IL FENOMENO EREMITICO NEI SECOLI XI e XII
1.
Descrizione del fenomeno
Il secolo X
dell’era cristiana é passato alla storia con il nome di “secolo di ferro":
i segni di decadenza intristiscono un po’ tutti i settori della vita umana. Ma ciò
non deve indurre nella tentazione di giudicare la situazione in una maniera
assolutamente negativa, quasi si trattasse di una decomposizione di morte: dentro
l'imponente mole di una umanità, che provoca o sopporta il dissolversi “del”
mondo, c'è l azione microscopica, ma esuberante e vitale, di chi crede nella Vita
e la cerca con prepotente fantasia. Cosi l'affacciarsi del Mille sarà tra il
dissolversi di “un mondo”, ma anche tra una rifioritura di vita.
Mentre in Francia, in Lorena tale rifioritura è legata al
nome di alcune località (Cluny, Brogne, Gorze, Verdun),
in Italia si ha una rifioritura, che si connette con il nome di alcuni uomini:
Nilo, Romualdo, Pier Damiani.... Sono
queste delle personalità singolari, che si distinguono per una esperienza di
solitudine perfetta: l'eremitismo.
S. Nilo (905 c. - 1005
c.) si segnala alla nostra attenzione non tanto per l'influsso, che ha lasciato
dietro di sé - influsso peraltro assai limitato nell'ambito del monachesimo
occidentale - ma piuttosto per il fatto che nel suo tempo, grazie alla sua
straordinaria personalità e alla sua alta formazione ascetico-spirituale-teologica,
ha reso notorio quel monachesimo di tipo orientale, che la dominazione
bizantina aveva trapiantata e tenuto vivo nel Sud dell'Italia.
Nato a Rossano in una famiglia illustre, egli
riceve una accurata educazione: si interessa soprattutto alle vite dei Padri ed
ha contatti con il "monastero" di Merkurion (Calabria). Poi lui
stesso lega il suo nome alla fondazione di centri monastici presso Rossano, indi
nel Frusinate (S. Michele in Vallaluce) poi a Serperi ed infine presso Tusculum
(Grottaferrata).
Perché compare il nome di Nilo nell'ambito di
questa nostra trattazione sull'eremitismo italiano? La ragione sta nel fatto
che Nilo, nelle sue fondazioni esprime e sottolinea una particolare tendenza
del monachesimo orientale, tendenza che in qualche modo si riconnette - almeno
idealmente - con alcuni caratteri all'eremitismo italiano occidentale. Il
monachesimo orientale é composito: conosce tre "taxeis": l’eremitismo
in senso assoluto (en athlètikè anachôrèsei kai monìa), I’eramitimo in senso
relativo degli esicasti (metà enòs è polù dùo èsuchàzein) ed infine la forma
cenobitica (en koinobiô upomonètikôs kathesthai).
Questa classificazione é
proposta da Teodoro Studita nel suo testamento spirituale e si fonda sulla
legislazione di Giustiniano e sulla "Scala Paradisi" di S. Giovanni
Climaco: per la documentazione rimando a: A. PERTUSI, Aspetti organizzativi
e culturali dell’ambiente monacale greco
dell'Italia meridionale : L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XIi.
Atti della seconda settimana di studio Mnedola 1962, Milano 1965, 382 -
383, nata 2: 383, nota 3.
Credo che non sia errato dire che un po' tutta
la storia dei monachesimo orientale é attraversata dalla tensione tra queste
varie forme: vediamo un S. Basilio pronunciarsi per la forma cenobitica;
vediamo un S. Giovanni Climaco inclinare piuttosto verso la forma esicastica;
assistiamo durante la lotta iconoclastica ad un declino della forma cenobitica;
rivediamo poi in auge il cenobitismo con la riforma di Teodoro Studita (+ 825).
Nilo dichiara apertamente la sua avversità
alla vita cenobitica e pare che le sue fondazioni non siano altro che monasteri
a regime eremitico, sul tipo delle "laure di S. Saba (+ 532). A determinare Nilo in questo senso
non é soltanto una ragione di connaturalità caratteriale, ma anche una particolare
situazione storica: il monachesimo orientale trapiantato in Italia meridionale
solo con la dominazione normanna riesce a trovare una certa stabilità politica,
che consenta l'assunzione della spinta cenobitica impressa dal riforma di
Teodoro Studita: prima, dall'anno 827, la vita dei monaci é piuttosto sconvolta
dalla presenza minacciosa e spesso intollerante della dominazione araba. A ciò
si deve aggiungere anche il fatto che la mancanza di sicurezza politica si riflette
sulla condizione economica, determinando una situazione diffusa di miseria, che
non può certo consentire una interpretazione della vita monastica in senso
cenobitico, mancando i fondi necessari per creare la struttura del cenobio. Per questa ragione, anche ai
tempi di Nilo, vediamo prevalere nel Sud le "laure", insieme con la tendenza a spostarsi
verso le regioni centrali.
Ciò ci consente forse di dire che Nilo si
staglia nell'ambito del suo contesto monastico non come una presenza critica, o
in qualche modo innovatrice: ne è piuttosto una delle più alte affermazioni!
Sotto questo aspetto Nilo non può essere collocato accanto ai grandi eremiti del
Nord.
Romualdo: la sua gigantesca
figura giunge a noi attraverso la
testimonianza dei suoi discepoli: certo la cosa suscita non pochi problemi dì critica
storica, ma non é questa la sede opportuna per affrontarli.
(Per la questione critica
intorno alla "Vita b. Romualdi", scritta da Pier Damiani, rimando a:
J. LECLERCQ, San Pier Damiano. Eremita e uomo di
Chiesa, Brescia 1972, 22 24.
G. TABACCO, Romualdo di Ravenna e gli inizi dell'eremitismo camaldolose
: L eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della seconda
settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 73 - 74, nota 3.)
Mi limito pertanto a proporre alcuni dei
risultati dell'indagine critica. Anche Romualdo é figlio di illustre famiglia:
il padre è duca di Ravenna. La sua vocazione monastica si esprime intorno all'anno
972, quando entra nel convento di S. Apollinare in Classe per riparare un
delitto, commesso dal padre: in questa volontà riparatrice si manifesta certo la
notevole sensibilità religiosa di questo giovane, che si prefigge un ideale di
perfezione ben diverso da quello, che dominava in quei tempi di decadenza e
violenza.
Questa intensa carica religiosa da una parte
lo fa avvertito dei limiti presenti nella vita cenobitica non in quanto tale,
ma così come la trova realizzata nei suo tempo, dall'altra fa maturare in lui
la convinzione che la realizzazione del suo ideale di perfezione può compiersi
soltanto su un'altra strada, E non si può dire che l'esperienza cenobitica non
abbia contribuito in nessun modo alla scelta di Romualdo: é nel cenobio che
Romualdo familiarizza con la "consuetudo” benedettina, cui si riferirà
ogni sua fondazione; é nel cenobio che Romualdo, accostando le vite dei Padri,
individuerà con maggiore chiarezza l'altra via: la sua via!
E così ritroviamo Romualdo nelle paludi
veneziane, alla sequela dell'eremita Marino: direi che ne rimane avvinto, se
accetta di trasferirsi con Marino ed alcuni altri nobili veneziani (l'ex doge
Pietro Urseolo) fin sui Pirenei, presso il monastero di S. Michele di Cussano
(in Guascogna): per quasi dieci anni vi conduce vita anacoretica.
Di ritorno in Italia, nel 988, subito si
impone per la sua personalità vigorosa e carismatica, suscitando ammirazione ed
imitazione. Potremmo dire che diventa centro di un moto di attrazione e di
convergenza: intorno a lui si raccolgono diversi discepoli. Ma il suo non é
soltanto un apostolato di risultanza: in maniera positiva si dedica ad una
intensa attività di riforma, che lo fa girovagare per tutta l'Italia centrale.
Lo troviamo nel 998 abate di S. Apollinare in Classe. Su invito di Ottone III
poi abbandona l'incarico, si sposta a Montecassino; indi soggiorna nei pressi
di Ravenna. Tra uno spostamento e l'altro fonda qua e là degli eremi: Camaldoli,
Val di Castro. Finalmente nel 1027 chiude, in perfetta solitudine la sua vita a
Val di Castro.
L’iniziativa eremitica, che si sviluppò
intorno a Romualdo, con ogni probabilità, dovette avere la sua forza di
coesione non tanto in una regola scritta, ma piuttosto nell’influsso
carismatico, che la singolare personalità del maestro esercitava sull’ambiente
circostante. Come si sa una situazione di questo tipo, piuttosto spontaneista,
a lungo andare, man mano che scema lo stimolo contingente, finisce con il
decomporsi: una cosa del genere si verificò negli eremi romualdini alla morte
del maestro: diversi eremi si disciolsero. In questo contesto assume notevole
importanza la figura di Pier Damiani: grazie
a lui il movimento eremitico trova una base teologica, organizzativa ed anche
economica: in tal modo all'opera di Romualdo é stato assicurato un futuro.
Pier Damiani, nasce nel
1007 a Ravenna, come Romualdo. In giovane età sì dedica con notevole profitto
allo studio delle arti liberali, frequentando le scuole di altre città, come
Faenza e Parma. Insieme con la vita intellettuale Piero coltiva la vita
interiore: pensa ed agisce da uomo, che si é dato completamente a Dio. Si fa
infatti ordinare sacerdote.
Il suo cammino spirituale lo porta più oltre
: entra a Fonte Avellana, un eremo di derivazione romualdina, ed a ventotto
anni, nel 1035, "veste la cocolla".
Fonte Avellana é ancora una fondazione poco
definita; la comunità, che vi dimora, é certo assi fervente, ma di scarsa
cultura: in tal modo Pier Damiani viene presto a trovarsi un po' al centro dei suoi
confratelli.
Potremmo dire che a questo punto Fonte
Avellana cresce di tono e si segnala come comunità modello: il monastero di
Pomposa prima, quello di S. Vincenzo presso Fossombrone poi, si contendono la
presenza di Pier Damiani.
E’ questa un'esperienza notevole per il
nostro eremita, perché gli offre l'opportunità di sperimentare in prima persona
l'organizzazione della vita benedettina.
Solo per obbedienza aveva accettato di
lasciare il suo eremo; solo per obbedienza nel 1043 torna al sempre sospirato
suo eremo per reggerlo come priore. Intraprende così la sua attività di strutturazione
della vita eremitica.
In particolare, per l'attività legislativa si
ispira a Benedetto, a Cassiano, agli Apoftegmi, alle vite dei Padri del
deserto: si tratta fondamentalmente di un ricupero del monachesimo
prebenedettino, con una sottolineatura preferenziale della vita eremitica (cfr J.
LECLERCQ, S. Pier Damiani, op.
cit., 68.
Da qui trae i principi; le concrete modalità
di attuazione sono quelle, che gli suggerisce non una considerazione astratta
dell’eremitismo, ma una osservazione equilibrata e discreta delle consuetudini
già in atto nella comunità presso cui vive. Questo atteggiamento é senz'altro originale:
senza rifiutarla in maniera radicale, osa su diversi punti allontanarsi da
quella regola benedettina, che il Capitolare di Ludovico il Pio dell'anno 816
aveva prescritto a tutti i monaci. Frutto dell'attività legislativa di Pier Damiani
sono, fra l'altro, l'opera sul "Tenore di vita degli eremiti e
i beni dell'eremo" (1045 - 1050) e la "Regula
eremitarum" (1057).
Sotto il profilo economico é certo indicativa
la scelta operata da Pier Damiani: le comunità vengono dotate di fondi terrieri.
Da ciò si vede come povertà e lavoro non siano l’ideale eremitico: povertà e
lavoro sono concepiti in funzione dell'ideale eremitico, che è la tensione
assoluta Dio: ci può essere un modo di essere poveri, ci può essere un modo di
lavorare, che impediscono la tensione assoluta a Dio, in quanto sono contagiati
dall’assillo di rinvenire giorno dopo giorno almeno un minimo per vivere!
La “tensione assoluta a Dio" é una
caratteristica positiva, ma - di
riflesso - implica un atteggiamento negativo: il tendenziale distacco da tutto
ciò che non é Dio, non come negazione di
tipo dualistico-manicheo, ma come affermazione della sua relatività: la
solitudine dice questo.
Risultato di questa strutturazione di Fonte
Avellana é il collegarsi a lei di altri centri, come Sitria e Monte Acuto, o
anche la fondazione di nuovi complessi come Suavicino, Ocri, Gamugno: nasce
così una congregazione.
A questo punto l’eremitismo italiano assume
un carattere preciso, ben de definito, che vedremo poi riproposto dalla
congregazione di Camaldoli, nelle Eremiticae Regulae, redatte dai priore
Rodolfo (1074 - 1089) ed in qualche
modo anche nella vita della congregazione di Vallombrosa, fondata nel 1036 da
Giovanni Gualberto; il monolitismo del monachesimo occidentale é finalmente
infranto!
2.
I
tratti caratteristici
L’ideale eremitico consiste nella tensione
assoluta a Dio, realizzata percorrendo la “aridam perfectionis semitam”.
Questo arduo cammino di perfezione comporta
una rigorosa, estrema radicalizzazione della preghiera, della solitudine e
dell’ascesi.
La preghiera
Si persegue l’ideale della preghiera
continua: ogni attimo deve essere orazione. Ciò si compie fondamentalmente in
tre modi: 1) opus Dei ridotto e sobrio; 2) oratio secreta, che è fatta di
meditazione della Sacra Scrittura e di recitazione di salmi ed impegna per
grande parte della giornata; 3) giaculatorie o orazioni furtivae, che
accompagnano le attività, che non sono propriamente di preghiera.
Senza giungere a dire che l’eremitismo voglia
direttamente reagire allo stile cluniacense, si deve tuttavia ammettere che vi
troviamo una tendenza opposta: al primato della celebrazione esteriore e
comunitaria viene contrapposto quello della preghiera interiore ed individuale.
Abbiamo qui un segno evidente del distacco
dalla religiosità esteriore altomedievale ed un inizio della spiritualità
nuova, legata alla situazione nuova, che si sviluppa a partire dalla metà del
secolo XI: non più esaltazione del gruppo, della struttura, del quadro esterno,
ma scoperta dell’individualità, della interiorità e delle sue varie componenti.
"Sede in cella quasi in Paradiso; proice
post tergum de memoria totum mundum; cautus ad cogitationes, quasi bonus
piscator ad pisces. Una via est in psalmis; hanc ne dimittas.... Destrue te
totum, et sede quasi pullus, contentus ad gratiam Dei, qui, nisi mater donet, nec sapit, nec habet quod
comedat” (BRUNONIS, Vita quinque fratrum, a cura di E. Kade, MGH SS, XV, 738).
Si sviluppa la preghiera affettiva; la
relazione passionale con l’uomo Gesù, con Maria; l’attenzione e la
partecipazione mistica alla vicenda umana del Signore: prodromi remoti della
devotio moderna.
E’ chiaro che una preghiera siffatta, che
accanto all’opus Dei dà tanto rilievo all’interiorità individuale, pone al
fianco dell’ideale della comunità cristiana primitiva un nuovo ideale, quello
della sequela e della imitazione di Cristo.
La solitudine
Già abbiamo accennato alla caratteristica
fondamentale: la tensione assoluta a Dio. La preghiera ne è l’espressione
massima.
Anche la solitudine e la fuga dal mondo, sono
viste in funzione della unione con Dio nella preghiera: esse hanno un contenuto
primariamente positivo: sono il modo di vivere dediti all'assolutezza di Dio
(quasi pullus), sono il segno del primato della realtà soprannaturale, sono
l’affermazione della relatività del temporale:
questo non é un negare il mondo secondo un pessimismo stoico o neoplatonico, ma anzi é un assicurare al mondo una vera
consistenza: l'unica sua vera consistenza! Neppure questa ricerca di fuga dal
mondo va connessa con le tendenze manichee di certe forme ereticali: diversa è
la concezione, che soggiace ai due stili di vita, anche se materialmente
affini.
E’ insomma l'ideale del "soli Deo
vivere".
L’ansia di
solitudine determina la scelta dei luoghi: foreste sconfinate, incolte, dove
l’ampiezza è in funzione della lontananza dai centri abitati; reclusione in
piccole capanne o in grotte: ma tutto con un grande senso di umanità: il senso dell'ospitalità;
il senso della disponibilità a dare consigli (la conversatio); l’amicizia verso
gli animali. La solitudine non é asocialità, non è individualismo, ma anzi é
relazione con l'universo intero, se viene vissuta come partecipazione-imitazione
di Colui,che sulla Croce, mentre muore nell’abbandono totale, giunge ad
abbracciare il mondo intero. Una riprova di questo sta nel fatto che spesso troviamo
gli eremiti impegnati sul fronte della vita apostolica: in genere questa loro
attività non ha un carattere sistematico: si tratta piuttosto di una
disponibilità alle occasioni, che si presentano. La predicazione degli eremiti talora
sconvolge un po' il quadro delle istituzioni ecclesiastiche tradizionali: non
si attengono ai limiti di circoscrizioni e giurisdizioni; spesso si tratta di
laici. Qui ritroviamo anticipati i caratteri della predicazione dei francescani
mendicanti: poiché si tratta di appartenenti allo stato laicale, svolgono una
predicazione di tipo morale: i temi strettamente dottrinali sono lasciati ai sacerdoti.
Con quale diritto fanno questo?
A questo proposito, penso che sia
significativo un episodio della vita di Bernardo di Thiron: questi, durante una
sua predica nella cattedrale di Coutances osa sferrare un attacco al preti
sposati: l'arcidiacono si sente colpito personalmente e muove all’eremita
questa obiezione: "Cur ipse, quia monachus ac mundo mortuus erat, viventibus
praedicaret?”. Bernardo risponde, richiamando una frase di S. Paolo
"Imitate me, come io imito Cristo" e conclude che, per predicare, i
cristiani devono morire ai mondo. Ciò a maggior ragione vale per chi insegna
agli altri: solo chi ha praticato la rinunzia al mondo in maniera totale può
predicare (GAUFFRIDUS GROSSUS, Vita Bernardi Tironensis, PL 172, 1398 A,
§ 52). Ma negli eremiti ciò che più “predica", ciò che più fa impressione
sugli altri, é la loro vita austera, asceticamente rigida.
Va rilevato che l’eremitismo soprattutto in
Italia dagli inizi di rigorosa anacoresi si evolve nel senso dell’eremitismo di
gruppo, abbastanza organizzato attorno a un capo e con pratiche in comune.
Qui si esprime una tendenza epocale, che poi
sarà tipica della riforma gregoriana, la tendenza a porre la vita communis alla
base della riforma e del rinnovamento, Del resto spingono in questa direzione
fattori molto concreti e molto contingenti:
-
l’esigenza
intrinseca all’eremitismo della conversatio more sanctorum Patrum;
-
il fatto che
la vita esemplare del solitario esercita un’attrazione sulla curiositas delle
masse e sull’ansia di perfezione dei più religiosi;
Conseguenza di ciò fu un impegno apostolico
degli eremiti, che all’inizio non fu sistematico, ma solo di risultanza.
Il troppo afflusso tuttavia spingeva gli
eremiti a spostarsi da un luogo all’altro in ricerca di nuove solitudini.
Originariamente si ebbe quindi una instabilità di risultanza, ma nel corso dei
secoli XI e XII si fonderà con l’idea della peregrinatio per portare il
vangelo, dando vita al fenomeno dei predicatori itineranti.
Altra conseguenza dell’afflusso intorno
all’eremita fu il sorgere di gruppi di seguaci e quindi lo sviluppo di una
specie di comunità. Ciò comportò ovviamente problemi di organizzazione e di
strutturazione.
Mi limito a richiamare due aspetti
particolari:
1 - il
formarsi delle regole: alla base vi è la consapevolezza che ad una massa
non si possono chiedere tutte quelle austerità, che si imponevano le
eccezionali personalità degli iniziatori: "Poiché questi esercizi (le
discipline; le prostrazioni ed altre penitenze) per qualche fratello non sono
convenienti é dunque meglio lasciare a tutti la libertà di scelta in questo
campo, piuttosto che imporre una Regola....Tutto é stato composto secondo una
giusta discrezione, lasciando da parte ogni eccesso di austerità” (testi di s.
Pier Damiani citati da J. LECLERQ, S. Pier Damiano, 58).
2 - il
formarsi di cenobii, accanto agli eremi. Essi non sono concepiti come luogo
di preparazione alla vita eremitica (come avveniva nel monachesimo antico), anche se talora si dà il caso che di fatto
qualcuno passi dal cenobio all'eremo. Essi sono concepiti come frutto della
vitalità apostolica della vita eremitica: gli eremiti, con la santità della
loro vita, attirano attorno a sé molta gente, ma non tutti coloro, che
ricercano la perfezione, sono in grado di cimentarsi nella lotta in solitudine;
per costoro si creano i cenobii; la santità della vita è garantita dalla
vicinanza, dall'aiuto e dalla guida degli eremiti: priore del cenobio deve
essere sempre un eremita. Nel cenobio poi viene portato l'eremita, quando, per
malattia, ha bisogno di cure particolari: altrimenti non si dà mai che un
eremita si trasferisca nel cenobio. Da ciò emerge come l'eremo sia considerato
lo stato di perfezione per eccellenza, cui ogni altro tipo di vita monastica,
anche quello cenobitico, deve fare riferimento.
Questo
sviluppo del fenomeno eremitico ci pone un primo problema: la connotazione
sociologica. Chi e quali ceti sociali hanno contribuito a tale sviluppo? Le
fonti ci impediscono di attribuire questo sviluppo a un gruppo particolare:
nobili, borghesi, rustici, chierici, laici e monaci compaiono impegnati
nell’impresa eremitica. Non reggono quindi le tesi di coloro che tendono a
ridurre il fenomeno eremitico a fenomeno di borghesia. Secondo questa tesi, gli
eremiti sarebbero dei borghesi, che si staccherebbero dal loro ambiente tutto
dedito alla speculazione economica. Non è da escludersi che diversi borghesi
siano giunti all’eremitismo anche con questo intento, ma limitarsi a ciò
sarebbe una riduzione indebita del fenomeno eremitico. Lo stesso si deve dire
della tesi che tende a ridurre l’eremitismo a persone, che vivevano sottoposte
a vincoli feudali (piccoli nobili, milites, contadini) e che per liberarsi da
tali vincoli avrebbero fatto ricorso al pretesto della scelta religiosa.
Lo sviluppo
del fenomeno eremitico ci pone anche un secondo problema: le sue origini e la
sua fioritura. Qui si dovrebbe fare una osservazione di carattere generale:
solitamente a livello di riflessione
storica si nota la tendenza a porre l'accento più sul fenomeno nel suo
complesso, quasi ipostatizzandolo, che sulle persone, che vivono e
costituiscono quel fenomeno. Da ciò consegue che l'agire della persona umana
viene ridotto a una mera e necessaria risultanza di una serie di cause estrinseche:
i condizionamenti del passato, i condizionamenti sociali.... In fondo sto criticando
l'uso, frequente ma non mai documentato sufficientemente, della categoria di
"causalità" in sede storica: più che di cause sarebbe meglio parlare
di condizioni, occasioni, circostanze, che hanno facilitato l'originarsi e lo
svilupparsi di un certo fenomeno.
In base a
questo rilievo, mi sembra inaccettabile la posizione di coloro che fanno
derivare direttamente la rifioritura eremitica dai mali del tempo, spiegandola
come reazione ad essi: "nemo dat quod non habet", direttamente dal
negativo non può sgorgare il positivo!
Credo che
l'attenzione debba cadere piuttosto sulla persona, che ha la capacità e la
volontà di percepire i mali del suo tempo e di reagire ad essi: qui, nella persona, troveremmo una personale
concezione di perfezione, che spinge verso modalità di vita molto rigide, non
inquadrabili nella istituzione monastica del tempo. Su tali concezioni rigoriste
influiscono molteplici elementi. Prima di tutto va sottolineato il temperamento
dei grandi protagonisti: sono per la maggior parte degli intellettuali (Romualdo,
Pietro Orseolo, gli altri veneziani, Pier Damiani sono gente il cultura, non
sono degli "illitterati") e si sa che normalmente l'intellettualismo
cammina di pari passo con il radicalismo. (cfr L. GENICOT, L’éremitisme du
XI siécle dans son context économique et social : L’eremitismo in
Occidente nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola
1962, Milano 1965, 61). Questa istruzione consente loro il contatto diretto
con la Sacra Scrittura, con i Padri, da qui attingono le modalità espressive
della loro sete di perfezione: del resto sempre nel cristianesimo la novità,
la fantasia si esprime come un ritorno alle origini!
Ed é così,
come affermazione di individualità, come ricerca di più libere espressioni personali,
ricerca rivolta all'acquisizione di una religiosità più intima, é così che
nasce il nostro fenomeno.
E poi c'è il
magnetismo esercitato da queste grandi personalità sull'ambiente circostante,
che é decadente sì, ma ancora permeato da un potente afflato religioso.
A ciò ai
aggiunga l'azione della fama, lo stimolo della curiositas, della novitas e
subito diventa comprensibile il formarsi di un movimento intorno agli iniziatori.
Del resto quello era tempo in cui le idee correvano, circolavano e penetravano
nelle masse: oramai cominciava a sgretolarsi la struttura curtense della società,
l'aumento della popolazione in quel X secolo, aveva causato il fenomeno della
specializzazione professionale e quindi aveva creato I'esigenza di sviluppare
gli scambi, di ricorrere a rapporti commerciali! Lo scambio di beni
inevitabilmente é anche scambio di idee e queste diventano facile preda della
massa, quando si hanno concentrazioni della popolazione, fenomeni di
urbanizzazione, come appunto nel nostro periodo, quando la ripresa del
commercio pone al centro della vita economica non più la campagna ma la città. Anche
l’idea eremtica in questo contesto ebbe più facile circolazione e quindi più
facilità di adesione.
L’ascesi: come
abbiamo detto prima, negli eremiti ciò che più “predica", ciò che più fa
impressione sugli altri, é la loro vita austera, asceticamente rigida. Questa
penitenza ha come ha come significato fondamentale la “conversio ad Deum",
che impegna in una lotta tenace e decisa contro Satana (aversio a peccato).
Sotto questo profilo il movimento eremitico richiama in qualche modo l'antico “ordo
paenitentium”, un po' come ultimo stadio della sua evoluzione: si sa che l'ordo
paenitentium si era venuto man mano trasformando in uno stato di élite,
composto da fedeli ferventi, che decidevano di fare penitenza nello stato di
conversione; non è difficile vedere in questa evoluzione un avvicinamento allo
stato monastico (cfr E. DELARUELLE, Les ermites et la spiritualité
populaire : L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e XII. Atti della
seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 222- 226).
Lo scontro
con il male é ritenuto dall'eremita inevitabile e da combattere in prima linea:
pertanto guarda con una certa diffidenza la perfetta organizzazione di certe
comunità, che finisce col diventare un riparo dalle tentazioni, anziché un
aiuto nella lotta contro le tentazioni.
Espressione
di questa ascesi-lotta sono il digiuno, le genuflessioni reiterate, le
flagellazioni. Un posto particolare spetta al lavoro: è per l'eremita un mezzo
di mortificazione, ma anche un mezzo per
procurarsi dei proventi da
offrire in elemosina ai più poveri. Sulla determinazione del tipo di lavoro
influisce parecchio il luogo di residenza: se é la campagna abbandonata, si
tratterà di un lavoro agricolo; se é la foresta, si lavorerà il legname; se é
una località vicino a qualche grande centro, si ricorrerà alla questua e all'elemosina.
Il lavoro
però va visto anche in relazione con la scelta di povertà, non solo
individuale, ma anche comunitaria; diventa allora un modo di vivere
l'appartenenza alla categoria dei “non-proprietari”, alla categoria di coloro,
che vivono non di rendite, ma del lavoro quotidiano. Bisogna dire che
l’eremitismo, non appena giunge a forme di vita di gruppo, deve fare ricorso al
possesso di fondi terrieri: nei secoli X e XI la vita di scambio è ancora molto
ridotta e si deve vivere ancora su basi autarchiche, se si vuole scongiurare il
rischio dell’indigenza. In questo contesto terriero diventa necessaria anche
l’attività lavorativa con il rischio di venire distolti dalla tensione assoluta
a Dio. Ma a partire dagli ultimi decenni del secolo XI, con lo sviluppo delle
città, della borghesia finanziaria, del commercio, l’eremitismo tenderà ad
allontanarsi dalla forma del possesso terriero per radicalizzare l’ideale di
povertà, al punto che nel linguaggio spesso la povertà diventerà ancor più
della solitudine la nota qualificativa della vita eremitica: ci si avvia così
verso gli ordini mendicanti.
3.
Note per una comprensione del fenomeno eremitico
italiano
Per
comprendere l'eremitismo italiano dei secoli XI e XII anche in ciò, che ha di
specifico ed originale, penso che si debba seguire l'indicazione metodologica di
dom J. Leclercq, che invita appunto a considerare tale fenomeno secondo una
triplice prospettiva: va prima di tutto
considerato in relazione con la vita eremitica nel suo evolversi; va poi
considerato nella sua relazione con la realtà monastica del suo tempo; lo
sguardo deve infine aprirsi ad una valutazione più ampia, che tenga conto della intera realtà ecclesiale (cfr J. LECLERCQ, L'érémitisme
en Occident jusq’à l’an Mil : L’eremitismo in Occidente nei secoli XI e
XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 419).
D'altra
parte è nostra convinzione che non si dia mai un fatto che sia asetticamente
ecclesiastico e pertanto possa essere isolato da tutti gli altri elementi del
contesto vitale: ciò poi diventa particolarmente vero nella società
alto-medievale, che é tutta sottesa dall'intenzione di costruire la vita come
traduzione temporale dei regno di Dio ! (Y. CONGAR, L’ecclésiologie du haut
Moyen-Âge, Paris 1968, 248).
Questa
considerazione ci farà preoccupati ed attenti, perché il nostro discorso non
prescinda dal quadro e dalle trame delle strutture, delle istituzioni, della
mentalità, ecc., che caratterizzano quel momento. (C. VIOLANTE L' eremitismo
: Studi sulla cristianità medievale,
racc. da P.Zerbi, Milano 1972, 131).
Ai fini di
rilevare in maniera sintetica l'evoluzione dell'eremitismo, potrebbe
tornare utile seguire i contenuti che il termine "eremus” viene man mano
assumendo (cfr J. LECLERC, L'érémitisme en Occident. op. cit., 29-31). Nella
prima epoca patristica il termine "eremus" serve a contraddistinguere
un atteggiamento spirituale di netta impronta biblica: é quell'atteggiamento
per cui ogni cristiano cerca di prolungare e riprodurre in sé il mistero del
deserto, che compare nella vicenda dell'Esodo, di Elia, di Eliseo, di Giovanni
Battista e del Signore. Con Origene si inizia ad usare "eremus" secondo una orientazione mistica: é il
luogo-simbolo in cui si fa la conoscenza del Verbo, attraverso la meditazione
della Scrittura. In Agostino poi troviamo la sintesi delle due precedenti accezioni
nella nozione di "deserto interiore".
Con l’apparire
del monachesimo il termine “eremus" subisce una profonda trasformazione:
da attitudine spirituale, comune a tutti i cristiani, diventa un genere di
vita, riservato ad una categoria particolare di cristiani, che in solitudine di
vario tipo perseguono l’ideale dell’unione con Dio.
Dobbiamo
dire che il movimento eremitico non ha mai avuto in Occidente uno sviluppo
vasto come in Oriente: anzi con le deliberazioni di Aquisgrana dell'anno 816,
che impongono il monachesimo secondo la regola benedettina, l’eremitismo viene
ridotto ad un significato particolare: un ritiro ascetico, lontano dal cenobio
di singoli cenobiti aspiranti a più elevato grado di perfezione personale: tale
ritiro non comportava il discioglimento del vincolo di obbedienza all'abate.
Considerata
in questa prospettiva, la rifioritura eremitica dei secoli XI e XII appare senz’altro
come un fatto nuovo: non nel senso che é scoperta di una forma nuova di vita
cristiana, ma nel senso che tenta di far rivivere
in solitudine nuova, quella realtà che trovava descritta nelle vite dei Padri
del deserto. Particolare di questa rifioritura è il progressivo accentuarsi
della forma comunitaria, della tensione apostolica e della povertà.
Si tratta di
un genere dì vita, che lascia libero campo al mondo individuale di ogni
vocazione: da ciò deriva che l’eremitismo è un insieme di casi particolari, è
una pluralità di forme, difficilmente riconducibili a un quadro preciso (cfr J.
LECLERC, L'érémitisme en Occident. op. cit., 31-36).
Schematizzando,
senza pretese di completezza, possiamo parlare di eremitismo stabile,
eremitismo itinerante, eremitismo individuale, eremitismo esicastico,
eremitismo a mo' di laura... Da qui si arguisce che l’eremitismo dei secoli XI e
XII ripropone quelle che sono le caratteristiche costanti dell’eremitismo. Da
queste brevi annotazioni emerge che l'eremitismo é una riproposizione
dell'evangelismo semplice, popolare, frutto di una mentalità essenziale, che
riduce l'esistenza alla dimensione
fondamentale di lotta dalla parte di Cristo, contro Satana e il male.
II discorso ci
porta ad affrontare il problema dell'eremitismo dal secondo angolo prospettico,
cioè quello della sua relazione con la realtà monastica del suo tempo.
Dal XIX
secolo è in atto nella storiografia una certa tendenza, che riduce il
monachesimo alla forma cenobitica e pertanto giunge a mettere l'eremitismo in
contrasto con il monachesimo: l’eremitismo sarebbe in qualche modo in contrasto
con il monachesimo, perché non ne riproduce il carattere cenobitico, che é
ritenuto l'elemento distintivo e normativo della vita monastica: ad esso ci si
deve riferire per dire se siamo o no alla presenza di una esperienza monastica.
Orbene lo studio del monachesimo antico, prebenedettino, mostra con inequivocabile
chiarezza che tale contrasto non esiste: l'eremitismo é considerato una forma del
monachesimo, anzi la forma originaria (μόνχος, μόνος). Questo rilievo dovrebbe
imporre dunque alla storiografia una posizione esattamente contraria a quella
sopra descritta.
Per dire se
siamo o no di fronte ad una esperienza autenticamente monastica dobbiamo fare
riferimento non già alla presenza del carattere cenobitico, ma alla presenza di
qualche cosa che é essenziale all'eremitismo: possiamo infatti dire che
l’eremitismo rappresenta il caso limite – e perciò paradigmatico – della vita
monastica, in quanto nell’eremitismo abbiamo una radicalizzazione delle
esigenze di preghiera, fuga dal mondo e ascesi, esigenze che descrivono ogni
forma di vita monastica.
Stante
questa osservazione, si deve dire che é insostenibile l’interpretazione dell’eremitismo
come negazione del cenobitismo in quanto tale: del resto sia Romualdo (contatti
con sant’Apollinare in Classe; san Michele di Cussano; Montecassino; con Odilone
di Cluny) sia Pier Damiani (contatti con Pomposa; san Vincenzo presso Fossombrone) hanno tenuto
molteplici rapporti con monasteri di vita cenobitica. Sia Romualdo, sia Pier
Damiani hanno esercitato, potremmo dire, quella che abbiamo visto essere la
funzione dell'eremitismo in seno al monachesimo e cioè il richiamo di alcune cose,
che sono costitutive della vita monastica in quanto tale.
Ma per
cogliere il valore di questo richiamo di riforma, che viene all'eremitismo, penso
che si debba tenere presente che proprio allora nel suo interno il cenobitismo
stava vivendo un momento di riforma, non solo all'estero (Cluny; Brogne; Gorze;
Verdun) ma anche in Italia: vari monasteri nel Nord e nel Centro, dipendenti da
Cluny, ne subiscono l'influsso; Farfa pure accoglie le consuetudini cluniacensi
senza perdere la propria autonomia; Alferio, discepolo di Odilone, fonda, con l'aiuto di Waimaro di Salerno l'abbazia
di Cava dei Tirreni, ispirandosi a Cluny. Ebbene viene da chiederci quale
valore viene ad assumere il richiamo dell'eremitismo in questo contesto.
La risposta ci
viene offerta, credo, dalla cosiddetta "crisi del monachesimo” (cfr J
LECLERQ, La crise du monachismo aux XI et XII siècles : Bullettino
dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo, 70 (1958), 19 – 41).
Qui direi
che troviamo il giudizio sul tipo di riforma condotta da Cluny: una riforma moderata, carente di un’ampia prospettiva storica,
non condotta fino alle estreme, più profonde conseguenze: in fondo Cluny rimane
una istituzione strettamente legata a un tipo di società, che é oramai in via di
superamento e pertanto rimane inevitabilmente coinvolta nel declino di tale società.
Ben diverso
invece é il tipo di riforma portato avanti dagli eremiti: l'assoluto desiderio
di Dio consente loro di percepire la relatività ed i limiti delle istituzioni
esistenti e di ricercare spazi nuovi più rispondenti alle loro grandi
aspirazioni personali. In fondo potremmo dire che nella costante tensione tra istituzione e persona l'eremitismo pone
I'accento su quest'ultima.
Dalla storia
poi si vede che l'intuizione della priorità della persona porta sempre uno
sprazzo di fantasia, di creatività. E veramente l’intuizione eremitica svolge
nella storia del monachesimo medievale una funzione dinamica ed orientatrice:
sull'eremitismo si plasmeranno nuovi ordini: i premonstratensi, che vogliono condurre
vita eremitica nel loro stato canonicale: i certosini di san Bruno… Dall'eremitismo
trarrà influssi lo stesso movimento benedettino (Pietro il Venerabile di Cluny).
Particolarmente
significativo è l’influsso eremitico sulla congregazione di Pulsano, fondata da
Giovanni di Matera: cosi Alessandro III ne esprime l'ideale (bolla del 9 febbraio
1177): "Iuxta votum atque promissionem vestram laboribus manuum seu
vestrorum animalium, eorumque nutrimentis, atque elemosynis fdielium contenti
sitis et super terram alia quaelibet non quaeratis” (citato da T. LECCISOTTI, Aspetti
e problemi del monachesimo in Italia : Settimane di studio del centro
italiano di studi sull’Alto Medio Evo, IV, Spoleto 1957, 335).
Qui si vede
come l’influsso dell'eremitismo spinga verso quella che sarà la novità degli
ordini mendicanti.
Non possiamo
certo ritenere che gli eremiti avessero coscienza di tutto questo. Però
possiamo senz'altro dire che la loro volontà di autonomia e quindi di rottura
nei confronti del monolitismo monastico del loro tempo, sono gravide di conseguenze: possiamo certamente dire che di fatto
l’eremitismo si è posto, si organizzato su una base non feudale. Agli eremiti il
merito di aver saputo afferrare le nuove istanze, ancorandole a una profonda
religiosità: in tal modo hanno contribuito a far sì che il nuovo non si affermasse
solo come disgregazione ed eresia, ma anche, e in maniera assai più ampia e
determinante, come autentica riforma ecclesiale.
Ma credo che
sia possibile avanzare l'ipotesi che non vi è soltanto un influsso
dell'eremitismo sul mondo monastico circostante; vi è pure un'azione del mondo
monastico italiano sull'originarsi dell’eremitismo. Il monachesimo italiano non
ha mai dovuto assumere il compito di evangelizzatore e civilizzatore di popoli
ancora rudi; non si è mai trovato impegnato nell'opera di dissodatore di terre
incolte: si è subito trovato tra popoli quasi totalmente cristianizzati e
plasmati dalla profonda tradizione della civiltà romana. Questa situazione ha consentito
al monachesimo italiano dì offrire più che un apporto culturale ed economico-sociale,
un apporto religioso capace di penetrare in profondità.
Ci rimane da
considerare la relazione dell’eremitismo con la Chiesa universale. Già
in precedenza abbiamo accennato al valore apostolico di questi solitari. Ora
vorremmo in particolare prendere in esame l'indicazione che viene dal movimento
eremitico circa il rapporto della Chiesa con il mondo del tempo.
L' Alto Medio
Evo è caratterizzato da una profonda unitarietà: tutta la vita é costruita a
partire dall'esigenza del servizio di Dio, non solo a livello religioso, ma
anche a livello politico. La fede nell'unico Dio diventa convinzione che vi è
una sola verità: lo Stato serve Dio garantendo, diffondendo, difendendo questa
unica verità. Ma lo Stato è impero, cioè universalità, e pertanto tutto l'impero
si struttura in maniera unitaria, intorno a quest'unica verità.
Sulla scia
di questa concezione Carlo Magno si sente apostolo della cristianità non solo
fuori la Chiesa, ma anche dentro la Chiesa: e la Chiesa viene inquadrata nella
struttura feudale: ad esempio episcopati ed abbazie sono distribuiti come
feudi.
Sotto Carlo
Magno la cosa non comporta gravi conseguenze: Carlo Magno é dotato di
"bona voluntas"e di “vera potestas", per cui riesce a garantire
in tutto l'impero una autentica vitalità cristiana. Ma dopo di lui la debolezza
di Ludovico il Pio, la spartizione dell’impero, le invasioni dei Normanni, dei
Musulmani e degli Ungari, frantumano l'unità dell'impero e collocano la
struttura feudale in balia dei particolarismi della nobiltà laica locale. Ciò
si riflette a livello ecclesiale nella nomina dei vescovi e degli abati in base
a criteri tutt'altro che religiosi; ciò produce un fenomeno di secolarizzazione
dei beni ecclesiastici: in generale viene a crearsi un clima di tensione e
violenze.
In questo
contesto si instaura la restaurazione imperiale fatta dagli imperatori tedeschi:
in fondo si rimane ancora nell'ambito della struttura feudale. Cioè non si
sottopone a verifica il sistema nella sua globalità, ma si cerca soltanto di
garantirne il funzionamento, assicurando la stabilità e la forza del potere
centrale. La riforma di Cluny si muove nello stesso senso: conserva la
struttura feudale, se ne garantisce la vitalità attraverso la forte personalità
dei suoi abati: come l’imperatore tedesco si designa un successore tra i suoi
figli, l'abate morente si sceglie il successore tra i suoi monaci. Ma é evidente
che rimangono gli stessi rischi di
prima.
Il movimento
eremitico ha il coraggio di strutturarsi al di fuori del sistema tipicamente
feudale e fondare la propria vitalità non sull'efficienza del sistema ma sull’impegno
delle singole individualità. Da qui si vede come tutta la forza deIl’eremitismo
stia nella sua interiore e personale carica religiosa. Questa carica religiosa
gli consente la massima libertà nei confronti delle strutture esistenti: la
povertà gli consente di vivere in maniera totalmente autonoma e in questa
autonomia abbiamo la fonte di nuove possibilità.
Ponendosi su
questa base non feudale, meno legata alle strutture, l’eremitismo si è messo in
contatto salutare con le nuove aspirazioni: povertà, apostolato, vita secondo
il vangelo, sapendo assumerle in maniera tale che non degenerassero in forme
ereticali, ma anzi contribuissero a promuovere un rinnovamento ed un
arricchimento della vita ecclesiale.
Quindi per via
della sua intensa e autonoma carica religiosa l'eremitismo riesce a ricuperare
su di un piano di ortodossia quei valori di povertà, autonomia spirituale, che
l'istituzione aveva isterilito, formalizzato, giuridicizzato. Così l’eremitismo
viene ad assumere nel suo tempo una
obiettiva funzione antiereticale.
La tensione
di rinnovamento e di riforma interpretata dall’eremitismo non svolse solo
questa benefica funzione antiereticale, ma anche divenne presenza dinamica e
orientatrice per il monachesimo in generale e per l’intero apparato ecclesiale.
Il
monachesimo, infatti, toccato dalle istanze di povertà e apostolato degli
eremiti, maturerà una spinta verso il mondo nuovo della borghesia cittadina e
del proletariato urbano: questa spinta si concreterà nelle nuove forme di vita
religiosa: gli ordini mendicanti.
La vita
ecclesiale in generale, toccata dalle istanze spirituali dell’eremitismo, giungerà
a riconoscere e ad affermare che è possibile vivere la perfezione cristiana
attraverso il minimo di istituzione. E
così la perfezione cristiana da prerogativa esclusiva dell’ordo monastico
diventerà meta possibile per ogni individuo cristiano.
In questa linea
scaturirà la distinzione tra lo stato di
vita ed i meriti personali e insieme verrà messa in discussione l’antica
concezione, secondo la quale i tre stati di vita (monachesimo, clero, laicato)
erano anche tre gradi diversi di santità.
L’attività
apostolica svolta dagli eremiti laici non autorizzati alla predicazione non ingenerò
solo confusioni e pericoli, ma anche impose il ricupero di di alcune importanti
nozioni.
Per esempio
divenne sempre più chiara la distinzione tra l’insegnamento autorevole del
vangelo, che è proprio del clero e la testimonianza evangelica, che è propria
di ogni cristiano.
Inoltre
divenne sempre più chiaro che chi ha il munus docendi deve essere anche nella
sua vita testimone evangelico: non basta più il dato oggettivo dell’ufficio, è
doveroso anche il dato soggettivo della vita. Va quindi riconosciuto che l’eremtismo
dette un contributo efficace alla riforma del clero.
Infine l’azione
apostolica degli eremiti affermò l’urgenza di precisare i ruoli propri dei
chierici e quelli specifici dei laici.
Per questa
lezione mi sono servito di:
· O. CAPITANI, San Pier Damiani e l’istituto
eremitico : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della
seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 122 – 163
· Y. CONGAR, L’ecclésiologie du haut
Moyen-Âge, Paris 1968
· E. DELARUELLE, Les
ermites et la spiritualité populaire : L’eremitismo in Occidente nei
secoli XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962,
Milano 1965, 212 – 241
· L. GENICOT, L’éremitisme du XI siécle dans
son context économique et social : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI
e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 45
– 69
· T. LECCISOTTI, Aspetti e problemi del
monachesimo in Italia : Settimane di studio del centro italiano di studi
sull’Alto Medio Evo, IV, Spoleto 1957, 311 – 337
· J LECLERQ, La crise du monachismo aux XI
et XII siècles : Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio
Evo, 70 (1958), 19 – 41
· J LECLERQ- F. VANDENBROUCKE – L. BOUYER, La
spiritualité du Moyen Age, Paris 1961
· J LECLERQ, La spiritualità del Medioevo
(= Storia della spiritualità cristiana 3/1), Bologna 1969, 191 -210
· J LECLERQ, L’éremitisme en Occident jusqu’
à l’ an Mil : L’eremitismo in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della
seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965, 27 – 44
· J. LECLERQ, Epilogue : L’eremitismo
in Occidente nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola
1962, Milano 1965, 593 – 595
· J. LECLERQ, S. Pier Damiano. Eremita e
uomo di Chiesa, Brescia 1972
· G. G. MEERSSEMAN, Eremitismo e
predicazione itinerante dei secoli XI e XII : L’eremitismo in Occidente
nei sec. XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962,
Milano 1965, 164 – 179
· J. SAINSAULIEU, s.v. Ermites :
Dictionnaire d’Histoire et de Géographie ecclésiastique, XV, coll. 766 – 787
· G. TABACCO, Romualdo di Ravenna e gli
inizi dell'eremitismo camaldolose : L eremitismo in Occidente nei secoli
XI e XII. Atti della seconda settimana di studio Mendola 1962, Milano 1965,
73 – 119
· C. VIOLANTE L' eremitismo : Studi
sulla cristianità medievale, racc.
da P.Zerbi, Milano 1972, 127 – 143
· C. VIOLANTE Il monachesimo cluniacense
: Studi sulla cristianità medievale,
racc. da P.Zerbi, Milano 1972, 3 – 67
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