lunedì 4 marzo 2024

 

LA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO

AL DI FUORI DEL MONDO ELLENISTICO-ROMANO NEL IV SECOLO

 

Nel quarto secolo: descriveremo il fenomeno distinguendo due ambiti di azione missionaria:

1.       La cristianizzazione dei popoli oltre i confini

2.       La cristianizzazione dei “barbari” entro i confini.

1.                   La cristianizzazione dei popoli germanici oltre i confini

2.                    II canone del concilio di Costantinopoli del 381 proclama: “Le Chiese di Dio che si trovano nelle nazioni barbare saranno amministrate secondo gli usi stabiliti dai nostri Padri” (cfr Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Bologna 31973, 32). Questo ci dice che verso la fine del IV secolo già si conosceva una irradiazione del cristianesimo oltre i confini dell’Impero: è di questo fenomeno che ci vogliamo occupare. Come procederemo? Prima di tutto e soprattutto dedicheremo la nostra attenzione alle modalità di evangelizzazione e, poi, solo all’interno di questo discorso, faremo rapidi accenni alla distribuzione geografica.

Partiamo dalla testimonianza di un’opera anonima, che risale alla metà del V secolo ed è intitolata: De vocatione omnium gentium (spesso viene attribuita ad un amico di Agostino, Prospero Tirone di Aquitania, un laico teologo): “Alcuni figli della Chiesa, catturati dai nemici, assoggettarono i loro padroni al vangelo di Cristo e quindi nell’insegnamento della fede si trovarono ad essere superiori di coloro sotto cui per la sorte bellica dovevano vivere come servi. Anche dei barbari, venuti a fare gli ausiliari dei Romani, appresero nelle nostre regioni ciò che nella loro terra di origine non avevano potuto conoscere, poi fecero ritorno alle loro sedi, portando con sé la formazione cristiana”. Da questa testimonianza, che abbiamo addotto a titolo esemplificativo, perché trova conferma in altre fonti, traspare che due sono le vie di penetrazione del cristianesimo nel contesto non-romano: “barbari” cristianizzati durante il servizio nell’esercito romano, divenuti poi evangelizzatori una volta tornati in patria e romani-cristiani, che erano stati fatti prigionieri dai “barbari” o in scontri bellici con l’Impero o in occasione di loro incursioni all’interno del territorio imperiale.

Le due vie ebbero una incidenza diversa. Un “barbaro”, quando tornava a reinserirsi tra la sua gente, diventava facilmente un isolato, uno sbandato, anche perché da cristiano qual era diventato si ostinava a non prendere parte alle feste e ai riti della sua gente: in una situazione come questa la proposta di una fede sconosciuta difficilmente poteva ottenere attenzione e consenso. Ma poteva invece verificarsi qualcosa di diverso, quando a fare ritorno in patria era un “barbaro”, che prima di partire aveva goduto di un certo prestigio tra la sua gente. Un certo credito poteva anche essere prestato a un “barbaro”, che tornava tra i suoi facendo sfoggio della sua romanizzazione e soprattutto della sua borsa piena di monete romane. Ma questo casi furono piuttosto rari, tant’è che mai nessuno ha sostenuto che vi fu anche un solo popolo germanico importante, che fu convertito grazie all’azione missionaria di mercenari ritornati in patria. Intorno a questi si ebbero talora presenze isolate di cristianizzati.

Le fonti storiche invece mostrano che fu più efficace la presenza dei prigionieri cristiani. Rufino nella sua Historia ecclesiastica (I,10) ci narra la vicenda di una schiava cristiana, cui poi la leggenda dette il nome di Nina, che, ai tempi di Costantino, avrebbe spinto il re della Georgia, Mirian, a convertirsi e a fare venire da Antiochia dei predicatori greci per l’evangelizzazione del suo popolo. Questa notizia di Rufino è ritenuta credibile dalla storiografia.

Anche la conversione dei Goti è strettamente connessa, almeno ai suoi inizi, con la presenza di prigionieri cristiani. Nel corso del III secolo si erano formati tra i Goti dei nuclei cristiani intorno a dei chierici e a dei laici o catturati dai Goti durante le incursioni nell’Impero o discendenti da prigionieri cristiani. Lo stesso Ulfila, che nel corso del IV secolo organizzò una Chiesa nazionale dei Goti di professione ariana, discendeva per via materna da un cappadoce cristiano prigioniero di guerra.  E Ulfila, proprio per questa sua formazione mista, seppe promuovere la gotizzazione del cristianesimo: inventò infatti un alfabeto gotico, di cui si servì per la traduzione della Bibbia in gotico e per redigere i testi liturgici in gotico.

Anche nella Mesopotamia appartenente all’impero persiano sassanide nel corso del III secolo si verificò una discreta penetrazione del cristianesimo, quando il re Sapore I vi deportò prigionieri romani, al tempo della guerra vittoriosa contro l’imperatore Valeriano (260). Il IV secolo segnò per questi cristiani grosse difficoltà, perché già sospettati di essere praticanti di una religione straniera, che comprometteva l’unità religiosa dello stato, vennero poi considerati quinta colonna del nemico nazionale, quando il potere imperiale romano si legò al cristianesimo. Verso la fine del IV secolo lo stato persiano, grazie alla mediazione del vescovo Maruta, assunse un atteggiamento più tollerante, che consentì ai cristiani persiani di forgiare una salda organizzazione ecclesistica.

Perché i prigionieri cristiani ebbero questa incidenza maggiore? Per un convergere di fattori, che, se stiamo alle fonti, suscitavano tra i “barbari” un’alta considerazione: Sozomeno nella sua Storia Ecclesiastica mette in rilievo il prestigio che i prigionieri cristiani si guadagnarono grazie alla loro maggior perizia in campo sanitario; Girolamo nella biografia piuttosto leggendaria dedicata al monaco Malco, che sarebbe vissuto nel deserto della Calcide, legò invece l‘ascendente dei prigionieri cristiani alla coerenza della loro testimonianza cristiana (Vita degli eremiti Paolo, Malco, Ilarione).

Paolino, diacono di Milano e biografo di sant’Ambrogio, ci fa intuire una terza via di irradiazione del cristianesimo tra i “barbari”: al n. 36 della biografia narra di un italiano che, mentre era in viaggio presso i Marcomanni, accostò la principessa locale Fritigilda, le parlò di sant’Ambrogio e di Cristo e la convertì. Il seguito ci è già noto: Fritigilda chiese istruzioni a sant’Ambrogio, che le rispose con una lettera in forma di catechismo. Mi pare che da questo episodio si possano trarre due indicazioni: da una parte l’iniziativa missionaria di una viaggiatore, probabilmente un mercante, dall’altra un presenza solo di risultanza della Chiesa ufficiale. Probabilmente non si trattò di un fatto episodico, però non è possibile ritenere che oltre il confine settentrionale dell’impero potessero essere frequenti iniziative di questo tipo: infatti, dal momento che in quella zona l’attività mercantile era di scarsa entità, non dovettero essere molte le piccole comunità di commercianti romani ivi insediate.

Ancor meno rilevante dovette essere nel Nord il fenomeno  dell’importazione del cristianesimo da parte di mercanti germanici, che, operando nel territorio dell’Impero si sarebbero fatti cristiani.

Al confine meridionale invece c’erano centri di intensa vita commerciale e questo consentì una più facile evangelizzazione. Fu il caso di Axum, porto fiorente dell’Etiopia, importante snodo per le vie commerciali dell’Africa e dell’India. Qui si sviluppò l’opera missionaria di un certo Frumenzio, un cristiano di Tiro della Fenicia: fu fatto prigioniero dagli indigeni, mentre stava compiendo un viaggio di esplorazione e fu condotto come schiavo alla corte del re di Etiopia. Divenuto prima segretario del vecchio re e poi precettore e consigliere del nuovo re, Frumenzio ottenne una notevole libertà di azione anche in campo religioso: si mise alla ricerca dei mercanti romani e cristiani della città e stabilì dei luoghi di riunione, in cui era possibile pregare alla maniera romana. Quando si recò da Atanasio, vescovo di Alessandria, per informarlo della vita cristiana  nel regno di Aksum, Frumenzio si trovò nominato vescovo di Aksum. A questo punto soltanto, dopo avere consolidato la sua posizione tra i commercianti romani e dopo avere ottenuto un incarico ufficiale, Frumenzio depose l’atteggiamento di indifferenza verso gli indigeni e si rivolse anche a loro.

Anche nell’Arabia del Sud, attuale Yemen, furono dei mercanti romani, che frequentavano i porti del Mar Rosso, a costituire un  primo nucleo cristiano nel corso del IV secolo. Verso gli anni 350 l’imperatore Costanzo mandò presso il re degli Himyariti una delegazione per ottenere benevolenza nei confronti della presenza cristiana.

Una quarta via, sempre situata nell’ambito delle iniziative private, è rintracciabile nella conversione dell’Armenia. Siamo agli inizi del IV secolo: Gregorio, un uomo di nobili natali e imparentato con la famiglia reale, mentre era in esilio in Cappadocia, si convertì al cristianesimo. Tornato in patria, favorì la conversione del re Tiridate. Dal vertice la conversione si trasmise fino a tutta la base (cosa che divenne tipica in Occidente tra i popoli germanici). Nacque una Chiesa armena, che ovviamente faceva riferimento a Cesarea di Cappadocia, ma si strutturò secondo caratteristiche nazionali: l’ordinamento pagano tradizionale fu infatti trasformato in ordinamento cristiano, i templi furono trasformati in chiese, i sacerdoti pagani divennero cristiani, mantenendo l’ereditarietà delle loro funzioni. Gregorio, che sarà poi detto l’Illuminatore, divenne primo Catholicos d’Armenia e fondò la dinastia dei primati successivi. La conversione fu molto rapida e di massa, con la conseguenza che si ebbe in Armenia un cristianesimo superficiale, spesso disturbato dalle pesanti ingerenze regie. Verso la fine del secolo il Catholicos Isacco il Grande promosse una rilevante azione di riforma, che fra l’altro comportò la creazione di un alfabeto armeno, che sarà la base di una cultura nazionale cristiana.

In conclusione si deve rilevare che questa irradiazione del cristianesimo oltre la cultura ellenistico-romana fu senz’altro frutto di sforzi casuali, non organizzati, privati. Infatti, non ci risulta che la Chiesa cattolica ufficiale abbia mandato qualche vescovo o qualche prelato inferiore all’estero tra i prigionieri e i mercanti cristiani per curarne la vita religiosa e tanto meno per occuparsi delle popolazioni indigene.

Agostino è testimone di questa Chiesa imperiale chiusa in se stessa sia per esigenze interne sia per via di quella sua mentalità che sovrapponeva cristianesimo e romanità. Ecco uno stralcio dalla sua Lettera 199, 46: “Qui da noi, in Africa, ci sono innumerevoli tribù di barbari, ai quali il Vangelo non è stato ancora predicato, come è facile informarsi dai prigionieri che arrivano nelle nostre città e vanno ormai ad aumentare il numero degli schiavi dei Romani. E' pur vero che sono passati pochi anni da quando, in numero limitato, alcuni di essi, i quali ormai assoggettati fanno parte dei territori romani sì da non avere più capi supremi propri ma governatori stabiliti su di essi dall'impero romano, hanno cominciato ad essere Cristiani con gli stessi loro governatori. Alcuni invece di coloro, che abitano nelle regioni interne e non sono per nulla sotto il dominio romano, non hanno neppure alcun legame con la religione Cristiana, senza che per questo si possa dire assolutamente che essi non appartengono alla promessa di Dio”.

Di fronte alla constatazione della presenza di infedeli Agostino non arriva a formulare un appello per un immediato impegno missionario, ma si limita ad affermare che presto o tardi anche per loro si adempirà la promessa di Dio. E per Agostino la dominazione romana era la strada per giungere all’adempimento della promessa per gli infedeli.

 

2.       La cristianizzazione dei popoli germanici entro i confini

Il problema dei “barbari”, dunque, finché si prospettava come problema di relazioni con gente, che stava oltre i confini dell’Impero, non ottenne molta attenzione da parte delle comunità cristiane ellenistico-romane. Non poté invece essere eluso, quando il fenomeno della penetrazione di singoli e o gruppi di “barbari” entro i confini dell’Impero portò il problema in casa.

Noi in genere dedichiamo la nostra attenzione al grande fenomeno della migrazione dei popoli germanici, che investì l’Occidente soprattutto nei secoli V e VI, non deve tuttavia sfuggire che esso aveva un preludio nei secoli precedenti. Fra il III secolo a.C. ed il I secolo a. C. aveva preso le mosse dallo Jütland una prima grande ondata germanica, che dilagò in due direzioni: un gruppo si rivolse verso il Sud, giungendo alle acque del Reno e recando una qualche minaccia al confine romano: Cesare negli anni 58-51 a.C. impose a questo gruppo il Reno come confine invalicabile. Un secondo gruppo piegò verso Oriente: la salda organizzazione delle province romane della Rezia e del Norico impedì l’attraversamento del Danubio nella zona della Boemia e la barriera montuosa dei Carpazi ostacolò l’accesso alla pianura ungherese. Pertanto questo secondo gruppo dovette puntare sul Mar Nero.

Il bilancio di questa prima ondata non fu un nulla di fatto, perché comportò conseguenze rilevanti per la vita successiva dell’Impero. Prima conseguenza: l’Impero romano stesso fece spazio ad una penetrazione pacifica dei “barbari”, ricorrendo ai prigionieri “barbari” per ripopolare regioni devastate, oppure ricorrendo a gruppi di “barbari” liberi come coloni-militari, che coltivassero e insieme difendessero certe zone di confine, oppure ancora servendosi sempre più di persone di origini germaniche per infoltire i ranghi dell’esercito.

Seconda conseguenza: l’Impero romano impedendo la diffusione delle orde “barbariche” all’interno dell’Impero, finì con il favorirne la coagulazione lungo i confini dell’Impero. Alla fine del II secolo e inizio del III secolo si formarono infatti sia coalizioni di tribù sia federazioni etniche. Questo passaggio dalla dispersione anarchica al raggruppamento organizzato offrì alla pressione delle tribù sul limes una forza, che prima non aveva mai avuto. L’Impero romano se ne avvide molto bene nel III secolo, quando i popoli, che si erano stanziati sulle rive del Reno e del Danubio, assaltarono il limes, perché a loro volta si trovarono incalzati da una pressione di popoli, che altro non era che il contraccolpo di un nuovo movimento migratorio iniziato nel primo quarto del II secolo sulle coste del Baltico: gli spazi disponibili oltre il confine divennero troppo stretti e quindi si tentò l’invasione. Per decenni gran parte del territorio imperiale fu devastato da scorrerie. Solo ai tempi di Diocleziano le orde barbariche si ritirarono oltre il confine. Come mai? Nei popoli germanici si ebbe una rallentamento del ritmo della crescita demografica a causa del salasso determinato dalle guerre contro i Romani, si ebbe anche una fase di inaridimento del fenomeno migratorio. A fronte di tutto questo si ebbe un aumento delle risorse  e quindi fu ristabilito un certo equilibrio tra popolazione e risorse con conseguente riduzione della necessità di incursioni nell’Impero.

Anche questa seconda ondata non fu senza conseguenze: una massa di prigionieri “barbari” venne impiegata per rimettere a cultura le campagne devastate. Perché questa ampia digressione sui prodromi delle grandi migrazioni del V e del VI secolo? Prima di tutto per mostrare che già prima delle grandi migrazioni, negli incontri e scontri con l’Impero, i popoli germanici vennero a contatto anche con il cristianesimo. E’ certo, per esempio, che nella seconda metà del III secolo si sviluppò una organizzazione episcopale lungo i confini tra Impero romano e popolo germanici.

Questo contatto non portò però a fenomeni di conversione, perché ai popoli germanici il cristianesimo appariva come una tra le tante religioni di quel mondo romano, al quale dovevano contrapporsi.

Dal nostro discorso sui prodromi delle grandi migrazioni dovrebbe emergere che già prima del V secolo le Chiese dell’Impero avrebbero dovuto affrontare in loco il problema dei “barbari” da cristianizzare. Ma questo non avvenne se non in maniera ridotta e sporadica. Le poche fonti, infatti, che accennano a questo problema, risalgono ad un arco di tempo molto breve: poco prima e poco dopo il 400; e ci informano dell’azione isolata di alcuni ecclesiastici: Niceta di Remesiana, Victricio di Rouen, Amanzio di Aquileia, che si impegnarono per la cristianizzazione di alcuni insediamenti germanici. Furono dunque sforzi locali, piuttosto tardivi, difficilmente riconducibili a una politica generale da parte della Chiesa.

Merita di rilevare che queste conversioni sporadiche, quando si verificarono, ebbero una importante ricaduta politico-sociale, perché favorirono l’inquadramento dei “barbari” nel sistema sociale e culturale romano. Se ne avvidero scrittori dell’epoca, quali Paolino di Nola e Orosio, ma il governo romano non prestò nessuna attenzione e considerazione al dato.

Fu dunque in seguito alle migrazioni dei secoli V e VI che il problema della cristianizzazione dei “barbari” si impose.