IL MUSULMANESIMO
Testi di riferimento
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H. Pirenne, Maometto e
Carlomagno (=Universale Laterza 115) Bari 31973
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R. MANTRAN, L’espansione
islamica dal VII all’XI secolo (=Nuova Clio 11). Milano 1978
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T. FAHD, L’Islam
(= Universale Laterza 398), Bari 1977
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M. RODINSON, Maometto
(=Piccola Biblioteca Einaudi), Torino 21973
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F. G. MAIER, Il
mondo mediterraneo tra l’Antichità e il Medio Evo (=Storia Universale
Feltrinelli 9), Milano 1970, 279 - 316
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D. SOURDEL, La
genesi dell’Islam e le prime conquiste arabe : R. Folz, A. Guillou,
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E. PERROY, Il
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Arabi, Islam e
Mediterraneo : L’Europa
barbara e feudale (= Storia d’Italia e d’Europa, comunità e popoli, I, (a
cura di M. GUIDETTI), Milano 1978, 119 – 149
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A. BAUSANI, L’Islam,
Milano 1980
Il mondo arabo prima di Maometto
Può sorprendere, ma è un dato di
fatto inconfutabile: tutte le storie dell’Islamismo e di Maometto hanno un
punto di partenza obbligato: la considerazione della penisola arabica nella sua
configurazione geografica e climatica, che incide in maniera determinante sulla
vita economica, sociale, politica e religiosa dei suoi abitanti.
Questa unanime convergenza degli
storici è un riconoscimento evidente di quel che l’Islam primitivo deve alla sua
terra di origine. Quindi da qui anche noi dobbiamo prendere le mosse.
Nel mondo arabo preislamico si
distinguono due tipi di aggregazione:
a)
Un’aggregazione di tipo statale
b)
Un’aggregazione di tipo tribale.
a) Aggregazione
di tipo statale
Una prima importante
aggregazione di tipo statale si era costituita sulla costa meridionale della
penisola arabica. Il passaggio dal nomadismo ad una forma di vita sedentaria
dipende dalle caratteristiche geografiche della zona: sottoposta all’azione dei
monsoni dell’Oceano Indiano, questa parte della penisola arabica gode di una
stagione regolare di piogge: l’acqua, poi opportunamente raccolta e canalizzata
mediante un sapiente sistema di dighe e
di irrigazione, ha permesso all’agricoltura la coltivazione di cereali, frutti,
legumi, vigne, mirra, incensi.
Inoltre,
situata tra Mar Rosso e Oceano Indiano, questa terra divenne un importante nodo
commerciale: i paesi mediterranei – via Egitto – vi facevano confluire sia la
merce da esportare in India sia la merce da importare dall’India. Lo stesso
dicasi dei mercanti indiani. Da qui poi, dal Sud Arabia, partivano piste
carovaniere, che collegavano i suddetti traffici marinari con la Siria
Bizantina e con la Persia.
Prospera
per l’agricoltura e per il commercio, questa terra era già stata celebrata
dall’antichità classica come Arabia felix. Vi si erano sviluppati
vari regni, ad esempio quello di Saba, della cui regina parla la Bibbia, quello
di Qatabān, il cui splendore ci è fatto intuire dai recenti scavi archeologici condotti
da Americani. Verso la metà del secolo V l’Arabia meridionale è unificata nel
potente regno Sabeo, che però all’inizio del VI secolo si trova coinvolto
nella tensione tra le due grandi potenze (Impero romano e Impero Persiano) e ne
rimedia una grave decadenza.
Vi si
pratica una religiosità piuttosto varia: rimangono tracce del vecchio culto
arabo ad impronta naturalista (culto degli astri e delle pietre), praticato
però secondo forme molto evolute: templi numerosi e ricchi, amministrati da una
classe di sacerdoti, che occupano una posizione di primo piano nella compagine
sociale; in questi templi si compiono offerte di profumi, sacrifici di animali,
preghiere e pellegrinaggi, durante i quali sono vietati i rapporti sessuali.
Si ha nel
regno sabeo anche una significativa presenza della religione giudaica e della
religione cristiana, sia in connessione con la vita commerciale, sia in
connessione con le vicende politiche (per esempio nei momenti di avvicinamento
all’Impero romano si accentuò la presenza cristiana).
Già agli
inizi del V secolo al Nord, al confine con la Mesopotamia Persiana, troviamo un
secondo stato arabo, il regno dei Lákmidi, stato vassallo della
Persia, dalla quale riceve il cristianesimo nella forma nestoriana.
All’inizio
del VI secolo – sempre nel Nord – ma questa volta al confine con la Siria
meridionale romana, si costituisce un terzo stato arabo, si tratta del regno
dei Gassanidi,
stato vassallo dell’Impero romano, da quale riceve il cristianesimo in forma
monofisita.
Ambedue i
regni – Lákmidi e Gassanidi – svolgono la funzione di stati cuscinetto tra i
due imperi e il deserto dei beduini arabi.
b) Aggregazioni
di tipo tribale
Anche in
questo caso è l’ambiente a determinare il tipo di vita: abbiamo tre tipi di
paesaggio (il deserto, le oasi, centri di convergenza), che danno vita a tre
tipi diversi di vita.
Il deserto: terra immensa, resa in
massima parte deserta dalla scarsità delle precipitazioni. In alcune zone
capita che non piova anche per dieci anni di fila. Talora l’acqua, che si è
infiltrata nel terreno, viene raggiunta con pozzi; talora invece l’acqua
riemerge come sorgente, dando vita alle oasi.
Se nella
penisola arabica è il deserto a predominare, è il nomadismo il genere di vita
che vi si impone. I beduini sono appunto gli abitanti del deserto e vi vivono per
lo più allevando cammelli. Quando cade la pioggia, spingono le loro bestie
verso le regioni, che l’acqua venuta dal cielo ha reso verdeggianti. Al ritorno
della siccità, i vari gruppi di beduini convergono dove c’è acqua permanente.
Le oasi: qui invece, per esempio a YATRIB
(poi Medina) è possibile la coltivazione della terra, soprattutto delle palme
da dattero, che è l’albero per eccellenza, del quale vengono utilizzati non
solo i frutti, ma tutti gli altri elementi fino all’ultimo. Questa pianta viene
chiamata “la zia e la madre” degli arabi, perché forniva alle masse miserabili
dei beduini l’unico cibo solido, al quale si accompagnava come bevanda il latte
delle cammelle. Nelle oasi abbiamo quindi una piccola popolazione sedentaria,
che pratica l’agricoltura e il commercio dei
prodotti. Tra i beduini del deserto e i beduini delle oasi si stabilisce
una sorta di simbiosi: i beduini con i loro cammelli forniscono alla gente
delle oasi sia il servizio di trasporto sia il servizio di difesa contro gli
assalti e le razzie di altri beduini del deserto. A sua volta la gente delle
oasi offre ai beduini i prodotti dell’agricoltura e del commercio.
I centri di convergenza: Nel
deserto alcune località erano divenute riferimento piuttosto obbligato o perché
erano situate al crocevia di importanti piste, o perché, sgorgandovi una fonte
ed essendovi cresciuto un qualche albero, erano divenute mete e tappe ricercate
dai viandanti.
Spesso in
quelle località era sorto un santuario, si tenevano mercati o fiere più o meno
permanenti. Non sorprende pertanto che con il tempo siano diventati
insediamenti di commercianti, artigiani, capi tribù che da lì controllavano i
membri erranti della loro tribù. E’ questo il caso della Mecca: vi convergono
due vie carovaniere, quella che univa il Sud-Arabia e la Palestina e quella che
univa il Mar Rosso e la Mesopotamia. La Mecca era anche centro di turismo
religioso, perché vi si trovava una sorgente, la celebre zemzem, che secondo
una credenza popolare sarebbe stata fatta sgorgare da Allah per dissetare Agar
e suo figlio Ismā ʻil. Alla Mecca sorgeva anche il cubico santuario della
Kaʻba, che era pure carico di leggenda: sarebbe stato edificato da Adamo, dopo
che fu scacciato dal paradiso. Il diluvio in seguito lo avrebbe distrutto, ma
Abramo e il su figlio Ismā ʻil lo avrebbero ricostruito, incastonandovi
nell’angolo a sud-est la famosa pietra nera, una meteorite, che però secondo la
leggenda sarebbe stata portata dal cielo sulla terra dall’arcangelo Gabriele.
La forma cubica della costruzione altro non è che un modo di richiamare e
sostituire in pietra l’antica tenda quadrangolare.
Verso la
fine del V secolo alla Mecca si impose la tribù di Quaraysh, che molto
abilmente introdusse nella kaʻba accanto alla pietra nera anche le principali
divinità degli Arabi. E così la Mecca divenne il centro religioso di tutta la
popolazione araba e meta di pellegrinaggio. L’egemonia religiosa della Mecca
molto presto divenne anche egemonia politica ed economica.
Tutta
questa gente del deserto manteneva le strutture sociali tipiche della vita del
deserto: cioè piccoli gruppi umani, i clan, che costituivano le cellule base. I
diversi clan, che a torto o a ragione ritenevano di avere legami di parentela,
formavano una tribù. Il capo tribù veniva chiamato sayyīd. I rapporti tra le
varie tribù erano continuamente tesi, poiché la sproporzione tra fabbisogno
globale e produzione globale determinava una perenne esigenza di razzie ed una
incessante contrapposizione per accaparrarsi i pozzi, i pascoli, gli schiavi,
il bestiame…
Nel
contesto individualistico e violento del sistema tribale recava una certa
moderazione il principio del taglione: sangue per sangue, vita per vita.
In teoria
la struttura clanica della società avrebbe dovuto garantire uguaglianza e
solidarietà tra gli Arabi, di fatto però a mano a mano che i beduini si
avvicinavano all’attività mercantile finivano con il costituire un ceto
particolare e distinto sia per la sua maggiore disponibilità economica sia per
il passaggio alla vita sedentaria. A questo punto al codice morale antico di
uguaglianza e solidarietà si sostituiva un nuovo codice, caratterizzato da
avidità e da inflessibile ricerca di guadagni. Pertanto i legami di sangue si
allentavano, cedendo l’importanza precipua ai legami fondati sulla comunanza
degli interessi.
La
religiosità di questa gente del deserto era costituita da una religione
primitiva, naturalista, legata alla condizione di uomini che vivevano vagando
nel deserto: ne rappresentava quindi l’esigenza di salvezza, di ristoro, di
orientamento. Era pertanto religione astrale, dove predominava Al-Lah, il Dio
del cielo, al quale si univano la divinità lunare, detta Hubal, e le tre
divinità, che rappresentano le tre facce di Venere. Si prestava adorazione
anche ad alcune pietre con la cima appuntita ed erette a mo’ di monumento.
Queste pietre servivano sia da altare sia come rappresentazione della divinità,
simbolizzando la montagna. Adorazione veniva riservata anche alle fonti, ai
pozzi. In genere accanto a queste acque venivano collocate le pietre sacre: si
noti che le acque erano dette batila (termine femminile) e le pietre invece erano
dette batil ( termine maschile): allora si capisce che l’accostamento acqua e
pietra rappresentava la coppia della fertilità. Spesso veniva riservato culto
anche ad alberi grandi, verdeggianti, ombrosi.
Si deve
però rilevare che in connessione con l’evoluzione mercantile, con la
dissoluzione della solidarietà clanico-tribale, entrò in crisi anche la
religione clanico-tribale e pertanto tra la gente del deserto diversi cominciarono
a rivolgersi verso le religioni universalistiche, che anziché rivolgersi al
gruppo etnico, miravano ad assicurare la salvezza di ogni persona umana nella
sua incomparabile unicità. In questo contesto si sviluppò la figura del hanīf,
predicatore e asceta che si ispirava a motivi del giudaismo e del cristianesimo
senza aderirvi e sviluppava una rigorosa religiosità monoteista, fondata
sull’esclusività di Allah. Questi hanīf erano degli isolati, che però mostravano
l’esigenza di una religiosità più elevata.
Concludendo,
possiamo senz’altro dire che Maometto si trovò a vivere in un’Arabia in crisi:
crisi politica, che si esprimeva in generale nella notevole divisione del
popolo arabo in vari regni, succubi delle grandi potenze e in un’organizzazione
tribale anarcoide. Crisi anche sociale, che in generale era caratterizzata da
una radicale contrapposizione tra Arabi del Nord e Arabi del Sud e in
particolare, all’interno degli Arabi del Nord, conosceva una dissoluzione della
vecchia solidarietà clanico-tribale ed un prevalere crescente degli interessi
economici particolaristici.
Crisi
inoltre anche religiosa, dove la relativizzazione della primitiva religione
naturalista, tribale, politeista pareva cedere il passo ad un pericoloso
monoteismo di impronta giudaica e cristiana. Si volle far fronte a questa
molteplice crisi di dissoluzione, ricorrendo ad un discorso di unità araba,
fondata sulla tesi della fondamentale unità etnica degli Arabi del Nord e del
Sud, in quanto deriverebbero da un medesimo capostipite e costituirebbero – pur
nelle diversità – un’unica razza; unità araba fondata anche su un’unità
religiosa, su un monoteismo arabo. Si cominciò a sostenere la tesi secondo cui
la tradizione araba originale sarebbe stata monoteista e solo in un secondo
momento, in una sorta di Medio Evo arabo, che Maometto chiamò jāhilīya, si
sarebbe prodotta la degenerazione politeista. La vita di Maometto si colloca
entro queste coordinate.
Maometto
La sua
nascita si colloca tra il 567 e il 573, spesso però viene adottata la data del
571 (Rodinson). La sua terra di origine fu La Mecca.
La famiglia: il padre ‘Abd Allah appartiene
alla tribù di Quarayh, al clan di Hāshim. Il nonno, ‘Abd al-Muttalib è persona
di primo piano. Poco prima o poco dopo la sua nascita Maometto rimane orfano di
padre, che lascia molto poco in eredità. A sei anni Maometto perde anche la
mamma e viene raccolto prima dal nonno e poi dallo zio paterno, ʻAbd Manāf Abu
Talib, che guida il clan di Hāshim, che deteneva in quel tempo la supremazia a
Makka. Maometto apprende la professione del carovaniere e così, viaggiando, ha
modo di incontrare anacoreti cristiani, comunità ebraiche, hanīf arabi. Questi
contatti fanno sviluppare in lui l’esigenza di una religiosità più profonda di
quella che praticava e che vedeva praticare alla Mecca. Quindi Maometto respira
il clima del rinnovamento religioso, che era in atto nel mondo arabo.
Matrimonio: sui 25 anni, quindi ad un’età
relativamente alta per la società di quei tempi, Maometto sposa la vedova
Khadīgia, che, essendo sui 40 anni, non è più donna giovanissima. E’ una donna
ricca, per la quale Maometto lavorava. Così Maometto da membro povero di una
grande famiglia, che si guadagna da vivere servendo altre famiglie, diventa
persona agiata e stimata. Liberato dall’affanno di dover rinvenire i mezzi di
sostentamento, Maometto trova modo di dedicarsi all’approfondimento della sua
istanza religiosa.
Prime rivelazioni : verso il 610 con una
certa frequenza comincia a ritirarsi in una caverna della collina di al-Hīra,
che si trova qualche chilometro a nord-ovest della Mecca. “Un giorno
improvvisamente percepisce una voce, che pronuncia tre parole arabe: “Tu sei
l’Inviato di Dio”. Così, in seguito narra quella esperienza: “Ero in piedi, ma
mi accasciai sulle ginocchia e mi trascinai carponi col petto tremante. Entrai
da Kadīgia dicendo: «Copritemi! Copritemi!» fino a che il terrore non mi fu
passato” ( M. RODINSON, op. cit.,
73: cfr Corano LIII, 1-18 combinato con LXXX, I, 22-23).
“Le
rivelazioni, che Maometto riceveva, formavano ciò che veniva chiamato
recitazione, in arabo: qur’ān. Queste furono annotate, mentre Maometto era
ancora in vita… Si cominciarono a raggruppare i frammenti, creando le sūre o
capitoli. L’insieme fu chiamato “la Recitazione” per eccellenza, in arabo: al-
Qur’ān. Più tardi alcuni musulmani degni di riguardo ne fecero diverse
raccolte, che ambivano alla completezza e delle quali alla fine una sola fu
conservata. Le sure vi sono ordinate in modo meccanico, secondo la lunghezza
decrescente… senza alcuna attinenza con la cronologia” (M. RODINSON, op. cit., 85).
Verso il 613, su consiglio
ed incoraggiamento di Kadīgia, Maometto si dette alla predicazione, ottenendo
l’adesione di diversi suoi familiari e di elementi appartenenti soprattutto
agli strati più bassi della popolazione e al mondo giovanile. I contenuti di
questa prima predicazione rappresentano il nucleo di alta ispirazione
mistico-religiosa. Vi spiccano due temi:
·
Dio-Allah viene presentato come buono, creatore,
rimuneratore, assolutamente trascendente rispetto all’uomo. Si noti però che
non vi è nessuna negazione esplicita delle altre divinità e non vi è nessuna
insistenza sul carattere unico della suprema divinità. Si potrebbe quindi
ritenere che a quell’epoca Maometto fosse non tanto monoteista, ma piuttosto
enoteista, credesse quindi alla possibilità che intorno ad Allah esistesse uno
sciame di divinità secondarie, dipendenti da Allah. Questo può spiegare come
mai questa predicazione iniziale di Maometto non scandalizzò più di tanto i
Meccani tradizionalisti.
·
Il giudizio finale con castigo eterno per i
cattivi: questo secondo tema si volgeva soprattutto contro i ricchi, che
ritenevano che la loro fortuna permettesse loro di essere indipendenti da ogni
potenza divina e da ogni legge morale e pertanto sfruttavano i fratelli arabi
più deboli. Per sfuggire al supplizio finale dovevano purificarsi attraverso un
buon uso della ricchezza, che consisteva nel darne parte ai poveri (“A chi sarà
stato generoso e timorato e avrà attestato la verità della cosa più bella(ricompensa),
faciliteremo il facile; a chi invece sarà stato avaro e avrà creduto di bastare
a se stesso e tacciato di menzogna la cosa più bella (ricompensa), lo
spingeremo nelle avversità. Quando precipiterà [nell’abisso], a nulla gli serviranno
i suoi beni!” (Sura XCII, la notte, 5-11).
Anche questo accento posto sulla
necessità dell’elemosina non era per nulla strano e poteva trovare conferma
nell’antico ideale tribale di uguaglianza e di solidarietà, che era stato
distrutto dal prevalere degli interessi economici. Maometto propone quindi una
rifondazione religiosa di tale solidarietà.
Dunque fin qui nulla di
rivoluzionario o di inaccettabile per i Meccani. Tuttavia un testo del Corano,
la sura LIII, 19-23, mostra come con il passare del tempo Maometto abbia sempre
più chiaramente compreso in senso monoteista il tema della divinità (“Cosa ne dite di al-Lât e al-Uzzâ, e di Manât, la terza? [“al-Lât, al-Uzzâ e di Manât”: “divinità”
femminili adorate dagli arabi pagani] Avrete voi il maschio e Lui la
femmina? Che ingiusta spartizione! Non sono altro che nomi menzionati da voi e
dai vostri antenati, a proposito dei quali Allah non fece scendere nessuna
autorità. Essi si abbandonano alle congetture e a quello che affascina gli
animi loro, nonostante sia giunta loro una guida del loro Signore”).
La tradizione
musulmana (cfr AL-TABARI, MUHAMMAD IBN GARIR, Vita di Maometto) normalmente associa a questa sura una leggenda, che mira a
sottolineare il carattere sofferto e dirompente di questa svolta monoteista:
“Quando l’Inviato di Dio vide che il suo popolo si allontanava da lui…
nell’anima sua egli desiderò ricevere da Allah un testo che lo riavvicinasse al
suo popolo. Dato il suo amore e la sua sollecitudine per loro, lo avrebbe
rallegrato addolcire un poco quanto era troppo aspro per loro, al punto che se
lo ripeté, lo sperò, lo desiderò. A quel momento Allah gli rivelò la Sura della
stella… Quando giunse al versetto: «Che ne pensate voi di al-Lāt e di al –Uzzā
e di al-Manāt, il terzo idolo?», il demonio gli mise in bocca: «Sono gli
Uccelli sublimi e la loro intercessione è certamente desiderata». Quando i
qurayshiti udirono questo versetto furono presi da grande gioia e tutti si
prostrarono, musulmani e non musulmani. Solo più tardi l’arcangelo Gabriele
rivelò a Muhammed che era stato ingannato dal Diavolo…I versetti aggiunti
furono abrogati e sostituiti da altri che respingevano il culto dei «tre grandi
uccelli acquatici» e la discordia tornò...” (citato da M. RODINSON, op. cit., 107). Le
conseguenze infatti del monoteismo di Maometto non potevano lasciare tranquilla
la classe, che dominava a La Mecca (cfr Sura CIX, 1-6: “In nome di
Allah, il Compassionevole, il Misericordioso. Di’: «O miscredenti! Io non adoro
quel che voi adorate e voi non siete adoratori di quel che io adoro. Io non
sono adoratore di quel che voi avete adorato e voi non siete adoratori di quel
che io adoro: a voi la vostra religione, a me la mia»).
Il monoteismo ovviamente
contestava aspramente il culto politeista, che si era sviluppato alla Mecca e
che aveva assicurato ai Meccani prosperità economica, avendo reso La Mecca un
centro di primo piano sia sotto il profilo del turismo religioso sia sotto il
profilo del commercio. Il monoteismo inoltre conferiva un rilievo singolare a
Maometto, che diventava il profeta dell’unico Dio. Forte di tale posizione,
Maometto avrebbe potuto rifiutare di sottostare alle strutture di potere
vigenti alla Mecca, anzi avrebbe potuto addirittura rivendicare per sé un ruolo
di guida superiore ed insindacabile.
Il mutamento, che la scelta
monoteista di Maometto, lasciava presagire, non poteva certo riuscire gradita
alla classe dirigente della Mecca, che insieme con la tendenza alla
conservazione, tipica di ogni classe dirigente, condivideva lo spirito di tutta
una società araba fortemente tradizionalista.
Pertanto alla Mecca per Maometto e
per i suoi seguaci la vita divenne assai difficile e parve sempre più opportuno
cercare residenza altrove.
La si trovò presso Yatrib, la
città che per via della sua relativa prosperità aspirava a rivaleggiare con La
Mecca. Dal luglio al settembre 622, alla spicciolata, una settantina di musulmani
si trasferì dalla Mecca a Yatrib, che poco dopo prenderà il nome di Madīnat al-Nabī, "la città del Profeta", Medina appunto.
In arabo questo
fenomeno prende il nome di higira, cioè migrazione che in profondità comportava
la rottura dei vincoli tribali: questo anno, il 622, segna l’inizio di una
nuova era della storia, l’era musulmana: l’egira del 622 è quindi il primo anno
della cronologia musulmana.
Per capire questa
intesa tra Medinesi e Maometto è utile prestare attenzione a due elementi:
·
Primo elemento: a Medina si era insediato un forte
gruppo ebraico, che aveva determinato una certa evoluzione religiosa tra
parecchi arabi, che si erano avvicinati al monoteismo e avevano cominciato a
condividere con gli Ebrei l’attesa del Messia, del profeta di Dio. Il
monoteista Maometto, perseguitato dagli odiati Meccani, dovette apparire ai
Medinesi come il profeta atteso.
·
Secondo elemento: da anni Medina era dilacerata da
continui e insolubili contrasti tra le varie tribù: Maometto, profeta di Dio e
assolutamente estraneo alle beghe medinesi, dovette apparire come l’uomo
ideale, che poteva riportare l’unità, con un governo che si poneva al di sopra
di tutte le parti contendenti.
Nel periodo medinese si stabilisce
una stretta connessione tra esigenze esterne e rivelazioni, che pertanto vedono
ridursi l’afflato mistico-religioso del periodo meccano per dare maggior peso
alle tematiche giuridico-organizzative. Va comunque riconosciuta una notevole
importanza al periodo medinese, perché in esso la precedente intuizione
carismatica riceve una definizione istituzionale.
Prima
grande istituzione del periodo medinese è l’UMMA, cioè la comunità
islamica, la comunità dei credenti. Vi fanno parte due gruppi di persone: gli
“emigrati”, cioè le circa 70 persone, che hanno compiuto l’Egira dalla Mecca e
costituiscono il nucleo originario dell’Islamismo (in arabo: muāgirūn); e poi
gli “ausiliari”, cioè gli abitanti di Medina, che si sono fatti seguaci di
Maometto (in arabo: ansār). Il criterio di appartenenza non è più costituito
dal dato carnale dell’appartenenza ad una tribù per via della discendenza da
comuni antenati, il criterio di appartenenza all’umma invece è la fede
musulmana. L’umma inizia a Medina come comunità religiosa guidata da Maometto e
subito dispone di alcuni elementi istituzionali, che le conferiscono anche peso
politico-sociale, dispone infatti di un corpo di truppa indipendente e di una
tesoreria propria. Nel 627 il peso politico della Umma in Medina è talmente
incontrastato, che oramai la si può anche qualificare come stato islamico.
Maometto a questo punto è capo politico-religioso di una comunità
politico-religiosa.
Seconda
grande istituzione del periodo medinese è la GIHAD, la guerra santa.
Vi si fece ricorso agli inizi per sopperire alle necessità economiche del
gruppo degli emigrati meccani, che, carovanieri e mercanti quali erano, da un
lato non erano in condizione di inserirsi nel contesto agricolo medinese e
dall’altro mal sopportavano la condizione di mantenuti, alla quale si erano
dovuti adattare nei primi momenti e che però con il passare del tempo veniva a
significare emarginazione ed inferiorità. La guerra santa fu portata con
successo prima di tutto contro le carovane dei meccani, che erano considerati
degli infedeli e dei nemici. Ovviamente ciò portò a ripetuti scontri tra
contingenti armati meccani e musulmani, finché nel 630 Maometto raggiunse la
piena sottomissione della Mecca.
Terxa
grande istituzione del periodo medinese è la regolazione del
matrimonio in termini poligamici. Secondo autorevoli studiosi di etno-storia la
società araba pre-islamica sarebbe stata regolata secondo una forma matriarcale
(W. Robertson Smith; G. A. Wilken). La scelta poligamica di Maometto sarebbe
stata una immediata e necessaria conseguenza degli scontri con i Meccani: la
morte di parecchi maschi rendeva urgente trovare una collocazione degna per le
donne, che si vedevano condannate a una misera vedovanza o a una forzata
verginità per via della considerevole riduzione dei maschi all’interno
dell’umma. Inoltre la poligamia, consentendo pluralità di nascite, avrebbe
colmato i vuoti, creati dagli scontri armati.
Quarta
grande istituzione del periodo medinese è la regolamentazione della
religione musulmana secondo caratteri spiccatamente arabi. Seguendo lo stile
degli hanīf, già alla Mecca, Maometto aveva assunto elementi giudaici: la
preghiera rivolta a Gerusalemme, collocazione della sua azione profetica in
relazione con quella dei profeti veterotestamentari e quella dello stesso Gesù,
attribuzione ad Allah dell’attributo di ar-Rahmān (=clemente, benefattore), che
era il nome che gli Arabi meridionali davano al Dio degli Ebrei e al Dio Padre
dei cristiani, secondo la terminologia aramaica ed ebraica; digiuno del kippūr;
capelli sciolti alla maniera ebraica (i pagani si pettinavano con la
scriminatura), ecc. ecc.. Per via di questi elementi giudaici Maometto si
aspettava che a Medina avrebbe incontrato un certo favore ed appoggio da parte
del forte elemento ebraico, che ivi si era insediato. In realtà invece incontrò
opposizione, derisione. Disilluso, Maometto decise di interpretare un
orientamento anti-ebraico sia a livello politico (allontanando dalla città e
anche giustiziando gli Ebrei), sia a livello religioso, eliminando gli elementi
giudaici ed accentuando la caratterizzazione araba; la preghiera rivolta alla
Mecca in ragione della fonte Zemzem e della Kaʻba, delle quali già abbiamo
parlato. Al posto del Kippūr introdusse il digiuno del mese di ramadān, la
festa di venerdì, la capigliatura con scriminatura. Il riferimento poi per la
sua azione profetica al profetismo veterotestamentario e cristiani si risolse
in affermazione del carattere definitivo e della perfezione suprema della sua
profezia (cfr Sura II,111-112: “E dicono: «Non entreranno nel Paradiso altri che
i giudei e i nazareni». Questo è quello che vorrebbero! Di’: «Portatene una
prova, se siete veritieri». Invece coloro che sottomettono ad Allah il loro
volto e compiono il bene, avranno la ricompensa presso il loro Signore, non
avranno nulla da temere e non saranno afflitti”).
Tra gli elementi spiccatamente arabi assunti in questo contesto medinese vi è
l’hağğ (pellegrinaggio) alla Mecca, che da tempo era praticato dagli Arabi,
secondo una ritualità particolare, che prevedeva la processione intorno alla
ka’ba e riti vari da celebrarsi in alcune località vicine alla Mecca. Maometto
conserva, infondendovi nuovo significato. Maometto compì vari pellegrinaggi
alla Mecca: 629/630 per la conquista della Mecca; 632, il pellegrinaggio di
addio.
L’8
giugno 632 Maometto morì dopo avere stretto intorno a sé tutti gli Arabi della
penisola arabica. La tradizione islamica (al-Sīra al-nabawiyya) pone sulle labbra di Maometto questo discorso di
addio: “O gente! Ascoltate le mie parole,
perché io non so, se v'incontrerò mai di nuovo dopo questo anno in questa
ricorrenza. O gente! Il vostro sangue e i vostri beni devono esservi sacri (ḥarām),
finché incontrerete il vostro Signore…. Chi ha in consegna beni affidati alla
sua custodia, li restituisca a chi glieli ha consegnati…. Satana ha perduto oramai ogni
speranza di essere mai più adorato in questo vostro paese…. Voi avete diritti sulle vostre donne, ma
anch'esse hanno diritti su di voi…. Trattate bene le donne, perché sono le
vostre ausiliarie …. Meditate bene, o gente!, le mie parole, perché io ho
compiuta la mia missione e ho lasciato fra voi quello che basta, affinché voi,
se ad esso vi attenete, non possiate mai cadere in errore; vi lascio cioè un
ordine chiaro e manifesto, il Libro di Dio, e l'esempio del suo Profeta (sunna
nabiyyihi).
Gente! Ascoltate le mie parole e meditatele bene: sappiate che ogni musulmano è
fratello di ogni altro musulmano: tutti i musulmani sono fratelli: a nessuno è
permesso di prendere al fratello ciò che egli non ha dato con buona volontà:
non commettete veruna ingiustizia a vostro danno. Dio! Non ho forse compiuto la
mia missione?». Al che gli astanti risposero in coro: «O Dio! Sì!». Al che Maometto
soggiunse: «Dio! Siine testimonio!»”.
Sempre secondo la stessa Sīra questa è la
morte di Maometto nel racconto della moglie ʻA’iša: “in quel giorno l’inviato
di Dio tornò a me, rientrando dalla contigua moschea e si sdraiò di fianco sul
pavimento, appoggiandosi al mio grembo. Entrò da me allora un membro della
famiglia di Abū Bakr con in mano un siwāk verde (una specie di ramoscello che
veniva usato per pulire i denti). L’Inviato di Dio guardò le mani di colui in
modo ch’io intesi che lo desiderava, sicché gli domandai; «O Inviato di Dio,
vuoi che ti dia questo siwāk?». Rispose: «Sì». Allora lo presi, lo masticai per
lui sinché lo ebbi reso tenero; poi glielo diedi e con esso si pulì i denti,
usando il massimo di forza che io gli avessi mai veduto adoperare in ciò; indi
lo depose. Io sentii l’Inviato di Dio farsi pesante sul mio grembo, gli guardai
il viso, ed ecco che il suo sguardo era divenuto fisso, mentre egli mormorava:
«Al contrario, voglio il Compagno Sommo del Paradiso». Allora esclamai: «Ti è
stata data la scelta fra la terra e il cielo e tu, per Colui che ti ha mandato
ad apportare il Vero, hai scelto». L’Inviato di Dio era spirato”.
Così Abū Bakr ne avrebbe annunciato la
morte ufficialmente: “O gente! Chi venera Maometto sappia che egli è morto; chi
adora Dio sappia che Dio vive sempre, non morrà mai”.
La religione
musulmana
1. Si presenta come fondata su una
rivelazione divina, fatta a Maometto e da questi predicata: al-Qur’ān è proprio
la recitazione di tale rivelazione. La
rivelazione islamica si pone in connessione con quella ebraica e con quella
cristiana, riconoscendo Abramo, Mosè, Gesù come profeti di Allah, tuttavia la
rivelazione islamica ritiene di possedere due caratteristiche decisive rispetto
alla rivelazione biblica: la caratteristica di correggerne le deformazioni e la
caratteristica di completare perfettamente e definitivamente il discorso
rivelativo di Allah. Questa rivelazione consta di due fonti. Prima fonte da
tutti riconosciuta è il Corano. Inizialmente erano state elaborate e
tramandate varie raccolte delle recitazioni di Maometto, nel 653 il califfo
Othman ordinò ed impose che venisse fissato un testo unico e definitivo,
suddiviso in 114 “Sure” o capitoli. Circa le modalità secondo cui va
interpretato il Corano la teologia musulmana si divide in due tendenze: il
sunnismo, che accetta soltanto l’interpretazione alla lettera e la
minoranza sciita e sufita, che invece ricorre alla
interpretazione simbolica ed allegorica.
Seconda fonte,
riconosciuta solo dai sunniti, è appunto la Sunna, cioè la tradizione
musulmana. Molto presto ci si avvide che il Corano non rispondeva a tutte le
esigenze, che la vita andava man mano presentando: talora infatti le
indicazioni coraniche apparivano oscure, altre volte invece le indicazioni
richieste addirittura mancavano. Si pensò quindi di dovere chiarire ed
integrare il Corano con quei giudizi, quelle parole e con quelle azioni del
profeta, che si erano fissate nella memoria dei suoi “compagni” più stretti e più
fedeli. Anche alcune biografie prestigiose di Maometto - le sira – rappresentano un riferimento
autorevole, anche se secondario rispetto al Corano e alla Sunna. Il mondo
islamico conosce anche l’istituto del consenso (iǵmā‛),
secondo il quale il parere dei teologi e dei giusperiti conferisce
autorevolezza a una determinata dottrina.
2. Contenuti fondamentali della
rivelazione islamica.
Allah – Dio: nella storia delle religioni la
teologia islamica è una delle più radicali formulazioni di teismo personalistico.
Allah è assolutamente uno ed unico, pertanto si ha una opposizione tenace sia
nei confronti del politeismo pagano sia nei confronti della Trinità cristiana,
che viene senz’altro intesa come un triteismo (Sura IV, 171: “O Gente della
Scrittura, non eccedete nella vostra religione e non dite su Allah altro
che la verità. Il Messia Gesù, figlio di Maria, non è altro che un messaggero
di Allah, una Sua parola che Egli pose in Maria, uno Spirito da Lui
[proveniente]. Credete dunque in Allah e nei Suoi Messaggeri. Non dite «Tre»,
smettete! Sarà meglio per voi. Invero Allah è un dio unico. Avrebbe un figlio?
Gloria a Lui! A Lui appartiene tutto quello che è nei cieli e tutto quello che
è sulla terra. Allah è sufficiente come garante”).
Qui
emerge un’altra caratteristica di Allah; la sua assoluta trascendenza: è
creatore, provvidente, buono, più vicino all’uomo dell’uomo stesso: (Sura L,
16: “In verità siamo stati Noi ad aver creato
l’uomo e conosciamo ciò che gli sussurra l’animo suo. Noi siamo a lui più
vicini della sua vena giugulare”). Allah è continuamente attivo, sta
continuamente creando, sta continuamente aggiungendo ciò che vuole alla sua
creazione. Quindi l’idea greca di un universo fisso, regolato da leggi
naturali, è profondamente estranea al Corano: tutto è opera diretta del
Dio-Persona, senza causae secundae. Allah poi sarà rimuneratore nel giorno del
giudizio universale.
Uomo: un abisso infinito
separa l’uomo dal suo Dio: nei riguardi di questo Dio il solo atteggiamento
possibile è quello dell’umiltà infinita e della sottomissione: questo è appunto
il senso del termine ISLĀM, assoluta dedizione; e MUSLĪM è l’uomo assolutamente
dedito e sottomesso. Questa è la preghiera del muslīm: “ Di’:
«In verità la mia orazione e il mio rito, la mia vita e la mia morte
appartengono ad Allah Signore dei mondi. Non ha associati. Questo mi è stato comandato e sono
il primo a sottomettermi»” (Sura VI, 162-163). L’uomo, anche se profeta, non
può essere Dio, né una realtà che sta tra Dio e gli uomini: pertanto sia Mosè,
sia Gesù, sia lo stesso Maometto, che è il massimo dei profeti, non sono che
uomini.
L’uomo si trova in
tensione tra la predestinazione divina alla salvezza o alla condanna e la sua
responsabilità personale. Ovviamente questo dato dà vita a una discussione
vivace, ma insolubile, sul libero arbitrio, sulla fede e sulle opere. In
proposito si delineano due posizioni: gli sciiti attribuiscono un valore
determinante alle opere e quindi considerano il peccato dell’uomo come una vera
e piena apostasia, una vera e piena separazione dalla comunità dei credenti,
per gli sciiti quindi sarebbe determinante la responsabilità e l’eticità
dell’uomo; i sunniti invece affermano la necessità e la sufficienza della fede,
che non è riducibile alla opere, anche se le opere sono importanti per dare
forza e vigore alla fede.
L’etica
musulmana può essere qualificata come etica del μεσότης, del mezzo. Potremmo vedere
riassunta l’etica musulmana in questo precetto: “Mangiate
e bevete, ma senza eccessi, che Allah non ama chi eccede” (Sura VII,31). E’
molto chiaro il senso della debolezza dell’uomo e quindi lo si ritiene incapace
di sopportare una morale “eroica”, di rigido ascetismo. Il tema del limite umano non va inteso in
termini di rassegnazione, ma di ottimismo, perché l’uomo è pur sempre la
creatura più perfetta di Dio, e questo fa sì che sia l’uomo sia la natura umana
sono sostanzialmente positivi. Come potrebbe Dio allora imporre alla sua
creatura prediletta carichi che essa non è in grado di sopportare? Si vede
quindi che al tema della debolezza dell’uomo viene accostato in maniera molto forte
il tema della relativa indulgenza di Dio.
L’ascetismo e il monachesimo sono quindi sconsigliati (cfr
Sura V, 87: “O voi che credete, non vietate le cose buone che Allah vi ha reso
lecite. Non eccedete. In verità Allah non ama coloro che eccedono”; Sura IX,
31: “Hanno preso i loro
rabbini, i loro monaci e il Messia figlio di Maria, come signori
all’infuori di Allah, quando non era stato loro ordinato se non di adorare un
Dio unico. Non vi è dio all’infuori di Lui! Gloria a Lui ben oltre ciò che Gli
associano!”; Sura LVII, 27: “Mandammo poi sulle loro orme i Nostri
messaggeri e mandammo Gesù, figlio di Maria, al quale demmo il Vangelo.
Mettemmo nel cuore di coloro che lo seguirono dolcezza e compassione; il
monachesimo, invece, lo istituirono da loro stessi, soltanto per ricercare il
compiacimento di Allah. Non fummo Noi a prescriverlo. Ma non lo rispettarono
come avrebbero dovuto. Demmo la loro ricompensa a quanti fra loro credettero,
ma molti altri furono empi”). Maometto considerava irritante l’esagerazione nel
bene, ma, dopo Maometto, l’Islam, impiantandosi in Siria ed in Egitto, terre
impregnate di ascetismo e monachesimo, dette vita a una sua forma
ascetico-monastica: il sufismo, che inizialmente si espresse secondo modalità
anacoretiche ed in seguito assunse forma cenobitica. Il nome deriva dal termine
sūf, che indicava il mantello di panno grossolano e bigio, che veniva indossato
da questi asceti.
Circa la morale sessuale si deve dire che non è certo
orientata verso uno stile ascetico, tuttavia tende a porre dei limiti
all’anarchia sessuale del paganesimo pre-islamico. La poligamia per esempio
viene regolata e ridotta ad un numero massimo di quattro mogli legittime,
lasciando la licenza di intrattenere libere relazioni con le schiave e le
concubine.
Sul piano sociale da un lato si riscontra una viva esigenza
di uguaglianza e fratellanza tra i credenti, che si traduce per esempio in
caldo invito a liberare gli schiavi, dall’altro lato sul piano pratico si
introduce una certa acquiescenza ad accettare le differenze sociali come un
dato di fatto, quindi anche la schiavitù non viene abolita.
L’etica musulmana non esige l’amore. Il peccato è considerato
un errore, una disobbedienza, un segno di ingratitudine, una negligenza dovuta
a una ingiustificata preferenza concessa ai beni di questo mondo. Il peccato
non suscita mai da parte di Dio il lamento dell’amante tradito, perché ciò
indurrebbe una nota di debolezza nel Dio eccelso. Anche il pentimento del
peccatore consiste più nel rilevare una calcolo errato, un accecamento nefasto,
che nell’angosciata desolazione di un essere avido di amore, che si è
momentaneamente smarrito.
La giurisprudenza coranica è rigorosamente teocentrica: la
“comunità” non è sentita come originata da un contratto sociale, né da vincoli
naturali di sangue e di razza: la comunità è un insieme di uomini, che sono oggetto di un
piano personale di Dio e a Lui uniti da un Patto.
L’idea di una separazione tra politica e religione, tra sacro
e profano è estranea al Corano: Dio è il capo dello stato islamico, la legge
non è la norma di diritto sancita dal popolo, ma è la parola di Dio. Il profeta
è capo della comunità islamica solo in quanto le fa udire, quasi da perfetto
trasmettitore, la voce di Dio.
Questo rapporto diretto, senza mediatori, tra Dio e la
comunità dà vita ad una liturgia asacerdotale. I “riti” sono classificati dai
trattatisti in cinque pilastri (arkān).
Primo pilastro: la shahada, cioè la professione di fede, in cui si esprime l’incondizionata
sottomissione a Dio e al suo profeta per eccellenza: “Non’è altro Dio
all’infuori di Allah e Maometto è il suo profeta”. La shahada apre tutte le
preghiere. Pronunciandola di fronte a testimoni, si fa ingresso a tutti gli
effetti nella comunità musulmana, l’Islam infatti non possiede riti di
iniziazione. La circoncisione, benché mai menzionata nel Corano, è considerata
obbligatoria o almeno assai raccomandabile (cfr A. BAUSANI, L’Islam, op.
cit., 44).
Secondo pilastro:
recita quotidiana delle cinque preghiere rituali (ṣalāt):
all’alba prima del sorgere del sole, a mezzogiorno, nel pomeriggio quando il
sole comincia a calare, al tramonto appena il sole scompare all’orizzonte, alla
sera dopo il crepuscolo. Il giorno viene determinato da tramonto a tramonto. La
preghiera è annunciata dal muezzin e va compiuta stando rivolti alla Mecca
(qibla). E’ una preghiera non interiore e libera del cuore, ma rituale,
canonica. La preghiera solenne e comunitaria si celebra il venerdì a
mezzogiorno in moschea. In questa occasione colui che presiede tiene anche il
sermone (khutba). Teoricamente ogni fedele potrebbe presiedere la preghiera,
purché abbia una conoscenza del rituale. Di fatto si è costituita una categoria
di persone competenti: l’imam. A imitazione della domenica dei cristiani e del
sabato degli ebrei, il venerdì è vietato lavorare.
Prima
della preghiera bisogna purificare il corpo con acqua o con sabbia, in mancanza
di acqua.
(Si distinguono vari livelli di impurità. L’impurità
maggiore è data escrementi di uomini e di animali. Fonte di impurità maggiore
sono i porci, i cani, le bevande inebrianti, il sangue e gli animali morti, che
non sono stati macellati secondo il rito previsto. Anche se non appare nessuna
sporcizia fisica esteriore, il contatto con uno di questi elementi rende
contaminati.
Mettono in stato di impurità maggiore anche i contatti
sessuali, le mestruazioni delle donne, il parto per i quaranta giorni
successivi. In questi casi c’è anche il divieto di recitare il Corano e di
entrare in moschea.
Per purificarsi dalle impurità minori bisogna ricorrere
alle abluzioni del viso, delle mani, degli avambracci fino al gomito. Bisogna
poi strofinarsi il capo con le mani bagnate e lavare i piedi.
Per purificarsi dalle impurità maggiori bisogna fare
ricorso all’abluzione completa.
Per i sunniti i non musulmani non sono impuri, tuttavia a
loro va interdetto l’ingresso nel territorio sacro della Mecca; in ore non
dedicate al culto, possono invece visitare le moschee. Per gli sciiti invece
sono impuri.
Impurità minore è toccare la pelle di persona di altro
sesso. Dopo avere fatto i propri bisogni si è in situazione di impurità minore.
Dopo uno svenimento o dopo il sonno bisogna ritenersi in impurità minore. In
stato di impurità minore è proibita la ṣalāt, è proibito
deambulare intorno alla ka’ba, è proibito il contatto con il Corano).
Terzo
pilastro: il ṣawm, il digiuno dal sorgere del sole fino al
sopraggiungere della notte durante i quaranta giorni del ramaḍān. Si
raccomanda di accompagnare il digiuno con l’impegno a evitare le liti, la
menzogna, la calunnia, la coltivazione di pensieri cattivi. Questa pratica mira
alla ricerca dell’equilibrio tra corpo e anima. Comporta astinenza da cibo,
bevande, fumo e rapporti sessuali. Il ramaḍān si conclude con la festa
dell’interruzione del digiuno (īd al-fiṭr).
Quarto
pilastro: ḥaǵǵ, il grande pellegrinaggio alla Mecca da compiersi
almeno una volta in vita nei mesi sacri, insieme con gli altri fedeli. Vanno
rispettate queste condizioni: astenersi dalla ricerca di lusso e agi; mutare
gli abiti profani con due pezzi di stoffa bianca, non cuciti; evitare
arrabbiature, liti, passioni, rapporti sessuali.
Quinto
pilastro: zakāt, l’elemosina legale: ha valore di purificazione. Consiste in un
prelievo sul superfluo dei beni che uno possiede: il prelievo deve essere di
1/10 dei redditi (la decima). L’elemosina legale viene versata nella cassa della comunità,
perché possa servire per sopperire alle necessità dei bisognosi e alle spese
della comunità. Svolge quindi l’importante funzione sociale di mantenere in
termini accettabili lo squilibrio tra ricchi e poveri. Pare che oggi questa
pratica incontri qualche difficoltà.
Concludiamo,
accennando all’atteggiamento che la religione islamica assumeva di fronte alle
altre religioni.
E’ vero
che essa prevede la jihād, la guerra santa, ma ciò non deve portare a concludere che
l’Islamismo si è sempre e comunque espresso in termini di intransigenza e di
intolleranza religiosa.
La jihād
comportava l’imposizione dell’obbligo di conversione all’Islamismo agli Arabi
non ancora musulmani e ai pagani. La jihād però assumeva una prospettiva
diversa, quando si trattava della cosiddetta gente del libro: ebrei, cristiani,
zoroastriani: sua finalità in questi casi non era più la conversione, ma solo
la sottomissione alla dominazione della umma di Allah.
Pertanto
questi appartenenti alla gente del libro godevano di un certo rispetto, non
venivano forzati a convertirsi all’Islamismo ed a loro veniva riconosciuto il
titolo di dhimmi, cioè protetti dall’umma musulmana. Questa protezione
comportava degli oneri, che erano solo di natura economica: versare all’umma un
tributo. Tanti ebrei, tanti cristiani, pur di sottrarsi al pagamento di questo
tributo, preferirono passare all’Islam. I musulmani, a dire il vero, non erano
molto entusiasti di questa scelta, perché comportava una riduzione del gettito
tributario e quindi cercavano di scoraggiare questa pratica.
L’espansione islamica al tempo del
califfato
Il
califfato e le divisioni interne
Il
trentennio successivo alla morte di Maometto fu per l’Islam un periodo
piuttosto critico, perché fu messa in causa la stessa unità dell’Islam e il suo
destino fu minacciato da profondi dissensi interni.
Il
primo dissenso si produsse sulla questione della successione a Maometto, che
non aveva previsto nulla. La sua morte colse tutti di sorpresa.
Alcuni
non vollero rassegnarsi all’idea della scomparsa del Messaggero e cominciarono
a parlare di una sua momentanea assenza per un viaggio nelle regioni celesti e
quindi bisognava attendere il suo ritorno. Questo discorso condannava l’umma a
una deleteria acefalia.
Prevalse
il partito dei più realisti e si addivenne all’elezione di un “khalifat Rasul
Allah”, cioè “un successore dell’inviato di Dio”, nella persona di Abu-Bakr,
che era già anziano, ma era stato uno dei consiglieri più ascoltati di
Maometto. La scelta venne giustificata da Abu-Bakr con questa dichiarazione: “O
gente! Chi adora Maometto, sappia che egli è morto. Chi adora Allah, sappia che
Allah vive sempre e non morirà mai”.
Inizia
così il periodo del califfato elettivo, che si protrasse fino al 661, quando si
impose il califfato dinastico degli Omeiadi.
Questo
califfato omeiade nel suo nascere elettivo (califfo ʿUthmān ibn ʿAffān, 644) e poi nel suo sviluppo dinastico
manifestò un forte orientamento realistico ed efficientistico, optando per una
guida dell’umma, che si preoccupasse prima di tutto e soprattutto del governo
temporale-politico.
Interpretato
così, il califfato non presentava più nessun afflato mistico-religioso, che lo
configurasse anche come riferimento spirituale. Un orientamento siffatto non
poteva certo trovare il consenso pacifico ed unanime della comunità islamica:
infatti, intorno ad ʿAlī ibn ʾAbī
Ṭālib, cugino e genero di Maometto, si formò un gruppo di rigorismo
religioso, che in nome del primato religioso accusava la nuova conduzione di
essere meschinamente opportunista e compromissoria per il suo tatticismo
politico. Questo gruppo contrappose una posizione di principio religioso, che
tendeva alla devozione, alla purezza, all’osservanza letterale delle norme
divine. Il movimento di Alì assunse quindi il carattere di dissidenza e
resistenza, che dette vita poi a due sette scissioniste nel mondo musulmano,
che tuttora sopravvivono.
·
Il kharigismo: da kharigiti, cioè coloro che sono
usciti, intesi come i ribelli, gli attivisti. Il gruppo si staccò dall’Islamismo
ufficiale durante il califfato di Alì. Con Alì aveva condiviso la linea del
rigorismo religioso, ma poi proprio in nome del rigorismo religioso abbandonò
il califfo Alì, che era sceso a compromessi con gli avversari. Per i kharigiti
tutti i fedeli sono uguali e, in quanto un capo è necessario, si ritiene che
capo debba essere il migliore musulmano senza distinzioni di origine e di rango
sociale. Mentre va combattuto come infedele chiunque non sia buon musulmano, si
trattasse anche del califfo. Come si vede, si ha la totale subordinazione del
governo politico alla religione. Questa setta oggi raccoglie circa l’1% dei
musulmani.
·
Lo sciismo: da shiʻha, che significa: partito.
Si formò dopo la morte di Alì (661), che fu assassinato da un kharigita. In continuazione
con Alì il movimento si connotò per una fede quasi mistica. A partire dal suo rigorismo religioso lo
sciismo sosteneva che nello stato religioso musulmano doveva prevalere la
religione come criterio guida, quindi il califfo doveva essere scelto non in
base a principi dinastici efficientistici, ma in base alla dedizione a Dio e
all’assistenza divina. Solo la parentela con Maometto garantiva il possesso di
queste caratteristiche e questo legame trovava la sua espressione massima in
Alì, cugino e genero di Maometto, di cui aveva sposato la figlia Fatima. Lo
sciismo nel capo della comunità vede non un semplice amministratore della
legge, ma anche l’imām, la guida dei fedeli nella fede. Questo movimento
espresse una vivace opposizione agli Omeiadi, subendo talora gravi perdite, ad
esempio il 10 ottobre 680, quando il secondogenito di Alì, Al-Hussein, fu
massacrato con i suoi seguaci. Il 10 ottobre è ricordato ancor oggi dagli
sciiti come giornata di lutto. Alla fine lo sciismo dette un apporto determinante,
anche se non esclusivo, a quella ribellione, che nel 750 rovesciò la dinastia
omeiade ed insediò il califfato degli Abbasidi, che desumerebbe il suo nome da al-ʿAbbās, zio
di Maometto. Molto presto però lo sciismo non si riconobbe neppure nel
califfato abbaside e cominciò a parlare di un imām, che sarebbe una
reincarnazione di un discendente di Alì e che vivrebbe nascosto fino al momento
della manifestazione. Suo nome è Mahdī e per diritto divino governerà il mondo.
Nel frattempo il capo sarebbe non un califfo, ma un imām, ispirato da Dio,
infallibile, al quale i fedeli devono obbedienza totale. Rispetto a Maometto
questo imām non gode della rivelazione. Sotto il profilo strettamente religioso
lo sciismo contesta la Vulgata coranica di ‘Othman, perché avrebbe omesso i
testi, che sostengono i diritti di Alì e della sua discendenza. Rifiutano la
Sunna, accettano l’interpretazione allegorica del Corano. Rappresentano il 9% dei
musulmani e sono concentrati soprattutto in Persia-Iran.
Il sunnismo invece è il movimento
dell’ortodossia. Sotto il profilo del governo della comunità attribuisce al
capo solo un’azione di guida e di difesa, senza riconoscergli prerogative di
magistero religioso e di ispirazione divina. Quindi nella scelta viene
privilegiata l’efficienza, la competenza, l’abilità politica. Il sunnismo
accetta il Corano di ‘Othman e la Sunna. Raccoglie oggi circa il 90% dei
musulmani.
La
ridda: è il secondo
problema, che si presentò alla morte di Maometto. Ai tempi di Maometto, come
dicemmo, tutti gli Arabi della penisola si erano sottomessi a lui secondo il
cerimoniale della sottomissione personale ad un capo con l’impegno di versare
un tributo. Alla morte di Maometto parecchie tribù per liberarsi dall’onere del
tributo tesero a svincolarsi, appellandosi al carattere personale del legame
stabilito con Maometto. A questo fenomeno viene dato il nome di ridda.
Abilmente il califfo Abu-Bakr sventò questa tendenza.
L’espansione dell’Islam e il
ridimensionamento dell’area cristiana
1.
Descrizione
del fenomeno:
l’espansione si compì in due ondate successive. La prima si svolse nell’arco di
tempo tra il 633 e il 651 e si attuò su tre fronti:
+
633
– 640: conquista delle province imperiali della Siria e della Palestina;
+
633
– 651: conquista del Regno Sasanide (area della Persia), che era durato per ben
dodici secoli ed aveva creato una cultura di altissimo livello, dalla quale il
mondo arabo trasse non pochi influssi;
+
639
– 642; conquista della provincia imperiale dell’Egitto.
La
seconda ondata si ebbe durante il califfato degli Omeiadi:
+
Nel
665 riprese l’espansione in Africa settentrionale; nel 698 cadde Cartagine; nel
709 anche i territori dei Berberi furono sottomessi alla dominazione araba.
+
Nel
711 i musulmani approdarono nella Spagna visigotica, che nel 713 fu conquistata
quasi totalmente. Le successive espansioni oltre i Pirenei nella Gallia franca
furono definitivamente bloccate da Carlo Martello nel 732 nella celebre battaglia
presso Poitiers.
+
Anche
in Oriente i bizantini, continuamente minacciati fin sotto le mura della stesa
Costantinopoli, nel 718 respinsero definitivamente i musulmani grazie
all’imperatore Leone III Isaurico.
Che
cosa comportò la conquista musulmana? In genere gli Arabi accettarono di
stipulare con le varie città dei trattati, nei quali
·
prima
di tutto si concedeva l’incolumità quanto alla vita;
·
in
secondo luogo veniva di solito rispettata la proprietà;
·
in
terzo luogo veniva imposta una duplice tassa: il tributo proporzionale ai
redditi, che peraltro i cittadini dell’Impero già versavano all’imperatore; il
tributo di religione in quanto non-musulmani, corrispondeva in fondo al tributo
che prima i cittadini non-cristiani dovevano pagare all’impero: il tributo di
religione ammontava a 1/5 dei redditi;
·
in
quarto luogo concedevano la libertà religiosa a ebrei e cristiani, in quanto
gente del libro: cristiani ed ebrei erano dhimmi, cioè appartenenti ad una
associazione protetta, alla quale veniva riconosciuta un’ampia autonomia.
Perciò per le faccende interne al gruppo, che non toccavano l’ordine pubblico,
il gruppo si regolava secondo le proprie norme, affidandosi a suoi propri
agenti. In questo contesto i patriarchi ed i vescovi divennero di fronte allo
stato islamico giudici supremi delle loro comunità e responsabili della lealtà
politica dei loro fedeli;
·
da
ultimo, il trattato vietava alla popolazione conquistata la professione
militare, che era prerogativa esclusiva degli Arabi.
Dal
canto loro gli Arabi, per non sperdersi tra gli indigeni e per conservare le
loro diverse abitudini, inizialmente non si acquartierarono nelle città, ma in
accampamenti militari, situati nelle vicinanze delle zone coltivate e del
deserto interno e lontani dal mare, che essi ancora non dominavano. Questi
accampamenti militari con il passare del tempo divennero vere e proprie città
(Kufah, Bassora, Fustāt, poi Cairo, Kairuan). Si impiantò pertanto un sistema
dualistico.
Consideriamo
ora gli effetti sull’apparato ecclesiastico.
L’espansione
islamica favorì nelle Chiese non conquistate una maggiore omogeneità, perché
vennero meno le aree della dissidenza monofisita e nestoriana.
Per
le Chiese, che invece furono conquistate, in un primo momento la dominazione
araba comportò una maggiore libertà di azione nella organizzazione interna,
perché veniva eliminata la forte ingerenza del potere statale, connessa con il
sistema di Chiesa di stato vigente sia nell’Impero bizantino sia nel regno
visigotico. Però con il passare del tempo si fecero pesanti le conseguenze
dell’isolamento dalla cattolicità.
Una
prima conseguenza di ciò fu il rafforzamento delle dissidenze ereticali
monofisite e nestoriane. Queste comunità ereticali proprio in quanto dissidenti
rispetto al blocco dell’ortodossia imperiale, furono senz’altro appoggiate dal
dominio arabo, che spinse ad affidare le sedi episcopali a monofisiti e
nestoriani. Le comunità melkite, cioè quelle che, pur sotto la dominazione
araba, continuavano a fare riferimento all’imperatore (in siriano melk), si
trovarono decapitate. Quindi in Egitto e in Siria si impose un cristianesimo
ereticale.
Una
seconda conseguenza fu il passaggio di cristiani all’islamismo. L’entità di
tale fenomeno non è valutabile con precisione: è certo che il cristianesimo resistette
meglio dello zoroastrismo. Si intuisce anche che in proporzione al numero
complessivo dei cristiani le apostasie furono relativamente contenute. Del
resto i trattati di capitolazione non esigevano la conversione all’Islam e
neppure la favorivano, perché ciò avrebbe comportato una riduzione del gettito
tributario. In alcune zone tuttavia il
fenomeno fu rilevante: i Berberi, per esempio, passarono in blocco
all’Islamismo, segno della superficiale azione missionaria, che era stata
praticata tra loro.
La
rapida dissoluzione dell’organizzazione ecclesiastica nell’Africa
settentrionale si spiega anche con l’alto numero di cristiani, che lasciarono
la vita nel tentativo di opporre resistenza all’espansione islamica. Si ebbe
anche un cospicuo fenomeno di esodo di cristiani verso il 717, quando il
califfo Omar II obbligò ad espatriare coloro che non accettavano la fede dei
vincitori. Va sottolineato che questo provvedimento fu preso in un contesto di
massiccia islamizzazione spontanea di cristiani, che era in atto e che Omar II
volle favorire, con grave danno erariale.
In
Spagna invece la presenza araba non comportò la scomparsa della Chiesa, ma solo
il suo isolamento dalla cattolicità. Merita di essere menzionato un piccolo
nucleo di resistenza, che si insediò sulle montagne, sfuggendo alla dominazione
islamica e fondando il regno delle Asturie: da qui partirà la famosa
“reconquista”.
Spiegazione del
fenomeno
Si
tratta di capire prima di tutto come mai gli Arabi si sono buttati in un’azione
di conquista di queste dimensioni.
Non
è certo secondario il motivo religioso della ğihād, presentata e sentita come via di Dio, come impresa che
reca vantaggi enormi, come espressione suprema dell’Islam, cioè dell’assoluta
dedizione ad Allah. Sono significativi in proposito alcuni passi del Corano:
+
Sura
III, 169: Non considerare morti quelli che sono
stati uccisi sul sentiero di Allah. Sono vivi invece e ben provvisti dal loro
Signore.
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Sura IV, 94: O voi che credete, quando vi lanciate sul
sentiero di Allah ….Presso Allah c'è bottino più ricco.
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Sura IX, 38-39: O
voi che credete! Perché quando vi si dice: «Lanciatevi [in campo] per la causa
di Allah», siete [come] inchiodati alla terra? La vita terrena vi attira di più
di quella ultima? Di fronte all’altra vita il godimento di quella terrena è ben
poca cosa.
Se non
vi lancerete nella lotta, vi castigherà con doloroso castigo e vi sostituirà
con un altro popolo, mentre voi non potrete nuocerGli in nessun modo.
Allah è onnipotente.
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Sura
IX, 111: Allah ha comprato dai credenti le loro
persone e i loro beni [dando] in cambio il Giardino, [poiché] combattono sul
sentiero di Allah, uccidono e sono uccisi .
Il
motivo religioso della ğihād
però, come sappiamo, fin dal suo nascere si trova molto connesso con le
esigenze concrete della vita quotidiana e quindi bisogna anche considerare
queste esigenze, se si vuole raggiungere una comprensione più completa
dell’espansione islamica.
Si trattava per esempio di risolvere il problema
delle limitate risorse economiche della penisola, problema che fu reso ancora
più drammatico dal fatto che tra il 590 ed il 641 si verificò una rilevante
diminuzione delle precipitazioni, che determinò un’ulteriore riduzione delle
risorse. Un tempo si cercava soluzione nelle razzie a danno di altri Arabi, ma
ora con l’Islam, che proibiva la lotta tra fratelli musulmani, la soluzione
della razzia divenne impraticabile. La soluzione, che parve più promettente, fu
di applicare verso l’esterno l’atavica inclinazione al nomadismo e alla rapina.
Ancora, per capire la volontà espansionistica
dell’Islam occorre prendere in considerazione un risvolto piuttosto curioso del
movimento della ğihād: l’Islam, che faticava mantenere l’unità araba nelle
questioni interne, scorse che la proposta della ğihād, interpretata in termini
di espansione esterna, diventava un efficace strumento di aggregazione. Quindi
in occasione delle grandi dilacerazioni interne, si fece puntualmente ricorso
ad azioni di espansione esterna. Infatti l’epoca della prima ondata coincise
con l’epoca dei califfi elettivi, che era dilaniata dalla ridda e dal dissenso
di Alì. L’epoca della seconda ondata coincise con l’epoca degli omeiadi, che
vide le contestazioni dei Kharigiti, degli sciiti, degli Arabi non meccani, che
si sentivano emarginati, dei musulmani egiziani e persiani, che coltivavano
mire autonomistiche.
Qui però si intravede anche la fragilità di
questa espansione molto rapida, che aveva come fondamento una realtà molto
dilacerata: venne a costituirsi un colosso privo di coesione interna, un
colosso d’argilla. Infatti l’espansione della forza araba, mancando di una
saldo potere centrale, capace di assicurare un coordinamento di unificazione,
divenne progressivamente una dispersione di forza. E così l’Islam, che nel suo
nascere si mostrò irresistibile anche rispetto ai colossi del tempo, una volta
divenuto lui stesso colosso, si lasciò bloccare da un piccolo regno merovingio
e da un ridimensionato impero bizantino, che invece stavano riorganizzandosi
dopo un lungo periodo di crisi.
Si deve in secondo luogo capire come mai impero
romano e impero persiano cedettero di fronte all’assalto islamico. La ragione
non va certo cercata nella forza militare araba, che più che un esercito era
una soldataglia cenciosa e inesperta: ma qui abbiamo un classico esempio del
come in guerra la forza militare non sia tutto e non sia solo per se stessa
decisiva.
Lo sguardo deve portarsi pertanto sulle
condizioni dei due imperi. Ci sarebbero stati errori di valutazione: l’impero
romano, preoccupato del rivale tradizionale, l’impero sasanide, sottovalutò il
pericolo arabo. L’impero sasanide a sua volta, assorbito totalmente nel
fronteggiare l’impero romano, non prestò attenzione alla minaccia araba.
Va poi presa in considerazione la situazione di
spossatezza, in cui versavano i due imperi, in seguito al loro continuo
scontrarsi.
A peggiorare il quadro intervengono anche le
tensioni interne, che dilaceravano ambedue gli imperi. Contro Costantinopoli le
popolazioni soggette nutrivano una grande ostilità sia per la pesantezza
fiscale, sia per la corruzione dei governatori bizantini, sia per i grossi
contrasti religiosi: da un lato gli Egiziani e i Siriani erano attestati su
posizioni monofisite, dall’altro i Palestinesi erano schierati con il patriarca
di Gerusalemme Sofronio nella lotta contro il monotelismo sostenuto da
Costantinopoli. Dal canto loro poi gli Ebrei erano in aperta ribellione contro
l’imperatore Eraclio, che nel 634 aveva imposto loro il Battesimo.
Nel regno sasanide invece si stava vivendo una
imponente crisi religiosa: lo zoroastrismo statale cedeva sempre più il passo
al manicheismo. Si erano sviluppate gravi tensioni anche a livello sociale: le
classi inferiori erano in continua ribellione, la classe aristocratica era
dilacerata in varie fazioni, che si contendevano il potere.
Ma ritengo che il discorso non debba fermarsi
qui, perché il mondo arabo non era meno diviso nel suo interno e poi, agli
inizi com’era, non godeva certo della saldezza organizzativa, che vantavano di
due imperi e che consentirà all’impero bizantino di sopravvivere fino al 1453.
In questo quadro mi pare che prenda evidenza un
elemento particolare: il mondo arabo trovò nell’Islam, con la sua proposta di ğihād,
un fattore di coesione ideale nella conduzione della sua “politica estera”. La
fede cristiana, invece, non ebbe la capacità di creare , al di sopra dei
dissensi interni, una coesione, una solidarietà anti-araba, anzi i popoli, che
erano in contrasto con il potere centrale bizantino, una volta che furono
investiti dalla ondata araba, non si schierarono accanto alle truppe bizantine,
ma assistettero passivi, giungendo talora anche a collaborare con gli Arabi.
Discorso analogo si deve fare anche per la Persia.
Si deve infine considerare che l’Islam era in
grado di esercitare un certo fascino sulle popolazioni, che sottometteva. Si
trattava di un fascino sociale, connesso soprattutto con due fattori: prima di
tutto la tolleranza araba verso la gente del libro, in secondo luogo il
carattere egalitario del mondo islamico, che non conosceva una classe
sacerdotale, che legalizzava il dovere dell’elemosina, che affermava i diritti
dell’umma sulla proprietà privata. Si trattava anche di un fascino religioso:
per il suo rifarsi ad Abramo, Mosè, Gesù, l’Islamismo fu spesso interpretato da
dotti cristiani, quali san Giovanni Damasceno, come un’eresia cristiana. Si
noti che Giovanni Damasceno conosceva da vicino l’Islam, essendo stato
funzionario del califfato omeiade, che appunto a Damasco aveva stabilito la sua
capitale. Ovviamente il popolo cristiano, ancor meno capace di percepire le
sfumature teologiche, vi vide un cristianesimo semplificato e privo di quegli
aspetti, che fino a quel momento avevano provocato contrasti, divisioni, lotte
sulla dottrina trinitaria e sulla dottrina cristologica.
Oriente e Occidente dopo l’invasione islamica
Come dicemmo, le migrazioni dei popolo germanici
avevano già costituito un fattore di distanziamento tra Occidente ed Oriente,
tuttavia l’Oriente continuava ad avere una certa presenza nella parte
occidentale sia a livello di commercio sia a livello politico (Italia
bizantina, Africa settentrionale, costa meridionale della Spagna, Grecia,
Macedonia, Dalmazia).
L’invasione araba comportò un’accentuazione del
distacco tra le due vecchie parti dell’Impero, soprattutto per due ragioni:
a)
Ridusse
gli spazi delle presenza politica bizantina in Occidente (Africa
settentrionale, Spagna, Creta, Sicilia, Sardegna, Corsica divennero presenza
araba);
b)
Il
mondo arabo si accaparrò il controllo del Mare Mediterraneo: il Mare nostrum
divenne piuttosto mare arabo: e così quel mare che aveva rappresentato la
principale via di comunicazione tra le due parti dell’Impero, quel mare che era
stato il centro della “romania”, fu reso dalla espansione islamica una barriera.
Certo, rimaneva la via continentale, che però era assai poco praticabile,
perché quei viaggi erano diventati sempre più difficoltosi, in quanto le
vecchie strade romane erano cadute in rovina, mancando in Occidente un potere
centrale, che ne curasse la manutenzione, per non dire poi del grave pericolo
rappresentato dal brigantaggio.
Uno
storico belga, morto nel 1935, Henri Pirenne, a partire da questo distacco tra
Occidente e Oriente indotto dalla espansione islamica, ha costruito una tesi
storiografica, che è importante se non
altro per la discussione che ha sollevato e continua a sollevare. Il Pirenne fa
tre fondamentali osservazioni:
I.
il
Medio Evo non va inteso come il periodo, che intercorre tra l’antichità
classica e la sua rinascita, ma come il periodo che vede l’inizio di una
civiltà occidentale, che si distingue sempre più dall’Oriente sia per il suo
assetto politico, sia per la sua vita economica, sia per la sua relazione con
la cultura antica, sia per la sua relazione con la fede cristiana. Questa
affermazione non può non essere condivisa!
II.
La
società occidentale si caratterizza per due elementi rispetto alla società
antica: la sua separazione dall’Oriente e lo spostamento dell’asse di
gravitazione dall’area mediterranea all’area continentale del Nord. Anche
questa affermazione non può non essere condivisa!
III.
Secondo
il Pirenne questo Medio Evo, questa società occidentale medievale, separati da
quella orientale e gravitanti intorno al
Nord continentale, sarebbe un fenomeno che si produce in un arco di tempo
ristretto, che intercorre tra gli anni 650 e 750 e sarebbe determinato
esclusivamente dalla espansione islamica. A proposito di questa terza
affermazione siamo molto perplessi, perché a noi pare di dovere affermare che
il fenomeno summenzionato è frutto di un lungo processo, che prende avvio già
dal III secolo e si svolge sotto l’influenza di molteplici fattori.
Un
ultimo rilievo, che non ha a che fare con la tesi del Pirenne: grande distacco
tra Oriente e Occidente va bene, però tra le due parti non si creò una totale
estraneità. Le relazioni commerciali non si estinsero del tutto; a livello
culturale si mantenne qualche contatto (ad esempio a Costantinopoli furono
edite anche le opere di Severino Boezio); i rapporti religiosi, benché spesso
tesi, rimasero molto forti: la liturgia occidentale nei secoli VII e VIII
derivò da quella orientale per esempio il Kyrie eleison, alcune feste come la
Purificazione, l’Annunciazione, la Natività di Maria… Nello stesso periodo a
Roma vennero fondati dei monasteri greci;
nell’Italia Longobarda si ebbe un’opera di evangelizzazione condotta da
ecclesiastici greci. Dal 640 al 741 si ebbero dodici papi, che provenivano da
zone, che erano sotto la dominazione bizantina.
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