SAN FRANCESCO
La questione
francescana: breve nota storiografica
Verso la fine dell’Ottocento, soprattutto in connessone con
il VII centenario della nascita di san Francesco (1882), si ebbe un grande
risveglio degli studi francescani, che si avvalsero dei metodi più moderni
della critica storico-letteraria.
Si vedano:
·
F. EHRLE, Osservazioni critiche sulle più
antiche biografie di San Francesco : Zeitschrift für
Katholische Theologie II (1883), 383-397
·
Analecta Franciscana
I, Quaracchi 1885
·
Miscellanea Francescana,
Foligno 1886.
Altro momento
importante fu l’anno 1894, perché a Parigi il pastore calvinista PAUL SABATIER
pubblicò la La vie de saint François, che dette vita a un movimento di
studi francescani anche al di là degli ambienti strettamente ecclesiastici.
Nacque così la
QUESTIONE FRANCESCANA: fra gli antichi testi, così disparati e contraddittori
nel riferire gli episodi caratteristici della vita e dell’operato spirituale di
san Francesco, quali, contengono la più genuina rappresentazione dei fatti e
degli ideali del santo e degli inizi del suo ordine?
Gli scritti
riconducibili a san Francesco sono pochi:
·
Regola del 1221
·
Regola bullata del 1223
§ La regola delle
Clarisse e la regola del Terz’Ordine nella forma attuale non sono di Francesco.
Tuttavia nella regola delle Clarisse alcune righe provengono dalla “Forma
vivendi”, che san Francesco aveva in origine scritto per le suore di santa
Chiara e dalla “Ultima voluntas” indirizzata a loro.
·
Testamento
·
Qualche lettera (secondo gli studiosi di Quaracchi non
sono più di 7. Va esclusa le lettera a sant’Antonio da Padova, che viene
considerata dubbia)
·
Qualche opera poetica:
§ La
laude “Timete et honorate…” (cap. XXI
della I regola)
§ La
laude riportata dall’ultimo capitolo della I regola
·
4 poesie o cantici di lode:
§
Laudes Domini in latino: comprendono una parafrasi
del Pater noster e una sorta di canto alternato di lodi, che utilizza passi
dell’Apocalisse, del profeta Daniele e del Te Deum
§ Laudes
de virtutubus in latino: de vitutibus quibus decorata fuit sancta Virgo et
debet esse sancta anima; è una salutatio virtutum.
§ Laudes
Dei in latino: se ne conserva il manoscritto originale. Sul rovescio del foglio abbiamo
la benedizione per frate Leone, la dedica, e la firma in forma geroglifica: un
TAU, quale segno della croce preso da Ez 9, 4, situato su uno schizzo di monte
con teschio e sotto delle righe a zig zag: la benedizione per frate Leone è
posteriore di qualche giorno alle stimmate del 14 settembre 1224.
§ Cantico
delle creature in italiano
·
Officium passionis Domini (una
silloge di passi biblici)
·
Preghiera: Omnipotens aeterne, iuste et
misericors Deus… è la parte finale della
lettera al capitolo generale
·
Preghiera: Omnipotens,
sanctissime, altissime et summe Deus: è la chiusa delle Laudes Domini
·
Preghiera; Absorbeat: E. Boehmer la ritiene dubbia, Quaracchi
invece l’accolgono tra gli scritti di san Francesco.
Cfr Opuscola S.
Patris Francisci Assisiensis, Quaracchi 11904 (31949):
H. BOEHMER, Analekten zur
Geschichte des Franciscus von Assisi, Tubinga Lipsia 1904.
Questi scritti di san Francesco vanno letti nel contesto della sua vita,
che ci è raccontata da vari biografi, che spesso dipendono l’uno dall’altro. Il
primo biografo è TOMMASO DA CELANO, che divenne francescano nel 2014. Compose
due Vite di san Francesco. La prima nel 1229, subito dopo la canonizzazione di
san Francesco ed è opera di primo piano per gli storici. La seconda fu composta
nel 1247: anch’essa è opera di valore, ma si ha la chiara impressione che
Tommaso abbia in essa voluto conciliare l’idea francescana primitiva con quel
che l’Ordine era diventato nel corso degli anni.
Secondo biografo
importante, ma di una generazione dopo, è san BONAVENTURA: lui pure redasse due
biografie:
1.
La legenda minor (1261)
2.
La legenda maior (1263). Il capitolo di Parigi
del 1266 l’assunse come sola biografia ufficiale (ma ciò la rende sospetta),
ordinando di distruggere tutte le altre leggende.
Abbiamo anche altre
fonti:
·
La “Legenda trium sociorum” (si presenta come legata a Leone,
Angelo, Rufino). La redazione a noi pervenuta è della fine del XIII secolo e viene
ritenuta piuttosto discutibile.
·
La “Legenda antiqua”: pare che sia l’opera autentica di frate
Leone e quindi è ritenuta più affidabile della precedente.
·
Lo “Speculum perfectionis”: il Sabatier vi vede un testimone di
importanza capitale, databile del 1227 e attribuibile a frate Leone. La data
però è discutibile, più attendibile il legame con frate Leone.
Come utilizzare queste fonti?
Le opere di Bonaventura vanno utilizzate con cautela, perché scritte
diversi decenni dopo e condizionate dalla preoccupazione di rappacificare le
rivalità presenti nell’Ordine. Bonaventura, che era alla guida dell’Ordine,
scelse di attenuare i caratteri del francescanesimo primitivo.
Le opere che si legano a Tommaso da Celano e a frate Leone vanno usate
sinotticamente, perché si correggono e si completano a vicenda. Tommaso tende a
trascurare un po’ gli aspetti radicali primitivi, Leone invece vi insiste
eccessivamente.
Trascuriamo le altre opera derivate da questi filoni. Meritano un accenno
i molto letti “Fioretti”, che sono opera molto tardiva, posteriore al
1322, quindi scritta quasi un secolo dopo la morte di san Francesco.
Probabilmente l’autore è legato alla corrente degli Spirituali. L’opera più che
fare luce sulla figura di san Francesco, fa luce sulla situazione dell’Ordine
francescano dopo un secolo di vita.
Oltre alle opere già citate, indico anche le seguenti.
-
L. SALVATORELLI, Vita di Francesco d’Assisi, Bari 1926 (Torino
1973)
-
P. GRATIEN, Histoire de la fondation et de l'évolution
des Frères mineurs au XIIIe siècle, Paris e Gembloux 1928
-
J. Joergensen, Vita di San
Francesco d'Assisi, Roma 1946
-
O. ENGLEBERT, La Vie de saint
François d'Assise, Paris 1947 (Milano 1959)
-
A. MASSERON, La légende
franciscaine. Textes choisis, traduits et annotés, Paris 1954
-
I. GOBRY, St François d'Assise et l'esprit
franciscain, Paris 1957 (Torino 1977)
-
A. FORTINI, Nova vita di s. Francesco, Assisi 21959
-
TH. DESBONNETS – TH. VORREUX, Saint François d'Assise :
documents: Ecrits et premières biographies, Paris 1968
-
J. LE GOFF, San Francesco d'Assisi : I protagonisti della storia universale,
IV, Milano 1967
-
F. DE BEER, La conversion de saint François selon
Thomas de Celano, Paris 1963
-
P. LEPROHON, Francesco d’Assisi, Assisi 1974
-
Fonti francescane, Padova 1980
-
R. MANSELLI, S. Francesco d’Assisi, Roma 1980
-
Franciscains. La famille multiple de saint Frnçois, Paris 1981
-
L. BOFF, Francesco d’Assisi. Una vita alternativa, Assisi 1982
-
F. CARDINI, Francesco d’Assisi, Milano 1989
-
A. VAUCHEZ, Francesco d’Assisi. Tra storia e memoria, Torino 2010
-
G. G. MERLO, Frate Francesco, Bologna 2013
L’esperienza iniziale di
Francesco fino al 1209
L'ordine
francescano nacque con un carattere decisamente carismatico: all'origine
infatti altro non fu che la singolare esperienza religiosa di S. Francesco,
accolta e condivisa da un piccolo gruppo di amici. Pertanto gli inizi
dell'ordine francescano vanno ricercati nella vita di Francesco.
Noi
non ci attarderemo in una esposizione dettagliata di questa vita, ci limiteremo
a sottolineare alcuni aspetti, che ci sembrano utili al fine di una
comprensione dell’Ordine francescano.
Gli
inizi di Francesco si collocano nell’ambito della borghesia di Assisi.
Francesco
nacque ad Assisi nel 1182 da donna Pica (é molto discussa la sua origine
francese) e dal mercante Pietro di Bernardone. Fu battezzato con il nome di
Giovanni ma poi divenne usuale il nome di Francesco (omaggio del padre a quella
Francia, con cui commerciava le stoffe pregiate? O era il soprannome, con cui veniva
indicato ad Assisi il figlio di Pietro, sulle cui labbra spesso affioravano
espressioni provenzali?).
Anche
nell’ambiente di Assisi si respira una certa religiosità improntata ad
evangelismo puro: pare storicamente fondata la notizia secondo cui donna Pica,
madre di Francesco, abbia voluto dare alla luce il figlio in una stalla, tra un
asino e un bue. E’ quindi probabile che qui affondi le sue radici la “svolta
religiosa” del 1204-1205, che nel 1206 si caratterizzerà come scelta evangelica
di povertà.
Ad
Assisi, in casa, Francesco respira anche una forte mentalità borghese, accanto
al padre commerciante. Infatti il primo periodo della vita di Francesco é
caratterizzato da una piena partecipazione agli splendori ed alle lotte della
classe borghese: esercitò la mercatura, poté godere delle rilevanti risorse
economiche, di cui tale classe oramai disponeva, appoggiò personalmente le
iniziative borghesi miranti a rintuzzare l'orgoglio dei nobili (maiores) e ad
assicurare alla borghesia un maggiore
peso politico. Infatti nel 1202 Francesco partecipò allo scontro tra Assisi e
Perugia (che voleva tutelare gli interessi dei nobili di Assisi). Francesco
dovette scontare la sconfitta della sua città (battaglia di Ponte S.. Giovanni
sul Tevere) con diversi mesi di prigionia, che debilitarono gravemente il suo
corpo: ma le precarie condizioni di salute probabilmente resero possibile il
ricorso alla pratica del riscatto, che veniva riservata ai malati e pertanto
poté tornare nella sua città. Prigionia e malattia accesero in Francesco
l'esigenza di una maggiore attenzione ai valori religiosi, che furono però
interpretati secondo gli orientamenti del tempo: elemosina, pellegrinaggio a
Roma.
In
questo contesto Francesco giunse alla decisione di realizzare la sua istanza
religiosa, mettendosi al servizio della Chiesa come cavaliere. Verso il 1204 si
associò infatti ad un gruppo di cavalieri, che si recavano nell'Italia meridionale
per difendere i diritti di papa Innocenzo
III. Secondo lo spirito della borghesia del tempo, questo era un modo che poteva
consentire ai borghesi di “nobilitarsi”. Giunto però a Spoleto fu costretto da
un assalto di febbre a sostare ed ebbe così modo di vivere una particolare
esperienza religiosa, che lo spinse a considerare la propria vocazione con una
maggiore capacità di distacco dalla mentalità religiosa del suo tempo: una voce
misteriosa, infatti, lo invitò a passare dal servizio del vassallo (il papa) al
servizio del Signore.
Ad Assisi Francesco si
dedicò (1204-1205) ad un serio lavoro di riflessione, che alla fine raggiunse
questa conclusione: “Tutte le cose che normalmente hai amate et havere hai
desiderate, te le bisogna disprezzare, et tutte quelle odiare se vuoi conoscere
la volontà del Signore; et poiché questo incomincerai a fare, quelle cose che
prima dolci et soavi ti parevano, ti saranno insopportabili et amare, et in quelle
cose che ti erano prima orride et fatigose, assaggerai gran dolcezza et
smisurata soavità" (Legenda trium sociorum,
n. 1407).
Come
si nota la scoperta della volontà del Signore é posta come conseguenza di un
totale rovesciamento di quei valori e di quei criteri di giudizio, che fino a
quel momento avevano dominato la sua vita e la società in cui era vissuto.
L'episodio del bacio del lebbroso rappresenta in questa prospettiva la realizzazione simbolica di tale metanoia ed é esattamente in questi termini che Francesco lo interpretò nel suo Testamento: “Così il Signore concesse a me, Francesco, di cominciare a fare penitenza: quando ero nei peccati, mi sembrava molto amaro vedere i lebbrosi. E il Signore mi condusse in mezzo a loro e feci misericordia con loro. E quando mi allontanai da essi, ciò che mi sembrava amaro, mi si mutò in dolcezza di anima e di corpo. E poi stetti ancora un poco ed uscii dal secolo."
Dunque leggere il bacio del lebbroso come semplice gesto di carità é senz'altro ridurne la portata: il bacio del lebbroso dice la decisione di vivere il vangelo fino in fondo, anche quando la mentalità del vangelo pone in netto contrasto con la mentalità del mondo. Francesco infatti sapeva che il contatto con i lebbrosi poteva comportare l'esclusione dalla società, il bando.
Dopo tale metanoia
Francesco divenne capace di "vedere" la volontà del Signore! Un giorno,
mentre stava osservando il crocifisso
gotico della chiesetta di S. Damiano, Francesco udì dalla voce del Signore questo suggerimento: “Francisce
vade et repara domum meam, que ut cernis tota destruitur" (BONAVENTURA, Legenda
maior, II, 1038). Di tale invito Francesco dette un'interpretazione
letterale, attenendosi ancora una volta al sistema religioso del suo tempo: ritenne
infatti che la volontà del Signore lo chiamasse a vivere come oblato-laico, al
servizio del sacerdote della chiesetta di S. Damiano. (Oblati-laici erano persone
che mettevano i propri beni e la propria persona a servizio di una certa chiesa:
in genere la chiesa prescelta era dotata di una discreta ricchezza, in quanto
il laico voleva avere la certezza che, anche rinunciando alle proprie sostanze,
non gli sarebbe mai mancato un decoroso sostentamento; Francesco invece volle
essere oblato-laico di una chiesa, che faticava a stare in piedi!).
Fedele
alla sua nuova vocazione, Francesco si recò subito a Foligno, si mise a vendere
sul mercato delle stoffe, che aveva asportato dal negozio paterno e poi se ne
tornò ad Assisi per offrire il ricavato al sacerdote di S. Damiano, pregandolo
"ut eum secum morari pro Domino pateretur". Il sacerdote accolse
Francesco come proprio oblato, ma non volle saperne dei soldi, probabilmente
perché conosceva bene l'avarizia di Pietro di Bernardone.
Questi non tardò a
farsi sentire: lo statuto della città riconosceva ai padri il diritto di fare
comminare pene (incarcerazione, esilio) a quei figli, che avessero dissipato i
beni familiari o avessero abbracciato un genere di vita contrario al buon
costume. Ebbene Pietro di Bernardone ritenne di dovere avvalersi di questa
facoltà e perciò pregò i consoli di agire contro Francesco: questi però,
appellandosi al suo stato di oblato-laico legato ad una chiesa, si
rifiutò di comparire di fronte
all'autorità civile, reputandola priva di ogni competenza. Il padre però non si
arrese e si rivolse al vescovo Guido; dal canto suo Francesco a questo punto
accettò di essere sottoposto a giudizio.
La seduta fu celebrata
sulla piazza antistante l'episcopio: il vescovo sentite le lagnanze di Pietro
di Bernardone, decise che Francesco dovesse restituire al padre tutto ciò che
gli spettava e dovesse d'ora in poi vivere di quanto la chiesetta di S. Damiano
gli offriva.
Francesco allora subito
restituì al padre non solo il denaro di cui disponeva, ma anche gli stessi
vestiti, esclamando: “Udite ed intendete tutti! Fino ad ora ho dato il nome di
Padre a Pietro di Bernardone; ma siccome mi sono proposto di servire Dio, gli
rendo questo denaro, per cui era tanto turbato e tutti gli abiti che da lui ho
ricevuto, per potere dire d'ora innanzi con più ragione: o Padre nostro, che
sei nei cieli e non più padre Pietro Bernardone" (Legenda trium
sociorum, VI, 1419, 20)
Come
nuovo abito ebbe in dono la divisa, che era propria degli eremiti-penitenti: tunica
corta e rozza, cintura di cuoio, sandali e bastone.
Per
due anni circa visse del proprio lavoro e di elemosina, non accettando di
essere mantenuto dal sacerdote della sua chiesetta di S. Damiano: raccolse
materiale per restaurare - secondo le parole del crocifisso - l'edificio
cadente; si occupò anche delle chiesette della Porziuncola e di S. Pietro.
Ulteriore precisazione
della propria vocazione, fu raggiunta da Francesco il giorno 24 febbraio 1209,
nella chiesetta della Porziuncola, mentre si stava leggendo il vangelo della
festa di s. Mattia (si tratta di Mt 10, 5-16): anche questa volta Francesco
interpretò alla lettera la parola del Signore: ad essa adeguò il suo abito: si
tolse dai fianchi la cintura di cuoio e si cinse con una semplice corda, si tolse
dai piedi i sandali: a questo punto non indossò più una divisa, che lo distingueva
dagli altri come uomo religioso, a questo punto si confuse completamente con i
"minores" della sua città,
coloro che per vivere non avevano altro che il lavoro delle proprie mani e la
carità degli altri, quando il lavoro non bastava.
Sulle parole del
Signore inoltre modellò lo stile della sua vita: 1) predicazione itinerante incentrata
su due temi: la penitenza di conversione al Regno e la pace (tempo di notevole tensione tra maiores e borghesi, tra guelfi e
ghibellini); 2) povertà assoluta: solo il necessario per vivere e nulla più;
carità verso i più bisognosi, soprattutto i lebbrosi. Si trattava dunque di un
evangelismo letterale, vissuto nella forma penitenziale ed itinerante di certi
eremiti.
Il primo estendersi dell’esperienza francescana (1209-1210)
Presto anche intorno a
Francesco si creò quell'afflusso, che già abbiamo avuto modo di rilevare
allorché parlammo dell'eremitismo: prima il mercante Bernardo di Quintavalle,
poi il giurista Pietro Cattani e poi altri nove vollero condividere lo stile di
vita di Francesco.
Quando il gruppo raggiunse
il simbolico numero di 12 (Francesco compreso, perché non pretese di stare tra
gli altri distinguendosi quale rappresentante di Cristo!), Francesco, verso il 1210,
passò ad una prima organizzazione di vita:
·
nome: Poenitentiales viri de Assisio;
·
regola: viene composta una forma vitae,
che altro non é che una silloge di passi evangelici: é la cosiddetta proto-regola,
che a noi non é pervenuta e che rappresentò la base della legislazione
successiva.
Ben presto Francesco
dovette affrontare il problema della relazione con la Chiesa istituzionale: il
genere di vita scelto era molto simile a quello dei predicatori itineranti, che
oramai operavano ai margini della Chiesa, sia perché animati da uno spirito di radicale
contestazione della Chiesa istituzionale del tempo, sia perché dalla Chiesa
istituzionale venivano considerati predicatori abusivi e sospetti di eresia.
Dal canto suo
Francesco maturò un profondo atteggiamento di subordinazione alla Chiesa
istituzionale, come traspare dalla pagina seguente: “E il Signore mi diede una
tale fede nelle chiese che io vi pregavo dicendo semplicemente così: «Noi ti
adoriamo, Signore Gesù Cristo, qui e per le chiese del mondo intero, e ti
benediciamo di aver redento il mondo per la tua santa croce». Poi il Signore mi
ha dato, e mi dà per l'Ordine che hanno, tanta fede nei sacerdoti che vivono
secondo il modello della santa chiesa romana, che se mi facessero persecuzione
io voglio ricorrere ad essi. E se avessi tanta sapienza quanto ebbe Salomone, e
incontrassi dei poveri piccoli sacerdoti di questo mondo, non voglio predicare
nelle loro parrocchie contro la loro volontà Ed essi e tutti gli altri voglio
rispettarli, amarli ed onorarli come miei signori. E non voglio considerare in
essi il peccato, poiché vedo in essi il figlio di Dio ed essi sono i miei
signori. E tutto ciò io faccio per questa ragione, perché in questo mondo io
non vedo niente di sensibile dell'altissimo figlio di Dio, se non il suo
santissimo corpo ed il suo santissimo sangue, che essi ricevono e che essi soli
amministrano agli altri. E questi santissimi misteri io voglio che siano sopra
tutti venerati e onorati, e collocati in luoghi preziosi... E tutti i teologi e
coloro che comunicano le santissime Parole divine dobbiamo onorare e venerare,
perché sono essi che ci comunicano lo spirito e la vita” (Testamento).
Quello di Francesco
dunque non é un evangelismo, che si sente autorizzato a sfidare l'istituzione,
ma anzi vuole espressamente accettarne la funzione, a partire dalla chiara
distinzione tra moralità personale e azione ministeriale.
Insieme qui Francesco,
pur volendosi chiaramente distaccare dagli eretici del suo tempo in nome
dell'ortodossia, non assume affatto i toni polemici e violenti della campagna antiereticale del suo tempo: Francesco sceglie
di presentare la purezza evangelica in termini positivi soltanto, evitando ogni
asprezza di condanna! Non ha dunque fondamento alcuno ogni presentazione di
Francesco in termini di carisma, che si contrappone all'istituzione; se
difficoltà in tale senso si presenteranno, non saranno originate da un
Francesco carismatico, che si vuole sottrarre all'istituzione, ma saranno
determinate invece dall'istituzione, che eserciterà in maniera riduttiva il suo
compito di riconoscere e confermare i carismi autenticamente evangelici.
Ed infatti nel 1210
Francesco si recò a Roma con i suoi compagni, per ottenere da papa Innocenzo
III non il riconoscimento di un nuovo ordine monastico (Francesco era lontano
da una siffatta prospettiva), ma per ottenere la missio canonica per la
predicazione penitenziale. Che non si trattasse di un desiderio velleitario, é
dimostrato dal fatto che poco tempo prima proprio papa Innocenzo III aveva
concesso la stessa cosa a gruppi di predicatori itineranti (due gruppi di
pauperes valdesi: il gruppo di Durando di Huesca, il gruppo di Bernardo Prim).
Ma ora con Francesco
abbiamo un gruppo nuovo e chiaramente non ereticale: qui si sarebbe manifestato
se l’atteggiamento accogliente di Innocenzo III era solo dettato da ragioni di
opportunità strategico-pastorale, cioè ricuperare alla comunione gruppi
ereticali, o anche dalla convinzione profonda che quelle idee religiose in
quanto tali dovevano essere accolte dalla Chiesa e nella Chiesa.
I primi approcci con
la curia romana furono tutt'altro che soddisfacenti. La curia in un primo
momento dovette invitare Francesco ad adottare una delle Regole già esistenti,
o cenobitica o eremitica, ma Francesco non voleva essere né un monaco
tradizionale né un eremita.
Tant'è che i
penitentiales viri de Assisio dovettero fare ricorso alla mediazione del
vescovo di Assisi Guido e del cardinale Giovanni Colonna, che veniva dal mondo
benedettino e che aveva accostato il pauperismo ereticale della Francia
meridionale.
Questa diffidenza
della curia romana di fronte ad un proposito di vita evangelica e ortodossa
dovette apparire a Francesco totalmente inspiegabile ed assurda ed appunto di
questo sentimento il cardinale Colonna si fece interprete di fronte al papa,
dicendo: "Se noi la petizione di questo povero rifiutiamo, essendo essa
fondata sul vangelo, temo che recheremo dispiacere a Dio. Se alcuno vuole dire
che tale regola é contro le possibilità umane o é cosa nuova, o é contraria
alla ragione, chiaramente si pronuncia contro il vangelo, poiché questa regola
é fondata su Cristo e sul Vangelo” (san BONAVENTURA, Legenda maior,
1062) (La regola di cui sì parla é la proto-regola).
E’
certamente suggestiva la tesi avanzata dallo storico di tendenza marxista F.D. Klingender:
la famosa predica agli uccelli andrebbe collocata in questo contesto. Klingender appoggia la sua tesi su due
cronisti inglesi: Ruggero di Wendover e Matteo Paris. Lo spunto dovrebbe essere
ricercato in Ap 19, 17-18: " Vidi poi un angelo, in piedi di fronte al sole, nell'alto
del cielo, e gridava a gran voce a tutti gli uccelli che volano: «Venite,
radunatevi al grande banchetto di Dio. Mangiate le carni dei re, le carni dei
comandanti, le carni degli eroi, le carni dei cavalli e dei cavalieri e le
carni di tutti gli uomini, liberi e schiavi, piccoli e grandi»". Francesco, alludendo
a tale passo, avrebbe sfruttato la stessa immagine per stigmatizzare l'assurdo
atteggiamento curiale. In seguito la tradizione scritta si sarebbe sentita in
dovere di edulcorare questo gesto polemico, trasformandolo in un atto di
generico amore verso gli animali. La tradizione orale, che non è controllata dall’alto,
invece conservò il ricordo del valore originario dell'episodio e lo suggerì ai
due cronisti inglesi.
La
tradizione francescana lega l'approvazione papale a due episodi particolari: la
parabola di Francesco sulla povera donna ed il sogno di Innocenzo III.
La
parabola: "C'era nel deserto una donna povera e bellissima.
Preso dal fascino di lei, un grande re bramò di prenderla in sposa, sperando di
averne dei figli molto belli. Il matrimonio fu celebrato, nacquero diversi
figli. Quando furono cresciuti, la madre rivolse loro queste parole: «Cari
ragazzi, non vergognatevi della vostra umile condizione, perché in realtà siete
figli del re. Andate alla sua corte ed egli vi darà tutto quello che vi
abbisogna». Giunti alla presenza del sovrano, questi ammirò la loro bellezza e
notando che gli somigliavano, domandò: «Di chi siete figli?» I ragazzi
risposero di essere figli di una donna povera, che viveva nel deserto. Allora
il re li abbracciò tutto esultante e disse: «State tranquilli perché siete
figli miei. Se prendono cibo alla mia mensa gli estranei, tanto più ne avete
diritto voi, che siete mio sangue!» E ordinò a quella donna d'inviare a corte i
figli avuti dal re, per esservi allevati secondo il loro rango In questa
visione simbolica, apparsagli mentre era in orazione, Francesco comprese che
quella donna poverella raffigurava lui stesso. Terminata l'orazione, il Santo
si presentò al sommo pontefice e gli raccontò in tutti i particolari la
parabola rivelatagli dal Signore. E aggiunse: «Sono io, signore, quella donna
poverella che Dio ama e per sua misericordia ha reso bella e dalla quale si
compiacque avere dei figli. Il re dei re mi ha promesso che alleverà tutti i
figli avuti da me, poiché se egli nutre gli estranei, a maggior ragione avrà
cura dei suoi bambini. Cioè, se Dio largisce i beni temporali ai peccatori e
agli indegni, spinto dall'amore per le sue creature, molto più sarà generoso
con gli uomini evangelici, che ne sono meritevoli»” (Legenda trium sociorum, nn
1459-1460).
Il sogno: Innocenzo III avrebbe visto la basilica di S. Giovanni in
Laterano gravemente minacciata nella sua stabilità ed oramai prossima a
crollare, finché le si avvicinò un poverello, Francesco, che in forza del suo
appoggio, le garantì di nuovo stabilità.
La
parabola probabilmente altro non é che una predica successiva di Francesco,
collocata in questo contesto, perché esprimeva in maniera efficace e plastica
la linea di difesa, che il fondatore tenne di fronte alla curia romana.
Il
sogno di Innocenzo III invece é chiaramente una trasposizione drammatica della
interpretazione storica che l'ordine diede di sé e del proprio ruolo in anni
successivi (anche le vite di Domenico hanno un episodio analogo).
E'
assai dubbio che Innocenzo III abbia intuito subito la portata di questo
piccolo movimento, che gli stava di fronte: del resto il tipo dì approvazione
accordata é improntata ad una notevole cautela. Il papa prese atto solo
oralmente dell'esistenza di tale gruppo, gli consentì la predicazione solo
penitenziale; gli impose un certo inquadramento nelle strutture giuridiche
esistenti: Francesco e compagni dovettero ricevere la tonsura (Francesco forse anche
il diaconato); Francesco dovette giurare obbedienza al papa; gli altri
componenti del gruppo dovettero giurare obbedienza a Francesco. Se la comunità
si fosse ingrandita, Francesco sarebbe dovuto tornare presso la curia ed allora
sarebbe stata elaborata una regola più ampia ed impegnativa. A questo punto
dunque non abbiamo ancora un ordine, ma una piccola comunità di predicatori
penitenziali con autorizzazione pontificia.
Il formarsi dell'ordine 1210-1223
1211/1212: viene fondato il ramo femminile o secondo ordine:
le povere dame di S. Damiano, guidate da S. Chiara;
1215:
viene celebrato il concilio Letranense IV; si notino tre cose:
I - Francesco non vi partecipa come superiore di un ordine
monastico;
lI - al can. 13 il concilio proibisce la fondazione di nuovi
ordini; i nuovi gruppi che si formeranno dovranno adottare regole preesistenti
(i domenicani per esempio dovranno adottare la regola dei canonici di S.
Agostino)
III- i francescani tuttavia non adottano vecchie regole
monastiche, eppure il papa Onorio III sia in una bolla del 1219 sia in una
bolla del 1220 dichiara che i francescani devono essere considerati ordine
approvato.
Come si
spiega? Si presume che Innocenzo III, prima di varare il canone 13, abbia disposto
di escludere i francescani da tale provvedimento (la tradizione francescana
sostiene con una certa sicurezza che Innocenzo III nel corso del concilio abbia
pubblicamente riconosciuto l'ordine e la regola francescana). Si può pensare
che Innocenzo III a questo punto dovette ritenere di avere concesso sufficienti
possibilità di vita alle nuove tendenze evangeliche e pertanto abbia deciso con
il canone 13 di passare ad un'azione di stabilizzazione: basta nuovi ordini!
1220: Francesco abbandona, per ragioni che poi diremo, la
direzione dell'ordine al vicario Pietro Cattani, cui quasi subito succede frate
Elia da Cortona,
1221: viene fondato il terzo ordine dei penitenti, il terzo
ordine francescano: applicazione dell'ideale francescano a coloro che
continuano a vivere nel proprio stato di vita.
A questo punto, dato
il notevole numero di aderenti si impose un lavoro di strutturazione dell'ordine (che contava già più di 3.000
aderenti).
Al lavoro legislativo
partecipò anche Francesco. Il punto di partenza é rappresentato dalla proto-regola,
dalle precisazioni ed ammonizioni che Francesco aveva elaborato fino a questo
momento. Punto di arrivo due regole:
·
la prima regula é detta "non
bullata", perché non ottenne l'approvazione pontificia, fu redatta nel
1221 soprattutto da Cesario di Spira:
consisteva in una raccolta di testi scritturistici e di disposizioni
giuridiche distribuiti in 24 capitoli. Fu giudicata non idonea a servire da
base a un ordine e perciò non fu mai regola in vigore.
·
La seconda invece é detta
"bullata" in quanto fu approvata con la bolla "Solet
annùere" il 29 novembre 1223 dal papa Onorio III. E' la regola tuttora in
vigore. Sostanzialmente in linea con la regula non bullata, ma strutturata in 12
capitoli soltanto.
Alla
redazione di questa regola collaborò attivamente il cardinale Ugolino, che Francesco
aveva ottenuto quale protettore dell’ordine e che poi diventerà papa Gregorio
IX.
Per valutare
quest'opera legislativa nella sua fedeltà allo spirito autenticamente
francescano, bisogna ricordare che essa si compì nel contesto di una tensione
tra Francesco ed un gruppo di francescani moderati. Tale tensione cominciò a
manifestarsi nel 1218, quando diversi francescani, che venivano soprattutto dal
mondo degli studi, si rivelarono incapaci di assumere l'esperienza francescana
nella sua originalità: la interpretarono con gli occhi della loro cultura, della
tradizione e pertanto considerarono il
francescanesimo non come una novità sostanziale, ma semplicemente come una
nuova forma secondo cui vivere il monachesimo di sempre.
La
primitiva esperienza francescana era soprattutto uno stile di vita evangelica,
vissuto da “minores”, cioè da gente che sta in basso, soggetta a tutti,
nell'umiltà che confina con il disprezzo. Tale scelta imponeva necessariamente
la riduzione al minimo dell'aspetto istituzionale, in quanto il frate minore,
una volta che avesse assunto i pieni connotai di un monaco, si sarebbe perciò
stesso trovato in una situazione dì distinzione e di privilegio. E perciò agli
inizi i francescani non formano comunità: solitamente girano a due a due, si
riuniscono insieme solo due volte all'anno a Pentecoste e per S. Michele; non
hanno particolari prescrizioni di orazione e di vita ascetica: ognuno vive il
fondamentale evangelismo, privilegiando a seconda del suo temperamento
spirituale o la contemplazione o l'attività apostolica; anche l'idea di
conventi, strutture francescane, non ha senso alcuno: per le poche volte, in
cui i frati si incontrano e sostano in certe località per celebrare i capitoli
annuali o per vivere momenti di ritiro spirituale, bastano casupole di paglia,
frasche e fango... ecc. ecc.
Ai dotti-moderati e
anche alla curia romana tutto ciò sembrò troppo indefinito, scialbo e fu inteso
come uno spontaneismo iniziale, che necessariamente avrebbe dovuto evolvere
verso forme precise di vita monastica: spinsero perché si introducessero
pratiche ascetiche monastiche, spinsero perché si introducesse l'anno di
noviziato; spinsero perché si costruissero case per lo studio e la formazione
in vista della predicazione (anche qui dalla
concezione francescana di predicazione intesa come dire le cose con le parole
ed i canoni del conversare familiare e quotidiano si passò alla concezione tradizionale
ed ufficiale di predicazione: e dunque non si trattò più del minore che dal
basso con umiltà diceva semplicemente la sua esperienza spirituale, ma si trattò
invece del predicatore che dall'alto di un pulpito autorevolmente insegnava:
per carità, cosa legittima, ma non era questo che il francescanesimo iniziale voleva!)
Nel
1220 Francesco si avvide che queste idee oramai si imponevano, dato il
prestigio dei dotti e l'incapacità dei “minori” illetterati di rendersi conto
del problema: ed allora si trovò di fronte ad un drammatico dilemma: accettare
questa evoluzione dell'ordine, diventarne superiore, e quindi rinunciare alla
logica del "minore" oppure tirarsi in disparte e vivere da
sottomesso, che secondo Francesco era l'unico modo per guidare autenticamente
da minore una comunità di minori.
Le
fonti dicono che Francesco si dimise perché non si sentiva capace di guidare
l'ordine. L'espressione va intesa bene: si tratta di un'incapacità ben precisa:
Francesco non accetta di guidare un ordine che non é più come lui lo ha pensato
e voluto: il suo spirito, in coerenza all'ideale primitivo, non può adattarsi alla
nuova situazione!
La
legislazione risentì di questa tensione e, pur cercando una mediazione, fece
ampio spazio alle tesi moderate: significativo il fatto che si omise il
riferimento a quel passo di Mt 10, 5-16, che per Francesco rappresentava
l'origine e il simbolo della sua esperienza: quel giudizio di inattuabilità,
che Innocenzo III non si era sentito di pronunciare, fu praticamente accolto e
proferito dai legislatori francescani.
Lo Speculum
perfectionis, c.49, annota: “Da
quel momento, Francesco rimase suddito fino alla morte, comportandosi in ogni
cosa più umilmente d’ogni altro frate”.
E’ senz'altro in
questo contesto di passione che vanno collocate le stimmate del 14 settembre
1224: attraverso tale esperienza Francesco acquisì la dolce certezza che il suo
fallimento era una partecipazione profonda al fallimento di Cristo crocifisso.
Tuttavia prima di morire
Francesco volle in un Testamento spirituale offrire ai suoi frati il criterio
secondo cui la regola doveva essere letta: ma i moderati, appoggiati dallo
stesso papa Gregorio IX, intesero tale Testamento come un'aggiunta non
vincolante, escludendo che si trattasse della necessaria chiave interpretativa
della vita francescana (1230; bolla “Quo elongati” di papa Gregorio IX, che
nega valore legislativo al Testamento).
Per la morte di san
Francesco mi rifaccio al quasi necrologio ufficiale, che troviamo nella Vita
prima, II, 88: “L’anno
1226, indizione XV, il 4 di ottobre, in giorno di domenica(115), in Assisi, sua
città natale, presso Santa Maria della Porziuncola, dove egli aveva fondato
l’Ordine dei frati minori, il beatissimo padre nostro Francesco, a vent’anni
dalla sua piena adesione a Cristo, seguendo la vita e gli esempi degli
apostoli, si libera dal carcere della carne, e portando a compimento la sua
opera, se ne va felicemente nel soggiorno dei beati. Tra inni e lodi il suo
sacro corpo viene collocato e riverentemente custodito in quella città, e a
gloria di Dio rifulge per molti miracoli”.
Per la narrazione dettagliata della morte del santo è sempre
emozionante leggerne il racconto, che ci viene offerto dalle varie biografie
storiche.
Sempre dalla Vita prima, III, 126 prendo il resoconto
della canonizzazione: “Ed ecco: le mani levate verso il cielo, il beato
Pontefice con voce tonante grida e dice: “A lode e gloria dell’onnipotente
Iddio, Padre e Figlio e Spirito Santo, e ad onore della Chiesa romana, mentre
veneriamo sulla terra il beatissimo padre Francesco, che il Signore ha
glorificato nei cieli, dopo aver raccolto il parere dei nostri fratelli (i
cardinali) e degli altri prelati, decretiamo che il suo nome sia iscritto nel
Catalogo dei Santi e se ne celebri la festa il giorno della sua morte”… “Queste
cose avvennero in Assisi, nel secondo anno del pontificato di Gregorio IX, il
16 luglio”.
Note di spiritualità francescana
Francesco più che una
dottrina ha lasciato uno spirito, che però ha influito sulla storia della
spiritualità più di molti altri, che hanno lasciato molti libri.
a) L’ideale,
che guida la vita di Francesco, consiste nel praticare la sequela di Cristo
come fu praticata dagli apostoli. Si tratta di una spiritualità cristocentrica,
di tipo affettivo, con punte di alto lirismo.
b) La
via maestra, che conduce a tale meta, è il Vangelo. La Regola si apre con
queste parole: “La Regola e vita dei
frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù
Cristo…” (cap. I). La regola si conclude così: “… osserviamo la povertà,
l'umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo
fermamente promesso…” (cap. XII). Si tratta di
un’adesione al vangelo, che non conosce le sottigliezze interpretative degli
esegeti e dei teologi, ma che si esprime come adempimento alla lettera, sine
glossa, della Parola così come risuona: con entusiasmo e spensieratezza.
c)
L’ideale della sequela di Cristo si
compie anche attraverso un legame profondo con la santissima Eucaristia, intesa
come presenza viva, reale, sostanziale dell’umanità e della divinità di Cristo.
La devozione eucaristica di Francesco sottolinea tre aspetti:
·
la condiscendenza di Gesù nei nostri
confronti;
·
il suo comando di cibarcene;
·
l’esigenza per chi se ne ciba di
donarsi a sua volta a Gesù con totalità ed umiltà.
La devozione eucaristica concretamente si esprime con questi
gesti:
·
messa frequente, se possibile
quotidiana;
·
adorazione, in caso di impossibilità
fisica si adori con gli occhi della mente;
·
cura meticolosa per tutto quello che ha
a che fare con l’Eucaristia (sacerdoti, suppellettili liturgiche, edificio
sacro e quindi il suo restauro e la sua pulizia).
Di ciò parla frequentemente nei suoi scritti ai vari ceti
del popolo cristiano.
d)
Come nel Vangelo e nell’Eucaristia,
Francesco trova il Gesù da seguire anche nella Chiesa, che da lui viene
avvertita come Madre, nelle cui braccia ci si deve abbandonare come figli
devoti e fiduciosi. Ciò avviene mediante l’obbedienza al governo della Chiesa:
così appunto è affermato all’inizio della Regola: “Frate Francesco promette
obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente
eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate
Francesco e ai suoi successori” (cap. I). E così viene detto alla fine della
Regola: “ sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa,
stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà, l'umiltà e il santo
Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso” (cap.
XII).
e)
Come san Francesco trova Gesù nel
Vangelo, nell’Eucaristia e nella Chiesa e a Lui si dona vivendo il Vangelo,
adorando l’Eucaristia e dando ascolto obbediente alla Chiesa, così per la sua
viva fede riconosce Gesù nel suo rivelarsi negli uomini, e per gli uomini si
spende come si sarebbe speso Gesù. “La forza dell'amore aveva reso
Francesco fratello di tutte le altre creature; non è quindi meraviglia se la carità di Cristo lo
rendeva ancora più fratello di quanti sono insigniti della immagine del
Creatore” (Vita secunda, 172). Il prossimo viene considerato nella sua integralità:
è stato creato e formato “a somiglianza di Dio secondo lo spirito e a immagine
di Cristo secondo il corpo” (Ammonizione V).
f)
San Francesco trova il Gesù, che vuole seguire,
anche nella natura. La ragione di questo amore per la natura non va ricercata
né nella delicatezza del suo animo, né nella bontà e utilità delle realtà naturali, bensì nel loro valore
di fede; sono discorso su Dio, perché Dio è loro origine, quale causa
efficiente; sono discorso su Dio, perché
Dio è la meta, a cui tendono, quale loro causa finale; sono discorso su Dio,
perché Dio è la forma su cui sono state plasmate, quale causa esemplare.
Francesco, qui, si rivela ancora legato alla lettura sacrale della natura, non
è per nulla partecipe quindi del movimento di desacralizzazione, che la
riscoperta delle scienze naturali aveva avviato proprio nel suo secolo. Con
questa sua lettura sacrale della natura Francesco poi si differenzia
notevolmente dalle tendenze dualistiche, che erano in voga presso i movimenti
ereticali del suo tempo. Tra le creature Francesco prediligeva quelle che il
Vangelo presentava come segno di Gesù: la luce, il fuoco, l’acqua (Gesù acqua
viva), le pietre (cfr 1Cor 10,4), gli alberi (la croce; non voleva che gli
alberi venissero completamente tagliati), i fiori (Gesù, fiore del campo,
giglio delle convalli: Ct 2,1), i vermicelli (Gesù verme e non uomo: cfr Sal
21,7), gli agnelli (Gesù, agnello di Dio).
g)
Nel vivere il Vangelo Francesco dà un rilievo
particolare ad alcune virtù evangeliche. Il primo posto tra esse è riservato
alla povertà: seguire nudi il
Cristo nudo.
MOTIVO:
- la
povertà non è considerata tanto un mezzo per raggiungere la perfezione spirituale;
- la
povertà non è considerata tanto come un liberarsi dalle cure materiali per
potersi dare con la massima libertà all’apostolato;
- la
libertà è piuttosto praticata come scelta per amore di Gesù, che si fece povero
per amore nostro, scelta di conformarsi a Cristo: “Fratelli, gli esempi di
povertà di Cristo devono essere la nostra norma e non quella che praticano gli
altri religiosi” (Vita secunda, n.61).
MODO:
concepita così, la povertà viene vissuta non come virtù passiva, come un
difendersi dalle attrattive che i beni materiali esercitano sul cuore
dell’uomo, ma come virtù attiva, come irradiazione della perfezione dell’essere
una sola cosa con il Cristo povero. Il distacco totale e assoluto dai beni
materiali non deve essere soltanto affettivo ma anche effettivo, ed effettivo
non solo nel senso che non se ne ha proprietà ma anche nel senso che non se ne
dispone l’uso: la condizione del frate è quella del forestiero e del pellegrino
(Testamento). Santa Chiara espresse in maniera radicale questa
concezione assoluta di povertà, quando a papa Gregorio IX, che voleva
assolverla dalla povertà assoluta, reagì scrivendo: “Santo Padre, assolvetemi
dai miei peccati, ma non dal voto di seguire nostro Signore” (Legenda sanctae Clarae virginis).
Distacco
non solo da ciò che sta intorno, distacco anche dai beni interiori: volontà,
giudizio, sentimenti, onori, uffici: “Beato il servo
che restituisce tutti i suoi beni al Signore Iddio, perché chi riterrà qualche
cosa per sé, nasconde dentro di sé il denaro del Signore suo Dio, e gli sarà
tolto ciò che credeva di possedere” (Ammonizione XVIII).
La povertà assoluta produce due frutti: la perla preziosa della gloria
celeste e l’elemosina dei fratelli, che è la mensa del Signore.
Francesco
vive la povertà
Cavallerescamente:
dopo l’Ascensione di Gesù la povertà era rimasta vedova sulla terra. Francesco
l’amò, la difese, la sposò, le dette figli (cfr Dante, il canto XI del
Paradiso).
Gioiosamente:
secondo il principio agostiniano: “ubi amatur non laboratur”. Chi si asside
alla mensa della povertà, ha come suo servitore Dio stesso.
Ottimisticamente:
rinuncia e distacco non sono disprezzo, ma condizione per valutare la realtà
alla luce della bontà divina.
h) Altra
virtù evangelica è l’umiltà,
che Francesco definisce come la sorella di santa povertà (“Signora santa povertà, / il Signore
ti salvi / con tua sorella, la santa umiltà”, Salutatio virtutum). Con
questa virtù Francesco si ripropone di conformarsi all’abbassamento del Verbo,
fattosi uomo. Umiltà significa morte dell’Io vizioso, frutto del peccato, ma
pieno rispetto per l’Io fatto da Dio. Dalla consapevolezza della propria
pochezza fa scaturire un atteggiamento riguardoso nei confronti di tutti gli
altri. L’umiltà, quando è vissuta in stretta unione con la povertà e la
semplicità, sfocia nella minorità. Il cardinal Giacomo di Vitry così presentò i
primi francescani: “Questa è la Religione dei veri poveri del Crocifisso,
questo l’Ordine di predicatori che chiamiamo frati minori. Veramente minori e
più umili di tutti i religiosi contemporanei, nell’abito che portano, nella
loro spogliazione e nel disprezzo del mondo” (Historia Occidentalis, 1.
II, c. 32 ).
i) Altra
virtù evangelica è la semplicità,
come l’opposto della doppiezza, in conformità con il Cristo che disse: “Sia invece il vostro parlare: "Sì,
sì", "No, no"; il di più viene dal Maligno” (Mt 5,37) e “siate
semplici come le colombe” (Mt 10, 16). La semplicità è tipica di uno spirito
sapiente, che sa ricondurre tutto a Dio con conseguente semplificazione e
riduzione ad unità degli affetti, desideri, intenzioni del cuore.
j) L’obbedienza ha il suo fondamento nell’amore: “I frati poi, che sono sudditi, si ricordino
che per Dio hanno rinnegato la propria volontà” (Regola, 10). Perciò
l’obbedienza è sorella della carità. Così fondata, l’obbedienza si svuota di
ogni servilismo e diventa affermazione della libertà e della dignità della
persona umana. L’obbedienza si attua non solo come esecuzione esterna del
comando, ma anche e prima di tutto come
sottomissione totale della volontà e del giudizio: “ E se qualche volta il
suddito vede cose migliori e più utili alla sua anima di quelle che gli ordina
il superiore, volentieri sacrifichi a Dio le sue e cerchi invece di adempiere
con l’opera quelle del superiore. Infatti questa è l’obbedienza
caritativa, perché compiace a Dio e al prossimo” (Ammonizione III). Si
arriva così all’esempio del cadavere: “Prendi
un corpo morto e mettilo dove ti pare e piace. E vedrai che, se lo muovi, non
si oppone; se lo metti in un posto, non mormora; se lo metti da parte, non
protesta. Se lo metti in cattedra, non guarderà in alto, ma in basso. Se gli
metti un vestito di porpora, sembrerà doppiamente pallido. Questo è il vero
obbediente: chi non giudica il perché lo spostano; non si cura del luogo a cui
viene destinato; non insiste per essere trasferito; eletto a un ufficio,
mantiene la solita umiltà; quanto più viene onorato, tanto più si ritiene
indegno” (San bonaventura, Legenda Maior, Cap. 6 – ff 1107). Il
superiore deve trovare nel suddito riverenza e amore, perché il suddito deve
vedere nel superiore il rappresentante di Dio, perciò si preoccupa di non
rendergli pesante l’esercizio dell’autorità. A sua volta il superiore deve
interpretare il suo ufficio come servizio di amore prestato a Dio e ai
fratelli, perciò porta il nome di ministro, o servo, o custode, o guardiano: “Colui a cui è commessa
l’obbedienza e chi è ritenuto maggiore, sia come il
minore (Lc 22,26) e servo degli altri fratelli e usi
e abbia nei confronti dei singoli fratelli quella misericordia che egli stesso
vorrebbe fosse usata a lui in un caso simile” (Lettera a tutti i fedeli).
C’è spazio per l’iniziativa personale: “E qualunque cosa fa o dice che
egli sa non essere contro la volontà di lui, purché sia bene quello che fa, è
vera obbedienza” (Ammonizione III). Pure si prevede spazio per il
dialogo: “E i ministri li accolgano con carità e benevolenza e mostrino ad essi
tanta familiarità che quelli possano parlare e fare con essi cosi come parlano
e fanno i padroni con i loro servi” (Regola, 10). C’è spazio anche per
la critica corretta e si fa spazio anche per l’obiezione di coscienza: “Se poi
il superiore comanda al suddito qualcosa contro la sua coscienza, pur non
obbedendogli, tuttavia non lo abbandoni” (Ammonizioni III ).
m) Severo con
se stesso, Francesco fu dolce e moderato con gli altri nel regolare la
penitenza. Raccomandava discrezione, invitava ad insistere soprattutto sulla
mortificazione interiore della volontà. Permise l’alimentazione con carne.
Soppresse le punizioni corporali per i colpevoli, invitando i ministri ad
accogliere i colpevoli con serenità, senza adirarsi, imponendo le penitenze con
carità e compassione.
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