristiani ma modi pagani.

Da queste citazioni si può pertanto arguire che nel corso del V secolo venne a stabilirsi tra i due elementi sociali una contrapposizione radicale, che ovviamente si espresse anche sul versante religioso: il cattolicesimo divenne la bandiera della romanità contro l’arianesimo e il paganesimo dei popoli germanici.

C’è anche da aggiungere che a questo atteggiamento antibarbarico radicale si associava nei cristiani d’Occidente un atteggiamento antimilitarista. Certi santi erano stati militari (Sebastiano, Maurizio, Martino), si preferiva però tacere delle loro opere devote connesse con la loro attività militare e mettere in evidenza che in loro la santità contrastava con la professione, che avevano svolto. Gli Acta s. Sebastiani narrano che il santo aveva celato il suo cristianesimo sotto le insegne militari solo per potere segretamente sostenere la perseveranza dei cristiani durante le persecuzioni. La Passio Acaunensium martyrum, sobria storia di san Maurizio e la sua legione tebana li elogia solo perché essi, nonostante la loro professione militare, osarono rifiutarsi di eseguire l’ordine di perseguitare i cristiani, impartito dall’imperatore.

La celebre Vita Martini di Sulpicio Severo pone sulla bocca del santo delle parole inequivocabili: “Sono un soldato di Cristo e non posso combattere”. Perché era convinto che la militia Christi è inconciliabile con la militia saeculi, Martino volle abbandonare l’esercito. In realtà dopo il battesimo, ricevuto sui diciotto anni, Martino era rimasto nell’esercito ancora per 22 anni, ma Sulpicio Severo si affretta a dire: “Solo nomine militavit”.

Nel VI secolo Ferrando cartaginese, discepolo e biografo di Fulgenzio di Ruspe, indirizzò una lunga lettera pastorale al comandante Reginus, dove si fa una trattazione ampia degli impegni cristiani, ma nulla si dice della guerra e degli impegni del soldato.

Questa associazione di atteggiamenti antibarbarici e antimilitaristi rese piuttosto incongruente il comportamento dei cristiani occidentali nella questione dei “barbari”: da una parte il sentimento antibarbarico spingeva a rifuggire ogni contatto, ogni arrendevolezza diplomatica, ogni connivenza con il “barbaro”, dall’altra il sentimento antimilitarista impediva ogni solidarietà con l’esercito, che doveva ostacolare le violazioni dei confini. Conseguenza di questo massimalismo incongruente e paralizzante fu di favorire la penetrazione germanica.

Poi di fronte a questa situazione i due pregiudizi dei cristiani continuarono ad avere gioco e quindi sui Germani si riversava il disprezzo, che veniva riservato ai “barbari” e il disprezzo, con cui si guardava alla ferocia dell’animo dei militari. Questo muro d’odio, che fu eretto intorno ai Germani, impedì la loro “detribalizzazione”. Pertanto si deve riconoscere che l’intolleranza, con cui furono accolti i Germani immigrati, portò direttamente alla formazione dei Regni Germanici: l’essere tacitamente odiati dal 98% dei propri simili non è certo uno stimolo da poco a conservare la propria identità di classe dirigente (P. BROWN, Religione e società nell’età di sant’Agostino, Torino 1975, 41).

Un esempio di questa contrapposizione radicale si riscontrò nell’Africa Settentrionale. Il contrasto cattolici e vandali-ariani non è che un aspetto della relazione globale indigeni e Vandali. Già provati in Spagna dall’assalto visigotico, i Vandali erano giunti in Africa Settentrionale con prospettive tutt’altro che rosee: il loro gruppo, che si aggirava sulle 80.000 persone, rappresentava senz’altro un’infima minoranza, chiamato a misurarsi sia con una popolazione indigena animata da un irriducibile spirito nazionalistico sia con una presenza militare, che per una decina di anni tentò di contrastare il passo agli invasori. In queste condizioni i Vandali non accettarono il regime dell’hospitalitas, che concedeva loro terre, ma anche li costringeva a disperdersi  in mezzo agli indigeni. I Vandali preferirono operare invece la scelta radicale di imporre per via militare la loro forza politica, di assicurarsi forza economica ricorrendo a provvedimenti di esproprio, di imporre un sistema di apartheid, che costringeva la classe dominante a vivere militarmente non nelle città ma attorno ad esse: per questa via si volle mantenere lo spirito nazionale e combattivo.

La questione religiosa fu valutata dai Vandali nella prospettiva dell’unità e della identità nazionale e quindi videro nel cattolicesimo degli indigeni un fattore di disgregazione interna, che avrebbe impedito il consolidamento del potere vandalico e quindi avrebbe alla fine favorito l’Impero romano. E così i cento anni di presenza vandalica furono, quasi ininterrottamente, cento anni di persecuzione per gli indigeni cattolici: pressioni fisiche, pressioni morali, confische di chiese, esilio di vescovi, chierici e laici nel Sahara ed in Sardegna.

Il narratore più efficace di questo martirio fu Vittore di Vita nella sua Historia persecutionis africanae provinciae tempri bus Genserici et Hunerici regum Wandalorum (PL 58, 180-216), anche se talora si mostra eccessivamente enfatico.

Come reagì la Chiesa Cattolica? Parecchi furono lapsi, anche tra il clero, ma parecchi furono anche i martiri e i resistenti. La lettera 228 di Agostino rappresenta senz’altro il manifesto di questa resistenza del clero.

Non si devono rompere i legami del nostro ministero, con cui ci ha legati la carità di Cristo, e non abbandonare le chiese che dobbiamo servire… Se dunque dove siamo noi rimane anche una quanto si voglia piccola porzione del popolo di Dio, a noi, il cui ministero è tanto necessario ch'esso non deve rimanerne privo, non resta da far altro che dire al Signore: Sii tu il nostro Dio protettore e la nostra salvezza … Ma quando il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno… Questa è la prova suprema della carità raccomandata dall'apostolo Giovanni allorché dice: Come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli … Quando però i fedeli rimangono e i ministri fuggono e li lasciano privi dell'assistenza spirituale, che cosa sarà mai ciò se non una biasimevole fuga di mercenari, ai quali non importa nulla delle pecore?... Ma la carità viene da Dio. Preghiamo dunque perché ci venga data da colui dal quale ci viene comandata e, inoltre, in virtù di questa carità, temiamo per le pecore di Cristo, più del ferro che uccide il corpo, la spada dello spirito del male che colpisce il cuore… Dobbiamo temere la morte delle membra del corpo di Cristo, private del nutrimento spirituale più che le torture alle quali potrebbero essere sottoposte le membra del nostro corpo dal furore dei nemici”.

La resistenza assunse anche i toni vivaci e dotti della controversia dottrinale. Tra i protagonisti della polemica antiariana si segnalò soprattutto Fulgenzio di Ruspe, che sia in esilio sia in patria si rese fedelissimo interprete di Agostino.

Quali furono le conseguenze di questa contrapposizione radicale? Sotto il profilo politico divenne impossibile l’amalgama delle varie componenti etniche dell’Africa Settentrionale. Pertanto qui non poté realizzarsi un saldo regno nazionale vandalo, sul tipo del regno nazionale dei Visigoti e dei Franchi di cui parleremo, un regno nazionale cioè capace di scoraggiare progetti imperiali di riconquista. Se ne ebbe dimostrazione nel 534, quando l’Impero tornò a imporsi in Africa Settentrionale e i Vandali superstiti furono trasportati e dispersi in Asia.

Sotto il profilo ecclesiastico si deve prima rilevare che la presenza africana ebbe un riflesso positivo sulle Chiese non africane. Mi spiego: la Chiesa africana tra quelle occidentali era senz’altro diventata la più vivace, basti pensare ad alcuni nomi, che lasciarono dietro di sé un’altissima eredità: Tertulliano, Cipriano, Lattanzio, Arnobio, Mario Vittorino, Zenone di Verona originario della Mauritania, Ottato di Milevi, Agostino, Paolo Orosio. Ne conseguì pertanto che i cristiani africani esuli esportarono un cristianesimo ad alto livello. Tuttavia si deve anche rilevare che l’allontanamento coatto dei migliori ebbe come contraccolpo l’impoverimento del cristianesimo rimasto in Africa. Dalle persecuzioni vandaliche uscì una Chiesa africana dissestata nelle sue strutture, composta da un popolo cristiano, che, rimasto un po’ abbandonato a se stesso per l’esilio dei suoi pastori, recava chiari segni di sbandamento e defezione. La ripresa fu assai difficile e assai lenta, troppo lenta, per cui alla fine del VII secolo quando si riversò sull’Africa settentrionale l’ondata islamica, la Chiesa africana non seppe reggere l’urto e finì rapidamente sommersa. A ciò si aggiunga che dal canto suo il potere imperiale, una volta che si riprese l’Africa Settentrionale, non contribuì per nulla alla ripresa, perché con la sua fiscalità esosa, con la sua incapacità di creare una nuova realtà sociale ed economica contribuì a determinare quel clima di stanchezza e di sfiducia, che rese la regione docile e pronta alla resa, quando venne il momento della conquista islamica (R. MANSELLI, L’Europa medioevale, Torino 1979, 140).

Nelle zone dell’Occidente, in cui si dava una forte presenza cristiana, le devastazioni provocate dalle migrazioni germaniche e la insanabile contrapposizione tra indigeni e nuovi arrivati non produssero un risultato molto rilevante: la strettissima aggregazione degli indigeni cattolici intorno ai loro vescovi resse al crollo delle strutture e delle istituzioni imperiali, che avevano sostenuto l’antica civiltà. Il popolo cristiano quindi a poco a poco si abituò ad appoggiarsi sulla struttura ecclesiastica e a sopravvivere contando su di lei. D’altra parte la mancanza di ogni autorità di ordine temporale fece sì che la funzione episcopale, cardine della Chiesa locale, sconfinasse oltre il campo strettamente religioso ed esercitasse un ruolo di supplenza in campo temporale.

B.  L’ evoluzione del problema:

Già agli inizi del V secolo Agostino, un po’ inavvertitamente forse, offrì una indicazione capace di determinare una evoluzione dell’atteggiamento della Chiesa verso i “barbari”. Il saccheggio di Roma del 410 aveva chiamato in causa il cristianesimo stesso. Alcuni del mondo pagano avevano accusato i cristiani di collusione con Alarico; altri, sempre pagani, videro nel tragico avvenimento un’ulteriore reazione delle divinità pagane contro l’empietà cristiana. Dal canto loro non erano pochi i cristiani che diffondevano discorsi di imminente fine del mondo. In questo contesto il vescovo di Ippona si sentì in dovere di dire una parola chiarificatrice e compose il De civitate Dei. Richiamando l’attenzione sulla Città di Dio e sulla sua certa vittoria, Agostino relativizzò il problema dell’Impero romano e della sua decadenza e spinse a cercare il senso della storia non affidandosi a una prospettiva politica contingente, ma adottando la prospettiva soprannaturale, escatologica. “Nella Città di Dio Agostino tuttavia giudicherà l’Impero, con i suoi pro ed i suoi contro, come una istituzione puramente umana, lo ridurrà al livello di qualsiasi altro Stato nell’intento di eliminare gli dei della sua storia; analizzerà poi il suo contributo alla vita del cristiano in termini così generici da far pensare che egli ritenesse che un qualsiasi altro Stato avrebbe potuto assumere la funzione dell’Impero. Non accade di frequente di incontrare un uomo di sessant’anni che vive sulla soglia di un grande cambiamento, il quale sia già riuscito a considerare sostituibili, almeno in teoria, una cultura ed una istituzione politica che non avevano uguali” (P. BROWN, Agostino d’Ippona, Torino 21971, 265.

La lezione fu subito raccolta da Paolo Orosio (discepolo di Agostino), che nel suo Adversus paganos avanzò sia la tesi della perfettibilità dei “barbari” sia la tesi provvidenzialistica secondo la quale le migrazioni sarebbero state l’occasione scelta da Dio per portare i “barbari” a incontrare la fede.

Sempre nel corso del V secolo questo indirizzi innovatore fu ripreso da Salviano di Marsiglia nel suo De gubernatione Dei. Viene qui tracciato un quadro impressionante delle condizioni morali della popolazione romano-cattolica nelle Gallie, in Spagna e in Africa: immoralità domestiche, immoralità pubbliche perpetrate nei teatri, nei circhi, durezza di cuore verso i miserabili, ingiustizie sociali. Di contrasto si ha una presentazione piuttosto lusinghiera della moralità dei pagani: gente onorata, pietosa verso gli indigenti, timorata di Dio, più fiduciosa in Dio. La conseguenza è ovvia: il decadimento politico dell’Impero ed il trionfo dei “barbari” sarebbero una giusta sentenza di Dio. Pare di risentire alcune pagine dell’opera di Tacito, De origine et situ Germanorum (Germania), dove si fa l’elogio della moralità dei Germani.

Queste visioni suggerirono agli storici romantici la famosa tesi secondo la quale l’immissione dei “barbari” rigenerò biologicamente e moralmente le esauste e decadute popolazioni romane.

In pagine, come quelle Salviano di Marsiglia, prende sopravvento il realismo, inducendo ad attenuare le note nostalgiche e sprezzanti, per fare posto ad argomenti, che in qualche modo giustifichino il nuovo ordine di cose e legittimino un impegno di convivenza. Infatti a mano a mano che si procedeva nel V secolo, a mano a mano che le possibilità di una ripresa dell’Impero in Occidente si allontanava, la prospettiva della convivenza si delineava sempre più come inevitabile. Ad incoraggiare una scelta di questo tipo contribuiva la stessa politica dei “barbari” dominatori, che in Europa non seguirono affatto la linea separatista e vessatoria dei Vandali. La questione religiosa delle conversioni va senz’altro inquadrata in questo contesto socio-politico di convivenza e da questo contesto deriverà in gran parte le due modalità di soluzione.

 

C.   Le conversioni:

1.      I FRANCHI

Cominciamo dalle conversioni dei Franchi, perché è un fatto gravido di conseguenze storiche di primaria importanza. Nella seconda metà del V secolo i Franchi Sali avevano occupato in Gallia Settentrionale il territorio compreso tra il Reno e la Somme, costituendovi vari regni e principati. Dal momento che in questa area territoriale la presenza dei Gallo-Romani era molto modesta, divenne facilmente possibile l’instaurarsi di una convivenza armoniosa tra i due elementi sociali. I Franchi, infatti, si stabilirono nelle vaste aree senza creare grossi problemi alle scarse colonie gallo-romane e ai loro pochi proprietari. I Franchi poi non assunsero posizioni ostili nei confronti della fede cristiana professata dai Gallo-Romani, perché essendo una presenza di scarsa entità, non costituiva nessuna minaccia per il potere franco.

Tra i vari re franchi verso il 470 assunse una particolare importanza Childerico, re di Tournai, che tenne nei confronti dei Gallo-Romani una posizione tanto benevola da recare il suo aiuto al piccolo regno gallo-romano, che si era costituito nell’Île de France, che era minacciato dalle incursioni degli Unni, dei Visigoti e dei pirati sassoni. A loro volta sia i proprietari gallo-romani sia i loro vescovi instaurarono buoni rapporti con la dinastia di Childerico. Questi buoni rapporti continuarono anche quando nel 482 a Childerico successe il figlio Clodoveo, che godette dell’amicizia di Remigio, vescovo di Reims.

Nella politica di Clodoveo il problema della forza esterna e della forza interna sono strettamente connesse.

Nel 486 si assicurò un’espansione territoriale, conquistando il regno gallo-romano dell’Île de France, sconfiggendone a Soissons il suo capo politico, Siagrio. Da parte dei Gallo-Romani non gli venne sottratta la stima, sia perché Clodoveo dette alla sua azione il carattere di una semplice sostituzione del governo romano inetto, sia perché senza recare grave disturbo all’assetto gallo-romano, assicurava più di Siagrio forza contro gli Unni, i Visigoti e i pirati sassoni.

Contemporaneamente a partire dallo stesso anno 486 dette via ad un’azione per consolidare il suo potere tra i Franchi, unificando sotto il suo potere i vari regni dei Franchi Sali.

Nel 497 Clodoveo agì per rafforzare ulteriormente sia la sua forza esterna sia la sua forza interna.  Sulla linea del Reno infatti contrastò il passo agli Alemanni e poi ne approfittò per conquistare parte del loro territorio oltre il Reno. A Sud inoltre sconfisse i Visigoti, impossessandosi di Tours.

Negli anni successivi, 498 o 499, Clodoveo consolidò la sua forza interna convertendosi al cattolicesimo e divenendo così il solo capo di stato cattolico in tutto l’Occidente. Ovviamente Clodoveo si guadagnò la stima di tutti i cattolici d’Occidente, una stima che aveva anche una forte ricaduta di tipo politico. I vescovi sia del suo territorio franco sia del territorio della vecchia Gallia romana, gli assicurarono il loro appoggio, che non era certo cosa da poco, visto che nel crollo delle strutture politiche e amministrative dell’Impero romano, i vescovi subentrarono, divenendo riferimento non solo morale ma anche amministrativo. L’appoggio dei vescovi ovviamente comportò anche l’appoggio di tutta la vecchia popolazione gallo-romana. Sotto questo profilo si deve dire che la conversione al cattolicesimo offrì a Clodoveo una base importante per la sua successiva espansione nella Gallia dei Burgundi e dei Visigoti: negli anni 507-508 Clodoveo conquistò la maggior parte del Regno Visigotico al Sud della Francia; i suoi figli nel 531 imposero il loro potere al Nord in Turingia e nel 534 annessero al Regno dei Franchi anche il Regno di Borgogna.

[Merita considerazione la valutazione politica, che Clodoveo fece negli anni precedenti alla sua conversione al Cattolicesimo. Ebbe un avvicinamento a Teodorico, re degli Ostrogoti, che si era instaurato in Italia, concedendogli in sposa una sua sorella. Si apriva così la prospettiva che Clodoveo aderisse al progetto di un blocco gotico-ariano, che Teodorico intendeva costituire per contrapporlo al blocco imperiale. Ovviamente l’adesione a questo blocco avrebbe spinto Clodoveo ad una conversione all’arianesimo. Ma Clodoveo ritenne che il progetto gotico-ariano comportava dei grossi limiti: avrebbe compromesso l’unità interna tra Franchi e Gallo-Romani; lui nell’alleanza gotico-ariana avrebbe avuto un ruolo di secondo piano rispetto a Teodorico; i Franchi nell’alleanza gotico-ariana sarebbero stati una presenza eterogenea e infine avrebbe dovuto rinunciare ad ogni progetto di conquista del Sud della Gallia, perché i Visigoti, che qui regnavano, sarebbero divenuti suoi alleati. La conversione al cattolicesimo invece fu ritenuta da Clodoveo più vantaggiosa, sia perché gli avrebbe favorito la unificazione interna e insieme gli avrebbe offerto una piattaforma per espandersi in occidente, guadagnandovi una posizione egemonica]. Questo non deve portare a concludere che la scelta di Clodoveo di farsi cattolico fu dettata solo da ragioni di convenienza politica: infatti in quel tempo si aveva una mentalità mitico-sacrale, che non poteva fare spazio a un uso meramente strumentale della fede religiosa. C’è una fonte storica che può aiutare a comprendere il processo religioso, che portò Clodoveo alla scelta del Cattolicesimo: GREGORIO DI TOURS, Historia Francorum (in MGH, Scriptores rerum Mervingicarum).

Clodoveo appare dotato di una religiosità piuttosto elementare, che lo vedeva incline a scorgere la potenza divina negli accadimenti storici. Un esempio: i primi due figli, che gli nacquero dalla cattolica Clotilde, ricevettero il Battesimo cattolico, ma subito dopo sopraggiunsero guai enormi: uno dei due figli morì e l’altro cadde gravissimamente malato. Clodoveo allora si convinse che si trattava del castigo degli antichi dei per essere stati accantonati.

Sempre Gregorio di Tours ci informa che Clodoveo nel 497, mentre si accingeva a sferrare la battaglia contro gli Alemanni, avrebbe pregato così: Gesù Cristo, tu che come dice Clotilde sei il figlio del Dio vivente, tu che soccorri coloro che sono in pericolo e dai la vittoria a quelli che sperano in Te, io cerco la gloria della devozione con il tuo aiuto: se mi darai la vittoria su questi nemici, e se proverò i miracoli che le persone impegnate nel tuo nome dicono di aver avuto, io crederò in te e sarò battezzato nel tuo nome. Gli dei che adoro non sono riusciti ad aiutarmi, il che mi fa credere che non siano dotati di alcun potere e che non vengano in aiuto di quelli che li venerano. È per te che piango ora, voglio credere in te se solo io possa essere salvato dalle azioni dei miei avversari” (GREGORIO DI TOURS, Historia Francorum, II,30). Immediatamente si intuisce che qui Gregorio di Tours non vuole narrarci i fatti della conversione di Clodoveo, ma invece vuole proporcene l’interpretazione. Per Gregorio di Tours Clodoveo sarebbe il nuovo Costantino, che restaurerebbe il cattolicesimo costituendo un grande regno cattolico. Tuttavia la notizia di Gregorio di Tours ci consente anche di intuire qualcosa del processo intimo, che avrebbe fatto maturare la decisione di Clodoveo di farsi cattolico. Secondo l’elementare concezione mitico-sacrale germanica la guerra costituiva un’ordalia, un giudizio di Dio. Da tempo Clodoveo era spinto dalla moglie Clotilde cattolica, dai suoi amici Gallo-Romani cattolici a rilevare la rozzezza ed i limiti del paganesimo naturalistico del mondo germanico. Ma Clodoveo per decidersi, per fare il salto voleva una prova, un segno della potenza del Dio dei cattolici, secondo la mentalità elementare, popolare e superstiziosa dell’epoca, che tendeva a fondare la fede sul miracolo. Scelse come ordalia, come giudizio di Dio la guerra contro gli Alemanni: la sua vittoria sarebbe stata segno del prevalere del Dio dei cattolici sulle divinità germaniche. La fede elementare di Clodoveo avrebbe avuto ulteriore apporto in quello stesso anno durante la conquista di Tours, che sarebbe stata costellata di miracoli operati da san Martino, patrono della città e lì sepolto. A quel punto Clodoveo dette avvio alle pratiche per farsi battezzare nella fede cattolica e inviò una comunicazione ufficiale ai vescovi cattolici.

Il battesimo fu celebrato la notte di Natale del 498 o 499 a Reims dal vescovo san Remigio, che con ogni probabilità avrebbe esclamato: “Mitis depone colla, Sigamber (cioè germanico della popolazione stanziata tra la Sieg e la Ruhr), adora quod incendisti, incende quod adorasti”.

La figura di san Remigio ci segnala un altro genere di influssi, che contribuirono a far maturare in Clodoveo una conversione, che non fosse soltanto una faccenda di convenienza politica, alludo alla trama delle relazioni personali di Clodoveo, in cui non mancarono presenze cattoliche significative, a partire da Clotilde, sua moglie, i suoi figli, i numerosi amici cattolici, anche i vescovi.

Del resto che si sia trattato di una conversione dettata da motivazioni più varie della sola ragione politica, è provato dal fatto che Clodoveo espresse una religiosità contrassegnata sia da posizioni antiariane sia da ripetute prove di venerazione nei confronti di Pietro, ostiario e clavigero del cielo e sia da frequenti segni di una interpretazione etica del suo compito regale.

Sempre secondo la testimonianza di Gregorio di Tours quella notte di Natale con Clodoveo si sarebbero fatti battezzare altri 3.000 franchi.

Si apre qui il discorso delle conseguenze religiose della conversione di Clodoveo. Venne messa in crisi la mentalità, che voleva che un re germanico dovesse essere o pagano o ariano, infatti subito dopo, agli inizi del VI secolo, Sigismondo, principe dei Burgundi abbandonò la fede ariana e passò al cattolicesimo. Quando nel 515 successe al padre Gundobad, Sigismondo divenne il secondo re cattolico d’Occidente.

All’interno del regno franco la conversione di Clodoveo non determinò certamente la conversione totale del popolo franco, tuttavia si deve riconoscere che da lì prese avvio il processo della conversione totale. che avvenne nel secondo e terzo decennio del VII secolo, quando oramai nelle liste episcopali compaiono solo nomi germanici.

Si potrebbe obiettare che questa affermazione applica la logica del “post hoc propter hoc”, che in sede storica è inaccettabile. No, ci si rifà ad un dato caratteristico della organizzazione sociale e politica del mondo germanico: alla base della aggregazione socio-politica germanica non c’era una elaborazione razionale dello stato, inteso come ente di diritto pubblico, tra i Germani l’aggregazione si compiva in base al criterio del sangue e al criterio della forza. Ne risultava quindi un’organizzazione caratterizzata da una trama intricatissima di relazioni private di dipendenza da persona a persona. In questo contesto chiunque disponesse di qualche forza militare, economica, militare si trovava perciò stesso a capo di una aggregazione di persone, che , sia pure in forme varie, da lui dipendevano sia sotto il profilo politico, sia sotto il profilo giudiziario, sia sotto il profilo amministrativo. In una società come quella germanica, che praticamente ignorava una e vera propria attività commerciale, la forza economia e la forza militare coincidevano con la proprietà terriera. Si dava pertanto un circolo vizioso: il militare con le armi conquistava la terra e poi per via della proprietà terriera consolidava la sua forza militare.

Per via della concentrazione di forza economica, militare e politica questi grandi godevano di una posizione stabile, tradizionale, che veniva abbastanza normalmente tramandata da una generazione all’altra. Si formarono quindi delle vere e proprie dinastie con una tradizione, che si sperdeva in tempi così remoti da potere talora ipotizzare addirittura di discendere da qualche divinità.

Quando uno di questi grandi per la sua maggiore forza economica e militare si imponeva sugli altri, dava origine ad un regno, che consisteva semplicemente in un rapporto privato di dipendenza personale, che veniva a stabilirsi tra i grandi ed il re. Tuttavia il potere del re sugli altri grandi non era istituzionalmente assoluto, ma dipendeva dalle circostanze. I grandi, dal momento che erano proprietari terrieri che disponevano di una loro forza militare, conservavano comunque un potere politico e il re riusciva a controllare il loro potere politico solo nella misura, in cui disponeva di una schiacciante forza patrimoniale e militare, che costringeva i grandi a dipendere dal re, a condividere le scelte del re, ad assicurarsene il favore. L’inimicizia del re sarebbe stata loro fatale. E poi a scala: il consenso dei grandi si trascinava dietro il consenso dei loro dipendenti. Dunque sulla base delle relazioni personali di dipendenza si stabiliva un’unità politica, che si manteneva finché si mantenevano le condizioni storiche contingenti, che avevano determinato tali relazioni personali di dipendenza.

Questa organizzazione della società germanica spiega quindi anche le conversioni, che fecero seguito alla conversione di Clodoveo, di Sigismondo.

Clodoveo era senz’altro dotato di grande forza: era subentrato nella titolarità dei terreni, delle miniere, delle cave del fisco romano; riceveva le esazioni delle tasse e dei dazi. Perciò godette dell’obbedienza del suo popolo. Ma anche era re, che vantava una tradizione familiare antichissima: lo si riconosceva discendente di Meroveo, dinastia di origini divine: in questo contesto l’obbedienza assumeva anche connotazioni sacrali. Situata in questo contesto di cose, la conversione di Colodveo assunse un valore  decisivo: tra i 3.000 che si fecero battezzare con lui, dobbiamo scorgere non solo i suoi dipendenti diretti, i membri del suo entourage patrimoniale e militare, ma anche parecchi grandi del regno, per i quali era vantaggioso, se non immediatamente necessario, condividere le scelte del re: poi si ebbe una reazione a catena attraverso la trama delle relazioni personali di dipendenza.

A fronte di questo ordine di cose, si può senz’altro sostenere che la conversione di Clodoveo comportò la rapida cristianizzazione di tutto il regno.

Il re, divenuto cristiano, si venne a trovare nel suo agire sottoposto all’esigenza di rispettare l’ordine voluto da Dio, che veniva autorevolmente interpretato dalla Chiesa, potere meraviglioso.

In questo orizzonte divenne necessaria la revisione della credenza, che voleva il re discendente da stirpe divina. Questa revisione non prese la strada della soppressione, ma della cristianizzazione: si cominciò a parlare del re come di un personaggio dotato per via dinastica di una missione provvidenziale e di particolari carismi. La convinzione certo più pagana che cristiana, secondo cui ciò avveniva per via dinastica, rendeva superfluo ogni rito esteriore di consacrazione regia da parte della Chiesa, perché la sacralità era trasmessa dal sangue e veniva esteriormente significata dai capelli lunghi, per cui i membri della dinastia franca si distinguevano da tutti gli altri uomini liberi del regno, che quando raggiungevano l’età adulta dovevano portare i capelli corti.

Questi capelli mai recisi dei re originariamente furono concepiti come la sede stessa del potere meraviglioso riconosciuto ai figli della razza eletta: i reges criniti erano altrettanto dei Sansoni.

Insieme con la sacralità dinastica si sviluppò l’esigenza di una interpretazione etica della missione regale: iustitia, pietas, protezione prestata alla Chiesa e ai deboli, tutela della pace, divennero per i re un imperativo morale, continuamente declamato, ma raramente osservato.

In questo sistema politico totalmente contrassegnato dalle relazioni di dipendenza si operò inevitabilmente la sottomissione della Chiesa al forte potere regio, così che in Francia venne a costituirsi una chiesa nazionale.

Di ciò si ebbe una prima emblematica dimostrazione nel 511, quando Clodoveo convocò di sua autorità un concilio della Chiesa franca, imponendogli un suo ordine del giorno e poi determinandone praticamente le decisioni. Questo concilio fu il primo di una serie di concili nazionali o del regno, che altro non erano che la fusione di due istituti precedenti: i concili ecclesiastici e le diete dei grandi. Questo rilevo ci aiuta a capire sia come mai a tale concili furono presenti non solo i vescovi ma anche i grandi del regno sia come mai tali concili abbiano trattato non solo questioni ecclesiastiche ma anche questioni politiche. Le ingerenze del re nella vita ecclesiale si espressero anche in altri settori, ad esempio nella nomina dei vescovi.

Per questa simbiosi tra Chiesa e Regno l’organizzazione e la regolamentazione interna del regno furono anche organizzazione e regolamentazione della vita ecclesiastica e l’espansione del Regno Franco comportò anche l’espansione della Chiesa Franca.

Il bilancio piuttosto deludente di questo tipo di cristianizzazione ci viene delineato da Gregorio di Tours nella sua Historia Francorum, scritta nella seconda metà del VI secolo e dal Liber Historiae Francorum, attribuito a  Fredegario. Ci informano che i crimini, gli orrori, i vizi dei principi merovingi superarono ogni limite. Per essi, e per buona parte della nobiltà, crudeltà, tradimento, assassinio, adulterio, incesto, alcolismo, facevano parte della vita di ogni giorno. Il popolo a sua volta si era convertito al cristianesimo non grazie ad una convincente opera missionaria cristiana, bensì seguendo semplicemente l’esempio del suo re e attratto dalla magnificenza esteriore del culto cristiano. Si dette pertanto del cristianesimo un’interpretazione prevalentemente formale, cultuale, ritualista, che coinvolgeva l’ethos solo in maniera superficiale: si pensi, per esempio, che un re, un nobile, disposti a perdonare tutto in nome del padrinato battesimale, in altre circostanze diventavano implacabilmente sanguinari.

Eppure va riconosciuta l’importanza storica di questa conversione dei Franchi al cattolicesimo. Infatti, sul comune terreno della fede cattolico-romana si produssero due fenomeni decisivi per il futuro.

Primo fenomeno: sul terreno della comune fede cattolica si operò un incontro profondo tra l’elemento romano e l’elemento germanico, un incontro, che determinerà la nascita di una nuova civiltà: la civiltà medievale.

Secondo fenomeno: Gallo-Romani e Franchi, incontrandosi sul terreno della fede cattolica, dettero vita ad un forte regno nazionale franco, capace di imporsi oltre i propri confini nazionali per creare una assai più vasta unità politica, che per certi aspetti richiamerà la potenza dell’Impero romano: era l’annuncio dell’Impero carolingio.

 

2 – I VISIGOTI

Anche nel caso dei Visigoti questione religiosa e questione socio-politica sono strettamente connesse e però fin dall’inizio la connessione si compie e si esprime in maniera diversa da quanto abbiamo visto verificarsi tra i Franchi.

L’inizio del Regno Visigotico si colloca ai primi decenni del V secolo, quando l’Impero romano non era ancora entrato nella fase decisiva del suo tracollo: e questa certamente è una prima importante variante rispetto al caso franco.

I Visigoti si insediarono inizialmente nei territori intorno a Bordeaux e Tolosa, dove si dava un tasso altissimo di romanizzazione e cristianizzazione cattolica. In quel territorio pertanto i Visigoti furono una minoranza sia sul piano etnico, rappresentando soltanto il 2% della popolazione sia sul piano religioso, essendo ariani. In questo contesto si deve rilevare che la relazione tra Gallo-Romani e nuovi arrivati si pose in maniera diversa da quanto vedemmo verificarsi per il Regno Franco.

I Franchi si stanziarono in aree scarsamente popolate dai Gallo-Romani, la Gallia Settentrionale e così evitarono la dispersione, costituendo nel Nord una presenza compatta, omogenea, che offriva una base sicura del potere politico, che avrebbero allargato in altre zone della Gallia. Su questa base di coesione interna, che diventava forza politica, i Franchi poterono interpretare senza molti timori una politica di avvicinamento sociale  e religioso ai Galli-Romani e in breve tempo questa politica sfociò in una entità unitaria.

I Visigoti, invece, trovandosi stanziati in una zona, che vedeva una presenza altamente maggioritaria di Gallo-Romani e avendo a che fare con un Impero romano non ancora in completo tracollo, ebbero da subito la consapevolezza di non disporre di un potere invincibile e quindi accettarono di diventare federati dell’Impero. Inoltre i Visigoti, ancor prima di mirare alla creazione di una unità nazionale, si sentirono in necessità di evitare la propria dispersione: conferirono perciò al loro regno una struttura dualistica, che da una parte vedeva il conquistatore in veste di esercito e dall’altra vedeva la popolazione Gallo-Romana, che a sua volta contribuiva al mantenimento del sistema dualistico, sia perché il diritto romano proibiva i matrimoni misti, sia perché il diritto ecclesiastico vietava il matrimonio nel caso di disparità di culto (cattolici con ariani).

Questa situazione politica da una parte impedì la conversione al cattolicesimo dei Visigoti e dall’altra assicurò alla Chiesa cattolica una relativa tranquillità, infatti i Visigoti, quali federati, si trovarono nella impossibilità giuridica di intervenire contro la Chiesa cattolica, che, essendo istituzione imperiale, doveva essere rispettata e lasciata alla competenza dell’imperatore.

La situazione mutò radicalmente nella seconda metà del V secolo, quando il re Enrico, approfittando della gravissima crisi dell’Impero romano occidentale, allargò le frontiere del suo regno in Gallia fino alla Loira, alla Saône e al Rodano e in Spagna, dove sfuggì al dominio visigotico solo il regno svevo della Galizia.

A questo punto il Regno Visigotico smise di essere federato dell’Impero e acquisì piena sovranità e indipendenza. Ma Enrico non si comportò come Clodoveo, che alle sue espansioni territoriali dava solo il carattere politico di sottomissione al suo potere, Enrico promosse un’espansione che fu anche espansione della popolazione visigotica. Gli fu d’obbligo mantenere la struttura dualistica del regno, per evitare la dispersione e la scomparsa della popolazione visigotica minoritaria. Tipico di questo ordine di cose, fu quanto ordinò re Enrico verso 475: riunire tutte le tradizioni visigotiche nella cosiddetta Lex Visigothorum, che però aveva vigore solo per i Visigoti.

Ovviamente nel contesto immediato di conquista, la segregazione assunse spesso il carattere di contrapposizione tra i due elementi etnici. E ancora una volta si ebbe come conseguenza immediata che non fu certo facilitata la conversione dei Visigoti al cattolicesimo, però una qualche ricaduta comunque si ebbe sulla vita della Chiesa cattolica, perché fu sganciata dalla struttura imperiale e da Roma. E così la Chiesa cattolica divenne una istituzione nazionale del Regno visigotico, nella quale il re, anche se ariano, assunse il ruolo, che l’imperatore romano esercitava nella Chiesa imperiale.

Questa evoluzione trovò codificazione verso il 506 sotto Alarico II nella Lex Romana Visigothorum (detta anche Breviarium Alaricianum), che aveva vigore sia per i Visigoti sia per i Gallo-Romani. Prima espressione di questa nuova realtà fu il sinodo di Agde nel 507, che merita di essere menzionato, perché è il primo concilio nazionale, che sia stato celebrato in Occidente.

L’opera di nazionalizzazione della Chiesa cattolica subì una pausa di arresto negli anni che vanno dal 507 al 567 per via di gravi problemi politici esterni e interni, che costrinsero a distogliere l’attenzione dalla questione religiosa.

·         PRIMO PROBLEMA: la pressione franca aveva praticamente costretto i Visigoti a spostare il proprio centro di gravitazione da Tolosa a Toledo e ad accettare per diversi anni una specie di protettorato dell’ostrogoto Teodorico,

·         SECONDO PROBLEMA: La mancanza di una monarchia ereditaria spingeva continuamente i Visigoti insoddisfatti a compiere rivoluzioni di palazzo. Gli insoddisfatti in genere erano i cattolici e la forte nobiltà gotica, così che a poco a poco tra questi due elementi venne a crearsi una certa convergenza. Tra i nobili si sviluppò la tendenza a farsi cattolici e i cattolici spesso elevavano all’episcopato questi nobili convertiti. E’ un segno del superamento della segregazione: dopo un secolo di convivenza, sia pure dualistica, gli argini tendevano a crollare, soprattutto tra quei Goti, che durante il soggiorno in Oriente avevano goduto di una qualche forma di romanizzazione.

·         TERZO PROBLEMA: la mancanza di continuità territoriale determinava gravi problemi: i pochi territori rimasti oltre i Pirenei si trovarono esposti all’influenza franca; nella zona Nord-Occidentale continuava a sussistere il Regno Svevo della Galizia; nel Sud dalla metà del VI secolo si erano resi di nuovo presenti i Bizantini, offrendo ai cattolici di Spagna una copertura, che si associava a quella che ricevevano dai Franchi al Nord.

·         QUARTO PROBLEMA: verso il 560 gli Svevi passarono al cattolicesimo in seguito alla conversione del loro re (Teodemiro o Ariamiro o Cararico) e anche grazie all’attività missionaria di Martino di Braga. Poco prima la guerra gotica aveva eliminato anche dall’Italia l’arianesimo degli Ostrogoti. E così i Visigoti si trovarono ad essere l’unica presenza ariana in Occidente.

A questo punto il Regno dei Visigoti si trovò a dovere fare i conti con tre nemici esterni (Bizantini, Franchi e Svevi), che erano cattolici e solidarizzavano con gli iberici cattolici e quindi la conversione al cattolicesimo gli si impose come via di sopravvivenza, anche perché avrebbe portato un consolidamento alla forza regale. Vediamo la strada percorsa per arrivare a questa scelta.

Nel 568 si impose come re Leovigildo, che compì alcune scelte, che rafforzarono la sua posizione anche nella questione religiosa. Infatti, respinse i Bizantini dal territorio iberico, all’interno piegò la nobiltà ribelle; distrusse il Regno Svevo; rese ereditaria la dignità regale; emise un Codex revisus, che, secondo le interpretazioni più recenti, ebbe un valore non più personale, ma territoriale, e quindi collocò i due gruppi etnici su un unico e identico piano giuridico.

In materia religiosa Leovigildo volle interpretare un arianesimo tollerante per ottenere la riconciliazione dei cattolici del suo regno. Segno di questa tolleranza fu la scelta di dare come sposa a suo figlio Ermenegildo Ingunda, una franca cattolica. Fu proprio questo Ermenegildo che nel 579, divenuto correggente con residenza a Siviglia, passò al cattolicesimo sia per l’influsso della moglie, sia per il maggior prestigio culturale del clero cattolico, sia per l’azione diretta di Leandro, vescovo di Siviglia.

Ermenegildo poi fece scattare una rivoluzione nei confronti di suo padre Leovigildo, alleandosi con tutti i nemici del regno; fu perciò dichiarato alto traditore e finì ucciso. A questo punto Leovigildo vide il cattolicesimo in blocco come sospetto e intraprese una politica religiosa, che mirava a garantire alla Chiesa di stato ariana il predominio esclusivo. Diversi vescovi furono esiliati; un concilio ariano a Toledo cercò di incoraggiare il passaggio all’arianesimo, facilitandone le condizioni: per esempio si stabilì che si dovessero ribattezzare i cattolici convertiti.

Leovigildo, ultimo re visigoto secondo il vecchio stile ariano-germanico, lasciò al suo secondogenito e successore Reccaredo (586-601) una posizione così sicura, che egli poté senza catastrofi inaugurare la nuova era cottolico-romana della Spagna. Poco dopo l’assunzione del potere Reccaredo si convertì al cattolicesimo, sia accogliendo i suggerimenti di Leandro di Siviglia, sia rifacendosi alla vicenda del fratello Ermenegildo, sia avvedendosi che questo era il modo più sicuro per scongiurare gli assalti dei nemici esterni e per ottenere coesione interna. La sua posizione di vertice della Chiesa ariana gli facilitò il rapido passaggio della maggioranza dei vescovi ariani al cattolicesimo. Il grande concilio di Toledo del 589 concluse l’epoca della conversione e pose le basi della nuova Chiesa cattolico-visigota.

Quale costituzione si dette questa Chiesa cattolico-visigota?

Il re vi giocava un ruolo di primo piano non a partire dalla concezione germanica dell’aggregazione socio-politica come era tra i Franchi, ma a partire dalla visione teocratica del Codice Teodosiano, codificata dal Breviarium Alaricianum. Il re come l’imperatore romano detiene nelle sue mani la legislazione ecclesiastica, quindi a lui spetta la convocazione del concilio del Regno, a lui spetta di inaugurarlo e di dare vigore alle sue decisioni. Anche i concili nazionali visigoti come quelli franchi furono misti quanto a partecipazione e quanto a temi affrontati. Il re ha potere anche di compiere interventi legislativi per risolvere questioni meramente ecclesiastiche. Il re ha diritti importantissimi anche nell’amministrazione della Chiesa: stabilisce i confini delle province ecclesiastiche, conferma le elezioni episcopali. Il re è anche suprema istanza giudiziaria e quindi spetta a lui di intervenire nei conflitti tra due metropoliti.

Questa connessione corona-Chiesa ovviamente comportò un certo allontanamento da Roma. Del resto  la Chiesa spagnola possedeva una grande forza interna: godeva del monopolio culturale, teneva una posizione di guida al vertice del sistema organizzativo della popolazione romana, ai vescovi infatti spettava la nomina degli amministratori, la Chiesa disponeva poi di una colossale proprietà fondiaria in continua espansione, la Chiesa richiamandosi a certe interpretazioni clericali del diritto romano aveva preteso ed ottenuto immunità in campo fiscale e giudiziario, la Chiesa infine disponeva di una crescente forza di intervento nelle faccende del Regno soprattutto in materia di giustizia (i tribunali episcopali erano competenti anche in questioni di crimine). Questa relazione tra corona e Chiesa, che annullava tutti i confini tra ambito statale e ambito ecclesiastico, poteva portare, come in Oriente, al cesaro-papismo. In realtà avvenne il contrario: la debolezza congenita della monarchia elettiva e l’assoluto predominio dell’organizzazione ecclesiastica nel sistema gotico svilupparono nel corso del VII secolo una signoria sacerdotale. Da Sisenando (633 c.) in poi i vescovi divennero i custodi del trono, i garanti della fedeltà nazionale, i difensori dei confini e gli assertori dei diritti regali, perché così si assicuravano i loro stessi poteri.

Per quanto concerne la vita interna della Chiesa si deve rilevare che inizialmente fu molto accesa l’esigenza di conseguire l’uniformità della fede. Questa esigenza di uniformità raggiunse anche i toni della intolleranza fanatica, soprattutto contro gli Ebrei, che furono posti di fronte all’alternativa o Battesimo o esilio. Isidoro di Siviglia nella sua Storia dei Goti ci offre questa considerazione: “Il re s’è lasciato prendere da uno zelo poco illuminato a costringere gli Ebrei alla conversione. Non con la forza, infatti, ma col ragionamento sulla Legge sarebbe stato opportuno condurli al cristianesimo… Ma come dice la Scrittura bisogna che il Cristo sia annunciato o per mezzo di cattivi procedimenti o per la retta via”.

In questa azione per promuovere l’uniformità di fede si inscrive l’introduzione del Simbolo Niceno- Costantinopolitano nella Messa.

In connessione con la conversione al cattolicesimo si operò una grande fioritura culturale, che ebbe la sua massima espressione in Isidoro di Siviglia, fratello, discepolo e successore di Leandro. Isidoro si occupò di tutti i settori del sapere: teologia, storia, esegesi, filosofia, grammatica, scienze naturali, apologetica, ascetica. Questa sua erudizione enciclopedica confluì nelle sue Etymologiae (o Origines) in 20 libri, che rappresentano la prima enciclopedia cristiana e che meritano altissima considerazione per due ragioni: da una parte raccolgono ampiamente l’eredità dell’Antichità classica e cristiana e dall’altra costituiscono la base del sapere medievale. Più teologica è la sua opera Sententiae, che è una silloge di citazioni soprattutto di Agostino e Gregorio Magno e alla quale attinse ampiamente la teologia medievale. Sotto questo profilo Isidoro si rivela non come uno che celebra l’inutile funerale di un mondo finito, ma uno che porge la mano a costruire un futuro (R. MANSELLI, L’Europa medioevale, Torino 1979, 228).

3 – ITALIA

Odoacre (476-493) governò senza determinare un cambiamento del quadro politico. Non aveva portato con sé popoli da sistemare e si servì del suo potere militare solo per garantire continuità al sistema romano, perciò la vita, anche quella della Chiesa, continuò senza particolari problemi.

L’irruzione di Teodorico con i suoi Ostrogoti (489) sollevò invece un problema di relazione con una nuova popolazione, dotata di una sua particolare struttura politica e di una sua fede religiosa: gli Ostrogoti erano ariani.

Tuttavia Teodorico non intraprese una politica di gotizzazione dell’Italia per via della sua storia personale di grossa contiguità con il mondo imperiale romano. Infatti per 12 anni Teodorico era stato ostaggio a Costantinopoli e maturò in quegli anni una grande ammirazione per la grandezza romana. Poi venne in Italia non solo come capo degli Ostrogoti, ma anche come patrizio romano, magister utriusquae militiae e vice-imperatore per le regioni italiane.

Perciò Teodorico non pensò affatto di gotizzare, introdusse invece una formula dualistica, come del resto aveva già fatto Odoacre: per esempio non disperse i Goti su tutto il territorio italiano, ma li stanziò in alcuni punti come presenze militari di controllo (pianura padana, zona di Ravenna, qualche nucleo in Dalmazia, in Italia centrale e in Campania). In certe città, come Ravenna, sorsero veri e propri quartieri gotici, compatti intorno ad una cattedrale ariana e ai margini dell’antica città romana.

Il sistema dualistico prevedeva che Goti e Romani fossero sottomessi a sistemi di diritto, amministrazioni e burocrazie paralleli e separati; gli unici legami erano la persona del re e alcuni ufficiali.

Secondo la tradizione del “buon principe” antico, Teodorico protesse gli scrittori e i poeti latini, ma nello stesso tempo si sforzò di far nascere una cultura gotica autoctona. Finché fu applicato questo sistema dualistico, per la porzione romana sopravvissero in qualche modo Roma ed il suo Impero. Anche la Chiesa cattolica poté godere della saggezza e della tolleranza dell’ariano Teodorico, I contrasti teologici tra la Chiesa romana e quella bizantina furono per Teodorico una sorta di garanzia politica, poiché davano la certezza che la Chiesa cattolica romana non avrebbe mai invocato l’intervento dei bizantini contro il potere ostrogoto. E da parte sua la Chiesa cattolica romana trovò forza per contrapporsi alle visioni teologiche bizantine, perché in un certo senso si sentiva protetta dall’autonomia politica, che Teodorico garantiva all’Italia.

Ma quando venne a ristabilirsi la comunione ecclesiale tra Roma e Costantinopoli, le cose mutarono, perché elementi della popolazione romana cominciarono a sganciarsi da Teodorico e a lavorare per un ritorno sotto il diretto governo imperiale. E’ pure probabile che Teodorico, oramai divenuto vecchio, perse la sua apprezzata serenità di giudizio e quindi dette un peso politico eccessivo alla ritrovata comunione tra le due Chiese, sospettando che dai Romani fosse ordita una qualche opposizione interna. Ad aggravare il giudizio intervenne anche la situazione estera che si stava profilando, in cui sembrava prospettarsi una coalizione tra Franchi, Burgundi, Eruli e Bizantini.

Perciò Teodorico negli ultimi anni del suo governo fece uccidere il consigliere Severino Boezio, lasciò morire in carcere papa Giovanni I, al quale venne mossa l’accusa di non aver ottenuto dall’imperatore bizantino clemenza verso gli ariani. Questa ostilità però non assunse i contorni di una persecuzione generale.

Sotto il regime di Teodorico le conversioni al cattolicesimo furono praticamente inesistenti, perché ne era preclusa la praticabilità dal sistema, che mirava a garantire convivenza mediante la netta separazione: il passaggio di Ostrogoti al cattolicesimo era visto come un inaccettabile prevalere della romanità sull’elemento gotico.

Nel 526 Teodorico morì, lasciando un regno molto debole nel suo interno, sia per il precario equilibrio della gestione dualistica, sia per le tensioni e contrapposizioni, che si determinarono tra gli stessi Ostrogoti, parte dei quali propendeva ad una parziale apertura ai Romani e parte invece preferiva una linea di intransigenza gotica. Questa debolezza fu accentuata anche dalla successione problematica: Teodorico aveva designato come suo successore il nipote Atalarico, che era poco più che decenne. Assunse la reggenza sua mamma Amalasunta, figlia di Teodorico. Nella mentalità gotica era inaccettabile che il potere fosse nelle mani di una donna e quindi si formò una opposizione nei confronti di Amalasunta, che per tenersi a galla da un lato cercò appoggio presso Giustiniano e dall’altro fece la scelta di sposare il cugino Teodato, sperando che le facesse da copertura. Ma Teodato con un colpo di mano tolse di mezzo la moglie, la relegò su un’isoletta del lago di Bolsena e poi la uccise (535).

Nonostante ciò, i Bizantini riuscirono a imporsi a fatica, dopo una guerra ventennale e dissanguante (535-553), segno della grande forza militare, di cui gli Ostrogoti continuarono a disporre.

Nel 568 i Longobardi volsero il loro interesse verso l’Italia e in pochi anni occuparono buona parte del suo territorio. Formarono degli insediamenti molto compatti nella Pianura Padana (che diventerà Lombardia), nel Friuli, in Toscana (il ducato di Spoleto), in Campania (il ducato di Benevento). Ai Bizantini rimasero Genova fino al 640 circa, Ravenna fino al 752, Venezia, Puglie, Calabria, Napoli, ducato romano.

Quanto a religione, i Longobardi per ragioni politiche avevano scelto di professare un cristianesimo vicino alla forme bizantine, ma al tempo dell’invasione dell’Italia sempre per ragioni politiche scelsero di passare all’arianesimo, sia in opposizione ai Bizantini che dominavano l’Italia che dovevano conquistare, sia in opposizione ai Franchi, che a loro volta ambivano ad espandersi in Italia settentrionale, sia per distinguersi dalla popolazione e sia per stabilire una coesione ideale con i vari elementi germanici, che erano presenti sul territorio o che si erano infiltrati anche tra gli stessi Longobardi. Fu una scelta ufficiale e politica di vertice, che non coinvolse totalmente e profondamente la base, dove molti rimasero fedeli al tradizionale paganesimo.

Questi accenni ci fanno capire che l’insediamento dei Longobardi fu senz’altro un problema per la Chiesa cattolica italiana: lo vogliamo considerare distinguendo alcuni momenti tipici.

Momento dell’invasione e dell’anarchia (568-584): riferimento fondamentale è PAOLO DIACONO, Hostoria Langobardorum II,10: “In questo stesso tempo reggeva la chiesa di Roma il santissimo papa Benedetto. A capo della città e del popolo di Aquileia era il beato patriarca Paolo (in realtà il suo nome era Paolino). Questi, temendo la barbarie dei Longobardi, fuggi da Aquileia nell'isola di Grado e portò con sé tutto il tesoro della sua chiesa (similmente anche gli abitanti dell’interno del Veneto fuggirono nelle isole poco accessibili delle lagune costiere: siamo all’origine di Venezia).”

Alboino entrò a Milano il 3 settembre 569, quando era arcivescovo Onorato, che lasciò Milano e si rifugiò a Genova. Le conquiste di Alboino raggiunsero un momento molto significativo nel 572, quando dopo tre anni di assedio, capitolò Ticinum (Pavia): “La città di Ticino, che sopportava l’assedio da tre anni e alcuni mesi, alla fine si arrese ad Alboino e ai Longobardi che l’assediavano. Mentre Alboino entrava in città dalla parte orientale, attraverso la porta che è detta di San Giovanni, il suo cavallo cadde proprio al passaggio della porta e, per quanto spronato, per quanto colpito di qua e di là con le lance, non si riusciva a farlo rialzare. Allora uno degli stessi Longobardi si rivolse al re e disse: “Ricordati, o mio re, del voto che hai pronunciato. Rompi un voto così duro ed entrerai nella città: perché questo popolo è veramente cristiano”. Alboino aveva infatti giurato che avrebbe passato a fil di spada tutta la popolazione, perché non aveva voluto piegarsi. Ma quando, rompendo questo voto, promise indulgenza ai cittadini, subito il cavallo si rialzò ed egli, entrato nella città, mantenne fede alla sua promessa non recando offesa ad alcuno. Allora tutto il popolo, accorrendo a lui nel palazzo che il re Teodorico aveva un tempo costruito, cominciò dopo tante miserie a risollevare l’animo, già fiducioso in un futuro migliore.
Ma il re, dopo aver regnato in Italia per tre anni e sei mesi, fu ucciso per il tradimento della moglie…” (II,27 e 28).

Ad Alboino successe Clefi, che regnò per un anno  e sei mesi e poi finì sgozzato dalla spada di uno schiavo, che stava al suo servizio (II,31).

Dal 574 al 584 si ebbe un decennio di anarchia, in cui il potere venne esercitato localmente dai duchi delle varie città. Paolo Diacono ne parla in questi termini: “In questo periodo molto nobili romani furono fatti uccidere per soddisfare l’avidità dei vari capi longobardi… Così nei 7 anni dopo l’arrivo di Alboino e di tutto il popolo questi duchi longobardi conquistarono e sottomisero buona parte dell’Italia oltre a quella che era già stata conquistata da Alboino, saccheggiano le chiese, uccidendo i preti, distruggendo le città e stremando gli abitanti” (II,32).

In questo primo periodo quindi la popolazione romana fu socialmente decapitata: scomparve la sua classe senatoria e quasi ovunque anche scomparvero i vescovi o perché spostarono la loro residenza in terre dominate dai Bizantini o perché le sedi furono lasciate vacanti o perché, come a Pavia e a Siena, furono insediati vescovi ariani.

Secondo momento (584-626): minacciati dall’esterno da Franchi e Bizantini, i Longobardi nel 584 pensarono di organizzarsi nel loro interno in forma abbastanza unitaria attorno ad una monarchia, eleggendo come re Autari, figlio di Clefi. In questo periodo la continuità di governo fu assicurata da una donna: la bavara e cattolica Teodolinda. Del governo di Autari Paolo Diacono dice: “Non si aveva nessuna forma di violenza, non si tramavano insidie, nessuno si metteva ad angariare ingiustamente chicchessia, nessuno commetteva saccheggi, non si verificavano furti e ciascuno poteva andare tranquillamente e senza timore dove preferiva” (III,16). Nel 590 Autari finì avvelenato e si ebbe questo seguito secondo le parole di Paolo Diacono: “I Longobardi, che si erano affezionati alla regina Teodolinda, non solo le permisero di conservare la dignità regale, ma la invitarono anche a scegliersi come marito l’uomo più indicato per fare il re. Teodolinda si consigliò con i saggi di corte e scelse Agilulfo” (III,35). Nel 616 al padre Agilulfo successe il figlio Adaloaldo, ancora tredicenne e quindi Teodolina rimase in primo piano come reggente.

Caratteristico di questo secondo momento è una certa disponibilità a lasciarsi influenzare dall’ambiente italiano, avvicinandosi ai quadri romani sopravissuti. Anche la Chiesa cattolica ne risentì positivamente, infatti diversi vescovi poterono fare ritorno alle loro sedi. In questo contesto si operò un primo passaggio di Longobardi al cattolicesimo. Siccome il fenomeno era di una certa rilevanza, re Autari proibì ai Longobardi il battesimo cattolico. Il successore Agilulfo nel processo di avvicinamento alla gente romana lasciò cadere le remore di natura religiosa, giungendo al punto di lasciare battezzare cattolicamente suo figlio Adaloaldo. Non deve sfuggire che queste conversioni dei Longobardi al cattolicesimo avvennero in un’Italia Settentrionale, dove prevalevano i sostenitori di Teodoreto di Ciro, di Teodoro di Mopsuestia, e di Iba di Edessa, i cosiddetti “Tre Capitoli”, che Giustiniano aveva invece condannato prima con dei suoi editti (543 o 544; e 551) e poi mediante il Concilio Costantinopolitano del 553. Anche la Chiesa romana, dopo alcune resistenze, aderì alla posizione di Giustiniano. Le diocesi settentrionali dell’Italia, che si opposero a Roma e a Bisanzio per sostenere i “Tre Capitoli”, trovarono nella presenza longobarda un argine di protezione nei confronti di interventi punitivi imperiali, Questo ebbe una ricaduta politica su queste chiese del Nord Italia: svilupparono un atteggiamento antibizantino e filo longobardo. La corte longobarda dal canto suo da un lato rimosse ogni ostacolo alle conversioni al cattolicesimo, perché oramai si situavano in un contesto ecclesiale antibizantino e dall’altro appoggiò le strutture ecclesiali, schierate a favore dei “Tre Capitoli”.

In una situazione come questa si svilupparono le relazioni di papa Gregorio Magno (590-604) con i Longobardi. La prima mossa fu di appoggiarsi a Teodolinda  per favorire il passaggio dei Longobardi alla fede cattolica. Anche questa volta papa Gregorio Magno dette mostra di grande sagacia pastorale, la dote che lo fa grande e che rappresenta la sua più alta qualità. Papa Gregorio sapeva di avere a che fare con gente, legata ad una religiosità pagana molto elementare, che dava un peso decisivo ai segni e ai miracoli e quindi sclse di adattarsi a questo tipo di uditorio, inviando alla regina Teodolina una sua opera, “I dialoghi”, dove da una parte all’altra si respira un aura di miracoloso, atta a dimostrare la veridicità della confessione cattolica. In secondo luogo Gregorio Magno dette avvio presso i Longobardi ad un’attività missionaria, che anticipava la grande iniziativa di evangelizzazione che di lì a poco avrebbe fatto intraprendere in Inghilterra. In terzo luogo papa Gregorio sentì molto impellente la preoccupazione di ricondurre le conversioni dei Longobardi entro l’alveo dell’unità, ma non ottenne nulla di consistente. Bisognerà aspettare il regno del cattolico Adaloaldo, perché si cominci a considerare il problema dello scisma tricapitolino secondo una prospettiva diversa.

Ci si avvide che lo scisma si era trasferito anche all’interno del regno longobardo: coloro che diventavano cattolici nei ducati di Spoleto e di Benevento, accettavano la posizione romana. Si dette poi il caso dei monaci di san Colombano, che con l’appoggio di Agilulfo si erano insediati a Bobbio: l’efficace azione missionaria, che svolgevano tra i Longobardi, era in senso romano. Infine l’entourage di Adaloaldo comprese che la posizione tricapitolina, sostenuta oramai solo dalle Chiese dell’Italia settentrionale, condannava il regno longobardo ad un isolamento in politica estera. Adaloaldo tentò pertanto un avvicinamento al papato, ma il partito longobardo intransigente vi vide una eccessiva concessione al fronte bizantino e sbalzò Adaloaldo dal trono.

Terzo momento (626-671): c’è un intreccio di ariani e cattolici sul trono longobardo: Arioaldo, ariano (626-636) con moglie cattolica, Gundeperga, figlia di Teodolinda; Rotari, ariano (636-652) con moglie la cattolica Gundeperga, vedova del predecessore Arioaldo ; Rodoaldo , ariano (652-653), figlio di Rotari; Ariperto, cattolico (653), nipote di Teodolinda; nel 661-662 i due figli cattolici di Ariperto, Pertarito e Godeperto; Grimoaldo, ariano (662-671), che sposò la sorella cattolica dei suoi predecessori.

Il trionfo della corrente intransigente su Adoaldo segnò un orientamento politico globale orientato alla netta affermazione del carattere longobardo. Si scelse pertanto di introdurre un’organizzazione dualistica della società, che trovò espressione anche in campo religioso. Paolo Diacono, infatti, così si esprime a proposito del regno di Rotari: “Ai suoi tempi quasi in tutte le città del regno c’erano due vescovi: uno cattolico e l’altro ariano” (IV,42). Tuttavia i cattolici non subirono particolari restrizioni o difficoltà. Significativo di ciò è l’editto di Rotari del 643, che tutelava la pace e il diritto d’asilo delle Chiese, senza distinguere tra quella cattoliche e quelle ariane.

[Rotari si era accorto che oramai si tendeva a dimenticare le leggi tradizionali e quindi decise di passare dalla tradizione orale alla codificazione scritta. Utilizzò il latino e non la lingua tradizionale della popolazione longobarda, anche perché con ogni probabilità per la redazione fece ricorso ad un chierico, che aveva una buona conoscenza del latino, del diritto romano e della terminologia ecclesiastica. Si introdusse un ammorbidimento delle tradizioni più rigidamente germaniche: la faida per esempio fu sostituita dal guidrigildo, che prevedeva una sanzione pecuniaria, che doveva essere stabilita sia tenendo conto dell’entità del danno sia considerando la condizione sociale del danneggiato (R. MANSELLI, L’Europa medioevale, Torino 1979, 188)].

Il nuovo orientamento politico indusse parecchi Longobardi, che erano passati al cattolicesimo unitario romano, a fare ritorno alla forma scismatica tricapitolina.

Tuttavia anche in questo periodo fu molto incisiva l’attività missionaria cattolico-romana portata avanti da due soggetti diversi: i soliti monaci di Bobbio, che non furono mai ostacolati, e anche parecchi ecclesiastici orientali, che in quei tempi vennero a rifugiarsi in Occidente sia per sfuggire alla invasione araba sia per sottrarsi alle vessazioni, che il potere imperiale riservava a coloro, che non accedevano alla posizione del monotelismo (che attribuiva a Gesù Cristo il possesso della sola volontà divina ad esclusione di quella umana).

IV momento (dal 671 in poi): con l’ascesa al trono del cattolico Bertarido (671) iniziò una nuova era, caratterizzata sotto il profilo religioso da una grande attività missionaria guidata dal papato stesso e sostenuta anche dagli ecclesiastici orientali. In questo periodo a Milano si ebbe l’orientalizzazione della liturgia sia per l’apporto di missionari orientali sia per l’influsso bizantino, che il clero milanese aveva subito ai tempi del suo esilio a Genova e che trapiantò a Milano, quando vi fece ritorno.

Un’altra traccia di questa presenza orientale si trova a Castelseprio nella chiesa di santa Maria.

[L’esame comparato degli elementi ha permesso di stabilire che non si è qui di fronte ad un prodotto locale e nemmeno a un riflesso dell’arte ravennate del pieno o tardo secolo VI, ma ad un lavoro ispirato integralmente e direttamente a modelli orientali, sia nelle strutture architettoniche sia nei modelli pittorici ed iconografici. Si tratta dal punto di vista architettonico di una basilica tricora, che simbolicamente affermava il dogma trinitario in prospettiva antiariana. Alcuni nomi, che compaiono nelle iscrizioni didascaliche sono chiaramente una trascrizione latina di termini greci: Zumeon invece di Simeon, per esempio.

L’iconografia poi si ispira chiaramente ai moduli iconografici orientali].

Risultato di questa azione missionaria fu la conversione totale dei Longobardi al cattolicesimo unitario romano e quindi il ricupero dell’Italia Settentrionale all’unità ecclesiale. Questo ricupero fu celebrato in un solenne sinodo, che si tenne a Pavia nel 699. Sulla base dell’unica fede poi si raggiunse all’interno del Regno Longobardo la parificazione tra Italici e Longobardi sia in campo giuridico sia in campo civile.

 

 

4 – IRLANDA

Ci rivolgiamo ora a una terra, che non ha conosciuto né una penetrazione romana né una penetrazione germanica, una terra dotata quindi di un carattere del tutto particolare quanto a popolazione, che è di ceppo celtico, quanto a organizzazione sociale, che è a struttura clanica e non cittadina. È chiaro che il cristianesimo, impiantandosi in tale contesto, assunse forme ed espressioni del tutto originali, celtiche appunto.

Gli inizi della penetrazione cristiana sono immersi nell’oscurità: infatti, la prima notizia di cui disponiamo accenna ad una presenza cristiana, alla quale finalmente fu inviato un vescovo per conferire saldezza alla sua struttura e ulteriore impulso di espansione. La fonte è Prospero Tirone di Aquitania, Cronica (MG Auct. ant. IX, 472 ss): “Palladio, ordinato vescovo da papa Celestino, viene inviato come primo vescovo agli Scotti, che credono in Cristo”. Siamo verso l’anno 431.

A chi va ascritta allora la primitiva penetrazione cristiana in Irlanda? Si ipotizza che si sia avuto un qualche influsso sia delle comunità cristiane presenti nella vicina provincia romana della Britannia sia di qualche monaco legato al movimento evangelizzatore di san Martino di Tours.

Il primo vescovo Palladio avrebbe lavorato nell’Irlanda Meridionale per un anno circa, essendo morto probabilmente nel 432. Poiché non si sa gran che di questo Palladio, spesso si è voluto farlo coincidere con Patrizio, ma oramai la storiografia tende a distinguere le due figure.

Il grande apostolo dell’Irlanda è invece san Patrizio, però conosciamo molto poco della sua vita. Se ci rifacciamo alla Confessio, un’autobiografia degli anni giovanili redatta da Patrizio, quando oramai era alla fine della sua esistenza, riusciamo solo a ricostruire gli antecedenti della sua missione irlandese. Se ci affidiamo alle leggende dei secoli VII e VIII, ci diventa molto difficile discernere gli elementi veramente storici.

Patrizio sarebbe nato nel 390 in Inghilterra da una famiglia bretone, romano-cristiana: il padre era diacono e il nonno presbitero. All’età di 16 anni Patrizio fu rapito da dei pirati irlandesi, che lo portarono come schiavo in Irlanda. Dopo sei anni, in cui ebbe modo di apprendere la lingua locale, Patrizio riuscì a fuggire e a tornare in patria. A questo punto abbiamo un vuoto nella vita di Patrizio, che viene colmata dagli storici con varie ipotesi.

Storici inglesi, come R.P.C. HANSON, tendono ad ambientare questi anni in Britannia, dove Patrizio sarebbe divenuto monaco e avrebbe ricevuto dalla Chiesa della Britannia l’incarico di tornare in Irlanda per evangelizzarla, visto che ne conosceva la lingua.

Altri storici, sfruttando leggende e dati storici del VII e VIII secolo, sostengono una presenza di Patrizio sul continente europeo, in particolare in Francia, dove venne a contatto con il monachesimo mediterraneo provenzale.

Verso il 432 Patrizio ritornò in Irlanda come missionario e svolse la sua attività soprattutto nelle regioni centrale e settentrionale, avendo come centro Armagh. Morì nel 461 circa.

Il cristianesimo qui in Irlanda assunse una forma del tutto particolare. Mentre nell’Impero il cristianesimo si era adeguato alla struttura sociale cittadina dell’Impero, organizzandosi intorno alla figura del vescovo delle città, in Irlanda, dove la società aveva un’organizzazione non cittadina ma tribale, si instaurò un sistema organizzativo fondato sul monastero. I monasteri, infatti, avevano un forte legame con la società tribale, dal momento che l’usanza prevalente, se non addirittura esclusiva, era di scegliere l’abate nel clan, a cui apparteneva il fondatore. L’abate quindi era il dirigente della diocesi, talora ne era vescovo, spesso però faceva ordinare vescovo un suo monaco, che svolgeva soltanto le funzioni inerenti al potere di Ordine, mentre la funzione giurisdizionale era esercitata dall’abate. Ancor più straordinario è il fatto che questa specie di giurisdizione quasi episcopale a volte fu esercitata da donne: ad esempio la sede episcopale di Kildare era una dipendenza del grande monastero di santa Brigida e veniva retta in tandem dal vescovo e dalla badessa (C. DAWSON, La nascita dell’Europa, Torino 1959, 231).

Questo dominio monastico ebbe poi un riflesso originale a livello di vita cristiana, spingendo la Chiesa irlandese ad interpretare un cristianesimo ascetico-penitenziale: digiuno due giorni la settimana (mercoledì e venerdì), tre quaresime all’anno, mortificazioni severe (immersione in acque gelate).

In questo contesto di pratiche penitenziali ispirate dal monachesimo si colloca la diffusione della penitenza sacramentale frequente e privata. Il monachesimo irlandese infatti associò la pratica monastica dell’apertura di coscienza e il sacramento della penitenza. Per dare ai confessori una regola di condotta nell’impartire la penitenza vennero redatti in Irlanda dei libri penitenziali, in cui venivano fissate le tariffe penitenziali adeguati, tenendo conto sia dell’entità della colpa, sia della qualità del peccatore (chierico o laico), sia del grado di volontarietà.

Un’altra particolarità irlandese fu l’introduzione nel monachesimo dell’ideale della peregrinatio pro Christo o pro amore Dei. La Cronaca anglosassone , che risale all’anno 891 circa, ricorda il caso di tre monaci “che partirono dall’Irlanda sopra una barca priva di remi, perché volevano vivere in stato di pellegrinaggio per l’amore di Dio, senza curarsi dove”. Un modo molto incisivo, quindi, per affermare che qui non abbiamo stabile dimora, ma siamo in cerca di quella futura (Ebr 13, 14).

Influì su questo ideale della peregrinatio anche l’idea del martirio, che era particolarmente viva nel monachesimo irlandese. Si distinguevano tre tipi di martirio: il martirio bianco, che consisteva nel vivere la vita monastica dentro le mura del monastero; il martirio verde, che si compiva nella peregrinatio per amore di Cristo e comportava l’abbandono della propria patria, della propria lingua, della propria attività spirituale e culturale, per andare in terre lontane a predicarvi la fede nel Cristo, specialmente tra gli infedeli e gli eretici; e infine il martirio rosso, quello di chi versava il suo sangue e sacrificava la sua vita durante il suo esilio e la sua opera missionaria (R. MANSELLI, L’Europa medioevale, Torino 1979, 255-256).

Questo movimento monastico di peregrinatio dette un impulso davvero rilevante all’azione missionaria: san Colombano il Vecchio svolse un ruolo di primo piano nella conversione della Scozia e del Regno di Northumbria. San Colombano il Giovane con la sua celeberrima fondazione di Luxeuil portò un contributo significativo nell’opera di conversione dei residui elementi pagani del Regno Franco. Sempre san Colombano il Giovane con la sua fondazione di Bobbio contribuì alla conversione dei Longobardi in Italia.

L’originalità celtica trovò espressione anche a livello liturgico, praticando un suo modo diverso di tonsurare (cranio rasato e cerchiato solo da una stretta corona di capelli); riti particolari per le ordinazioni di vescovi e presbiteri; data particolare della Pasqua fissata secondo il vecchio uso romano, che si fondava su un ciclo di 84 anni (nel 525 Roma invece secondo le indicazioni di Dionigi il Piccolo aveva aderito all’uso alessandrino, che si fondava su un ciclo di 19 anni).

 

5 – BRITANNIA E ANGLOSASSONI

Già in epoca romana esisteva in Britannia un’organizzazione ecclesiastica. I vescovi di York, Londra e Lincoln furono presenti al concilio di Arles (314). Ma nel 407, quando le legioni romane furono richiamate dalla Britannia, questa terra rimase aperta alle invasioni. Dal Nord, attraversando il Vallum, penetrarono nella Britannia romana i Pitti; dal mare poi vennero gli Angli, i Sassoni, gli Iuti, che vi si stabilirono, fondando sette regni: tre sono quelli degli Angli: Mercia, Anglia Orientale, Northumbria; tre sono quelli Sassoni: Essex, Sussex, Wessex; uno quello degli Iuti: Kent.

La popolazione bretone cristiana o passò la Manica, stabilendosi nell’Armorica (Bretagna francese) oppure si rifugiò nella parte occidentale (il Galles). In Britannia quindi il cristianesimo scomparve totalmente.

L’evangelizzazione della Britannia (596-633) fu una iniziativa di papa Gregorio Magno, che in tal modo affermò chiaramente di disporre di una giurisdizione, che non si riduceva alla sola area romana. Ovviamente da questa iniziativa nacquero comunità profondamente legate a Roma.

Perché questa iniziativa partì da Roma?

Prima di tutto perché le comunità cristiane più vicine o non potevano o non volevano occuparsene: per esempio le comunità cristiane della Gallia preferirono orientare la loro espansione missionaria verso le terre renane. Le comunità cristiane del Galles o dell’Armorica non avevano ancora assorbito il trauma  dell’invasione e quindi si rifiutavano di stabilire contatti con gli Anglo Sassoni, nemici invasori. Le comunità cristiane irlandesi a loro volta rivolsero la loro attenzione alla Scozia dei Pitti, con i quali avevano affinità etniche, ma si trattò di un’opera che passò completamente inosservata, perché era portata avanti dall’isolata cristianità celtica e si rivolgeva a un mondo, che non apparteneva all’Impero.

In secondo luogo l’iniziativa missionaria di Roma va ascritta a un interesse personale di Gregorio Magno per il mondo anglo-sassone, come viene ricordato in maniera piuttosto leggendaria da Beda, Historia ecclesiastica gentis Anglorum II,1: (“Chiese come si chiamassero, gli risposero che Angli era il loro nome. E lui di rimando: «Bene, infatti hanno un aspetto angelico ed è bene che siano coeredi degli angeli in cielo. Che nome danno alla provincia da cui sono stati presi?». Risposero che gli abitanti di quella provincia si chiamavano Deiri. E lui di rimando: «Bene: Deiri: dall’ira strappati e alla  misericordia di Cristo chiamati. Come si chiama il re di quella provincia?». Risposero che il suo nome era Aello. E lui, alludendo al nome, concluse: «Alleluia; bisognerà che in quelle terre si cantino lodi al Dio Creatore»”).

Paolo diacono nella sua Historia Langobardorum, III/25 ha un rapido accenno alla missione voluta da papa Gregorio.

Dati storicamente più attendibili ci vengono dalle lettere dello stesso Gregorio (Epistolarum libri quartuordecim , PL LXXVII) e da una informazione di Gregorio di Tours (Historia Francorum, IV,26; IX,26).

Ingeberga, vedova del re di Parigi Cariberto, aveva una figlia sposata al figlio di un certo re di Kent. Secondo Beda (Historia ecclesiastica, I, 25-26) la sposa si chiamava Berta e lo sposo si chiamava Etelberto e sempre secondo Beda a Berta era stato concesso di continuare a professare la sua fede cattolica, utilizzando un’antica chiesa cristiana bretone, la chiesa di san Martino presso Canterbury. Dalla Gallia venne apposta il vescovo Liutardo per assicurare le celebrazioni liturgiche. Si sa che Gregorio Magno aveva contatti frequenti con le Gallie e quindi probabilmente venne a conoscenza di questa situazione, scorgendovi una possibile base per una missione in Inghilterra. E infatti è qui che sbarcò il primo gruppo di missionari romani.

In un primo momento Gregorio Magno avrebbe pensato di realizzare la missione con degli indigeni: infatti nel 595 fece acquistare a Marsiglia degli schiavi inglesi, che avevano sui diciassette e diciotto anni. Presto però Gregorio si avvide che le cose sarebbero andate per le lunghe, per via dei tempi necessari per formare e preparare i giovani inglesi. Ripiegò allora su un gruppo di monaci del suo monastero di sant’Andrea sul Celio, guidati dal prevosto Agostino. La partenza avvenne nella primavera del 596 e lo sbarco si effettuò nella primavera del 597 nel regno di Kent. Una lettera di Gregorio del 598 parla già di grandi successi: nel 601 venne battezzato il re Etelberto. Allora Etelberto era anche bretwalda, cioè capo dell’eptarchia anglosassone, la sua conversione quindi ebbe riflessi anche oltre il regno di Kent: nell’Essex dove si trova Londra e nell’Anglia Orientale.

Agostino morì tra il 604 e il 609. Sede metropolitana divenne non Londra ma Canterbury, che in quanto città del bretwalda Etelberto prevaleva su Londra.

La missione romana negli anni 625-626 raggiunse anche la Northumbria, dove la conversione avvenne per via di un intreccio di ragioni familiari e di ragioni politiche: il re Edvino, infatti, prese come moglie una figlia di Etelberto, che era cattolica e non solo le consentì di vivere cristianamente nel suo regno ma addirittura lui stesso in seguito ad una vittoria sui Sassoni Occidentali si fece battezzare. Venne così a costituirsi la seconda provincia ecclesiastica inglese, la provincia di York. Tutto ciò però non ebbe grande durata, perché re Edvino morì in battaglia, sconfitto dal re pagano di Mercia e il cristianesimo non ebbe più possibilità di continuare.

Intorno a quegli stessi anni anche il Regno di Wessex si accostò al cristianesimo, riconoscendo il primato della provincia di Canterbury.

Il metodo missionario, che fu seguito da questi missionari romani, presenta due caratteristiche di spicco. Prima di tutto: si ebbe una preoccupazione forte di evitare le conversioni coatte. E’ vero che anche in Inghilterra in genere il movimento di conversione partiva dai re, ma in Inghilterra non si consentì che poi fossero gli stessi re a gestire tale movimento. Questa scelta pastorale ebbe due conseguenze: non ebbero molto spazio le conversioni di massa e non poterono formarsi chiese nazionali. In secondo luogo: fu praticato uno stile di grande moderazione secondo i suggerimenti di quel grande maestro di pastorale, che era Gregorio Magno. Abbiamo espressione di questo in una lettera, che Gregorio indirizzò ad Agostino, arcivescovo di Canterbury e a Mellito, vescovo di Londra: li invitava a non distruggere i bei templi pagani ma ad adattarli al culto cristiano; li invitava a cristianizzare le feste ed i riti locali, in cui venivano uccisi dei buoi in onore dei loro idoli, trasformandoli in banchetti da celebrare nelle feste del Signore e dei martiri: “Se si consentono agli uomini le gioie esterne, essi troveranno ancor più facilmente quelle interne. Non si può togliere tutto a dei cuori che non sono ancora aperti. Chi infatti vuole scalare un alto monte, non lo fa a salti, bensì passo dopo passo e lentamente” (MGH Ep II, 331).

Nella Northumbria si impiantò il cristianesimo alla maniera celtica. Dopo la morte del re Edvino si successero nel governo della Northumbria i suoi due figli: prima Osvaldo per otto anni e poi Osviu per quasi trent’anni. Questi due re si erano fatti cristiani durante il loro esilio in Caledonia tra gli Iri e i Pitti, che praticavano un cristianesimo di tipo celtico. Questo spiega come i due re fecero evangelizzare il loro regno da monaci irlandesi, provenienti dall’isola di Jona. L’influsso irlandese raggiunse anche i Regni di Mercia e di Essex, perché vennero a dipendere da quello della Northumbria.

La presenza di due sistemi di organizzazione e di vita ecclesiastica molto diversi, inasprita anche dall’ostilità che correva tra Anglosassoni e Bretoni, in un primo momento fu fonte di tensioni e di contrasti, ad esempio sulla data della Pasqua. Tuttavia molto presto ci si avvide che gli usi romani non potevano essere completamente disattesi e quindi si addivenne a una politica di dialogo e di reciproche concessioni, che determinarono un arricchimento globale della vita ecclesiale. In quest’opera di mediazione si distinse Teodoro di Tarso, arcivescovo di Canterbury dal 668 al 690, che fu riconosciuto e seguito da tutta la Chiesa inglese: uomo di grande dottrina, acquisita ad Atene, Teodoro si rivelò dotato anche da eccellenti doti organizzative.

L’unione tra la pietà irlandese e lo spirito romano dette presto i suoi frutti preziosi. Da una parte il severo ascetismo e la disciplina penitenziale irlandese dettero un incremento qualitativo e quantitativo alla presenza monastica in Inghilterra e questa presenza monastica mantenne indiscutibilmente il monopolio della cultura e della vita spirituale: si pensi che trentatre re e regine anglosassoni terminarono la loro vita in un chiostro; 23 re e 60 regine sono venerati come santi.

Dall’altra parte lo spirito romano conferì alla Chiesa inglese un carattere singolare: san Pietro divenne il santo nazionale; dall’Inghilterra partì un pellegrinaggio incessante ad limina sancti Petri; in Inghilterra si formò una cultura cristiano-anglosassone di fondazione romana, i cui capisaldi erano rappresentati dalla Collectio canonica di Dionigi il Piccolo, dalla regola di san Benedetto, dall’Ordo romanus.

Intorno agli anni 680 con la conversione del Sussex l’Inghilterra concludeva il suo cammino di conversione e subito dava avvio ad una importante azione missionaria sul continente tra i popoli germanici, che stavano nelle terre situate ad oriente del Reno. Protagonisti ne furono soprattutto due monaci anglosassoni, Villibrordo e Vinfrido, che avevano ereditato dagli irlandesi anche l’ardente desiderio della peregrinatio pro Christo.

 

6 – FRISI E GERMANI

Villibrordo negli anni 690-732 si dedicò alla evangelizzazione dei Frisi e Vinfrido-Bonifacio negli anni 718-754 si dedicò soprattutto alla evangelizzazione della Germania.

Ispirandosi alla azione missionaria, che era stata condotta nelle loro terre di provenienza a partire da Agostino di Canterbury, vollero agire da inviati del papa. Villibrordo infatti si fece dare il mandato da papa Sergio I, che poi lo consacrò arcivescovo dei Frisi con sede ad Utrecht (695). Vinfrido dal canto suo si fece dare da papa Gregorio II (718) il mandato di evangelizzare i Germani, assumendo il nome di Bonifacio. Per mano dello stesso Gregorio II Bonifacio fu consacrato vescovo nel 722, prestando al papa il giuramento di obbedienza, come erano soliti fare i vescovi suffraganei di Roma al papa loro metropolita. Nel 732 Bonifacio ottenne da papa Gregorio III il titolo di arcivescovo ed il pallio, infine nel 738 fu nominato delegato papale nelle Germanie.

Questo legame molto stretto con Roma significò il costituirsi di comunità ecclesiali germaniche e cattolico-romane.

Concludendo, possiamo dire che con l’evangelizzazione dell’Inghilterra, dei Frisi e dei Germani, si è venuta a creare in Occidente una base notevole di unità ideale, sulla quale si trovavano associati nella comune fede cattolico-romana sia i diversi popoli germanici sia i vecchi gruppi indigeni. In questo contesto il papato romano acquisì una posizione assai favorevole per sviluppare la sua azione primaziale e per assumere sempre più il ruolo di polo dell’universalismo medievale.

A dire il vero, sia la chiesa visigotica di Spagna sia la chiesa franca in Gallia, per il loro orientamento nazionalistico, stavano piuttosto ai margini di questa base unitaria cattolico-romana dell’Occidente. Ma presto la situazione mutò enormemente. Con la conquista araba del 711 la chiesa visigotica, pur non scomparendo totalmente, si trovò di fatto isolata dalla storia occidentale. Quando vi rientrerà, presenterà anch’essa una forte tinta cattolico-romana. Anche la chiesa franca conoscerà uno sviluppo in senso cattolico-romano sotto il dominio di Pipino il Medio e dei suoi discendenti. Pipino il Medio, infatti, si trovò a dovere appoggiare l’opera missionaria di Villibrordo, Carlo Martello estese l’appoggio anche a Bonifacio; tale legame non fu senza effetti sulla vita ecclesiale franca, La dimostrazione di ciò si ebbe sotto Carlomanno e Pipino il Breve, che negli anni 743-747 celebrarono diversi concili generali per la riforma della Chiesa franca e ne affidarono la direzione a Bonifacio: per questa via anche la chiesa franca si saldò alla chiesa romana con legami più stretti.

A questo punto l’Occidente è pronto per l’esperienza carolingia: accanto al papato, quale polo potenziale dell’universalismo medievale, si staglia sempre più l’altro polo potenziale dell’universalismo medievale: una potenza capace di imporsi oltre i propri confini nazionali e creare una assai più vasta unità politica, che per certi aspetti richiamerà la potenza dell’Impero romano. Certamente la comune base cattolico-romana contribuì a fare sì che questi due poli potenziali si affermassero non contrapponendosi, ma incontrandosi in stretta collaborazione.

Resta ora di spiegare come mai questa potenza si trovi nella parte settentrionale  invece che nelle regioni mediterranee, che invece nel V secolo vantavano una superiorità notevole nella compagine occidentale. La risposta sta nelle vicende che interessarono queste regioni nel corso del VI e del VII secolo.

Sinteticamente ricordiamo le tappe del declino dell’area mediterranea.

Per quanto riguarda l’Italia: la ventennale guerra gotica (535-553), condotta dalle truppe imperiali per la riconquista della penisola, provocò il tracollo dell’economia italiana, L’invasione longobarda del 568 non solo pregiudicò ogni possibilità di ripresa, ma anche comportò il crollo di tutto l’apparato socio-politico, che invece era stato mantenuto da Odoacre e dal regno visigoto di Teodorico.

Per quanto riguarda le regioni Sud-Occidentali, in particolare l’Italia mediterranea, la Spagna e l’Africa, che Giustiniano aveva riconquistato: le invasioni arabe della fine del VII secolo e dell’inizio dell’VIII sottrassero tali regioni alla civiltà occidentale.

Ridimensionato e decadente nella sua parte meridionale, l’Occidente trovò il suo nuovo centro di gravità in quelle aree settentrionali, che proprio allora stavano vivendo un momento di sviluppo (L GENICOT, Profilo della civiltà medievale, Milano 1968, 33-40).