venerdì 9 febbraio 2024

   100 anni fa: Achille Ratti


Si tratta di una raccolta di articoli divulgativi preparati per "ARMONIA", il bollettino della   parrocchia di Asso (Como) nel 2022 per il centenario della elezione papale di Achille Ratti, che considerava Asso sua seconda patria.

100 anni fa: verso la nomina di monsignor Achille Ratti ad arcivescovo di Milano

Le prime voci

Il 10 febbraio 1921 sul Corriere della sera viene pubblicato un articolo, in cui monsignor Achille Ratti viene presentato come “prelato molto quotato” per la successione al cardinal Ferrari, morto da soli pochi giorni (2 febbraio 1921). Non ci deve sorprendere più di tanto che se ne parli in tempi così rapidi, perché da più di due anni era noto a tutti che un cancro alla laringe stava devastando inesorabilmente l’arcivescovo di Milano. Credo che inevitabilmente con il passare dei mesi e con l’aggravarsi della situazione cominciassero a trapelare ipotesi circa la successione. Per ovvie ragioni queste ipotesi, come una sorta di fiume carsico, rimasero molto riservate. Quanto da mesi si sussurrava anche negli ambienti più significativi della vita ecclesiale non solo milanese ma anche romana, cominciò ad emergere con l’articolo del Corriere. Da lì allusioni, ipotesi, pronunciamenti cominciarono a dilagare da Milano verso Roma e verso la Polonia, dove monsignor Ratti viveva quale nunzio pontificio.

Come reagì monsignor Ratti a tutto questo?

La prima reazione

Il 3 aprile 1921 da Varsavia rispose ad una lettera, che un suo carissimo amico d’infanzia, il notaio Innocente Arnaboldi, gli aveva inviato da Desio il 21 marzo precedente. Rifacendosi alla figura del cardinal Ferrari, che l’amico gli aveva ricordato nel suo scritto, affronta esplicitamente la faccenda delle voci sulla sua nomina ad arcivescovo di Milano: “Egli (il cardinal Ferrari) ha tanto amato la nostra Milano ed ha talmente tutto sacrificato e consacrato al suo bene, che non è da dubitare continuerà ad averne cura ed a procurarle in luogo suo qualche cosa di meglio  che questa ormai vecchia carcassa alla quale vedo che tu pure come non pochi altri volgono il pensiero con una bontà ed una indulgenza, che, certamente non potrebbero essere per me più obbliganti, ma che hanno l’insanabile difetto congenito al cuore ed a quanto di esso solo procede, la cecità”.

“L’ormai vecchia carcassa”

Merita attenzione l’accenno alla “ormai vecchia carcassa”, che in altre lettere si trasforma nell’espressione “questo povero resto di vita”. A mio avviso, non è un espediente per schermirsi, ma è un modo arguto per segnalare due suoi dati personali, che secondo lui dovrebbero rendere improbabile la sua nomina.

Il dato delle sue condizioni fisiche: lui, che aveva affrontato scalate impegnative, si sentiva assai appesantito dal tempo passato in Polonia: sempre in questa lettera infatti si qualifica come “un vecchio alpinista da un pezzo passato alla territoriale”. Poi proprio in quei mesi ad accentuare in monsignor Ratti il senso del suo limite intervennero in  concomitanza cronologica, ma forse anche causale, un gravissimo peso morale e un problema di salute.

Lo smacco dell’Alta Slesia

L’animo del Nunzio era, infatti, assai provato dalla questione dell’Alta Slesia, che lo compromise agli occhi dei Polacchi. In questa regione abitata da tedeschi e polacchi doveva svolgersi un plebiscito per decidere se passare sotto Berlino o sotto Varsavia. Da un lato il governo polacco temeva che il clero di quel territorio, essendo all’80%  tedesco, influenzasse la popolazione verso la scelta tedesca e perciò chiese alla Santa Sede di nominare un Alto Commissario ecclesiastico, che garantisse l’imparzialità della Chiesa in tutto il processo plebiscitario. Dall’altro lato però l’arcivescovo di Breslavia, il cardinal Bertram, tedesco di origine e di sentimenti, si opponeva alla scelta di questo Alto Commissario, perché “commissariava” il suo potere ordinario di vescovo di quel territorio. La Santa Sede decise quindi una scelta di compromesso: nominò Alto Commissario monsignor Ratti, dando così al governo polacco una dimostrazione di attenzione alla sua richiesta. A monsignor Ratti però fu indicato di fare il meno possibile, di limitarsi a vigilare perché il clero non si coinvolgesse troppo nelle lotte politiche e così si intendeva mostrare al cardinal Bertram che si rispettava la sua autorità episcopale. L’Alto Commissario si attenne fedelmente all’indicazione pontificia, rimediandosi da parte polacca l’accusa di inazione e da parte tedesca l’accusa di essere un esponente di Varsavia, visto che la sua nomina era stata chiesta da Varsavia.

Le cose precipitarono, quando il 25 novembre 1920 il cardinal Bertram di sua iniziativa, senza nessun confronto con monsignor Ratti, decretò che solo il clero dell’Alta Slesia poteva trattare le questioni politiche in quel territorio. I polacchi, persuasi che il cardinale avesse operato con il consenso di monsignor Ratti e della Santa Sede, reagirono duramente, al punto che fu ventilata l’ipotesi della rottura delle relazioni diplomatiche. Monsignor Ratti si venne così a trovare nell’occhio del ciclone. La sofferenza maggiore gli veniva però dal comportamento di Roma:  prima la Segreteria di Stato, pur avendo qualche informazione sulle mosse del cardinal Bertram, ritenne di non avvalersi del suo parere, poi, scoppiato il caso, per diverso tempo lo si lasciò solo. Si coglie un’allusione a questo in una lettera indirizzata al cardinale Pietro Gasparri,  Segretario di Stato, datata 15 dicembre 1920: monsignor Ratti confessa che  sta chiudendo l’anno “con nessun altro conforto fuor quello (il più prezioso, è vero, ed essenziale) della coscienza del dovere fedelmente compiuto”.   In una lettera a monsignor Giuseppe Pizzardo, datata 29 dicembre 1920, monsignor Ratti lascia trapelare più ampiamente questa sua amarezza, ma anche manifesta una ammirevole profondità spirituale: “Il male (fisico e morale) che n’è venuto a me è gravissimo – lo sento – ma mi vergognerei di badarvi più che tanto e non ci bado affatto pensando ai danni suddetti e mi offro a Dio di soffrire di più grandi mali, se ha da essere per diminuire ed alleviare quei danni. Devo perdonare e perdono di cuore, perdono anzi con un certo intimo senso di gratitudine a chi – chiunque sia o siano – mi ha procurato la grazia di patire qualche cosa pro Christo et Ecclesia e posso ben dire (massime nei giorni testé passati) pro nomine Jesu contumeliam pati, giacché unì tutt’uno Gesù e il suo Vicario; perdono e sono grato a chi mi ha procurato (alla mia età, ma ancora, come spero, in tempo per profittarne) la grazia di una grande umiliazione, quest’uno tra i segni più certi dell’amicizia di Dio, che ancora indicava alla mia vita pur così colma di divine benedizioni. Nulla chiederò, nulla farò che possa menomarmi una così grande grazia ed il suo frutto”. Finalmente papa Benedetto XV in data 6 gennaio inviò a monsignor Ratti una lettera di stima, di vicinanza e di conforto.

Il problema di salute

Nel corso del mese di dicembre monsignor Ratti fu assalito da una forma influenzale, che descrive così: “variante di influenza, senza febbre né altre complicazioni, ma noiosa assai” (lettera del 6 febbraio 1921 ad Antonio Grandi): passò giorni allettato e impedito nella sua azione. Nella citazione della lettera a monsignor Pizzardo, che ho riportato sopra, questo male fisico viene da monsignor Ratti connesso con il male morale dello smacco dell’Alta Slesia.

Il povero resto di vita

Monsignor Ratti era sulla soglia dei 64 anni, quando girarono le voci sulla sua nomina ad arcivescovo di Milano.  Ora, la prassi, che allora veniva abitualmente seguita dalla Santa Sede, tendeva ad affidare le sedi episcopali importanti a persone più giovani, che avessero fatto prima una sorta di apprendistato come vescovi di sedi episcopali minori. Solo qualche esempio nel panorama italiano di quei tempi: il cardinal Ferrari divenne arcivescovo di Milano, quando non aveva ancora 44 anni; a quasi 40 anni era divenuto vescovo di Guastalla e a quasi 41 anni fu trasferito alla sede episcopale di Como. A Torino era arcivescovo il cardinal Agostino Richelmy, che aveva 46 anni al momento della nomina e prima era stato vescovo di Ivrea per quasi 11 anni. Il cardinal Pietro La Fontaine era stato nominato patriarca di Venezia all’età di 56 anni, ma a 46 anni gli era stata affidata la sede episcopale di Cassano Ionio. Il cardinal Alfonso Maria Mistrangelo divenne vescovo di Firenze a 47 anni, prima, a 41 anni, gli era stata affidata la diocesi di Pontremoli. Nel 1904, a 46 anni, don Alessandro Lualdi, che era stato amico e compagno di seminario di monsignor Ratti, fu chiamato a reggere la diocesi di Palermo.

Monsignor Ratti, siccome aveva un’età che non rientrava in questi parametri abitualmente applicati, sperava vivamente che le voci, che circolavano su di lui, venissero poi smentite dai fatti. E invece…

                                                                                  

100 anni fa: monsignor Achille Ratti nominato ufficialmente arcivescovo di Milano

I primi passi del processo di nomina

Il Corriere della sera il 3 aprile 1921 pubblicò un pezzo con questo titolo: “La nomina di monsignor Ratti ad arcivescovo sarebbe già decisa”. Sempre lo stesso quotidiano in data 5 aprile scriveva: “Mons. Ratti succede al Cardinal Ferrari”: il passaggio dall’uso del condizionale all’uso dell’indicativo mostra che la cosa era data oramai per certa. Con ogni probabilità in quegli stessi giorni monsignor Ratti ricevette a Varsavia la comunicazione riservata delle intenzioni del papa e monsignor Ratti con ogni probabilità sempre per canali riservati fece pervenire al papa le sue obiezioni personali. Monsignor Ratti ci fa intuire queste sue obiezioni nel suo dispaccio molto scarno del 21 aprile 1921, con cui rispose al cardinale Gasparri, Segretario di Stato, che gli dava comunicazione della nomina, che il papa stava per ufficializzare: “Ringrazio s. Padre grato confuso tanta bontà sempre disposto ad ubbidire: ma per dir quanto non ho idea di governo diocesi e temo poca soddisfazione clero milanese numerante anche in episcopato molti migliori idonei. Attendo annunciato dispaccio, Ossequi. Nunzio Ratti”. Sinceramente ed umilmente monsignor Ratti faceva presente alla Santa Sede che il cammino da lui percorso fin lì lo aveva impegnato su fronti, che non avevano un’attinenza diretta con il ministero episcopale da esercitarsi per di più in una grande arcidiocesi: come Dottore della Biblioteca Ambrosiana (1888 – 1907) e poi come suo Prefetto (1907 – 1914) si era occupato di studi storici su testi antichi; aveva continuato ad occuparsi di questo settore come Prefetto della Biblioteca Vaticana (1915-1919); era stato poi chiamato a impegnarsi sul fronte della diplomazia pontificia in Polonia prima come Visitatore Apostolico e poi come Nunzio Apostolico (1918 – 1921). Realisticamente monsignor Ratti riteneva pure che la sua nomina ad arcivescovo di Milano avrebbe incontrato insoddisfazione anche a Milano. Probabilmente monsignor Ratti stesso riteneva più idonei altri presbiteri milanesi, che già da qualche anno esercitavano il ministero episcopale in sedi minori e che poi lui da papa, chiamò a sedi episcopali più prestigiose. Per esempio nutriva una grande stima per monsignor Eugenio Tosi, che dal 1917 era vescovo di Andria e infatti, divenuto papa, lo chiamò a succedergli sulla cattedra di Milano. Nutriva anche una grande stima per monsignor Dalmazio Minoretti, che dal 1915 era vescovo di Crema e che poi lui da papa nel 1925 trasferì alla sede arcivescovile di Genova.

Un rallentamento nel processo di nomina

Il 17 aprile il Corriere della sera pubblicò un articolo, in cui si segnalava che la Santa Sede stava tardando a rendere ufficiale il trasferimento di monsignor Ratti da Varsavia a Milano per divenirne arcivescovo. Lo stesso monsignor Ratti il 27 aprile in una sua lettera a monsignor Giuseppe Pizzardo confidava che stava vivendo un momento di “sospensione, che non è lo stato più piacevole, ha però il merito di lasciarmi ancora un filo di speranza che si voglia formalmente provvedere alla mia cara Milano con qualcosa di meglio che questo povero resto di povera vita…”. Dobbiamo quindi ritenere che il dispaccio con la notizia ufficiale, che avrebbe dovuto fare seguito alla comunicazione riservata del 21 aprile, non fu rapido quanto avrebbe dovuto esserlo. Come spiegare tutto questo? Può esserci di aiuto prestare attenzione alle parole, che monsignor Ratti utilizzò per parlare della sua nomina in una sua lettera del 21 maggio indirizzata a Giacomo Boni, insigne architetto e archeologo suo amico: “Delle cose mie che dirle? Dico col buon San Martino: non recuso laborem, per quanto nuovo, infinito ed immane. Non voglio neanche confondermi troppo, né per la dignità pastorale, né per l’onore cardinalizio: con la prima l’Augusto Pontefice ha voluto soddisfare al desiderio di tanti buoni, troppo buoni per me; col secondo ha voluto fare un gesto di sovrana cortesia a questa nobile Polonia, di fresco risorta e ancora tanto travagliata ed alla mia cara città e Chiesa di Milano”.

A scrivere queste parole era una persona, che, sia per la sua precedente professione di studioso ed editore di testi antichi sia per il suo attuale ruolo di diplomatico della Santa Sede, era molto attenta a soppesare e calibrare l’uso delle parole: perciò tento di interpretare il rallentamento del processo di nomina, avvalendomi di esse. Monsignor Ratti in maniera evidente sottolineò che si trattò di una nomina complessa, perché doveva tenere conto con grande equilibrio di due dati: il dato della prestigiosa e impegnativa Chiesa di Milano, alla quale bisognava dare un arcivescovo e il dato delle relazioni diplomatiche con lo stato polacco, che in quel momento erano in difficoltà grave.

Monsignor Ratti sostenne che per quanto concerneva la nomina alla dignità pastorale di arcivescovo il papa procedette, trattandola come questione totalmente a sé stante, per quanto invece concerneva l’elevazione cardinalizia  il papa avrebbe intrecciato insieme i due aspetti, Polonia e Milano. Quindi il trasferimento del Nunzio Apostolico in Polonia alla sede arcivescovile di Milano non può e non deve essere interpretato come un “promoveatur ut amoveatur” (= sia promosso affinché sia rimosso). Il papa non poteva e non volle certamente trattare la diocesi di Milano come merce di scambio per appianare una tensione diplomatica con la Polonia e per salvaguardare l’onore della persona del Nunzio Ratti, che veniva trasferito. Certamente la Santa Sede per venire incontro alla richiesta polacca di allontanamento del Nunzio, salvaguardandone però l’onore, avrebbe potuto ricorrere a soluzioni di alto profilo senza mettere in campo la sede arcivescovile di Milano. Avrebbe potuto per esempio richiamare monsignor Ratti in Vaticano per affidargli qualche prestigioso incarico nell’apparato della Santa Sede; oppure avrebbe potuto trasferirlo ad una Nunziatura più importante. Magari interpreto male, ma personalmente ritengo che proprio in quei giorni la Santa Sede volle dare un segno per dimostrare che nel caso di monsignor Ratti non si voleva percorrere la strada del “promoveatur ut amoveatur” . Il segno è questo: sempre nella lettera del 27 aprile indirizzata a monsignor Giuseppe Pizzardo, monsignor Ratti aggiunse un post scriptum, in cui accennava al suo titolo di arcivescovo di Lepanto, che sarebbe stato trasferito a monsignor Tedeschini, che avrebbe dovuto essere inviato come Nunzio in Spagna. Con questo provvedimento la Santa Sede voleva forse dichiarare che monsignor Ratti, arcivescovo titolare di Lepanto, avrebbe ricoperto benissimo l’incarico in Spagna, ma altri erano per lui i progetti del papa? Con monsignor Ratti dobbiamo anche noi essere persuasi che il papa lo volle a Milano per considerazioni strettamente ed esclusivamente legate a Milano.

Ci conferma in ciò un cambiamento che nel giro di poche settimane avvenne sul fronte delle valutazioni, che venivano date a proposito del Nunzio monsignor Ratti. Il governo polacco, che in un primo momento aveva chiesto l’allontanamento del Nunzio, perché lo accusava di posizioni filotedesche per via della faccenda dell’Alta Slesia, nel corso del mese di gennaio cominciò a mostrare nei confronti di monsignor Ratti un atteggiamento di riguardo. In data 18 gennaio 1921 monsignor Ratti inviò alla Segreteria di Stato un rapporto di nunziatura, in cui  informava la Santa Sede che “…circa le cose dell’Alta Slesia gli umori sembrano alquanto calmati (per quel che mi riguarda personalmente ne ebbi un sintomo nella lunga e cordiale visita fattami l’altra domenica dal ministro degli Esteri, che anche nel corso della conversazione mi mostrò inalterata la deferenza e la confidenza solita, entrandomi anche in argomenti molto riservati…”. Anche nella stessa Segreteria di Stato c’era chi riteneva opportuno che la Santa Sede revocasse l’incarico a monsignor Ratti, perché lo riteneva inadeguato al ruolo, dal momento che non disponeva di una specifica preparazione all’attività diplomatica. Infatti, in una sua lettera del 29 dicembre 1920 indirizzata all’amico monsignor Giuseppe Pizzardo, monsignor Ratti faceva capire chiaramente che in Segreteria di Stato c’era qualcuno, che snobbava il suo operato: “Nel disgraziatissimo caso nostro poi mi sembra così evidente che non le cose ma gli uomini hanno tutto fatto e preparato… Ma non posso non pensare che bastava che non mi si fosse prima sistematicamente diffidato (lo dice il tono di certi dispacci e telegrammi) e poi completamente ignorato e dimenticato (e proprio quando ero in Alta Slesia a due passi dal card. Bertram), bastava che mi si fosse passata una parola sola perché nulla avvenisse di quanto è avvenuto. Certo basta vedere nei miei rapporti le pratiche da me avviate per comprendere che il decreto del card. Bertram era, me consapevole, impossibile in quella forma. Ho accennato qui sopra a certi dispacci e telegrammi che con poca o nessuna dissimulazione mi supponevano o sospettavano infedele alle istruzioni avute, al dovere di imparzialità, ecc., credetti (e già glielo accennavo) di aver risposto troppo… chiaramente, vedo adesso che allora e in tutti i miei rapporti (ma chi li ha letti o presi sul serio? E dire che io stesso ci spendevo la notte, non potendo il giorno!) avrei dovuto forse parlare molto più… charamente…”. Ma anche a Roma con il passare delle settimane mutò fortemente l’atteggiamento nei confronti di monsignor Ratti. Ce ne dà riscontro una lettera, che monsignor Ratti il 18 gennaio 1921 inviò al cardinal Gasparri per ringrazialo, perché  gli aveva fatto pervenire un dispaccio di encomio: “Esso ha per me nel mio foro interiore, un valore inestimabile come conferma autentica al testimonio della coscienza e come voce che mi viene da Dio, mentre mi viene da un Superiore che così altamente me lo rappresenta come l’E.[minenza] V.[ostra] R.[verendissima] e dello stesso suo Vicario in terra”. Visto che la tensione sul fronte diplomatico si stava sgonfiando, la Santa Sede avrebbe potuto decidere di lasciare monsignor Ratti a Varsavia, ma papa Benedetto XV era deciso nel volere Ratti a Milano comunque, perché lo riteneva la persona giusta per Milano.

Anche nella elezione cardinalizia la Santa Sede operò con saggezza ed equilibrio. Infatti, nel concistoro del 13 giugno si procedette in due momenti: prima il papa con gesto di sovrana cortesia verso la Polonia elevò alla dignità cardinalizia monsignor Ratti, arcivescovo titolare di Adana e Nunzio apostolico in Polonia; poi nominò ufficialmente arcivescovo di Milano il cardinale Ratti, riservando alla diocesi di Milano un gesto di sovrana cortesia, perché le dava un cardinale come arcivescovo.

Si capisce quindi che per comporre questo processo piuttosto articolato i tempi non poterono essere rapidi.

Come monsignor Ratti visse questo processo sul versante delle relazioni con la Polonia

Alcune lettere di monsignor Ratti ci consentono di intravedere con quale atteggiamento interiore visse la questione del suo allontanamento dalla Nunziatura di Varsavia, che era richiesto sia dal governo polacco, che lo riteneva responsabile delle posizioni assunte in Alta Slesia dal cardinale Bertram, sia da qualche ufficiale di spicco della Segreteria di Stato.

Ho citato prima l’autodifesa, che monsignor Ratti sostenne in un suo scritto confidenziale all’amico monsignor Giuseppe Pizzardo: fu un’autodifesa molto dura nei confronti di alcuni esponenti della Segreteria di Stato. Scrivendo invece al suo Superiore, il papa, monsignor Ratti mostrò chiaramente che per facilitare la strada alla composizione della tensione con il governo polacco era disposto ad assumersi tutta la responsabilità dell’accaduto e ad accettare ogni decisione, che ritenessero di dover prendere nei suoi confronti: il bene della Santa Sede e dell’amata Polonia in lui prevaleva su ogni considerazione personale.

Ecco quel che scrisse a papa Benedetto XV nel dicembre 1920: “Dopo aver fatto quanto era in me e da me dipendeva, le cose (certo per i peccati miei e per la mia inettitudine) sono andate male e mi spiace profondamente, inconfondibilmente, per il modo onde la Santa Sede venne coinvolta nell’incidente stesso, per il dispiacere che ne dovette risalire al cuore della Santità Vostra e per il turbamento di tante anime ed anche, oso dire, dei buoni rapporti fra la Santa Sede e la Polonia, buoni rapporti ai quali da quasi tre anni coscienziosamente ho lavorato”.

Ma, come ho sopra accennato, con il passare delle settimane sia a Roma sia a Varsavia mutò l’atteggiamento nei confronti di monsignor Ratti.

Finalmente la decisione

Sempre il Corriere della sera in data 10 maggio 1921 mostrò di essere bene informato, pubblicando un articolo intitolato: “Monsignor Ratti arcivescovo e cardinale / L’annuncio ufficioso”.

Il 22 maggio il vicario capitolare canonico Giovanni Rossi inviò una lettera ai Parroci della Città e Diocesi di Milano, in cui annunciava l’elezione del nuovo arcivescovo: “Habemus Pontificem! Ecco la lieta novella che oramai posso darvi con certezza: S. E. Ill.ma e R.ma Mons. Achille Ratti è eletto nostro Arcivescovo e sarà elevato alla S. Porpora; lo stesso Santo Padre si è degnato di assicurarcene con un affettuoso telegramma, al Ven. Capitolo Metropolitano in data di ieri. Abbiamo dunque il nostro Padre e Pastore, che ci deve condurre per le rette vie della giustizia: e nel prossimo Concistoro del 13-16 giugno sarà solennemente proclamato Arcivescovo di Milano e creato Cardinale di S. Romana Chiesa: esultiamo e rallegriamoci nel Signore…”.

Ho prima citato una lettera di monsignor Ratti indirizzata all’amicoGiacomo Boni, in cui si espresse senz’altro con la certezza della nomina: reca la data del 21 maggio, la stessa del telegramma papale inviato al Capitolo Metropolitano di Milano.

Riporto per esteso quanto scrisse sul Liber chronicus della parrocchia di Asso il parroco di allora, don Rodolfo Ratti, primo cugino del nuovo arcivescovo: “Exultemus! Mons. Ratti Achille, Arcivescovo di Lepanto prima, di Adana poi, Visitatore Apostolico della Polonia (in verità Nunzio apostolico della Polonia dal 1919), è nominato arcivescovo di Milano! Ne viene data comunicazione alla Diocesi da S. Ecc. Mons. Rossi, Vicario Capitolare con notificazione del 22 maggio: in data 13 Giugno, nel Concistoro che sarà tenuto a Roma dal Santo Padre, verrà creato Cardinale di S. Romana Chiesa. Dire l’esultanza di Milano, di Asso che lo aveva tutti gli anni ospite presso lo zio Prevosto D. Damiano Ratti durante le vacanze estive, è impossibile e non troviamo parole adatte ad esprimerla. Qui si dice da tutti: Don Achille Arcivescovo di Milano e Cardinale! Non pare vero: è così popolare, conosciuto in mezzo a noi, che ben difficilmente ci abitueremo a chiamarlo: Eccellenza, Eminenza! Per noi: sempre Don Achille!  Per il Concistoro del 13 Giugno sarà a Roma anche il Prevosto di Asso, primo cugino germano di S. Eminenza: vi rappresenterà anche la parrocchia…”.


100 anni fa: da Varsavia a Roma

Quando divenne di dominio pubblico che papa Benedetto XV il 13 giugno 1921 avrebbe conferito a monsignor Ratti la dignità cardinalizia e lo avrebbe ufficialmente nominato arcivescovo di Milano, ovviamente a Varsavia cominciarono sia le operazioni di chiusura della attività diplomatica da parte del Nunzio sia le operazioni di congedo da parte sia della Chiesa polacca e da parte del governo polacco.

Il congedo della Polonia da monsignor Ratti

Il saluto corale e solenne della Polonia nella sua globalità ecclesiale e civile si tenne il 26 maggio: monsignor Antonio Farolfi, segretario di nunziatura a Varsavia, ci ha lasciato una minuziosa relazione di questo evento.

Si scelse quella data, perché quell’anno coincideva con la festa del Corpus Domini, che, come annota monsignor Farolfi nella sua relazione, “è stata sempre in Polonia una Festa religioso-nazionale; ora che la Polonia è libera da ogni dominazione straniera viene celebrata ancora con maggiore solennità e letizia…  come raramente si può incontrare in altri luoghi”.

Il nostro relatore ci dà notizia di questa coincidenza: “Degno di rilievo è pure il fatto che S. E. il Nunzio Apostolico proprio 3 anni fa, ossia il 29 maggio 1918, arrivato appena il giorno precedente colla missione di Visitatore apostolico della Polonia, si presentava al pubblico della Capitale polacca appunto col partecipare come celebrante alla processione del Corpus Domini”.

Dalla relazione traspare con chiarezza che il saluto di congedo fu sì collocato in un contesto di singolare solennità per la nazione e per la Chiesa polacca, ma si ebbe la rigorosa attenzione a riservare il primato e la centralità  alla celebrazione del Sacramento eucaristico.

Prima il Nunzio apostolico celebrò nella cattedrale di Varsavia la solenne messa pontificale, alla quale assistettero l’arcivescovo, il cardinale Aleksander Kakowski, il Capo dello Stato, Józef Klemens Piłsudski , buona parte del Corpo Diplomatico, rappresentanze del Governo, del Parlamento (Sejm) e di tutti gli ordini sociali.

Poi verso mezzogiorno cominciò la solenne processione, alla quale presero parte  innumerevoli confraternite, istituti, società, scuole maschili e femminili. Lungo tutto il percorso erano schierate le truppe delle guarnigioni sia per garantire l’ordine pubblico sia per onorare il passaggio dell’Eucaristia, presentando le armi. I canti eucaristici venivano alternati con brani musicali eseguiti da tre bande militari. Lungo il percorso il Nunzio fu assistito a turno dalle personalità più distinte della capitale, che gli reggevano le braccia nel portare il grandioso ostensorio: “così la politica, la scienza, l’amministrazione cittadina e l’esercito facevano a gara nel rendere questo omaggio a Gesù in Sacramento”.

Mons. Ermenegildo Pellegrinetti, uditore di nunziatura a Varsavia, nei suoi diari relativi ai suoi anni di servizio in Polonia (1919-1922) ci informa delle altre iniziative, con cui in Polonia si volle salutare il Nunzio in partenza.

Il vice decano del Corpo diplomatico con la collaborazione del ministro plenipotenziario degli Stati Uniti, Hugh Simons Gibson, organizzò un banchetto d’addio, che ebbe un notevole calore d’affetto. Anche il governo polacco volle onorare monsignor Ratti con un banchetto di congedo. A sua volta il capo dello Stato volle trattenersi personalmente con il Nunzio, invitandolo ad una colazione riservata.

Il clero della capitale, capeggiato dal cardinale Arcivescovo, organizzò un momento solenne di congedo, offrendo come ricordo una riproduzione in bronzo della colonna di Sigismondo III, opera del prestigioso orefice Gontarenegk. Il cardinale arcivescovo poi, insieme con due prelati (mons. Ladislao Kempinski e mons. Eusebio Brzeziewicz), che erano legati al Nunzio da stretta amicizia, volle scortare mons. Ratti fino a Roma. Il 4 giugno convennero alla stazione di Varsavia i più insigni rappresentanti del clero, del governo, della cittadinanza, del Corpo Diplomatico per salutare la partenza del Nunzio, che avvenne alle ore 21 circa. Per il viaggio il governo polacco gli mise a disposizione un vagone speciale.

Nei mesi successivi furono tributati a monsignor Ratti due atti di grande deferenza: il 9 novembre 1921 la Facoltà teologica di Varsavia proclamò il card. Ratti dottore ad honorem di Diritto canonico; qualche settimana dopo, il 22 gennaio 1922, il Capo dello Stato polacco insignì il cardinal Ratti della massima onorificenza polacca, l’Ordine dell’Aquila Bianca. La consegna avvenne il 2 febbraio 1922, quando il cardinal Ratti aveva raggiunto Roma per il conclave.

A fronte di queste notizie, che forse possono apparire eccessive, noi saremmo portati a concludere che nei vari ambienti polacchi si erano pienamente ristabilite la stima e la fiducia nei confronti del Nunzio e che il saluto, che gli fu prestato, non fu affatto una formalità di cortesia diplomatica. Ma seri dubbi su questa nostra conclusione vengono sollevati dal salesiano padre Hlond, che era legato a monsignor Ratti da rapporti di amicizia e che poi da monsignor Ratti, divenuto papa, sarà elevato alla dignità episcopale e cardinalizia. In una lettera, indirizzata a padre Genocchi, visitatore apostolico in Ucraina, così si espresse: “Mons. Ratti è partito (nonostante l’apparenza benevola e cortesissima) non riabilitato nell’opinione pubblica e nemmeno nel giudizio dell’Episcopato, che pure a lui deve la ricostituzione e l’aumento della antica Gerarchla. E così via. Rincresce!”.

In Polonia i sentimenti nazionalistici erano così accesi da prevalere su tutto: i vari nazionalismi (polacco, tedesco, ucraino, lituano) prevalevano sulle spinte al dialogo e alla cooperazione, che venivano dalla fede cattolica; i vari nazionalismi nel caso di monsignor Ratti resero particolarmente difficile una valutazione razionale, obiettiva del suo operato nell’affare dell’Alta Slesia. Merita certamente di essere ripresa questa considerazione, con cui lo storico Roberto Marozzo della Rocca conclude un suo studio sul periodo polacco di monsignor Ratti: “Ratti lasciava la Polonia dopo una missione tormentata, dall’esito apparentemente infelice. Dalla lunga parentesi polacca aveva indubbiamente tratto una conoscenza nuova dell’Europa. La distinzione fra patriottismo e nazionalismo sarebbe stata assai più netta nella mente del futuro papa. La lezione principale dell’esperienza in Europa orientale era infatti per Ratti la presa di coscienza del pericolo costituito dai nazionalismi, e per la Chiesa cattolica e per la pace tra i popoli : le furiose lotte tra polacchi, tedeschi, ucraini, lituani, russi avevano segnato il rappresentante pontificio… Fino all’ultimo Ratti aveva continuato a stimare e lodare l’incrollabile fede cattolica dei polacchi, la convinzione e la coralità con cui veniva professata, ma ne aveva anche, nel frattempo, intravisti i legami non sempre limpidi con l’altra fede polacca, quella della nazione”.

Il congedo di monsignor Ratti dalla Polonia

Monsignor Ratti, quando fu informato che il papa avrebbe reso ufficiale la sua elevazione cardinalizia e la sua nomina ad arcivescovo di Milano in un concistoro, che si sarebbe tenuto il 13 giugno, avvertì con estrema chiarezza che doveva programmare con rapidità il suo rientro in Italia: infatti stabilì di partire il 4 giugno.

Dovette pertanto rinunciare ad alcuni impegni, che gli stavano molto a cuore. Era, infatti, suo desiderio visitare alcune zone, in cui non si era ancora recato. Avrebbe anche avuto a cuore di organizzare un incontro con tutti i vescovi di tutti i riti. Gli sarebbe piaciuto inoltre perfezionare le trattative in corso con il governo polacco, che stava perseguendo una grande riforma agraria, che avrebbe coinvolto anche latifondi di proprietà ecclesiastica. Infine stava lavorando per giungere a un Concordato tra la Santa Sede e lo Stato polacco. Ma non ne ebbe più il tempo!

Monsignor Ratti, da persona di grande umanità qual era, si premurò di dare un segno forte della sua stima, della sua riconoscenza a due persone, che gli erano state vicine nel suo lavoro di Nunzio. La prima di queste due persone era monsignor Ermenegildo Pellegrinetti, che, quale Uditore delle Nunziatura, fu il suo più stretto collaboratore: con solerzia e intelligenza curò il disbrigo delle incombenze diplomatiche e da conoscitore della lingua polacca prestò al Nunzio un aiuto eccezionale nei rapporti con il variegato mondo polacco. Monsignor Ratti conservò una viva memoria di questo collaboratore, tant’è che, diventato papa, lo elevò prima alla dignità di Arcivescovo e lo inviò come Nunzio in Jugoslavia (1922-1937) e poi nel 1937 lo chiamò a fare parte del collegio cardinalizio.

La seconda persona, alla quale monsignor Ratti si preoccupò di lasciare un forte segno di stima, era monsignor Ignazio Klopotowski del clero di Varsavia: monsignor Ratti ne segnalava i meriti pastorali (era parroco di san Floriano, una parrocchia di 40.000 abitanti ed era responsabile del distretto di Praga, un’area di Varsavia che contava 90.000 abitanti), ne segnalava anche i molteplici meriti culturali, ma soprattutto segnalava la sua coraggiosa difesa dell’operato del Nunzio: “… singolari prove di amicizia verso la Nunziatura e di devozione verso la Santa Sede virilmente date da Mons. Klopotowski, dando un esempio da troppo pochi imitato durante i torbidi incidenti dell’Alta Slesia” (lettera al cardinal Pietro Gasparri del 26 maggio 1921). Pertanto monsignor Ratti pregò il cardinale Segretario di Stato di ottenere dal santo Padre la promozione di ambedue alla dignità della Prelatura domestica.

Tornando in Italia, monsignor Ratti portò con sé un grande attaccamento affettuoso alla Polonia, che manifestò poi in vari modi negli anni del suo pontificato. Nel 1925 autorizzò la firma di quel Concordato, per il quale da Nunzio aveva cominciato a lavorare. Seguì con particolare attenzione gli interventi della Santa Sede, che concernevano l’organizzazione, le nomine episcopali e la vita delle diocesi polacche. Nel 1938 celebrò la canonizzazione del beato Andrzej Bobola, un gesuita polacco, che nella prima metà del Seicento esercitò opera missionaria soprattutto in Lituania per riportare alla Chiesa Cattolica i cristiani dell’Ortodossia e fu martirizzato dai Cosacchi. Con ogni probabilità su richiesta di Pio XI nelle Grotte Vaticane venne allestita una cappella dedicata alla Madonna di Częstochowa. Inoltre volle che sulle pareti della cappella papale di Castel Gandolfo venissero rappresentate alcune scene della storia della Polonia, tra cui un dipinto che ricordava “il miracolo della Vistola”, cioè la vittoria dell’esercito polacco sulle truppe bolsceviche, avvenuta proprio il giorno della festa dell’Assunta del 1920.

“L’appropriazione” di fede della sua nomina

Certamente nelle settimane di quei mesi di aprile e di maggio monsignor Ratti dedicò la sua meditazione su quanto il papa gli stava chiedendo per maturarne una comprensione di fede e quindi per giungere ad una piena adesione di fede. Poi, certamente, in questo orizzonte di fede, che gli diveniva sempre più chiaro, cominciò anche a sviluppare qualche considerazione sul ministero episcopale, che avrebbe dovuto mettere in atto.

Mi lascio aiutare da alcune confidenze, che espresse in lettere, che in quell’arco di tempo indirizzò ad alcuni amici: la già citata lettera del 21 maggio a Giacomo Boni, la lettera del 30 maggio ad Antonio Grandi, la lettera del 30 maggio al prevosto Carlo Pellegrini.

C’è un dato, che monsignor Ratti ci tiene a dichiarare a se stesso e agli altri: nel processo, dal quale è scaturita la sua elezione cardinalizia e la sua nomina ad arcivescovo di Milano, non c’è stato da parte sua nessun intervento per favorire tali decisioni: “Assente fu ogni volontà mia, ed ogni mia possibilità di scelta” (lettera a Giacomo Boni del 21 maggio); “… assenza assoluta alla mia volontà ed opinione (né interpellata prima né poi ascoltata nelle sommesse osservazioni che mi parevano coscienziosamente doverose)” (lettera al prevosto Pellegrini del 30 maggio); “… né fui interrogato prima né fui ascoltato dopo” (lettera ad Antonio Grandi sempre del 30 maggio). Quindi dobbiamo riconoscere che monsignor Ratti non prestò il fianco ad  ambizioni di carrierismo ecclesiastico, dandosi da fare per attirare l’attenzione su di sé, per segnalare suoi pregi e suoi meriti, per brigare presso quelle sedi decisionali, con le quali abitualmente trattava per via del suo ruolo di Nunzio Apostolico. Anzi, quando gli fu concesso di dire la sua non appena fu informato delle intenzioni del papa, si manifestò solo preoccupato di segnalare ai Superiori la sua inadeguatezza. Dunque monsignor Ratti non si lasciò comandare dall’ambizione di carriera, ma dall’ubbidienza gerarchica. L’ubbidienza gerarchica non è quella, che si pratica all’interno degli apparati organizzativi umani e che consiste nel rispettare i vari livelli di comando. L’ubbidienza gerarchica è quella che legge e riconosce l’organizzazione della Chiesa dentro il Mistero dell’azione di Dio nella vita del suo popolo e quindi connette senz’altro alla volontà di Dio le decisioni dei Superiori, in questo caso del Papa. Questo modo di intendere le cose, spinse monsignor Ratti a coniare una espressione molto curiosa: “Quando non si tratta che di ubbidire, mi par di valere per due…” (lettera a Giacomo Boni del 21 maggio e lettera ad Antonio Grandi del 30 maggio). Quale senso attribuisce a questa espressione curiosa? Monsignor Ratti lo manifestò nella lettera a Giacomo Boni: “”Quando non si tratta che di ubbidire, mi par di valere per due… Ed è proprio così: per me e per chi mi comanda”: obbedendo, obbedisce per sé ed obbedisce anche per il papa, perché con la sua personale obbedienza porta a piena attuazione quel che la volontà di Dio ha ordinato al papa.

Certo di non avere nessuna responsabilità personale nella sua nomina, monsignor Ratti sviluppò questa considerazione: “Chi ne ha responsabilità, si sentirà senz’altro impegnato a fare la sua parte”. Siccome era persuaso che la responsabilità prima spettava a Dio, monsignor Ratti attribuì a Dio questa parte: “Dio ha voluto così, sia fatta la sua santa volontà; Egli sa perché permette che certe cose avvengano; Egli (sa) come guidare gli eventi e cavarne bene mediante la sua grazia ed il suoi aiuto anche quando l’istrumento da lui scelto sembra il più inetto, anzi più allora. La assenza assoluta alla mia volontà ed opinione … mi fa più certa ed evidente la volontà di Dio e questa certezza evidente mi mette in cuore  una grande calma e fiducia pur vedendo e sentendo tutta la gravità del momento con le formidabili responsabilità e la mole del lavoro che m’annuncia”(lettera al prevosto Pellegrini del 30 maggio). Dante direbbe: “E ‘n la sua volontade è nostra pace” (verso 84 del III canto del Paradiso). Monsignor Ratti attribuiva una qualche responsabilità nella sua nomina anche a tanti amici di Milano, che avevano manifestato alla Santa Sede il loro apprezzamento per la sua persona e quindi si aspettava anche da costoro un impegno di preghiera: “…onori e dignità affatto immeritati e da confondermene, carico e lavoro formidabili; ma è maggiore il diritto più fondata la fiducia negli aiuti divini ed umani, più apposto le responsabilità” (lettera a Antonio Grandi del 30 maggio).  

Vescovo padre

In quelle settimane di maggio monsignor Ratti sentì crescere in sé l’atteggiamento spirituale fondamentale, con cui avrebbe vissuto il suo ministero di arcivescovo: “Ormai non desidero che di essere così: mi riempie il cuore e l’anima un sentimento nuovo di alta e tenera paternità che mi rende ancora più care le antiche amicizie ancora più prezioso il conforto di poter contare su di esse…” (lettera a Antonio Grandi del 30 maggio): “alta e tenera paternità”, dunque monsignor Ratti si lasciò dire l’animo, con cui fare il vescovo, da un modo molto mistico di pensare la Chiesa: famiglia di Dio più che societas perfecta. Questa interpretazione “paterna” del ministero episcopale, fa presagire lo stile, che monsignor Ratti adotterà: non un vescovo, che guiderà la diocesi dal centro, proponendo orientamenti pastorali, emanando disposizioni canoniche, decidendo le nomine, ma un vescovo che guiderà la diocesi, assicurando da padre presenza, vicinanza, relazioni immediate sull’ampio territorio della diocesi. Mi verrebbe da dire che questa intenzione di un notevole dinamismo di vicinanza, potrebbe suggerire una particolare reinterpretazione del motto episcopale, che  monsignor Ratti aveva adottato, quando il papa Benedetto XV lo aveva elevato alla dignità di arcivescovo di Lepanto (3 luglio 1919): “Raptim transit” (=in fretta passa). Probabilmente monsignor Ratti scelse questo motto per via di quel “raptim”, che per assonanza richiamava il suo cognome. Ma facendo il vescovo in Polonia prima e a Milano poi, monsignor Ratti con il suo notevole dinamismo pastorale valorizzò decisamente il “transit”. Questo stile pastorale all’insegna della vicinanza e della relazione paterna era raccomandato dalla situazione molto problematica, che  la gente stava vivendo in quegli anni di dopoguerra, di dopo epidemia (la spagnola), di turbolenza politica, di agitazioni economico-sociali.  

Ratti e Contardo Ferrini

Nella lettera del 30 maggio al prevosto Pellegrini poi si spinse fino ad assumersi due impegni precisi per il suo ministero episcopale incipiente. L’amico don Carlo Pellegrini stava promuovendo la causa di beatificazione di Contardo Ferrini (1859-1902) e aveva anche curato l’edizione di alcuni suoi scritti. Monsignor Ratti, che aveva avuto rapporti personali con il Ferrini, nutriva nei suoi confronti stima e venerazione. Ritenne senz’altro, quindi, che da arcivescovo sarebbe stato suo dovere spingersi più oltre, mettendo in campo la sua autorità per fare procedere e portare a termine la causa di beatificazione: “E’ superfluo dire che la causa da te a tanto buon diritto detta tua e anche a me sempre tanto cara è ora diventata causa anche mia e Dio ne conceda presto di condurla ad esito felice. Contardo mi introduceva e presentava primamente all’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere; quanto sarei felice di efficacemente cooperare a presentarlo, come tu vieni strenuamente facendo, alle supreme sanzioni della Chiesa prima e poi al culto dei fedeli…”.

Non si limitò a questo, decise anche di eleggere Contardo Ferrini al ruolo di quasi titolare del suo ministero di arcivescovo: “Mi raccomando particolarmente a Contardo Ferrini e lo costituisco quasi titolare di quest’ultima e più importante fase della mia vita”.

Lasciata Varsavia il 4 giugno, in tarda serata, monsignor Ratti raggiunse Roma, dove prese alloggio presso il Pontificio Seminario Lombardo, che allora aveva la sede in via del Mascherone.


100 anni fa: le solenni celebrazioni romane

Il concistoro segreto del 13 giugno 1921

Come era stato stabilito, lunedì 13 giugno, si tenne il Concistoro segreto, al quale papa Benedetto XV aveva assegnato due scopi: completare il Collegio cardinalizio e assegnare nuovi Pastori, alle Chiese che ne erano rimaste prive. Prima però, secondo consuetudine, il papa volle intrattenere i cardinali presenti su “alcuni importanti affari”, che riguardavano il governo della Chiesa Cattolica. La prima attenzione fu riservata alla Palestina, dove era in atto sia una tendenza a marginalizzare la presenza cattolica sia una tendenza degli ebrei a occupare i Luoghi santi della cristianità, trasformandoli anche in ritrovi di piacere. In proposito il papa invitava la Società delle nazioni a vigilare sul mandato inglese in Palestina. Nella sua allocuzione il papa poi prendeva in considerazione la situazione, che stava vivendo l’Europa: da un lato rilevava che anche se la guerra era finita, perdurava ancora lo spirito bellicoso tra i popoli e pertanto era opportuno addivenire a un tavolo di trattative tra le Nazioni, in cui si facesse prevalere il senso del bene comune, della giustizia e della carità. Dal’altro lato il papa con soddisfazione segnalava un dato promettente: una positiva attitudine delle Nazioni europee nei confronti della Santa Sede, che stava aprendo una stagione di Concordati e che aveva ristabilito i rapporti con la Francia, che da sedici anni erano stati interrotti. 

Conclusa l’allocuzione il papa annunciò la sua intenzione di elevare alla dignità cardinalizia tre ecclesiastici insigni per meriti e valore: Giovanni Tacci, arcivescovo titolare di Nicea e maestro di camera della Corte Pontificia; Achille Ratti, arcivescovo titolare di Adana e Nunzio Apostolico in Polonia; Camillo Laurenti, segretario della sacra Congregazione de Propaganda Fide. Dopo avere chiesto il consenso del Concistoro, il papa decretò la nomina dei tre cardinali e assegnò loro la collocazione nel collegio cardinalizio: Tacci e Ratti furono assegnati all’ordine dei cardinali preti e invece Laurenti all’ordine dei cardinali diaconi.

Al momento delle designazioni cardinalizie, fece seguito il momento della “provisio ecclesiarum”, in cui appunto si provvide a quelle Chiese, che avevano le sedi episcopali vacanti. La prima, alla quale si provvide, fu la Chiesa Metropolita di Milano, a capo della quale fu posto l’eminentissimo cardinale Achille Ratti.

L’omaggio della delegazione diocesana

Quel giorno un pellegrinaggio diocesano si riunì alle ore 11 nel palazzo di san Callisto per incontrare ed omaggiare il nuovo arcivescovo. Il pellegrinaggio era guidato dalla Giunta Diocesana e comprendeva presenze significative: monsignor Giovanni Rossi, Vicario Capitolare, una rappresentanza del Capitolo Metropolitano (mons. Francesco Balconi, arciprete del Duomo e mons. Ambrogio Belgeri, nativo di Asso, arcidiacono), una consistente rappresentanza del Clero (più di un centinaio), del Seminario Arcivescovile e del laicato (Associazioni Cattoliche, Patriziato e popolo milanese per un numero di 250 persone).

Il neocardinale e neoarcivescovo raggiunse i pellegrini , salutandoli con radiosa e paterna giovialità, poi ricevette i messi Pontifici, che gli consegnarono il biglietto del cardinale Gasparri, Segretario di Stato, con la comunicazione ufficiale della nomina.

Alle ore 17, sempre nel palazzo di san Callisto, si tenne un nuovo incontro dei pellegrini con il cardinale Ratti. Il presidente della Giunta Diocesana, l’avvocato Luigi Colombo, rivolse l’indirizzo ufficiale di saluto al nuovo Arcivescovo, che poi per la prima volta aprì il suo cuore alla sua diocesi: “Vi parlerò ora come userò sempre col cuore in mano”. Parlò da padre, infatti scelse di rivolgersi ai fedeli presenti, usando l’espressione “figliuoli”. E volle subito senz’altro assicurare che da Padre si sarebbe impegnato a farsi accanto in tutte “le opere di ricostruzione spirituale a protezione dell’anima. Io sarò con voi e mi è dolce essere certo che voi sarete con me”. Da padre poi fece ricorso alle note della confidenza, raccontando come visse i momenti della sua nomina: turbamento iniziale, rapidamente vinto da due consapevolezze: la consapevolezza “dell’unanime, affettuoso consenso” del popolo milanese e la consapevolezza che nella decisione del Papa si era espressa senz’altro la volontà di Dio. Ci tenne il cardinale a dilungarsi un po’ su questa consapevolezza: “Permettetemi, diletti figliuoli, questa confidenza: allorché ringraziai il papa della sua bontà per me, gli espressi anche la gratitudine di aver disposto di me senza prima interrogarmi e senza poi chiedermi il consenso, il Papa, inchinandosi come in atto di preghiera: «E’ vero, in tutto ciò non ci sono entrati che Dio ed io». Vi ho messo a parte di questo particolare perché siate consolati nel pensiero che Dio veramente mi dà a voi, come dà a me in voi una famiglia alla quale già appartengo coi vincoli della patria e dell’amore”.   

L’arcivescovo eletto passò poi a richiamare sinteticamente gli impegni, che desiderava condividere con i pellegrini e attraverso loro con l’intera diocesi: camminare insieme sulle linee pastorali tracciate dal suo predecessore, il cardinal Ferrari, sostenersi con un’assidua preghiera reciproca nella comune e fervente fedeltà al Papa.

Imposizione della berretta cardinalizia

Mercoledì, 15 giugno, nella sala del Concistoro papa Benedetto XV impose la berretta cardinalizia (cioè il tricorno purpureo) ai tre nuovi cardinali. Nel discorso ne tracciò un profilo sintetico. A proposito del cardinale Ratti il papa valorizzò due titoli. Valorizzò prima di tutto il titolo di “diplomatico”, nella duplice accezione, che esso ha: diplomatico come cultore degli studi dei “diplomi”, e certamente Ratti eccelse in questo ambito sia come Prefetto della Biblioteca Ambrosiana sia come Prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana; diplomatico come persona impegnata sul fronte della diplomazia e a Ratti, quale Nunzio Apostolico in Polonia,  il papa riconobbe che “con dolce fermezza, con tatto squisito, con serenità imperturbata” seppe rafforzare la concordia fra lo Stato e la Chiesa in momenti difficili e in circostanze pericolose. Il papa ci tenne anche a valorizzare il titolo di Cardinale Arcivescovo di Milano, che diventava per Ratti ragione di un impegno rilevante ed oneroso nel prestare aiuto al papa nel governo della Chiesa. A questa celebrazione assistette una folta rappresentanza dei pellegrini milanesi.

Il Concitoro pubblico del 16 giugno

Giovedì, 16 giugno, si tenne nel Palazzo Apostolico il concistoro pubblico, in cui il papa prima di tutto impose il galero cardinalizio (cioè il copricapo rosso con ai lati due cordoni con 30 fiocchi di seta rossa) ai tre nuovi cardinali e ad altri tre cardinali, che erano stati creati nel concistoro segreto del 7 marzo precedente (Francesco Ragonesi, Juan Benlloch y Vivó, Francisco de Asís Vidal y Barraquer). Dopo questa investitura solenne il papa assegnò ai cardinali la chiesa romana, di cui diventavano titolari: al cardinal Ratti fu assegnata la chiesa dei santi Martino e Silvestro ai monti, che secondo tradizione era attribuita agli arcivescovi di Milano. Quale arcivescovo metropolita della Chiesa di Milano, il cardinal Ratti chiese al papa che gli venisse concesso il sacro pallio (stretta fascia di stoffa di lana bianca, che viene posta ad avvolgere le spalle) e il papa espresse il suo assenso.

Il banchetto solenne

Alle ore 13 del 16 giugno presso il ristorante Minerva fu offerto ai pellegrini un banchetto in onore del novello cardinale arcivescovo. Tra le personalità, che sedevano a tavola con il festeggiato, spiccava la figura del cardinale arcivescovo di Varsavia. Presero la parola l’arciprete del Duomo, monsignor Balconi, il Presidente della Giunta Diocesana, l’avvocato Luigi Colombo, il Presidente della Federazione Giovanile, il professor Bicchierai. Nel rispondere, il cardinale scelse di invertire l’ordine degli intervenuti: infatti la sua prima parola fu per i suoi “cari giovani” e motivò così questa sua scelta: “Se io sono il Padre, voi giovani, siete i primi figli tra i miei figli: voi mi avrete sempre con voi; sarò felice di camminare sempre con voi, di dividere i vostri sentimenti…”. Poi, prendendo spunto dall’accenno alla Polonia, che il Presidente della Giunta Diocesana aveva inserito nel suo indirizzo augurale, il cardinal Ratti volle esprimere tutta la sua stima, tutto il suo affetto, tutta la sua riconoscenza per il cardinale di Varsavia. Infine, rispondendo a monsignor Balconi, volle prendere spunto da una sua affermazione: “Noi vi vogliamo bene”  per dichiarare: “Il mio programma è questo: volervi bene, per rendervi il bene che mi volete, per portarvi tutto il bene che natura e grazia mi faranno capace, per vivere e morire con voi. Ringrazio Dio per avermi concesso di consacrare l’ultimo sforzo della mia vita ai miei concittadini: è un beneficio di cui sento tutta la preziosità”.

La giornata si chiuse nella chiesa di san Carlo al Corso con la solenne Benedizione eucaristica impartita dall’arcivescovo eletto. 

La messa del papa

La mattina di venerdì 17 giugno papa Benedetto XV nella cappella Matilde circondato dai pellegrini milanesi celebrò la messa in onore di san Carlo e impose al cardinal Ratti il pallio arcivescovile. Poi rivolse un breve affettuosissimo discorso. Nella folta rappresentanza della diocesi il papa scorse da un lato una sorta di “confirmatio” da parte del popolo milanese della sua scelta e dall’altro una manifestazione della disponibilità dei milanesi a seguire “i dettami del nuovo Arcivescovo”.  Il papa volle far sapere che teneva al dito un anello, che gli era stato donato dal cardinal Ferrari e che conteneva una reliquia di san Carlo. Nell’impartire la benedizione ai presenti, il papa dette ai sacerdoti presenti facoltà di impartire a loro volta la benedizione papale nelle loro parrocchie, quando vi avrebbero fatto ritorno.

Le annotazioni del parroco di Asso

Don Rodolfo Ratti, come aveva preannunciato, partecipò al pellegrinaggio diocesano e ce ne ha lasciato memoria sul Liber chronicus.

Per il concistoro del 13 giugno… vi assisto accompagnato dal fratello Antonio di Rogeno (paese di origine della famiglia di S. Eminenza) e latore dei voti, delle felicitazioni di tutta Asso. S. Eminenza dopo i saluti coll’uno e coll’altro, prese a braccetto il Cugino Prevosto, e  lo trattenne per parecchio tempo in affabile colloquio, interessandosi di Asso e della vita sua religiosa. E nel giorno 18 giugno (sic! Si trattò del  17 giugno), dopo l’imposizione del pallio, il S. Padre Benedetto XV riceveva i pellegrini milanesi, presentatigli dal Cardinale; ed il Prevosto Ratti veniva in modo particolare presentato al Papa, che gli concedeva la facoltà di impartire la benedizione papale a tutta la popolazione, ciò veniva fatto nella domenica seguente. Benedica il Signore al nuovo Arcivescovo, e Gli conceda di condurre le anime tutte sulla via della verità e della grazia. – E la Diocesi Milanese ringrazi il Signore del grande dono fattole, nella persona del Card. Ratti. La Madonnina del Duomo sorrida al novello Pastore ed infiori di celesti benedizioni la sua Vita pastorale in mezzo a noi”. 

Da Roma a Montecassino

Il cardinale Ratti, dopo le intense giornate delle celebrazioni di “investitura”, si trattenne a Roma fino al 25 luglio. In quei giorni ricevette dalla Segreteria di Stato il biglietto, con cui veniva informato che il santo Padre gli assegnava di prestare la sua collaborazione particolare in alcune Congregazioni della Santa Sede: la Sacra Congregazione dei Sacramenti, la Sacra Congregazione del Concilio, la Sacra Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari e la Sacra Congregazione dei Seminari e delle Università degli Studi. Quello fu un tempo dedicato al disbrigo della corrispondenza, alla definizione delle faccende connesse con il trasferimento a Milano, ad incontri, colloqui anche in vista del ministero episcopale, che stava per affrontare. Infatti, nella corrispondenza meritano un’attenzione particolare le lettere del 19 e del 24 luglio indirizzate al prevosto di Desio, don Erminio Rovagnati, nelle quali comincia a delinearsi il programma del breve soggiorno a Desio prima del solenne ingresso a Milano,fissato per l’8 settembre. Assai significative sono  anche le lettere inviate il 22 luglio ai vescovi suffraganei delle diocesi lombarde per comunicare loro nel suo ruolo di metropolita la sua nomina ad arcivescovo di Milano, allegandovi copia della bolla papale.

Il 25 luglio il cardinal Ratti si trasferì presso l’abbazia di Montecassino, ove soggiornò fino al 24 agosto.


100 anni fa: il ritiro di Montecassino

La scelta di Montecassino

Il cardinal Ratti, prima di fare il suo ingresso nella diocesi di Milano per esercitarvi il ministero di arcivescovo, volle ritirarsi per un mese nell’abbazia di Montecassino. Si tratta di una scelta piuttosto particolare, abbastanza insolita, che suscita in noi qualche domanda: quando, perché, come il cardinal Ratti giunse a questa decisione?

Per tentare di rispondere mi servo della documentazione molto povera, della quale posso disporre qui ad Asso dove mi trovo: in pratica mi rifaccio ad alcuni volumi, in cui è stata raccolta la corrispondenza di quei mesi.

Già mentre si accingeva a lasciare la Polonia monsignor Ratti avvertiva in sé un’esigenza, che così espresse in una sua lettera del 30 maggio 1921 inviata da Varsavia all’amico Antonio Grandi: “Quel poco di quiete di cui sento infinito bisogno, non tanto per riposarmi dal cammino in questi ormai… tre anni percorsi quanto per orientarmi e prepararmi al nuovo cammino al quale il cenno di Dio mi chiama e comanda”. Alla fine la decisione fu di cercare e trovare tutto ciò nell’Abbazia di Montecassino, perché come scrisse al suo carissimo amico Carlo Innocente Arnaboldi quel luogo gli appariva come una “alta, santa, ammirabile dimora di solitudine, di silenzio, di pace, di natura ed arte” (lettera del 26 luglio, giorno successivo al suo arrivo all’Abbazia).

Un qualche aiuto nell’orientarsi e determinarsi in questa direzione gli venne dal monaco benedettino Guerrino Ambrogio Maria Amelli, con cui per varie ragioni Ratti intratteneva buoni rapporti. Basta prestare attenzione alle vicende della vita di Amelli per cogliere i punti di contatto: nato a Milano nel 1848, divenuto prete ambrosiano nel 1870, fu destinato come scrittore presso la Biblioteca Ambrosiana, dove si interessò di studi biblici, patristici, liturgici e di musicologia sacra. Nel 1885 l’Amelli scelse di abbracciare la vita monastica, facendosi monaco a Montecassino, ove rimase fino al 1908, occupandosi anche degli archivi dell’Abbazia. Nel 1908 fu mandato a Firenze come abate dell’Abbazia di Santa Maria, meglio conosciuta come Badia Fiorentina, e vi rimase fino al 1916, quando per via dei suoi impegni nella Commissione biblica e nella Commissione per la revisione della Volgata dovette trasferirsi a Roma. Montecassino tornò ad essere per lui un luogo di riferimento e infine la sede dei suoi ultimi anni: infatti vi morì nel 1933.

Le opere e i giorni a Montecassino

Il cardinal Ratti, come si era prefissato, non visse le settimane in abbazia come un periodo di vacanza e di relax, tant’è che si concesse una sola uscita per turismo religioso, il 20 agosto, per visitare prima Sora e poi Aquino, patria di san Tommaso.

Furono invece intense settimane di vita spirituale: condivise quotidianamente la preghiera dei monaci, come attesta nelle battute finali della sua prima ed unica lettera pastorale indirizzata alla sua diocesi: “Grazie finalmente a voi, venerandi Figli di san Benedetto, che me necessitoso di solitudine, di raccoglimento, di preghiera, onde orientarmi e dispormi al nuovo ed arduo cammino, accoglieste nella pace del vostro santo Monte, pregando meco e per me, per la mia chiesa e per i miei figli sulla tomba del vostro santo Patriarca”. Da un accenno, che troviamo in una sua lettera al prefetto dell’Ambrosiana, monsignor Luigi Grammatica, apprendiamo che il cardinale si ritagliò anche uno spazio specifico per gli esercizi spirituali (cfr la lettera del 16 agosto).

Il cardinale dovette poi dedicare ampio tempo ad evadere “una valanga di corrispondenza di ogni genere” (cfr la stessa lettera): felicitazioni ed auguri, inviti per sue visite e suoi interventi, quando si sarebbe insediato in diocesi, proposte per il soggiorno previsto a Desio prima del solenne ingresso in diocesi, disposizioni per la presa di possesso per procura e per la celebrazione del solenne ingresso, fissato per l’8 settembre.

Le due lettere pastorali

In una lettera indirizzata all’amico monsignor Giuseppe Pizzardo, in data 16 agosto, troviamo questo accenno: “Ho spedito da qui con l’aiuto di Dio le prime pastorali al Clero (lat. [ino]), al Clero e al Popolo (ital. [iano])“. Queste due lettere, anche se recano come data ufficiale il giorno della B. Maria V. Assunta in cielo, hanno in realtà dovuto affrontare un iter successivo di rilettura, correzione, elaborazione tipografica: come viene attestato da alcune lettere (16 agosto, 19 agosto, 27 agosto) il cardinale affidò questo lavoro a monsignor Luigi Grammatica, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, che per la cura del testo latino si avvalse della collaborazione di don Giovanni Galbiati, dottore della stessa Biblioteca. La pubblicazione effettiva delle due lettere avvenne a ridosso dell’ingresso solenne in Milano (8 settembre).

La scelta di rivolgersi al clero in latino attesta che il clero di allora, diversamente dal clero attuale, aveva una discreta dimestichezza con tale lingua. Perché tale scelta? Non certo per dare una certa riservatezza esoterica alla comunicazione: il testo fu pubblicato e quindi fu di dominio pubblico. Il cardinale scelse la lingua latina, perché era la lingua, che la Chiesa di allora usava per le sue comunicazioni ufficiali e solenni.

Dalla lettura delle due lettere emerge che il cardinale scelse di esprimersi, attenendosi a uno schema espositivo, probabilmente perché riteneva che grazie a questo metodo di comunicazione il lettore avrebbe più agevolmente seguito lo sviluppo dei suoi ragionamenti e avrebbe più facilmente  memorizzato il suo messaggio.    

Dalle due lettere emerge anche con estrema chiarezza che il cardinale era strettamente legato alla classica ecclesiologia gerarchica, piramidale: dal Capo, Gesù, tutto, secondo un processo gerarchico, fluisce verso la base, che è il Popolo cristiano: da Gesù al papa, dal papa ai vescovi, dai vescovi ai preti e dai preti ai laici. L’impegno apostolico dei laici, che viene vivissimamente raccomandato per far fronte al preoccupante allontanamento della gente dalla vita di fede, viene proposto non come impegno derivante dal Battesimo ma come supporto ausiliario, che, per chiamata, per mandato del clero e in obbedienza alle direttive del clero, i laici prestano al ministero apostolico, che di per sé è proprio del clero: “E voi ancora, diletti figli e figlie, che cristianamente sentendo i bisogni dei tempi e secondando i pressanti inviti del Supremo Pastore e del Vescovo, nelle diverse associazioni, fate del laicato il provvidenziale ausiliare del Sacerdozio, aiutandone ed emulandone l’apostolato di carità e di verità…“.

Nel suo affacciarsi con queste due lettere pastorali al suo imminente ministero episcopale il cardinale non poteva non accennare ai rapporti con la realtà politica milanese: “Con particolare considerazione e con l’ossequio che sentiamo di dovere alle legittime autorità che la fede ci insegna ordinate da Dio, mi rivolgo a Voi, illustri Signori, che nei diversi ordini politico, civile e militare reggete la pubblica cosa. Il mutuo rispetto, la mutua concordia, l’armonica cooperazione tra le due autorità, grazie alla bontà e moderazione dell’ambiente, grazie alla saviezza delle persone ed al loro elevato senso di responsabilità, sono cose qui tanto fermamente stabilite e tradizionali, ed hanno sempre prodotto così copiosi frutti di comune bene, che ci basterà non uscire dall’ormai altrettanto storico che fecondo solco per dare al paese il doveroso esempio di concordia e di pace e raccoglierne noi primi un frutto prezioso nella facilitazione di tutto quello di cui andiamo debitori al pubblico bene“.

Sono parole, in cui certamente non troviamo i toni accesi dell’intransigentismo, che negava ogni legittimità allo Stato Italiano e quindi si rifiutava di stabilire con esso ogni tipo di rapporto. Sono parole, che potrebbero indurci a riconoscere nel cardinale Ratti una eccellente espressione del movimento conciliatorista nella versione clerico-moderata, che dominava negli ambienti lombardi? Personalmente sono propenso a ritenere che il cardinal Ratti sfugga a queste classificazioni per via della sua indole molto più pragmatica  che ideologica. Questo pragmatismo spinse il cardinale Ratti a non schierarsi mai per questo o quel movimento cristiano di impegno politico, a non assumere mai posizioni di avanguardia in questa o quella direzione, ma a svolgere ruoli di apprezzata mediazione. Certamente la sua fede cristiana lo porta a riconoscere legittimità alle autorità secolari, certamente quindi ritiene opportuno stabilire con loro relazioni di mutuo rispetto, di mutua concordia e di armonica collaborazione in vista del bene comune. Il cardinal Ratti senz’altro pensa questo bene comune in un orizzonte, che non contempla la laicità dello stato propugnata dal cattolicesimo liberale e neppure simpatizza per l’aconfessionalità dell’impegno politico sostenuta da don Sturzo. Il cardinale Ratti continua invece a ragionare in un orizzonte assolutamente cristiano, come emerge da questo passo della lettera pastorale indirizzata al Clero e al Popolo: “Inviato da Dio per essere Padre di tutti quelli che sono nella casa paterna, nella Diocesi assegnatami, posto perciò stesso al di sopra delle divergenze, delle competizioni e dei partiti che possono dividere i figli e suscitare in contrasto tra loro, non vedendo che figli carissimi, a tutti mi rivolgo quanti siete sorretti da sincera buona fede e animati da schietto amor di bene; a tutti offro con paterno affetto la mia mano ed il mio lavoro; a tutti domando il contributo della filiale cooperazione. Quel Gesù che ha detto: qui non est mecum contra me est [Mt 12,30], ha pure detto a’ suoi discepoli: qui non est adversus vos pro vobis est [Lc 9,50]. Come l’anima umana, così il bene, così la verità è naturaliter cristiana; è per questo che tutti quelli che sinceramente la cercano e la praticano si trovano sempre più vicini tra loro e più d’accordo”. Tuttavia, quando si ha a che fare con un’autorità secolare legittima ma problematica quanto a sensibilità cristiana, il mutuo rispetto, la mutua concordia e l’armonica collaborazione vengono trattati come mezzi per giungere a garantirsi il riconoscimento e il mantenimento dei sacrosanti diritti, privilegi, interessi ecclesiali. Potrebbe sembrare che in questo modo il cardinal Ratti smetta di preoccuparsi del bene comune per limitarsi al bene della Chiesa: in realtà così non è: infatti per il cardinal Ratti più si fa spazio al Regno di Cristo, tema che gli sta molto a cuore, più si garantisce il bene non solo della Chiesa ma dell’intera società.

La lettera pastorale al clero

La Rivista diocesana milanese pubblica le due lettere pastorali, assegnando il primo posto alla lettera pastorale indirizzata al clero, perciò anch’io dedico ad essa il primo accenno. Nell’introduzione l’arcivescovo eletto motiva la sua scelta di dedicare al clero una lettera particolare, sostenendo che le prerogative, che gli sono proprie quale vescovo – padre, fratello, amico, servo – caratterizzano in maniera speciale il suo rapporto con i suoi preti sia in ragione della comune partecipazione all’Ordine sacro e al ministero pastorale, sia in ragione di quanto hanno vissuto insieme ai tempi del seminario e ai tempi del suo ministero pastorale in diocesi e sia in ragione dell’intenso legame di comunione, con cui collaborarono con il suo amatissimo predecessore, il cardinal Ferrari. Poi, siccome i sacerdoti dovranno svolgere un ruolo prioritario nel coinvolgere il popolo nell’azione pastorale dell’arcivescovo, a loro prima di tutto vuole confidare quali sono i suoi intenti pastorali. Suoi riferimenti decisivi saranno sant’Ambrogio, san Carlo e il cardinal Ferrari.

Di sant’Ambrogio si propone di fare tesoro di due prerogative. Prima prerogativa: l’impronta ambrosiana, che caratterizza Milano e la sua gente e che si manifesta in termini di fede, di onestà, di semplicità, di purezza, di ospitalità, di generosità, di vivacità intellettuale, di  volontà tenace, di laboriosità paziente e di vita profondamente cristiana cattolica. Per ridare splendore a queste caratteristiche bisognerà che singoli, famiglie, istituzioni pubbliche, scuole soprattutto, ricuperino un sincero spirito cristiano. In questo impegno certamente clero e organizzazioni cattoliche dovranno stare in prima fila. Seconda prerogativa di sant’Ambrogio, alla quale si propone di richiamarsi: il suo insegnamento: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia”: Pietro è il riferimento decisivo per riconoscere la vera Chiesa e per vivere nella vera Chiesa. Perciò anche lui, come i suo predecessori, animerà il suo ministero di un grande amore per il papa.

Anche di san Carlo vuole fare tesoro di due sue caratteristiche. Prima caratteristica: il suo genio organizzativo, al quale intende rifarsi per governare e per assicurare la “disciplina”. San Carlo insegna che il sano governo esige la disciplina dell’obbedienza e dello stare fedelmente nel posto e nell’ordine assegnati: non c’è governo senza disciplina.

Seconda caratteristica di san Carlo, alla quale intende ispirarsi: la mansuetudine e l’umiltà nell’esigere la disciplina. L’umiltà mite ha come seguito l’obbedienza docile, la superbia inclemente invece genera irritazione e rifiuto.

Pure dal cardinal Ferrari intende ereditare due elementi. Primo elemento: l’impegno per la dottrina cristiana. Il cardinale parte da un’analisi della situazione: riscontra la presenza di due dati: una diffusa ignoranza o scarsa conoscenza della dottrina cristiana e una diffusa presenza di indifferenza, negligenza, irriverenza nei confronti delle realtà religiose. Secondo il cardinale i due dati sono strettamente connessi: la carenza della conoscenza della dottrina favorisce l’irreligiosità. La soluzione quindi non può essere che un forte impegno sul terreno della catechesi. Secondo elemento: l’impegno sul fronte delle istituzioni e organizzazioni cattoliche: l’università cattolica del sacro Cuore, l’opera cardinal Ferrari, l’associazione di lavoratori cristiani, l’unione missionaria del clero. Su questo fronte il cardinal Ratti si propone di custodire, coordinare e portare a compimento.

Nella parte conclusiva della lettera ai saluti e alla benedizione alle varie articolazioni del clero milanese il cardinale fa seguire e la promessa di andare a visitare i preti sul posto del loro ministero e l’invito ai preti che abbiano a visitare il loro vescovo frequentemente: la casa del padre è sempre aperta per i figli!

La lettera pastorale al venerabile clero e al diletto popolo

Evidentemente il cardinal Ratti, distinguendo tra clero e popolo, non usa il termine “popolo” nel senso di “Popolo di Dio”, di cui il clero sarebbe parte. Secondo l’ecclesiologia del suo tempo, il cardinale con il termine “popolo” intende riferirsi al laicato, all’insieme di coloro, che sono non-clero. Nell’introduzione intende rispondere alla domanda: “Chi è e come viene ad occupare la Sede di S. Ambrogio, di S. Carlo, del Cardinal Ferrari?”. Ovviamente accenna ai suoi dati biografici di milanese, di prefetto dell’Ambrosiana e della Biblioteca Vaticana, di Nunzio Apostolico in Polonia, ma certamente non è qui che va cercata la ragione della sua elezione a vescovo, cosa già grande di per sé, ma di particolare grandezza in questo caso, perché si tratta di succedere a grandissimi predecessori e perché si tratta di una Sede episcopale di singolare prestigio, perché vanta origini apostoliche, perché ha un suo rito speciale e antico, perché dispone di una storia di rilievo, di un territorio vasto, ricco, di una popolazione numerosa e operosa, di diversi centri urbani importanti, perché fa capo a una città, che è capitale morale di un grande paese e che è tra le prime città del mondo. Ecco la risposta a così inevitabile domanda: “Ebbene a così grave domanda ho risposta soddisfacente: sono l’inviato di Dio, e Dio a voi mi invia per mezzo del suo Vicario in terra. Ecco chi sono io e come vengo a voi. In questa parola è la mia giustificazione e il mio conforto più prezioso e sostanziale; in questa parola dev’essere la tranquillizzazione delle anime vostre…”.

Viene poi prestata attenzione alla seconda domanda, che si fanno i milanesi, quella che concerne il programma pastorale del nuovo vescovo. Non con questa lettera ma successivamente darà risposta a questa domanda, dopo che si sarà confrontato con il Papa, dopo che avrà pregato la Madonna a Lourdes, dopo che si sarà insediato in diocesi. Tuttavia in questa lettera anticipa due cose: il “movente” e il “sustrato” del suo programma. Il movente è l’amore: da Pietro Gesù esige una triplice dichiarazione di amore prima di conferirgli il mandato apostolico. Il sustrato del programma gli è suggerito dall’abbazia benedettina, in cui si trova, e consiste nel motto benedettino “ora et labora”. La preghiera, che ha caratterizzato le sue settimane a Montecassno, che eleverà a Roma sulle tombe degli apostoli e a Lourdes presso la grotta, sarà presente in tutti i suoi giorni di ministero a Milano. La preghiera sia anche l’impegno di tutti in diocesi: le associazioni laicali di vario genere siano innanzitutto milizie preganti intorno a Gesù eucaristico.Le grazie ottenute con la preghiera devono fruttificare nel lavoro pastorale, dove si aspetta la collaborazione di tutti, in particolar modo delle istituzioni religiose impegnate sul fronte della educazione cristiana della gioventù. Per contrastare la dilagante mentalità paganeggiante occorre lavorare per realizzare la maggior gloria di Dio, l’elevazione cristiana degli umili e il bene della Religione e della Patria nella pacificazione sociale. In vista di questa pacificazione invoca tre benedizioni di pace: quella di san Benedetto, quella di papa Benedetto XV, quella della Madre di tutti, sotto la cui protezione si pongono gli inizi del suo ministero episcopale (lettera datata nella festa dell’Assunta, pellegrinaggio a Lourdes, ingresso il giorno della Natività di Maria). In questo contesto di pacificazione si collocano le parole rivolte alle autorità civili, che ho citato nella introduzione alle due lettere. Parole di gratitudine e di benedizione infine chiudono il messaggio.

Il 24 agosto il cardinale Ratti abbandonò la grande Abbazia per fare ritorno a Roma.


100 anni fa: verso l’ingresso solenne a Milano

Il congedo da Roma

Il 24 agosto il cardinal Ratti lasciò l’abbazia di Montecassino per tornare a Roma. Non potendo farsi ospitare presso il Seminario Lombardo, perché era nel periodo della chiusura estiva, fu accolto in Vaticano dall’amico milanese monsignor Camillo Caccia Dominioni, Maestro di Camera di Sua Santità.

Sono due gli eventi di rilievo, che caratterizzarono il giorno successivo. Prima di tutto l’udienza dal Santo Padre: dapprima fu udienza di congedo come il protocollo prescriveva, quando un cardinale lasciava Roma per raggiungere la sua diocesi. In un secondo momento divenne udienza di benedizione papale al pellegrinaggio nazionale in partenza per Lourdes sotto la guida del cardinal Ratti: il papa, intrattenendosi con una rappresentanza dei pellegrini, confidò loro i suoi ricordi commossi dell’analogo pellegrinaggio nazionale, che fu da lui guidato nel 1914 poco prima della sua elezione papale.

Sempre il 25 agosto da Roma il cardinal Ratti inviò due lettere importantissime per il suo ministero di arcivescovo di Milano. La prima era indirizzata a monsignor Giovanni Mauri, vescovo titolare di Famagosta e ausiliare di Milano, per conferirgli la procura di “prendere il canonico possesso della Sede Arcivescovile di Milano” il 6 settembre, giorno anniversario della Incoronazione di papa Benedetto XV. La seconda invece era indirizzata a monsignor Giovanni Rossi, Vicario Capitolare (cioè colui, che aveva il compito di reggere la diocesi mentre la sede arcivescovile era vacante), per comunicargli la sua decisione di prendere possesso della Diocesi per procura affidata a monsignor Mauri. Inoltre nella stessa lettera comunicava a monsignor Rossi, che gli conferiva l’incarico di suo Vicario Generale e che confermava nel loro incarico tutti gli ufficiali della Curia. Questa scelta decisa da un arcivescovo eletto, che ben conosceva gli apparati della Diocesi, manifestava chiaramente l’intenzione di dare continuità all’azione di governo del suo predecessore, il cardinal Ferrari.

Il pellegrinaggio nazionale a Lourdes

La sera del 26 agosto il treno con più di settecento pellegrini lasciò Roma. Il governo italiano mise a disposizione del cardinale il vagone salotto, che veniva abitualmente utilizzato per le importanti personalità politiche. Dopo una prima sosta a Ventimiglia se ne fece una seconda a Tolosa, dove i pellegrini italiani parteciparono prima ad una santa messa, presieduta del cardinale e poi nella chiesa del convento domenicano, detto dei Giacobini, venerarono le spoglie di san Tommaso d’Aquino, lì custodite. Il 29 agosto finalmente si arrivò a Lourdes. Cito quel che don Angelo Novelli raccontò di questo pellegrinaggio nel suo libro dedicato alla vita di Pio XI, pubblicato nel 1923: “A Lourdes presiedette tutte le funzioni devote dei pellegrini. Chi ha preso parte a qualche pellegrinaggio a quel santuario, sa quanto intensa è ivi la vita religiosa e come le pratiche da mane a sera si succedano quasi senza sosta, davanti alla grotta delle Apparizioni, alle Piscine, nelle basiliche, sulla immensa spianata, sul calvario. Il cappellano del pellegrinaggio prende la parola a ciascuno degli esercizi devoti. Il card. Ratti sostenne quella parte egregiamente, infaticabilmente. Un giornalista romano, pellegrino egli pure, riferendosi a quella predicazione, scrisse con arguzia birichina che la Madonna aveva fatto un miracolo certamente: quello di rendere facondo il cardinale Ratti. Per la prima volta all’antico bibliotecario toccava di prodigarsi così largamente nella fatica apostolica della parola e vinse la prova con un’eloquenza piana sebbene dotta, spoglia di risonanze rumorose ma penetrata nell’intimo da commozione sincera e pia…”. Il cardinal Carlo Confalonieri, che allora era al fianco del cardinale Ratti come suo giovane segretario, nel suo libro “Pio XI visto da vicino” a proposito di questa predicazione annota: “Si ricordano fra l’altro alcune commosse meditazioni durante la Via Crucis e l’omelia della Messa Pontificale, nella quale tratteggiò i rapporti fra Maria SS.ma e il Pontificato Romano, affermando con molta efficacia il Primato di Pietro. Taluno commentò che aveva parlato da Papa”. I pellegrini italiani, prima di lasciare Lourdes, ebbero un incontro con il vescovo locale, mons. François-Xavier Schoepfer, che ci tenne a ricordare che Benedetto XV poco prima di essere eletto papa era stato pellegrino a Lourdes per poi concludere in maniera briosa: “Si passa di qui per andare a Roma”. Ovviamente il cardinale Ratti nel ringraziare non fece nessuna allusione alla battuta del confratello francese.

Il viaggio di ritorno sfiorò la tragedia: infatti, poco dopo la partenza da Tarbes, si verificò un guasto ai freni e la rottura dei ganci tra le vetture attrezzate ad ospedale e la vettura salone del cardinale: tutto, fortunatamente si risolse in un urto fragoroso e in uno sganciamento di pochi metri, al quale si pose velocemente rimedio, mentre il cardinale con una calma imperturbata si premurava di visitare e rincuorare i pellegrini.

Il telegramma per le celebrazioni di Barni in memoria di don Verri

Il 28 agosto a Barni si organizzò una solenne celebrazione per ricordare il centenario della nascita del concittadino don Biagio Verri, l’apostolo delle morette. Di per sé la si sarebbe dovuta effettuare nel 1919, ma la difficile situazione di quei mesi successivi alla Prima Guerra Mondiale costrinse ad attendere un momento più propizio. Don Rodolfo Ratti, vicario foraneo  della Valassina, ricordava benissimo che suo cugino don Achille nell’agosto del 1882, rientrato dagli studi romani, era stato incaricato di sostituire il parroco di Barni e quindi aveva avuto modo di conoscere personalmente don Verri. Ritenne perciò buona cosa, ora che il cugino era diventato arcivescovo di Milano, informarlo della celebrazione solenne, che doveva essere tenuta a Barni. Il cardinale Ratti, in viaggio verso Lourdes, inviò questo telegramma, trascritto sul Liber chronicus della parrocchia di Asso: “Ringraziando delicato pensiero associandomi celebrazione richiamante inimitabili esempi cristiane sacerdotali virtù benedico parrocchia Barni con tutti convenuti”.

Le tracce del pellegrinaggio

Gli impegni pastorali, che il cardinale dovette onorare quale guida spirituale del pellegrinaggio, furono numerosi e quindi ne misero alla prova la pur forte fibra. Di lì a qualche giorno soltanto lo attendevano le fatiche non meno onerose dell’ingresso solenne in diocesi e dei molteplici incontri ed eventi ad esso connessi: si optò quindi di sostare alcuni giorni ad Alassio, presso una villa annessa all’Istituto delle Benedettine: qualche mese prima vi  era stato ospitato anche il cardinal Ferrari malato.

Ma da Lourdes il cardinale si portò via come eredità insieme con la stanchezza anche una grande carica spirituale, che fece trasparire nel discorso solenne, che pronunciò in duomo in occasione del suo ingresso: “Vengo da Lourdes e vi saluto nel nome di Maria Immacolata… per tutti e singoli ho pregato là dove Maria così benignamente apparve annunciatrice di favori, e di grazie, dove di grazie e di favori ottiene e versa ogni giorno così larga copia; ho pregato là dove posarono i suoi santi piedi; ho pregato sotto i suoi occhi, sul suo cuore, ho pregato per i vostri bisogni corporali e spirituali, per i nostri malati ed infermi, per i miei figli poveri e tribolati, per gli erranti e traviati; ho pregato Maria di tutti benedire e confortare, aiutare e consolare, illuminare e convertire, ho sentito e sento che Maria la buona Madre esaudiva la preghiera del vostro Pastore e Padre. Me ne assicura sempre più l’aiuto di preghiere che in quel santo luogo ho trovato, erano quasi mille i pellegrini italiani (molti milanesi, tutti pellegrini modelli, onore della Chiesa e della Patria italiana) che espressamente pregavano con me per voi; erano con noi decine e decine di migliaia di pellegrini d’altri paesi e si pregava, si pregava intorno a Gesù ed a Maria, ogni pellegrinaggio per gli altri, tutti per ciascuno, ciascuno per tutti: una vera e altrettanto commovente quanto edificante gara di fede e di pietà, di adorazioni diurne e notturne, di cortei meditanti e compazienti a Gesù ed a Maria su per la via della Croce e del Calvario e di processioni supplicanti dietro a Gesù Eucaristico che passava benedicendo tra i nostri cari ammalati ed infermi spargendo in mezzo a loro, se non sempre la guarigione miracolosa, certo (lo vedevamo coi nostri occhi) il sollievo di mirabili miglioramenti e quello ancor più mirabile di sante e radicali rassegnazioni. Portata ed avvalorata da una tale atmosfera di divino e di soprannaturale la mia preghiera è certamente salita al trono di Maria e la sua benedizione scendendo sopra di me mi infondeva una nuova e dolcissima fiducia ed a voi pure la deve infondere…”.

L’entrata nella terra del suo ministero episcopale

Il 6 settembre mattina giunse ad Alassio da Milano un’automobile per il viaggio verso Desio, che il cardinale intraprese in compagnia del suo segretario personale, don Carlo Confalonieri e di un canonico del duomo, monsignor Melchiorre Cavezzali, che era stato posto a capo della commissione organizzatrice dell’ingresso. Quale testimone oculare don Confalonieri ci ha lasciato una sintetica descrizione di quella giornata nel suo libro “Pio XI visto da vicino”: «Valicato l’Appennino verso mezzogiorno, sostò nella campagna a consumare una modesta colazione al sacco: quella libertà fu l’ultimo episodio delle consuetudini sportive, che ormai gli si chiudevano per sempre. Appena passato il ponte sul Ticino, e posto piede sul territorio milanese in quel di Morimondo, discese dalla vettura, si raccolse in preghiera e singhiozzando benedisse la terra, che la Provvidenza gli aveva assegnato, Poi, per vie traverse onde evitare la Metropoli, raggiunse a sera la nativa Desio, che l’attendeva ansiosa, comprensibilmente superba del suo privilegio” (pag.25 della edizione del 1993). Dalla Rivista Diocesana apprendiamo che prima di raggiungere Desio il cardinale arcivescovo si soffermò nella Chiesa prepositurale di Abbiategrasso, ricevendo accoglienza festosa. In quello stesso giorno in Duomo si celebrò la canonica presa di possesso per procura della Sede episcopale da parte di S.E. Monsignor Giovanni Mauri Vescovo Ausiliare, secondo la delega ricevuta.

Un giorno “a casa”: Desio

La Rivista diocesana milanese del mese di ottobre nella rubrica Note diocesane offre un resoconto sintetico delle attività dell’arcivescovo giorno dopo giorno. Il resoconto di martedì, 6 settembre, si chiude con questa scarna notizia: “Prosegue poi (da Abbiategrasso) per Desio sua terra natale, ove l’attende un vero trionfo”. Il giorno seguente, mercoledì 7 settembre, viene raccontato così: “Celebra nella Chiesa prepositurale di Desio e distribuisce la SS. Comunione ad una folla imponente di fedeli; visita l’ospedale, il Collegio Arciv. ove sono accorsi a rendergli omaggio i Chierici del Seminario Ginnasiale, il Cimitero, il Municipio e le varie istituzioni locali, sempre accompagnato a gara dalle Autorità e da una massa di popolo acclamante, entusiasta, accorso anche dai paesi vicini”.

Come si vede, sono notizie molto scarne, che nulla ci fanno intravedere dell’animo, con cui il cardinal Ratti visse questa giornata a Desio. Basta però fare riferimento ad alcune lettere scritte nelle settimane precedenti per cogliere i sentimenti dell’arcivescovo.

Scrivendo al suo carissimo amico, il notaio Innocente Arnaboldi, confida di avere un grande desiderio di tornare a Desio, sia pure per qualche ora soltanto (lettere del 26 luglio e dell’11 agosto). Nella lettera del 19 luglio indirizzata al prevosto di Desio, don Erminio Rovagnati, al desiderio associa anche gioia e commozione: “Senza dubbio ancora più grande sarà la mia commozione e la mia gioia il giorno che mi sarà dato di vederli e benedirli (i parrocchiani di Desio) al fonte del mio Battesimo”. Che cosa motiva nel cardinale questa commozione, questa gioia e questo desiderio? Lo dice espressamente nella menzionata lettera del 26 luglio all’amico Innocente Arnaboldi: “… il giorno che mi farà essere con voi…nella dolce terra che mi vide nascere, in mezzo al mio popolo e prima e più di ogni altro mio”. Le vicende della sua famiglia costrinsero il giovane Achille Ratti a diversi cambi di residenza: Desio, Milano (1867), Carugate (1870), Pinerolo (1877), Caronno Pertusella (1878). Sempre per ragioni familiari il piccolo Achille passò ad Asso presso lo zio don Damiano l’anno 1866-1867, frequentandovi la terza elementare. Tuttavia il legame con Desio per lui rimase assolutamente primario. Possiamo azzardarne una spiegazione? Certamente nella sua vita Achille Ratti attribuì un valore essenziale a due dimensioni: la fede cristiana e la cultura. Quindi doveva riconoscere che a Desio queste due fondamentali dimensioni ebbero il loro inizio decisivo: da qui la sua ferma volontà di caratterizzare il suo giorno di visita a Desio, dando rilievo particolare a due gesti: “Ho sempre pensato soltanto ad una buona Santa Messa al Fonte Battesimale, adstante populo meo tanto meglio se adstante et communicante (cioè ricevendo anche la comunione eucaristica): vi aggiungerò volentieri … la visita al Cimitero dove giace l’indimenticabile Don Giuseppe e quasi tutta la mia generazione” (lettera del 19 luglio al prevosto don Erminio Rovagnati). Dunque insieme con il tributo devoto e riconoscente prestato al Fonte della sua vita cristiana il cardinale sentiva il dovere di prestare il suo tributo devoto e riconoscente anche a quel don Giuseppe Volontieri, che gli fu maestro indimenticato nei primi due anni delle elementari e che accese in lui la fiamma della cultura. Non per nulla ai funerali di don Giuseppe nel 1884 fu don Achille Ratti a tenere il sermone.

Il cardinale Ratti affrontò la sua visita alla sua Desio non solo con desiderio, con commozione e con gioia, ma anche con la preoccupazione di concordare un programma all’insegna della moderazione sia per rispettare la priorità di solennità, che doveva essere riservata all’ingresso nella città di Milano, sia per la doverosa considerazione, che doveva essere data alle difficoltà economiche della gente in quegli anni successivi alla grande guerra: “Devo però aggiungere che la mia approvazione non può accedere se non a programma molto ridotto. E ciò per diversi motivi… Dunque niente consacrazioni di altari, niente processione propriamente detta ecc. Sorpassare i limiti del programma minimo da me sopra accennato, sarebbe anche meno esattamente corretto prima dell’entrata solenne a Milano, sarebbe poi in contrasto troppo stridente con la tristezza dei tempi…” (lettera del 19 luglio al prevosto don Erminio Rovagnati).

Una piccola spina nella carne non mancò al cardinale: il comportamento tenuto dal rettore del collegio arcivescovile di Desio nelle settimane di programmazione della visita: dapprima fece circolare una sorta di pretesa ad avere il cardinale ospite del collegio giorno e notte, poi fece serpeggiare intorno il suo disappunto per il fatto che il cardinale nei suoi accenni al programma della visita non aveva menzionato il collegio arcivescovile. Il cardinale, rispondendo all’amico Innocente Arnaboldi, che lo invitava ad una colazione presso la sua abitazione, così si espresse: “L’invito che mi fai a dividere teco la colazione mi va al cuore, mi seduce… ma c’è o credo, dirò meglio, dubito che ci sia o possa esserci una difficoltà. Dubito che accettando il tuo invito si possa essere poco contenti di me al Collegio Arcivescovile, dico segnatamente da parte di quel Rev. Sig. Rettore, il quale ha potuto forse credere d’avermi ospite permanente ed al quale ho già dovuto scrivere che non potrò essergli se non ospite diurno… Se tu invitassi il Rettore? E ti pregherei di dirgli che con te anch’io l’invito senza, naturalmente, rinunciare ad una visita al Collegio e quanto più lunga potrà essere e tanto più gradita mi sarà”. Il punto dolente emerge anche dalla lettera, che indirizzò al prevosto di Desio nel corso del mese di agosto per comunicargli la sua adesione al programma definitivo deciso: “Della visita al Collegio Arcivescovile nulla dissi perché trattandosi del Collegio Arcivescovile era chiaramente sottintesa: per la stessa ragione di chiaro sottinteso non ho neanche parlato di visita alla Casa prepositurale pur contemplando non solo di visitarla ma di trovarvi alloggio”. A fronte però di questa incomprensione il cardinale ritenne molto opportuno manifestare il suo personale apprezzamento per l’opera educativa svolta dal Collegio: “Comunque tengo molto a dedicare un poco di tempo al Collegio e ad intrattenermi col  Rettore e coi Collaboratori suoi che si trovassero con lui nonostante la stagione delle vacanze. Lavorano sul campo dell’educazione, uno dei più importanti da qualunque punto di vista lo si guardi; lavorano per l’educazione cristiana una delle imprese ed opere più sante ed essenziali al bene della Religione e della Patria, della Chiesa e della Società. Puoi pensare quanto desidero di mostrare loro il conto altissimo in cui li tengo e li terrò sempre e di farli contenti” (lettera del 21 agosto ad Innocente Arnaboldi).

La corale gara di elargizioni e doni

Sia il numero 9 della Rivista Diocesana Milanese, pubblicato in data 5 settembre 1921 sia il numero 10, pubblicato in data 10 ottobre 1921, in appendice portano un resoconto dei “Doni e offerte al nuovo Arcivescovo Card. A. Ratti”. Sono riportare le offerte delle parrocchie urbane e forensi, le offerte di privati e i doni elargiti da associazioni, congregazioni religiose, istituti, comitati, gruppi. Senz’altro si rileva una generosità davvero corale, che provvide a dotare il nuovo arcivescovo del mobilio, dell’arredamento, delle suppellettili per il suo appartamento in arcivescovado, dell’automobile, delle vesti cardinalizie, dei paramenti per la cappella… Anche la parrocchia di Asso fece pervenire la sua offerta: lire 300 per fine agosto e altre lire 60 per fine settembre: comparando con quanto fu offerto da altre parrocchie sia di Milano sia del forese traspare che gli Assesi manifestarono un grande coinvolgimento, segnalandosi tra le parrocchie più generose (Barni lire 25, Magreglio lire 30 e lire 20, Onno lire 12, Canzo lire 50, Civenna lire 11, Valbrona lire 81).

Il prevosto di Asso, don Rodolfo Ratti, insieme con i parenti delle famiglie Ratti e Galli, regalò al congiunto cardinale arcivescovo una pregevole cristalleria. In data 8 ottobre il cardinale indirizzò a don Rodolfo un biglietto di ringraziamento: “All’occasione del mio ingresso alla Sede dal Sommo Pontefice destinatami Ella ha avuto la bontà grande e gentile di regalarmi uno splendido servizio di cristalleria. Di tutto cuore benedicendo ringrazio del gradito e utile dono…”.


100 anni fa: il solenne ingresso a Milano e la visita ad Asso

Il resoconto della giornata

Il fascicolo di settembre della Rivista Diocesana Milanese riporta il “programma-orario” delle “solenni feste in onore di Sua Emin. il Card. Achille Ratti nel giorno della sua entrata in Milano”. Il fascicolo di ottobre poi nella sezione “note diocesane” presenta il resoconto molto sintetico degli avvenimenti di quel giovedì, 8 settembre 1921, che riproduco integralmente.

Giovedì — L’Em.mo, preceduto dagli avanguardisti della Federazione Giovanile Diocesana, si dirige a Milano, accolto dovunque lungo il percorso con le più entusiastiche ovazioni. Sosta alla Basilica di S. Eustorgio, ricevuto ed ossequiato da S. E. il Vescovo Ausiliare, dai  rappresentanti del Ven. Capitolo Metropolitano, dalla Commissione per le Feste e dai rappresentanti delle varie Opere ed associazioni Cattoliche; e di là su elegante Daumont a quattro cavalli muove al Duomo fra gli osanna del suo popolo diletto. Le campane della città suonano a distesa, le truppe del Presidio regolarmente scaglionate presentano le armi al passaggio dell’Arcivescovo; sulla piazza del Duomo le bandiere delle Associazioni Cattoliche della Città e Diocesi, in gran parte Giovanili, si chinano riverenti dinnanzi al Padre che passa benedicendo.  Alla porta maggiore del Duomo riceve l’ossequio delle Autorità Civili, Militari, della Magistratura, e delle diverse Rappresentanze, e vestiti gli abiti pontificali, procedendo sotto il baldacchino si reca all’Altare Maggiore. Dopo il discorso, (che riportiamo integralmente in altra parte del presente fascicolo) il Te Deum, il bacio dell’Anello e la Messa Pontificale. 

Nel pomeriggio l’Em.mo visita i mille poveri della città radunati per una refezione nell’Istituto delle Suore Marcelline; indi la casa del Popolo in Via S. Sofia per la posa e la solenne benedizione della prima pietra di un nuovo reparto dell’edificio. Verso sera nelle sale dell’Arcivescovado viene offerto un banchetto che, benché numeroso per intervenuti, conserva il carattere di schietta intimità”.

Presenze e assenze

La partecipazione della popolazione fu di ampie dimensioni: il direttore del quotidiano “L’Italia”, don Angelo Novelli, nella sua biografia di Pio XI parla di “un gruppo numerosissimo di cospicui cittadini” alla basilica di sant’Eustorgio; parla di “una folla imponente, dai lati delle vie e dalle finestre gremite e addobbate lussuosamente” nel tratto da sant’Eustorgio al Duomo; parla di “più di trentamila iscritti nelle associazioni cattoliche” in piazza del Duomo; parla di “una folla sterminata di appartenenti ai sodalizi cattolici” di pomeriggio alla casa del Popolo in via santa Sofia.

La partecipazione delle autorità invece fu caratterizzata da qualche assenza molto significativa: all’ingresso della Cattedrale le autorità militari, la magistratura, le varie rappresentanze di ogni ordine cittadino prestarono i loro ossequi al nuovo arcivescovo; non si può dire lo stesso delle autorità politiche cittadine. Alla guida di Milano c’era un’amministrazione socialista, capeggiata dal sindaco dottor Angelo Filippetti, che scelse di disertare la solenne celebrazione. In occasione della morte del cardinal Ferrari il sindaco socialista Filippetti si era comportato diversamente, inviando un telegramma di cordoglio, ma fu vivissimamente contestato da quel gruppo dei suoi consiglieri, che aveva aderito alla scissione comunista di Livorno: forse, memore di questa aspra critica, il sindaco optò di disertare.

Fu evidente la presenza di alcuni insigni esponenti di matrice cattolica, che praticavano altre militanze politiche.

Il senatore Cesare Nava, che era stato ministro e che aveva ricoperto incarichi di prestigio (presidente del Banco Ambrosiano, presidente della Fiera di Milano, Presidente delle Veneranda Fabbrica del Duomo): dopo avere militato nel Partito Popolare proprio in quei mesi aveva scelto di avvicinarsi all’area liberal-fascista di Mussolini. Al senatore Cesare Nava  fu affidato il compito di tenere il discorso di saluto a nome della città, quando il nuovo arcivescovo arrivò alla chiesa di sant’Eustorgio. Ebbe poi l’onore di stare accanto al cardinal Ratti sulla carrozza di gala.

Il senatore Emanuele Greppi, che era stato sindaco di Milano: senatore tra le fila della Destra Liberale scelse poi di aderire al partito fascista. Sulla carrozza di gala ebbe pure lui un posto accanto al cardinale.

L’onorevole Giovanni Maria Longinotti, che militava nel Partito Popolare e in quel momento ricopriva l’incarico di Sottosegretario al Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale: non aderì mai al fascismo, che nel 1926 ne dichiarò la decadenza dalla Camera. Nel pomeriggio tenne un discorso, quando il cardinal Ratti si recò alla Casa del Popolo.

L’onorevole Angelo Mauri, che militava nel Partito Popolare e in quel momento era ministro dell’Agricoltura: non aderì al fascismo, perdendo non solo i suoi incarichi politici ma anche la cattedra universitaria. Pure lui tenne un discorso nel pomeriggio in occasione della celebrazione presso la Casa del Popolo. 

Per scongiurare ogni tipo di strumentalizzazione politica il senatore Cesare Nava nel suo discorso a sant’Eustorgio fu molto attento a sottolineare che il cardinale si poneva senz’altro super partes con un desiderio di dialogo e mediazione: “Da Voi abbiamo ragione di tutto sperare e di tutto attendere: da Voi che conscio della sete ardente e della profonda nostalgia di pace e di amore che è in tutti e in ciascuno, in questa grigia ora di dopo guerra, avete voluto che la prima parola al Vostro popolo fosse la parola dell’amore e della pace. E Vi siete proclamato al disopra dei partiti e delle divergenze di idee, padre affettuoso per tutti quanti siano in buona fede ed animati di schietto amore di bene: e per il maggiore bene del popolo, che Dio vi ha affidato, avete invocato il mutuo rispetto, la mutua concordia e l’armonica collaborazione del potere civile col potere ecclesiastico”.

Il discorso: genesi

Merita di essere ricordato un particolare, che viene raccontato dal segretario particolare, don Carlo Confalonieri: “Nel viaggio di ritorno (da Lourdes), per necessità di orario, il treno sostò qualche ora a Ventimiglia, e il Cardinale ne profittò per sgranchire le gambe, passeggiando su e giù lungo un marciapiede interno della stazione. Era taciturno e pensoso. A un certo momento si volse e, visibilmente, soddisfatto: «Ecco – disse – ora ho chiaro in mente lo schema del discorso d’ingresso»” (Pio XI visto da vicino, Cinisello Balsamo 1993, p. 24).

Questo schema venne esplicitamente manifestato dal Cardinale subito dopo le parole introduttive del discorso: “Come padre che torna da lungo viaggio, dopo aver visitato famosi luoghi, dividere tra i figli le strenne che per loro e pensando a loro ha raccolto, nella lontana Polonia, sul Sacro Monte di S. Benedetto, sulla tomba degli Apostoli e nel Vaticano, nella grotta taumaturgica dell’Immacolata a Lourdes”. Infatti nel discorso, partendo da Lourdes, ripercorse il cammino, che lo aveva riportato a Milano come arcivescovo: Lourdes, ovvero Maria come grande riferimento, Roma, ovvero il Papa come grande riferimento, Montecassino, ovvero san Benedetto e la sua pace come riferimento, la Polonia, ovvero la sua sofferta storia di fede e la sua profonda stima per Milano e la sua Chiesa come riferimento.

Il discorso: strascico polemico

Il cardinale affermò esplicitamente di voler dare al suo discorso il taglio di un saluto e di una benedizione come appunto si addiceva alla circostanza del “grande e solenne primo incontro“. Infatti non si trattò di un discorso programmatico ampio e articolato, ma di una ripresa sintetica dei temi già esposti nelle due lettere pastorali.

Tornando sul tema del tradizionale grande attaccamento della chiesa milanese al papa e al suo ministero petrino, il cardinale introdusse un accenno personale: nei suoi molteplici viaggi all’estero, nel suo soggiorno polacco, nei suoi frequenti contatti con stranieri aveva riscontrato che spesso si nutriva un’alta considerazione per l’Italia, perché vi ha la sua Sede il papa: “E’ sovratutto stando all’estero che si vede e si tocca con mano fino a qual punto il Papa è il più grande decoro e prestigio d’Italia: per Lui tutti i milioni di cattolici che sono nell’universo mondo si volgono all’Italia come ad una seconda patria, per Lui Roma è veramente la capitale del mondo; e bisogna chiudere gli occhi all’evidenza per non vedere – almeno nell’attuale volgersi di tutti gli Stati al Papa – per non vedere, dico, quale prestigio e quali vantaggi potrebbero dalla sua presenza derivare al nostro Paese, quando fosse tenuto il debito conto del suo essere internazionalmente e sopranazionalmente sovrano che i cattolici di tutto il mondo gli riconoscono per divina istituzione; e noi cattolici italiani che per divina disposizione l’abbiamo in custodia, ne siamo responsali d’onore ai cattolici di tutto il mondo“. Il giorno seguente alcuni giornali romani accusarono con veemenza il nuovo arcivescovo di Milano di avere vilipeso la sovranità nazionale italiana, sostenendo la sovranità temporale del papa.

Il cardinale scelse di non lasciarsi attirare sul terreno della polemica, limitandosi a fare comparire sul quotidiano cattolico cittadino, L’Italia, una sobria nota esplicativa del brano contestato. Saranno poi i fatti a manifestare in maniera inequivocabile quale fosse la posizione del cardinal Ratti sui rapporti tra lo Stato Italiano e la Santa Sede: nei Patti Lateranensi del 1929 si troverà una soluzione che da un lato riconosce e rispetta la sovranità dello Stato Italiano e dall’altro riconosce al Papa, per via del suo ruolo “internazionale e sopranazionale“, un territorio quasi simbolico di indipendenza sovrana: lo Stato della Città del Vaticano.

L’annotazione del prevosto di Asso sul “Liber chronicus”

Don Rodolfo Ratti, prevosto di Asso, quale parente stretto del nuovo arcivescovo fu tra gli invitati speciali al solenne ingresso milanese. Ecco il ricordo, che ha annotato sul “Liber chronicus“. “Ingresso del Card. Ratti alla Sede di Milano. E’ avvenuto in modo solennissimo il giorno 8 settembre, sacro alla Natività di Maria, alla Quale è dedicato il Duomo: Maria nascenti. E’ superfluo dire che Asso vi prese cordiale parte, e che in quella giornata indirizzava alla Madonna Santa fervide preghiere perché assistesse l’Arcivescovo, benedicesse all’opera Sua Santa. Il Prevosto, anche come primo Cugino, era presente: ed al giorno seguente nell’udienza privata concessagli si azzardava pregare l’Eminentissimo di concedere ad Asso una delle sue prime visite: otteneva tanta grazia, e se ne stabiliva subito la data! Domenica 30 ottobre. Lietissimo di ciò il Prevosto ringraziava, ed al ritorno in parrocchia ne dava subito comunicazione alla popolazione, che ne andò entusiasta ed orgogliosa“.

La comunicazione ufficiale della visita ad Asso

In realtà l’iter di definizione della visita fu più articolato. Infatti, in data 19 settembre, l’arcivescovo, rispondendo ad una lettera del cugino prevosto don Rodolfo, comunicava: “L’unica possibilità mia è per il pomeriggio del giorno 30 ottobre: spero che il giorno possa andare anche a te, al tuo Clero ed al tuo popolo: dico spero perché vivamente desidero di essere con voi, massime per così pia e solenne circostanza; fin da chierico ebbi una speciale devozione a codesto Santo Crocifisso e l’avevo appresa dal nostro Zio prevosto di cara e venerata memoria…”. Mi pare, quindi, di intuire che nell’udienza privata del 9 settembre, il cardinal Ratti aderì senz’altro all’invito del cugino prevosto di Asso, chiedendo però al cugino di formalizzare per iscritto la richiesta, abbozzando un programma. Questo appunto avrebbe fatto don Rodolfo con una sua lettera datata 14 settembre (cfr Lettere di Achille Ratti [1875-1922], a cura di Franco Cajani, p. 153).  Dai miei ricordi personali mi viene di azzardare anche questa ipotesi di spiegazione. Nei miei tre anni di studio a Roma presso il Seminario Lombardo ebbi modo di raccogliere diverse confidenze del cardinal Confalonieri, che di tanto in tanto amava condividere qualche ora con gli alunni del Lombardo: una volta ci accompagnò a visitare L’Aquila, di cui era stato vescovo; un’altra volta ci guidò nelle ville pontificie di Castelgandolfo; un’altra volta ci condusse a visitare i Giardini Vaticani. Ricordo che in occasione di questo tour nei Giardini Vaticani, mentre ci raccontava la sua esperienza di segretario particolare del papa, volle sottolineare che Pio XI era così attento ad evitare ogni forma di nepotismo con i suoi parenti da non riceverli mai nel suo appartamento privato. Posso allora ipotizzare che per questa ragione chiese al cugino don Rodolfo di attenersi all’iter abituale: richiesta scritta e risposta scritta?

Asso nel cuore del cardinal Ratti

Nella lettera appena citata il cardinale accenna espressamente al suo vivo desiderio di stare un po’ con le persone di Asso, dichiara la sua antica devozione al Sacro Crocifisso, manifesta il suo intenso legame con lo zio don Damiano e allarga la sua attenzione a tutto il clero, agli amici e a tutta la popolazione (“Saluta i tuoi buoni sacerdoti, gli amici, dai per me una speciale benedizione al detto caro popolo”). Questo passaggio molto sintetico, che ci offre uno spiraglio molto ridotto sull’affetto di Achille Ratti per il nostro paese, mi ha indotto a riprendere in mano le sue lettere inviate al cugino don Rodolfo negli anni precedenti per rilevarvi i suoi sentimenti nei confronti di Asso.

Il 1916 per don Rodolfo fu un anno critico: lo apprendiamo da due lettere, che don Achille, prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, inviò al cugino per assicurargli vicinanza e sostegno. La prima lettera reca la data del 3 giugno e la seconda del 17 agosto. Due problemi tormentavano don Rodolfo: un problema di salute ed un problema pastorale. Non conosciamo con precisione quale male fisico minasse la salute del prevosto di Asso, anche perché nulla trapela dal Liber chronicus: don Achille nelle due lettere insistette, perché il cugino si sottoponesse a cure termali o a Salice o a Salsomaggiore. Il problema pastorale invece era legato alla decisione dell’Esercito Italiano di situare ad Asso un “presidiamento”  di soldati (a partire dal mese di aprile): in parte furono alloggiati nella chiesetta di santa Marta, in parte furono collocati presso famiglie e in parte in un accampamento allestito presso il cimitero. Don Rodolfo ebbe subito il timore che si potesse arrivare a “lamentare il fatto del Manzoni a proposito dei soldati spagnoli e tedeschi” (Liber chronicus). Di lì a qualche mese avrebbe annotato sul Liber chronicus: “Nota triste: la permanenza dei soldati porta con sé, ed è naturale, una semente di immoralità e di propagazione di bestemmie, che impressiona… Ed una cosa che non si sa conciliare: al fronte si combatte e si muore: qui nell’interno, si diverte, si balla… Ed il Signore che farà? E quando gli uomini torneranno a casa, rientreranno nelle loro famiglie, cosa troveranno? E le donne, più ancora che le ragazze, hanno bisogno di serietà e di giudizio!!”. Don Rodolfo molto provato sia dai suoi problemi di salute sia dal degrado morale indotto dalla presenza dei militari entrò in crisi e manifestò l’intenzione di chiedere ai superiori di essere trasferito a Milano, presso san Celso, dove si trovava e si trova la casa degli Oblati diocesani. Don Achille prese a cuore la faccenda: promise al cugino una visita ad Asso nel mese di settembre, gli propose delle considerazioni spirituali per resistere nell’impegno pastorale: “Egli ti chiama a cooperare sebbene non senza pene, forse grandi anch’esse. Ma… la baracca è piantata così: per crucem ad lucem ed è Lui che così l’ha piantata”. Perciò invitò il cugino a spazzare via l’dea di san Celso come si fa con l’emicrania. Alle argomentazioni spirituali poi aggiunse una briosa argomentazione ad personam: “… e mi faresti grave danno… E la famosa stanza di don Achille? A godere la quale almeno per una notte spero venir presto e precisamente il giorno 4 settembre…”. Ecco, per don Achille la canonica di Asso rappresentava un caro e sicuro pied-à-terre per rivedere amici e posti amatissimi. Monsignor Achille Ratti ce ne dà conferma in tre lettere, che nel 1919 inviò da Varsavia al cugino don Rodolfo. Quella, che reca la data del 10 agosto, accenna fra l’altro al grosso cambio di prospettiva, che gli veniva imposto dalla decisione della Santa Sede di mutare il suo ruolo in Polonia: non più Visitatore ma Nunzio Apostolico: ” Fin che si trattava di Visitatore, pazienza: ufficio transitorio, uccello di passaggio, un momento o l’altro sarei tornato alla mia Biblioteca, ai miei libri, alla vita di prima, quella che è stata letteralmente quasi tutta la mia vita. Ora invece è un cambiamento tale e tale consegna che non mi permette neanche di pensare più ad un ritorno nel solco di prima“. Nel post scriptum troviamo queste considerazioni: “Se fossi venuto in Italia, una punta a Rogeno e ad Asso non sarebbe certamente mancata; era anzi particolarmente vagheggiata; ma per ora sembra esclusa ogni possibilità di abbandonare il posto… Se a Dio piaccia, un giorno o l’altro tornerò e Asso sarà senza dubbio tra le mete preferite come è tra le più desiderate“. Nella seconda lettera, che reca la data del 17 ottobre e che precede di qualche giorno la consacrazione episcopale (28 ottobre), ripensando a quanto la sua vita era cambiata in un anno e mezzo, si abbandonava a queste confidenze: “E non c’è come un tale cumulo di cose per farmi pensare ai passati giorni; ai luoghi lontani, alle venerate e care persone – defunte, superstiti – che li hanno riempiti e li riempiono ancora. E tu sai e senti che posto deve tenere e tiene Asso in questi pensieri… Dillo andando al Cimitero a codesti cari e venerati morti, dillo ai vivi e superstiti delle vecchie amicizie che penso a loro, che sono con voi, che saranno e sarete tutti nella prima benedizione episcopale…“. L’8 dicembre sempre da Varsavia monsignor Ratti inviò a don Rodolfo una lettera per ringraziare le persone di Asso, che avevano pensato a Lui e pregato per lui in occasione della sua Ordinazione episcopale, menzionandone alcune esplicitamente: “Ringrazio particolarmente le vecchie, care amicizie che mi si vollero particolarmente ricordare: Dr. Vicini, Sig.a Rachele (vedova Romagnoli), fam.a Benaglio, D. Primo, D. Giacomo; e mando a tutti ed a ciascuno, come a tutto il popolo tuo, a tutte le famiglie, ai vivi, ai morti una benedizione ed un affettuoso pensiero di riconoscenza e di inalterata simpatia che ti prego – se non ci vedi inconveniente – di fare conoscere anche dal pulpito, raccomandando a tutti – e massime alle anime (e tante ne hai) più amiche di Dio – di pregare per me, molto, sempre, perché ne ho un bisogno estremamente grande. Come sarei felice di poter venire a trovarti, a rivedere persone e luoghi che hanno avuto tanta parte nella mia, nella nostra vita. Chi sa quando…“.

Ai nomi ricordati, in una lettera successiva (4 marzo 1920), aggiunse il nome della famiglia Curioni.

Le notizie sulla visita ad Asso

Per rileggere quel che si visse ad Asso domenica, 30 ottobre 1921, dispongo di tre documenti: il resoconto sintetico pubblicato dalla Rivista Diocesana Mlanese, l’ampia annotazione, più di 5 pagine, di don Rodolfo Ratti sul Liber Chronicus e l’articolo pubblicato sul numero di novembre di Armonia (pag. 6-8), corredato di documentazione fotografica. L’articolo, come al solito, non è firmato, ma si sa che don Primo Discacciati abitualmente curava la pagina di Asso.

Il resoconto della Rivista diocesana milanese

In data 10 novembre viene pubblicato il N.11 (anno 1921) della Rivista Diocesana Milanese, che alle pagine 367- 370, riporta le Note diocesane, che informano dell’attività dell’arcivescovo, giorno per giorno. La domenica 30 ottobre viene così menzionata: “Celebra a san Carlo al Corso distribuendo la S.Comunione Generale; a S. Agostino benedice il nuovo vessillo di quell’Unione Giovani Cattolici; in seguito parte per Asso, accolto con vero trionfo da quella buona popolazione che ricorda i suoi lunghi soggiorni in quei ridenti luoghi: partecipa solennemente alla processione col S. Crocifisso e visita il Cimitero e le istituzioni locali”.

Utilizzando le altre due fonti, tenterò di ampliare la memoria di quel giorno storico per la nostra parrocchia, per il nostro paese e per l’intera Valassina.

La preparazione esteriore

Furono costituiti due comitati: un comitato d’onore e un comitato esecutivo, che aveva soprattutto il compito di organizzare la “parata” solenne e festosa del paese. Si ottenne il coinvolgimento di tutti i cittadini “senza distinzioni sociali, senza distinzioni di parte… Come per incanto Asso fu tramutato in una giardino: fronde verdi, aiuole, fiori dappertutto… Centinaia di sandaline e di gonfaloni coi loro vivaci colori davano maggior risalto all’ambiente. A pochi passi dall’entrata del borgo una porta trionfale di colossali dimensioni recava gli stemmi di Asso e di S.a Eminenza il Cardinale, colla epigrafe: Al Cardinale Arcivescovo / Achille Ratti / devoto ossequio di figli / tributa Asso / onorato / nei soavi ricordi / che a Lui affettuosamente Lo legano.

Altre porte trionfali più modeste ma ben riuscite e cappellette e archi erano disseminati qua a là recanti scritte appropriate alla circostanza… Sulla facciata della Chiesa prepositurale sobriamente addobbata data la pietra viva che la costituisce, spiccava un’altra epigrafe: Entra / o Eminentissimo Pastore / in questo Tempio / testimonio di tua pietà, di tuo zelo / e il taumaturgo Crocifisso / già tuo amore / portando in trionfo / per le contrade di tua seconda patria / benedici a tuoi figli/  confermali nella virtùL’interno era pure parato a festa e il taumaturgo Crocifisso sormontato dal ricco baldacchino, circondato di fiori e di lampade votive era esposto alla pubblica venerazione… Anche la Chiesa (del S. Crocifisso) era addobbata e recava l’epigrafe: Le Donne e le Giovani cattoliche / Esultanti per la visita del Padre / Fidenti in Cristo, a Lui / Pel Pastore chiedono benedizioni / Per fratelli e per l’umanità /invocano amore e pace ” (Armonia).

La preparazione spirituale

Il prevosto don Rodolfo con i suoi due coadiutori, don Primo e don Giacomo, si fece carico di proporre una preparazione spirituale. La sera di mercoledì 26 ottobre il santo Crocifisso fu portato nella chiesa prepositurale, dove fu solennemente esposto e fu molto visitato e pregato in tutti i giorni successivi. Conoscendo la profonda devozione, che legava il cardinale al santo Crocifisso, si volle che la visita si compisse in sua compagnia e sotto la sua protezione.

A don Viriginio Civati, canonico di s. Ambrogio, fu affidata la predicazione di un triduo, che fu molto seguito e portò molti ad accostarsi al confessionale e poi alla Comunione generale nel corso della messa solenne, che fu celebrata la domenica alle ore 6.

Lo svolgimento della giornata

Verso le 12.30 il cardinale, accompagnato dal suo segretario e dall’assese monsignor Ambrogio Belgeri, fu accolto all’ingresso del paese dalle Autorità, dal Clero della Pieve e di Canzo, da una fiumana di popolo e… da un fastidioso vento, che persisteva fin dalle prime ore del mattino. In corteo si raggiunse la chiesa prepositurale, dove l’Arcivescovo rivolse un breve cordiale saluto, in cui confidava la sua gioia di ritrovarsi in luoghi e tra presone, che gli ricordavano gli anni giovanili e tante care amicizie. In casa parrocchiale si tenne poi un momento conviviale improntato a grande cordialità, al quale parteciparono il Clero e le personalità locali. Il Corpo musicale di Asso allietò il pranzo, eseguendo alcuni brani musicali. Alla fine, dopo un caloroso scambio di saluti, nel giardino della casa parrocchiale il fotografo assese Luigi Paredi scattò alcune foto di gruppo.

Alle ore 15 in Chiesa fu cantata la Compieta, che si concluse con la benedizione eucaristica. Si dette poi avvio ad una imponente processione con il santo Crocifisso, alla quale presero parte un grande numero di preti, le 11 confraternite della Pieve, le varie associazioni religiose di Asso, i corpi musicali di Asso, di Canzo e di Visino e una impressionante marea di popolo. La processione, dopo avere percorso tutte le vie principali del paese, raggiunse la chiesa del santo Crocifisso: il cardinale dai gradini di accesso alla chiesa impartì una solenne benedizione con il santissimo Crocifisso, che poi fu ricollocato nel suo luogo abituale.

L’arcivescovo quindi, come era suo desiderio vivissimo, si recò in cimitero dove sostò in preghiera accanto ad alcune tombe a lui particolarmente care: quella dello zio don Damiano, quella del prevosto don Pietro Belgeri, quella della maestra Luigia Binda, fondatrice e direttrice dell’oratorio femminile, quella del cavalier Arturo Romagnoli.

Fu poi dedicato un momento di incontro con la realtà giovanile del paese prima all’oratorio maschile e poi all’oratorio femminile. Si passò poi a visitare la Ditta Oltolina, la casa della famiglia e la Chiesetta dei santi Giovanni e Paolo, che la famiglia Oltolina aveva acquistato e restaurato, dopo che durante la guerra era stata piuttosto compromessa, essendo stata usata come prigione militare. La densa giornata si concluse con una breve visita alla signora Rachele Romagnoli. Alle ore 18,30 l’arcivescovo partì per Milano.

Frammenti degli interventi dell’arcivescovo

Alla fine del pranzo, rispondendo ai saluti del sindaco avvocato Giovanni Battista Curioni, del pretore avvocato Giovanni Gallucci e dell’avvocato Carlo De Herra, il cardinale ci tenne ad elogiare la cordialità di rapporti tra autorità civile e autorità religiosa, che fu sempre un vanto di Asso.

Il cugino parroco don Rodolfo, nel suo brindisi di fine pranzo, al ringraziamento per la visita fece seguire la manifestazione di un desiderio suo e della intera popolazione: “Questa vecchia e ben nota casa prepositurale continui ad essere per il Prelato illustre ciò che era stata per il giovane chierico e il giovane sacerdote: asilo di riposo e di pace”. L’arcivescovo rispose: “Qui le persone, i luoghi, le pietre stesse suscitano in me soavissimi ricordi, indimenticabili rimembranze, così che sarò lieto di ritornarvi per qualche giorno di riposo, tanto più se la mia presenza non sarà senza frutto per le anime.

Parlando ai giovani, il cardinale propose loro quel che in precedenza e in varie circostanze aveva detto ai giovani della Diocesi: “Invito tutti i giovani di Asso, nessuno eccettuato, a ripararsi all’ombra di queste due belle istituzioni, che sono particolarmente care al mio cuore di vostro Pastore: esse vi aiuteranno a crescere come gioventù sodamente cristiana, lontano dai pericoli e così prepareranno la novella generazione – quella generazione, nella quale Chiesa e Patria ripongono le più belle speranze – ad essere veramente all’altezza dei compiti religiosi e civili, che l’attendono in un prossimo domani”.


100 anni fa: Achille Ratti eletto papa

La morte di Benedetto XV

Papa Benedetto XV morì il 22 gennaio 1922. Per molte ragioni la sua fu una morte imprevedibile. Infatti, l’età, 67 anni, non era avanzata: i suoi immediati predecessori si erano spenti tutti con molti più anni di vita sulle spalle (Pio IX a 85 anni; Leone XIII a 93 anni; Pio X a 79 anni). Pure  la sua salute non destava particolari preoccupazioni: anche se era di corporatura esile, non era affetto da patologie severe. Tant’è che qualche volta per vanificare le apprensioni, che circolavano sul suo stato di salute, Benedetto XV confidava al suo “entrourage” che nel corso della sua vita aveva speso solo 2,5 lire per cure mediche.

I problemi per la salute del papa vennero da un imprevisto: nei primi giorni del mese di gennaio, mentre stava passeggiando per i Giardini Vaticani, fu sorpreso da un acquazzone improvviso e gelido. Passò del tempo prima che l’autista pontificio potesse essere avvertito e quindi potesse raggiungere il papa. Subito il papa accusò un raffreddore, che però non destò serie preoccupazioni, tant’è che il papa mantenne il suo abituale ritmo di lavoro. Il 18 gennaio, però, il papa manifestò segni di crescente affaticamento e quindi si ritenne di dover fare intervenire il dottor Battistini, che diagnosticò una bronchite, assicurando che la situazione era sotto controllo. Purtroppo però il 20 gennaio mattina si riscontrò una infezione al polmone destro in rapida espansione: di quei tempi le polmoniti avevano molto spesso esito sfavorevole. Il papa perciò volle che gli fosse portato solennemente il santo Viatico e di lì a qualche ora chiese che gli fosse amministrata quella che allora veniva normalmente chiamata Estrema Unzione. Il 22 gennaio si spense alle 6 del mattino: era domenica.

La reazione dell’arcivescovo di Milano

Già il 19 gennaio, quando venne reso noto l’aggravamento delle condizioni di salute del papa, l’arcivescovo espresse il vivo desiderio che tutta la sua diocesi elevasse preghiere per la salute di Benedetto XV.

Domenica, 22 gennaio, l’arcivescovo ricevette la notizia della morte del papa mentre si apprestava a recarsi, come era in agenda, a Besozzo per amministrare le Cresime a più di mille fanciulli. Prima di partire, il cardinal Ratti, volle indirizzare “al venerabile clero e diletto popolo della Città e Diocesi di Milano” una lettera, che si sarebbe dovuta leggere in tutte le chiese.

Ovviamente la prima parte della lettera era dedicata alla figura del papa scomparso, che veniva riletta dall’arcivescovo, facendo riferimento a due esperienze, che avevano segnato la vita della gente e la sua vita personale.

La prima esperienza fu la grande guerra, con cui papa Benedetto XV si dovette misurare in maniera formidabile. Il cardinale Ratti era persuaso che la grandezza di papa Benedetto XV nella vicenda della guerra fosse da vedersi nella sua scelta di intervenirvi come padre. Benedetto XV, in forza di questo atteggiamento di padre, si guardò bene dal prendere la posizione di chi si situa super partes, limitandosi a esibire una netta imparzialità rispetto a tutti gli schieramenti belligeranti. Benedetto XV, in forza di questo atteggiamento di padre, scelse invece di esplicare un’azione molto attiva per fare sì che i figli venissero liberati dal male della guerra, che li stava devastando e che non avrebbe portato a nessuna soluzione, ma anzi avrebbe aggravato ulteriormente i problemi. Benedetto XV, in forza di questo atteggiamento di padre, per il bene dei suoi figli si dette da fare perché si passasse dalla opzione bellica alla opzione diplomatica. Benedetto XV, in forza di questo atteggiamento di padre, per il bene dei suoi figli, mise in atto una fitta e generosa rete di interventi caritativi per fronteggiare i gravi dissesti e disagi generati dalla guerra. In questa paternità il cardinale Ratti vide la grandezza di Benedetto XV nella vicenda bellica.

L’arcivescovo invitava poi i fedeli ambrosiani a ricordare con affetto e riconoscenza la figura di Benedetto XV, rifacendosi all’esperienza vissuta pochi mesi prima a Roma in occasione della sua elevazione cardinalizia e della sua nomina ad arcivescovo: sia il vescovo sia il popolo ebbero da parte del papa segni straordinari di predilezione.

La seconda parte della lettera riportava le disposizioni sia per tributare al papa defunto la doverosa preghiera di suffragio sia per invocare l’azione dello Spirito Santo sull’iter di elezione del nuovo papa e sulla persona, che sarebbe stata eletta.

Le solenne onoranze funebri in Duomo

Martedì 24 gennaio alle ore 10 il cardinale arcivescovo celebrò la santa Messa in suffragio del papa defunto. Fin dalle 9 del mattino il Duomo era gremito di fedeli. Presero parte alla celebrazione esponenti del mondo politico, rappresentanti delle forze militari, dell’apparato giudiziario, dell’apparato amministrativo, del mondo accademico cattolico, dell’associazionismo cattolico, della Curia e del Clero. Ancora una volta la Maggioranza del Consiglio Comunale e del  Consiglio Provinciale optò per l’assenza. Il Duomo fu addobbato a lutto in maniera solenne.

Finita la santa Messa, l’arcivescovo tenne il discorso commemorativo, riprendendo sostanzialmente in forma più solenne i temi già esposti nella summenzionata lettera: il ruolo luminoso di pace e di carità svolto dal papa durante la grande guerra; la predilezione nei confronti dei “suoi cari milanesi”; la singolare considerazione del papa defunto nei confronti della sua persona.

La partenza per Roma

Il 24 gennaio il cardinale partì dalla Stazione Centrale con il diretto delle 20,45. A salutarlo con tanto affetto intervennero parecchia gente, le rappresentanze ecclesiastiche e laicali della Diocesi e qualche esponente della Minoranza consigliare. Il momento della partenza viene così raccontato dalla Rivista Diocesana Milanese a pag. 58 del numero di febbraio 1922: “Quando il treno si mette in moto riscoppiano fragorosamente gli evviva, v’è in ogni voce ed in ogni cuore l’augurio che l’Arcivescovo torni alla sua Milano. Le lagrime luccicano dietro le lenti del Cardinale, che con gesto solenne e paterno ad un tempo promette e benedice”.

Verso il conclave

A Roma il cardinal Ratti prese alloggio, come era solito fare, presso il Pontificio Seminario Lombardo, che allora aveva la sua sede in via del Mascherone. Da qui nei giorni successivi raggiunse di volta in volta il Vaticano per partecipare alla solenne tumulazione del papa defunto nelle cripte della basilica di san Pietro (26 gennaio) e alle quotidiane congregazioni generali preparatorie del collegio cardinalizio.

Giovedì, 2 febbraio, festa della Presentazione e della Purificazione, primo anniversario della morte del cardinal Ferrari, l’arcivescovo Ratti si portò in Vaticano per partecipare ai riti di avvio del Conclave. Alle ore 10 i cardinali si riunirono nella cappella Paolina per partecipare alla santa messa solenne “de Spiritu Sancto” celebrata dal cardinale Vincenzo Vanutelli, decano del Collegio cardinalizio. Alla fine della messa venne recitata la preghiera “de eligendo Pontifice”. Nel primo pomeriggio per sorteggio gli venne assegnato come alloggio parte dell’appartamento dell’Elemosiniere segreto del Papa. A sera, alle 18, sempre dalla cappella Paolina al canto del “Veni Creator” prese avvio la processione per raggiungere la Cappella Sistina e iniziare ufficialmente il conclave.

Composizione del Conclave

Il collegio cardinalizio al 2 febbraio contava 60 cardinali, però solo 53 poterono partecipare al conclave. Per via della norma stabilita da papa Pio X, che imponeva di iniziare il conclave 11 giorni dopo la morte del papa, a tre cardinali mancò la possibilità di arrivare a Roma per tempo (gli arcivescovi di Québec, Philadelphia e Boston). Quattro cardinali invece non si presentarono o per motivi di salute o per ragioni di età.

Tra i cardinali si distinguevano vari orientamenti. Due  di questi schieramenti però avevano un peso di rilievo: a determinarli era il grande problema, con cui la Chiesa si doveva misurare da decenni: come atteggiarsi nei confronti di una società, che non era più monoliticamente cristiana, ma era notevolmente segnata e anche guidata da orientamenti sviluppatisi al di fuori dell’alveo cristiano e spesso anche in contrasto con esso.

Un gruppo consistente di cardinali riteneva che la Chiesa dovesse assumere un atteggiamento intransigente, rieditando la linea pastorale di papa Pio X: conservare senza cedimenti il patrimonio della tradizione, contrastare ogni tendenza di adeguamento alla modernità, restaurare quanto era stato compromesso o abbandonato. Alla modernità era possibile solo contrapporsi. A questo gruppo si dà la qualifica di “zelanti” o “intransigenti”. Candidato di questo gruppo era il cardinal Rafael  Merry del Val y Zulueta, che era stato Segretario di Stato sotto Pio X e che era stato segretario della Congregazione del Santo Uffizio sotto Benedetto XV.

Un altro gruppo pure rilevante di cardinali riteneva invece che compito della Chiesa era di entrare in dialogo con la modernità, non per scendere a patti e compromessi a danno dell’integrità della dottrina, ma per farsi riconoscere i più ampi spazi possibili di presenza e di azione in libertà. Per questo gruppo di cardinali, che si poneva in continuità con la linea pastorale di Benedetto XV, si usa la qualifica di “politici”. Candidato di questo gruppo era in primis il cardinal Pietro Gasparri, che era stato il Segretario di Stato di Benedetto XV.

Sia Merry del Val, candidato degli zelanti, sia Gasparri, candidato dei politici, appartenevano alla Curia Romana, perciò ambedue gli schieramenti individuarono delle possibili alternative con una impronta più pastorale: gli zelanti posarono lo sguardo sul cardinal La Fontaine, patriarca di Venezia e i politici invece posarono la loro attenzione sul cardinal Maffi, arcivescovo di Pisa.

Svolgimento del conclave

Per l’elezione del papa erano richiesti almeno i due terzi dei voti (almeno 36 voti quindi). Erano previsti due scrutini al mattino e due al pomeriggio. Si cominciò a votare il 3 febbraio. Il cardinal Ratti risultò eletto il 6 febbraio, al secondo scrutino del mattino, quindi dopo 14 scrutini e al quinto giorno del conclave. Fu quindi il conclave più lungo del Novecento.

E’ possibile conoscere come i cardinali hanno espresso il loro voto nei vari scrutini grazie a due studiosi, che sono riusciti ad avere tra mano e poi pubblicare degli appunti trovati nelle carte, che due cardinali elettori avevano conservato.

Il 16 dicembre 1935 la rivista Nuova antologia a pagina 484 pubblicò un articolo intitolato Cose vaticane, firmato con lo pseudonimo CAMERARIO. L’autore, servendosi degli appunti rinvenuti tra le carte del cardinale Pietro La Fontaine, patriarca di Venezia, morto da qualche mese (9 luglio 1935), rese noti i voti espressi dai cardinali nei vari scrutini del conclave del 1922.

Sul numero di luglio-agosto del 1963 di La Revue nouvelle, l’archivista MAX LIEBMANN pubblicò un articolo intitolato “Les conclaves de Benoit XV et de Pie XI. Notes du cardinal Piffl”: utilizzando appunti lasciati dal cardinal Friedrich Gustav Piffl, arcivescovo di Vienna, morto il 21 aprile 1932, rese note le votazioni dei conclavi del 1914 e del 1922.

Dai quattro scrutini del 3 febbraio traspare che lo schieramento dei cardinali politici distribuì i suoi voti su due candidati: il cardinal Gasparri, che raggiunse un massimo di 13 voti e il cardinal Maffi, che ottenne un massimo di 10 voti. Lo schieramento dei cardinali zelanti invece distribuì i suoi voti su altri due candidati: Merry del Val, che ottenne un massimo di 17 voti e il cardinal La Fontaine, che da un massimo di 9 voti al mattino scese nel pomeriggio a 1 solo voto. Il cardinal Ratti oscillava tra i 5 e 6 voti.

Dai quattro scrutini del 4 febbraio emerge che lo schieramento dei cardinali politici si concentrò sul cardinal Gasparri, che raggiunse i 24 voti, abbandonando la candidatura del cardinal Maffi. L’altro schieramento, invece, preso atto che la candidatura del cardinal Merry del Val non prendeva quota, decise di concentrarsi sul cardinal La Fontaine, che raggiunse un massimo di 22 voti. Il cardinal Ratti continuava ad oscillare tra i 4 e 5 voti.

Dai quattro scrutini del 5 febbraio emerge che lo schieramento dei cardinali politici si persuase che il cardinal Gasparri non sarebbe riuscito ad ottenere i voti necessari e quindi dai 24 voti del mattino si arrivò a 2 soli voti all’ultimo scrutinio. L’altro schieramento continuò a sostenere il cardinale La Fontaine, che non andò oltre i 22 voti. Il fatto nuovo fu che nel corso della giornata prese quota la candidatura del cardinal Ratti, che passò dagli 11 voti ai 27 voti: chiaramente, quindi, un buon numero di cardinali politici scelse di appoggiare la candidatura dell’arcivescovo di Milano.

Da quel che il suo segretario, don Carlo Confalonieri, ci ha raccontato nella sua opera Pio XI visto da vicino, apprendiamo che “la sera del cinque febbraio, terzo giorno del Conclave, si notò un movimento più accentuato, un più frequente avvicendarsi di visite di Porporati al cardinale di Milano. La mattina del 6, vedendolo entrare in cappella per la celebrazione della Messa, il segretario notò sul suo volto un velo di pacata sofferenza: «Iudica me, Deus…Emitte lucem tuam…Quare tristis es, anima mea…»: più che recitazioni, erano singhiozzi di pianto, che invano tentava di dominare o dissimulare. Era evidente che qualche cosa di grosso stava maturando…” (pag. 27-28).
Al primo scrutinio del mattino del 6 febbraio cominciò a manifestarsi il passaggio di qualche cardinale zelante dalla parte del cardinal Ratti, che ottenne 30 voti, mentre il cardinale La Fontaine scese a 18 voti. Al secondo scrutinio il quorum fu raggiunto: cardinal Ratti 42 voti, cardinal La Fontaine 9 voti.

La testimonianza del cardinal Mercier, arcivescovo di Malines

Ho pensato di farvi rivivere gli eventi successivi all’elezione, traducendo una nota lasciata dal cardinal Désiré-Joseph Mercier, arcivescovo di Malines, testimone diretto.
«Alle ore 11 14° scrutinio, che dà una maggioranza di due terzi al cardinal Ratti… Una volta che fu proclamato il risultato finale, tutti i cardinali si accostano all’eletto, gli fanno cerchio intorno. Il Decano del Sacro Collegio si avvicina insieme con il cerimoniere e chiede all’eletto: “Accetti?”. Momento solenne. L’eletto risponde pressappoco con queste parole, che penso di avere memorizzato e riproposto in maniera molto fedele: l’eletto si è raccolto, con la voce rotta dall’emozione: “Perché non sembri che io non voglio aderire in totale sottomissione alla volontà della divina Provvidenza, perché non sembri che io mi voglio sottrarre al peso, che mi viene posto sulle spalle per fare il bene alla Chiesa, perché non sembri che io non tengo in considerazione i voti degli Eminentissimi Padri, nonostante la mia indegnità (l’eletto si inchina e si raccoglie in silenzio per qualche attimo) accetto”. Gli applausi discreti, trattenuti, diventano fragorosi. Da questo momento abbiamo un Papa: Habemus Papam! “Che nome prendi?”. “In memoria di Pio IX, di cui sentii il nome fin da bambino… in memoria di Pio X che per primo mi chiamò a Roma e che amai: memore anche di Benedetto XV, di cui sono creatura, mi pongo sotto il patrocinio di questi Santi Pontefici e scelgo di assumere il nome di Pio. Pio XI sia pertanto il mio nome. Aggiungo una cosa: Dichiaro di volere custodire integralmente e garantire i diritti della Chiesa e della santa Sede, affinché di questa cosa che aggiungo non si dia una interpretazione, che non sia conforme a questi diritti da custodire e difendere. Detto questo: affinché questa prima benedizione, che mi appresto a impartire, manifesti anche in maniera visibile qual è il senso intimo del mio cuore, lo voglio dispiegare non solo all’Urbe di Roma, non solo all’Italia, ma al mondo intero, nella speranza che la pace cristiana abbia a discendere su tutto il mondo, che è ovunque enormemente sconvolto”. Ogni cardinale poi si accosta e in piedi si abbandona all’abbraccio col papa… Nel frattempo il cardinale Czernoch commenta: “Abbiamo fatto passare il cardinal Ratti per le 14 stazioni della Via Crucis, l’abbiamo portato fin sul Monte Calvario ed ora lo lasciamo lì con il Divin Crocifisso”. Il papa si ritira e dopo un po’ di tempo rientra nella Cappella Sistina, indossando una veste bianca e la mozzetta di porpora. In questo lasso di tempo, vengono abbassati i baldacchini dei vari cardinali, lasciando elevato solo quello del papa. Per errore, però, il baldacchino del cardinale Andrieu rimane alzato. Qualcuno gli dice: “Sei un antipapa?”. Dopo la prima “adorazione” solenne prestata dai cardinali… c’è la prima benedizione solenne Urbi et Orbi dalla loggia esterna di san Pietro… ” (da R. AUBERT, Le cardinal Mercier aux conclaves de 1914 et de 1922, Bulletins de l’Académie Royale de Belgique, Année 2000, pp 231-232).
Dopo la conquista di Roma da parte del Regno d’Italia nel 1870, questa benedizione non era stata più impartita dai papi dal balcone esterno per affermare che si sentivano in una sorta di prigionia. Fu quindi molto significativa questa scelta di Pio XI.

Valutazione della scelta

Il cardinal Ratti non apparteneva a nessuno dei due schieramenti di cardinali e quindi, quando fu chiaro che nessuno dei due schieramenti era in grado di affermarsi, l’attenzione fu portata su di lui, che ancora una volta fu riconosciuto come persona della mediazione. Scegliendo il nome di Pio, certamente il cardinal Ratti volle mostrare agli zelanti, che i valori della tradizione, dei quali essi si facevano paladini, facevano parte anche della sua vita. Però, designando subito il cardinal Gasparri come suo Segretario di Stato, volle anche chiaramente dichiarare che era sua ferma intenzione di continuare la linea del dialogo e dei concordati con gli stati moderni sostenuta da Benedetto XV. In seguito il cardinal Gasparri confidò ad amici che il nuovo papa, ricevendolo per affidargli l’incarico di Segretario di Stato, lo mise a conoscenza di un colloquio, che ebbe la sera prima dell’elezione: il cardinal Gaetano De Lai, esponente di primo piano dello schieramento degli zelanti, gli avrebbe promesso i voti della sua corrente a patto che si impegnasse a non nominare il cardinal Gasparri come suo Segretario di Stato. Fu una mossa improvvida e grave, che manifestava quanto poco si conoscesse la inflessibilità del temperamento del cardinal Ratti, che certo non si sarebbe minimamente piegato alla manovra, sia perché in nessun modo ambiva ad essere eletto sia perché mai avrebbe accettato di contravvenire alle norme canoniche, che vietavano assolutamente i tentativi di patteggiamento e di pressione nel contesto della elezione papale. Con la rapidissima nomina di Gasparri Pio XI mostrò di quale tempra fosse fatto.

Conclusione
Concludo questa lunga serie di articoli dedicati al centenario della elevazione cardinalizia, della nomina ad arcivescovo e della elezione a papa del nostro don Achille Ratti, riportando integralmente quanto il cugino don Rodolfo Ratti annotò sul Liber chronicus della parrocchia di Asso.

Febbraio. 6. Don Achille Ratti, Arcivescovo di Milano eletto Papa col nome di Pio XI.
Della faustissima notizia gode e tripudia colla Chiesa universale, con Milano, anche la nostra Parrocchia. Asso infatti è amata dal novello Pontefice come seconda Patria, come il paese più caro, indimenticabile, perché ricorda a lui gli anni più belli, più giocondi della sua gioventù. Legittimo quindi il delirante tripudio di Asso e la dimostrazione che ne viene subito fatta alla Casa prepositurale ed al Prevosto, Cugino in primo grado di Pio XI ne fu la prova tangibilissima. Le campane hanno suonato a distesa per ore intere: numerosi telegrammi di felicitazioni, lettere, biglietti da visita in grande copia pervennero al Prevosto: peccato che il Prevosto stesso non poté personalmente prendere parte alla dimostrazione, perché obbligato a letto da un attacco di dolori artritici. Venne spedito telegramma al Papa, esprimente la esultanza per la sua elevazione alla Cattedra di S. Pietro, ed Egli si compiaceva rispondere con un duplice telegramma, per l’intera popolazione l’uno, per la persona del Prevosto l’altro, entrambi molto affettuosi. Nella Domenica successiva veniva cantato un solenne Te Deum di ringraziamento ed il Prevosto, pure a stento, vi poteva intervenire. Alla cerimonia dell’Incoronazione, fatta il 12 febbraio stesso, il Fratello del Prevosto, Sig. Antonio Ratti di Rogeno, rappresentava anche il Prevosto e la popolazione di Asso, e veniva, coi famigliari, ricevuto in particolare udienza privata, nella quale fra l’altro volle notizie sulla salute del Prevosto stesso, e riportava saluti, benedizioni per lui e per la popolazione. Che il Signore sia propizio, largo della sua divina assistenza al novello Papa, che assume il governo della Chiesa in un momento terribilmente grave!
”.