la nascita del regno carolingio
Inizio della coesione ai vertici della
Ecclesia universalis
1 - La
decadenza merovingia
A partire dalla morte di Dagoberto I (639) il
regno merovingio non conobbe che una lunga decadenza. Per comprendere il
fenomeno ed i suoi sviluppi occorre considerare la struttura politica merovingia.
Nella mentalità germanica mancava la nozione
di diritto pubblico: l'apparato politico pertanto si articolava come un
insieme di res privatae e la relazione dei governanti con tale apparato non si
poneva in termini di ufficio pubblico, ma di proprietà.
In un siffatto ordine di cose il potere del
re presentava un carattere composito.
Dal fatto che la relazione del re con il
regno si esprimeva in termini di proprietà derivava il carattere
ereditario-dinastico del regno: il trono quindi veniva assegnato secondo il principio dinastico; alla morte del re poi il regno veniva diviso tra i figli
secondo il principio ereditario.
Dal fatto invece che il
re non era il solo proprietario sul territorio nazionale derivava che il potere
regale non era assoluto: accanto al re, che aveva un potere assoluto sui suoi
possedimenti, vi erano i “grandi", che nel loro territorio godevano di un'autonomia
rilevante. Ne conseguiva che il potere
regale doveva contare sull’adesione dei grandi per imporsi sull'intera compagine
politica: ecco pertanto che al trono merovingio si giungeva non solo per via
dinastica, ma anche per via elettiva (evidentemente per rispettare il principio
dinastico-ereditario l'elezione si svolgeva nell'ambito della famiglia
regnante).
Nel regno merovingio fu dunque costantemente
in atto una tensione tra il potere regio ed il gruppo dei grandi: quando il
potere regio era forte si attenuavano gli spazi del consenso dei grandi; quando
il potere regio era debole si accentuava invece il peso politico dei grandi.
Vediamo ora come questi meccanismi abbiano
funzionato di fatto.
Alla morte di Clodoveo (511), re indiscutibilmente forte, il regno
franco fu diviso tra i suoi figli in quattro parti: per sé il regno franco
rimaneva unitario per la sottomissione dell'unico popolo franco all'unica
dinastia merovingia, tuttavia col passare del tempo l'unità risultò sempre più
compromessa dal fatto che ciascuno dei re entrò in lotta con i suoi colleghi.
Ciò comportò da un lato l'accentuarsi dell'autonomia delle varie parti con
detrimento dell’unità e dall'altro l'ampliarsi del potere dei grandi, sui quali
i vari re dovevano sempre più contare per attaccare o bloccare i re rivali: per
ottenere il "comitatus" dei grandi i re merovingi dovettero concedere
loro privilegi e donazioni con grave danno per la dinastia regale.
Non ci si può dunque meravigliare se alla
metà del VII secolo rinveniamo una dinastia merovingia esausta, rappresentata
molto spesso da re minorenni, che raramente pervennero alla maggiore età,
impegnati per gran parte del tempo in gozzoviglie e degenerazioni di ogni tipo (i
re fannulloni). Non ci si può neppure meravigliare se padroni della situazione
politica nei vari regni siano i grandi, rappresentati al palazzo reale dal loro
esponente più potente, che svolge il ruolo di maggiordomo.
2 - L'
ascesa dei carolingi
Presto alla lotta tra i vari re si sostituì
la lotta tra i vari maggiordomi. Verso la fine del VII secolo il successo
arrise a Pipino il Medio, maggiordomo d'Austrasia (la parte nord-orientale del
regno franco, situata presso il Reno), che ne 687 a Tertry si era imposto sul
maggiordomo del regno di Neustria (la parte centrale del regno franco),
divenendo il solo maggiordomo del regno franco.
La sua opera parve compromessa nel 714,
quando Pipino mori non lasciando eredi legittimi.
I figli Drogo e Grimoaldo
erano morti prematuramente. Nel 714 si formarono tre partiti: quello che faceva
capo alla vedova di Pipino il Medio, Plectrude, che pretendeva di esercitare il
potere in nome dei nipotini minorenni; quello che faceva capo a Raganfredo,
che tentava di fare rivivere le aspirazioni del regno di Neustria; quello che
faceva capo a Carlo Martello, figlio naturale di Pipino il Medio, ed esprimeva
l'opposizione di una parte dell'Austrasia nei confronti di Plectrude.
Alla fine ebbe la meglio Carlo Martello, che
ricostituì ed ampliò l'unico regno franco.
(+ 717
prima vittoria di Carlo Martello sul partito neustriano di Raganfredo a Vinchy;
+ 717 - 718 vittoria di
Carlo M. su Plectrude a Colonia
+ 719 vittoria definitiva
sul partito neustriano
+ 732 vittoria sugli Arabi
presso Poitiers e ricupero del Sud della Gallia
+ 733 - 736 conquista della
Borgogna
+ 737 - 738 conquista della
Provenza
+ anni successivi:
incorporazione della Turingia e di buona parte della Frisia a destra del Reno
+ 741 morte di Carlo
Martello e sepoltura nel cimitero regale di Saint Dénis.)
Durante il
suo governo (717 - 741) Carlo Martello si assicurò un potere notevole ed indiscutibile,
che si estendeva su tutta la Gallia e su buona parte della Germania. La
singolarità di questa posizione si manifestò negli anni 737 – 741, quando Carlo
Martello volle e poté fare da maggiordomo senza dare un successore al defunto
re merovingio Teoderico IV. Poco prima di morire poi il grande maggiordomo poté
disporre del regno come di una sua proprietà e lo divise tra i due figli
Carlomanno e Pipino il Breve.
Si deve però ricordare che il potere
straordinario di Carlo Martello fu il frutto di una continua lotta, che
comportò un notevole onere economico per la conduzione delle campagne militari
e per la ricompensa dei "comites". Carlo Martello si procurò il
finanziamento non solo presso i laici-nemici, attraverso la confisca dei loro
beni, ma anche presso la Chiesa franca, che si trovò sottoposta ad un'opera sistematica
di secolarizzazione dei suoi beni: la secolarizzazione si compì o attraverso
confische o mediante l' assegnazione di abbazie ed episcopati a laici come
ricompensa. Il risultato fu uno sconvolgimento notevole delle strutture
ecclesiastiche. Carlomanno e Pipino il Breve nel subentrare al potere trovarono
alcune difficoltà da parte dei grandi e pertanto si decisero a rimettere sul
trono un sovrano merovingio (743, Childeríco III). La situazione tuttavia fu
presto sotto controllo, concedendo ai due maggiordomi carolingi la possibilità
di dedicarsi alla sottomissione degli Alemanni, che si compì nel 746.
Nel 747, non per ragioni politiche, ma per
ragioni religiose, Carlomanno abbandonò il potere e si dedicò alla vita
monastica (seguì l'esempio di parecchi re anglo-sassooni, di cui venne a
conoscenza attraverso Bonifacio. Dapprima fondò un suo monastero sul Monte
Soratte, presso Roma, poi passò al monastero di Montecassino, che si trovava nel ducato longobardo di
Benevento).
Pipino
il Breve si ritrovò solo maggiordomo del regno, con un notevole potere tra le
mani. Si profilava oramai il colpo di stato!
Gli anni che vanno dal 743 al 747 furono
importanti anche per la vita della Chiesa franca, che vi vide la celebrazione
dei già menzionati concili di riforma.
L'esperienza prese avvio dalla collaborazione
tra Bonifacio e Carlomanno, che nel 743 fece celebrare un concilio per quella
parte del regno che cadeva sotto il suo dominio. Nel marzo del 744 l'esperienza
fu ripresa non solo da Carlomanno ma anche da Pipino il Breve. Finalmente negli
anni 745 e 747 si giunse alla celebrazione unitaria di concili del regno
franco.
Questi
concili si innestarono su quell'istituto franco, che riuniva i grandi del regno
per deliberare insieme con il re: da ciò si arguisce che tali concili non
furono un fatto esclusivamente ecclesiastico, ma anche politico: trovarono nel
potere politico l'autorità che li convocava e li dirigeva, videro la
partecipazione non solo delle autorità ecclesiastiche, ma anche dei grandi del
regno: rappresentarono pertanto una tipica struttura di coesione!
Questi
concili si proposero due compiti fondamentali:
- la ristrutturazione dell'ordinamento
giuridico della chiesa franca
- il rinnovamento della vita spirituale dei
chierici e dei laici.
Circa la
ristrutturazione dell'ordinamento giuridico della Chiesa meritano attenzione
due aspetti:
- l'avvio
della ricostruzione delle strutture interdiocesane (province ecclesiastiche e concili provinciali annuali)
- il
ricupero dell'ordinamento diocesano (subordinazione del clero al vescovo e
lotta contro i clerici vagi).
Circa il
rinnovamento della vita spirituale del clero si tornò a sottolineare la
specificità pastorale della sua funzione, proibendo la pratica della caccia e
delle armi e riaffermando la pratica del celibato. Ai laici furono invece
vietate le usanze pagane e se ne regolarono le nozze secondo il diritto
ecclesiastico. Infine si richiami alla memoria la già menzionata tendenza di
questi concili a creare maggiori legami con Roma.
3 – Il
colpo di stato di Pipino il Breve
a)
I fatti:
"Quievit terra a proeliis annis duobus”
(Continuator Fredegarii 32 : MGH SS rer. Merovingicarum II, 182. Altre
fonti di necessaria consultazione per questi avvenimenti sono: Annales regni
Francorum all'anno 749, reperibile in
MGH SS I; Clausula de unctione Pippini reperibile in MGH SS XV):
si tratta degli anni 750 e 751. Probabilmente in questi due anni di pace Pipino
si dedicò ai negoziati con i grandi e con le autorità ecclesiastiche in vista
del colpo di stato. Le fonti di cui disponiamo però ci informano soltanto delle
trattative con papa Zaccaria. Verso la fine dell'anno 750 o agli inizi del 751
Pipino inviò a Roma Burcardo, vecovo di Würzburg e Fulrado, abate di Saint
Dénis con l'incarico di presentare al papa il seguente interrogativo: “De
regibus in Francia, qui illis temporibus non habentes regalem potestatem, si
bene fuisset an non”. Zaccaria avrebbe risposto così: "Ut melius esset
illum regem vocari, qui potestatem haberet, quam illum qui sine regali
potestate manebat, ut non conturbaretur ordo."
Forte dell'accondiscendenza del papa, Pipino
nella dieta di Soissons del novembre 751 poté farsi eleggere re dei Franchi: il
re merovingio Childerico III dovette lasciarsi tagliare i capelli, simbolo
della regalità e finire i suoi giorni in monastero; Pipino con la moglie
ricevette l'unzione regale per mano di Bonifacio (probabilmente) e fu intronizzato.
b) perché
Pipino ha fatto ricorso al papa?
Già abbiamo detto che secondo la concezione
politica franca l'elevazione del nuovo re avveniva in base a due principi
(dinastico ed elettivo). Nel 751 Pipino poteva contare solo sulla elezione da
parte dei grandi. La mancanza della prerogativa dinastica, dato il fortissimo
attaccamento dei Franchi alla dinastia regnante, rappresentava un ostacolo
grave: anzi per i Franchi ogni attentato alle prerogative della dinastia
assumeva la connotazione di atto sacrilego.
Quando erano ancora pagani, i Franchi infatti
guardavano al re come a un figlio di dio; la conversione al cristianesimo non
significò affatto la scomparsa di tale venerazione, ma solo il mutamento di
prospettiva: si cominciò a guardare al re come ad un essere dotato di una
missione provvidenziale e di caratteri carismatici in ragione della sua
appartenenza alla stirpe merovingia, per un fatto di sangue dunque. Da ciò
traspare che si trattava di una venerazione, di un attaccamento religioso, che
doveva essere battuto pertanto su un piano religioso. Ecco dunque il ricorso a
colui che i Franchi consideravano la massima autorità religiosa in terra: nel
papa infatti i Franchi vedevano il successore del beatissimo Pietro, clavigero
ed ostiario del cielo e ritenevano che la fedeltà alle sue decisioni
comportasse senz'altro l'ingresso in cielo. Pipino pertanto era convinto che un
pronunciamento del papa in favore della deposizione del re merovingio avrebbe
tolto al colpo di stato ogni parvenza di atto irreligioso e avrebbe tranquillizzato
i Franchi!
In quel contesto poi Pipino poteva sperare in
una risposta positiva da parte del papa, cui senz'altro conveniva garantirsi
l'appoggio franco per fare fronte alle mire espansionistiche del re longobardo
Astolfo (in analoghe difficoltà nel 739 il
papato si era rivolto a Carlo Martello, ciò faceva arguire che di nuovo il
papato si sarebbe orientato verso il regno franco, tanto più che con i concili
di riforma i rapporti erano notevolmente migliorati. Il papato inoltre
avvertiva che una risposta positiva avrebbe posto Pipino nell'impossibilità
morale di trascurare un eventuale appello romano).
Si deve però rilevare che il papa non agì
esclusivamente base a calcoli politici.
c) la
risposta del papa
Papa
Zaccaria nella sua risposta espresse un concetto molto importante: il
dinasticamente legittimo re merovingio di fatto non é idoneo a fare il re,
perché non detiene il potere effettivo di re, ma soltanto il nome di re. Quali
sono le implicazioni di tale concetto?
+ Il principio dinastico non ha un valore assoluto, in certi
casi deve essere accantonato.
+ Dal fatto che il principio dinastico non ha un valore
assoluto e può essere accantonato, traspare che per la Chiesa tale principio
non é né di diritto divino, né di diritto naturale, che sono irreformabili, ma
solo di diritto positivo (atteggiamento comprensibilissimo, in quanto la Chiesa
ha sempre visto nel principio dinastico il riflesso di una certa concezione magica
e pagana).
+ Per il
principio dinastico, in quanto principio di diritto positivo, vale un criterio
generale della morale cristiana: il diritto positivo merita rispetto solo nella
misura in cui non contraddice il diritto naturale o il diritto divino; il
diritto positivo invece deve essere mutato quando non armonizza con il diritto
naturale o il diritto divino.
+ Ora il diritto naturale a proposito del
potere politico vuole che esso sia in grado di garantire un ordine di giustizia
e di pace. Ecco allora il problema: il potere politico merovingio, fondato sul
principio dinastico, é in grado di garantire un ordine di giustizia e di pace?
Storicamente si deve rispondere di no. Pertanto si deve concludere che il
principio dinastico deve essere abbandonato, perché comporta un ordine di cose,
che contraddice l’ordo naturae: ecco il senso dell'espressione "ut non
conturbaretur ordo".
+
Dunque papa Zaccaria al principio germanico della
legittimità dinastica contrappone il classico principio romano dell'idoneità,
idoneità da valutarsi in base a due condizioni necessarie: presenza della bona
voluntas e presenza dì una vera potestas. Il re merovingio, mancando di vera
potestas, si rivela senz'altro non idoneo; Pipino disponendo sia di una vera
potestas sia di una bona voluntas appare senz'altro idoneo a ricoprire la funzione
regale.
+
Concludendo
si deve dire che la Chiesa con il principio di idoneità ha introdotto un criterio
più oggettivo e più intimo del principio di legittimità dinastica, affermato
dai popoli germanici (ius stirpis); inoltre va rilevato che con il principio di
idoneità la Chiesa spinge verso un'alta concezione della regalità: questa deve
agire per la bontà e la giustizia ed in tale modo il re diventa il vicarius
Dei, che applica in terra la lex aeterna divina. Quindi con il principio di
idoneità la Chiesa non priva affatto
la regalità del suo fulgore religioso, ma anzi ne trasforma ed approfondisce il
senso: non si tratta più di un fatto magico, ma di un fatto più oggettivamente
ed intimamente morale. E quando papa Zaccaria dice: "ut non conturbaretur
ordo" allude ad un re che sappia salvaguardare l'ordo naturae, così come é
voluto da Dio; in tale modo si produce un chiaro aggancio del potere regio alla
voluntas divina, aggancio che costituisce un elemento della massima importanza nello
sviluppo della concezione teocratica del potere regale.
+
Un'ultima
osservazione: gli Annales regni Francorum, riferendosi alla risposta di papa
Zaccaria, usano il verbo "iussit": l'espressione non va intesa in senso
forte, poiché non é dubbio che né Pipino né i grandi avrebbero ammesso un
ordine del papa in campo politico; del resto il quesito fu posto sul terreno
della liceità morale e non della autorizzazione politica. Pertanto é certo che
Pipino divenne re non per designazione pontificia, ma per elezione da parte dei
grandi. Gregorio VII e diversi canonisti dei secoli XII e XIII ritennero di
potere affermare che fu papa Zaccaria a deporre il re merovingio, ma la
corrente canonistica di sentire dualista, guidata dal grande Graziano, con
maggiore aderenza alla realtà dei fatti, assunse una linea interpretativa ben
diversa.
c) l'unzione di Pipino
Il gesto va letto nel contesto germanico: il
re merovingio derivava il suo splendore sacrale dal fatto che discendeva dalla
stirpe regale e quindi, per affermare la sua sacralità, non faceva ricorso ad
un gesto esteriore di consacrazione: bastava che lasciasse crescere i capelli!
Pipino non poteva disporre di tale sacralità
ereditaria ed innata e quindi dovette fare ricorso ad un gesto rituale che
dichiarasse che l'eletto dal popolo era anche l'eletto di Dio. L'unzione era
dunque per i Franchi una novità. Il modello immediato dovette essere rinvenuto
o nelle usanze della vicina monarchia visigotica o, attraverso Bonifacio, nelle
usanze anglo-sassoni. Senz'altro il modello remoto era offerto dall’Antico
Testamento, dove appunto Saul e Davide appaiono posti da Dio a guida del suo
popolo non per via dinastica ma attraverso l'unzione di Samuele.
Da questo momento l'unzione divenne usuale in
Francia e assunse un grande valore in ordine alla interpretazione del potere
regale. Si ricordi che in quel periodo mancava ancora una dottrina
sacramentaria ben precisa e definita, per cui l’unzione del re fu letta come un
gesto di tipo sacramentale, che conferiva al re una impronta quasi indelebile
(una sorta di carattere) e lo poneva in un ruolo di tipo episcopale: negli
ambienti carolingi comparvero espressioni come "episcopus
episcoporum", "rex et sacerdos"; si fece ricorso alla tonsura.
Per via della consacrazione il re prima, l’imperatore
poi, si trovarono collocati al di sopra dei laici, considerati partecipi del
ministero sacerdotale, con funzione di mediatore tra il clero ed il laicato e all'interno
della Chiesa (infatti nelle celebrazioni
solenni i re imperatori carolingi e tedeschi indossavano la dalmatica e
cantavano il vangelo) e all'esterno,
svolgendo il ruolo di difensore della Chiesa.
L'unzione regale/imperiale non solo significò
un consolidamento della sacralità del potere politico, ma anche consentì ai
vescovi ed al papa di acquistare un ruolo rilevante in ordine al potere
politico stesso, quali ministri dell'atto, che al potere politico conferiva
splendore sacrale (dignitas).
In connessione con la consacrazione Carlo
Magno coniò l'espressione "gratia Dei rex", dove è possibile scorgere
un duplice significato:
- di esaltazione: é re per volere di Dio;
- di
limitazione: il re non deve governare in maniera arbitraria ed assolutistica,
ma deve invece stare sottomesso alla legge divina, che é la fonte della vera
regalità.
Sempre in
connessione con il carattere sacrale del re, conferito dalla consacrazione, si
svilupparono più tardi altri gesti liturgici:
· le Festkrönungen (incoronazioni festive): in occasione delle
maggiori solennità il re (l'imperatore poi) faceva ripetere il rito della
incoronazione per ragioni devozionali. Ovviamente era radicalmente diverso il
valore della incoronazione solenne di elevazione al potere, che non rivestiva
solo un carattere devozionale, ma concludeva il processo di elevazione al
potere.
· Le laudes regiae: una sorta di litanie, che si aprivano e si
chiudevano con le acclamazioni "Christus vincit, Christus regnat, Christus
imperat". Le varie invocazioni poi erano ordinate secondo uno schema
ternario: dapprima per il papa si invocava l'intercessione degli apostoli; in
secondo luogo per il re/imperatore si chiedeva l'intercessione degli angeli,
infine per l’esercito franco si ricorreva all'intercessione dei martiri. A tale
schema soggiaceva una concezione ecclesiologica trinitaria: gli angeli, come
seguito del Padre, erano invocati per il re /imperatore; gli apostoli, come
seguito del Figlio, erano invocati per il papa; i martiri, come frutto
dell'opera santificatrice dello Spirito, erano invocati per l'esercito. Qui pertanto
traspare una interessante interpretazione dell'ecclesia universalis altomedievale:
il re é posto nella sfera della paternità onnipotente e creatrice; il sacerdozio
appartiene invece alla sfera del Figlio redentore; l'esercito franco infine
rappresenta la Chiesa, opera dello Spirito, evidentemente a partire dalla
convinzione che il popolo franco é il nuovo Israele, il nuovo popolo di Dio.
Il papato ed il
regno carolingio
Si deve senz'altro dire che questa relazione
fu favorita sia dalla questione orientale sia dalla questione longobarda.
1 - La questione orientale,
Agli inizi del secolo VIII sia il papato sia
il popolo romano continuavano a sentirsi sia politicamente sia idealmente
sudditi dell'impero romano e quindi dell'imperatore bizantino. Tuttavia va
rilevato che questa convinzione si componeva con altri due elementi:
- il punto
di vista romano circa la costituzione ecclesiastica (primato, dualismo nella
relazione sacerdozio impero) e circa la disciplina ecclesiastica;
- gli
interessi politici dell'Italia bizantina, che, non trovando tutela sufficiente nell'imperatore,
erano difesi in prima linea dal papato.
Si capisce allora come mai la relazione Roma-Oriente
si sia espressa non solo in termini di sudditanza, ma anche in termini di
conflitto, quando a Costantinopoli non si teneva sufficientemente in
considerazione o il punto di vista ecclesiastico di Roma o la questione
italiana.
Un primo contrasto si sviluppò alla fine del
VII secolo e trovò composizione nel secondo decennio del secolo VIII. L'oggetto
della contesa fu di politica ecclesiastica. Nel 692 l'imperatore Giustiniano
II aveva riunito un concilio a Costantinopoli per completare sotto il profilo
disciplinare il V ed il VI concilio ecumenico, che si erano occupati soltanto
di questioni dogmatiche. Perciò questo concilio del 692 prese il nome di
quinisesto; fu pure chiamato Trullano II, perché fu celebrato come il VI
concilio ecumenico nella sala a cupola del palazzo imperiale, detta Troullos).
Il Trullano Il emise 102 canoni disciplinari,
spesso in contrasto con la prassi occidentale:
+
il 13°
contro le consuetudini occidentali, sotto pena di scomunica faceva obbligo ai
diaconi e sacerdoti già sposati prima della ordinazione di convivere
maritalmente con le loro mogli (in Occidente invece la convivenza maritale era
proibita);
+
il canone
36° ripristinava il canone 28° di Calcedonia, che era stato sempre rifiutato
dai papi, in quanto attribuiva alla sede costantinopolitana gli stessi privilegi
della sede romana;
+
il canone
55° proibiva "sub gravi" l'uso romano di digiunare nei sabati di quaresima.
Il papa
Sergio I evidentemente non volle apporre la sua firma agli atti conciliari (infatti
per noi cattolici il quinisesto non ha mai avuto il valore di concilio ecumenico);
Giustiniano II tentò di costringere il papa agli arresti, ma incontrò la fiera
opposizione delle milizie italiane. Per un decennio quindi la questione rimase
insoluta: nel 695 infatti Giustiniano II fu sbalzato dal trono da un colpo di
stato militare e non vi tornò fino al 705.
L'intesa fu
raggiunta nel 711, quando il papa Costantino I si recò a Costantinopoli e con
Giustiniano II concordò una revisione del quinisesto: dei 102 canoni se ne
conservarono cinquanta circa.
Un più duro
conflitto tra Roma e imperatore bizantino si ebbe durante il governo di Leone
III Isaurico (il Siro): questa volta il contrasto fu sia ecclesiastico sia
politico.
Per effetto
delle guerre combattute per quasi un secolo nelle province orientali e dei
continui mutamenti di regime avvenuti nell'ultimo trentennio, le finanze dello
stato erano esauste. Leone III volle porvi rimedio inasprendo i tributi, senza
risparmiare né l'Italia bizantina né la Chiesa.
Gregorio II si oppose, anche considerando il fatto che l'imperatore bizantino
si occupava dell'Italia solo per portare via denaro. Leone III pensò di fare
ricorso alla violenza contro il papa, ma le sue truppe furono disperse dalle
milizie romane, cui si erano unite quelle dei longobardi di Spoleto e
Benevento.
Nel 726 il
conflitto divenne anche dottrinale: Leone III ordinò la rimozione delle
immagini sacre.
Perché un tale provvedimento? Non è facile trovare
una spiegazione precisa: probabilmente Leone III vi fu spinto dal convergere
di ragioni politiche e religiose.
- Ragioni politiche: Leone III mirava a creare una certa unità e stabilità. Dall’esterno questo programma era minacciato dagli Arabi: l'imperatore dovette pensare di facilitare le relazioni coi musulmani, assumendo sul tema delle immagini un atteggiamento simile a quello islamico (Leone III sapeva benissimo di non potere accantonare il pericolo arabo per via bellica, da qui la necessità di stabilire rapporti di buon vicinato!). All’interno invece l'unità e la stabilità erano minacciate da diversi elementi, un primo elemento di disturbo era rappresentato dal gruppo ebraico, che non si era mai integrato pienamente nella compagine imperiale: Leone III pensò di guadagnarsene la fiducia avvicinandosi alla sua posizione circa le immagini; un secondo elemento disgregante era costituito dai gruppi monofisiti e monoteliti: l'imperatore non poteva accedere alla loro posizione dottrinale (queste dottrine erano già state sottoposte a condanne conciliari: un avvicinamento sul piano dottrinale rappresentava pertanto una compromissione ereticale), ma con la scelta iconoclastica riteneva di potere mitigare il contrasto su un piano pratico, poiché i monofisiti vi potevano vedere un riconoscimento della loro tesi della non rappresentabilità di Cristo, in quanto privo di una vera e propria natura umana.
Un terzo elemento di disturbo era costituito
dal monachesimo, che per via dei suoi privilegi sottraeva alle necessità dello
stato una notevole quantità di fondi terrieri, di entrate fiscali e di uomini:
Leone III dovette probabilmente pensare che, colpendo il culto delle immagini
sacre, sottraeva al monachesimo una fonte di ricchezza molto importante, in
quanto i monaci erano i massimi produttori di icone e dal culto delle icone
ricavavano abbondanti offerte.
- Ragioni
religiose: Leone III, il Siro, proveniva da una regione in cui il cristianesimo
aveva conservato i tratti giudeo-cristiani primitivi. Le immagini sacre, che
incontrò diffuse un po' in tutto l'impero dovettero quindi apparire ai suoi occhi come una degenerazione idolatrica.
A confermarlo in questa idea erano intervenuti in quegli anni alcune calamità
naturali, da lui senz'altro interpretate come una punizione divina per
l'idolatria e la superstizione, che si esprimevano nel culto delle immagini.
In verità si deve riconoscere che l'Oriente
più facilmente dell'Occidente poteva cadere in pratiche erronee su questo
punto. In Occidente infatti non era mai esistito il problema della venerazione
delle immagini, poiché si attribuiva ad esse un valore decorativo e didattico (Gregorio
Magno vi vedeva il catechismo degli analfabeti). L'Oriente invece attribuiva
alle icone un valore anche di tipo sacramentale, ponendo una relazione reale
tra la rappresentazione ed il rappresentato: ciò appunto giustificava la
venerazione della icona. Talora però la venerazione degenerava e si colorava di
tonalità idolatriche!
Ma torniamo ai fatti: per via militare Leone
III annientò ogni opposizione; per via diplomatica invece cercò di guadagnarsi
il consenso del patriarca di Costantinopoli, Germano e del papa Gregorio II.
Germano pagò l'opposizione con la
deposizione. Per Gregorio II invece l'opposizione fu meno costosa, perché si
ritrovò difeso dalle popolazioni italiche (Roma, Venezia e città della
Pentapoli).
Nel 730 Leone III con un nuovo editto ordinò
la distruzione delle immagini. La risposta di Roma fu espressa da un concilio
romano, convocato dal nuovo papa Gregorio III nel 731: "Se in seguito
alcuno, disprezzando coloro che si conservano fedeli all'antica consuetudine
della Chiesa apostolica, in odio alla venerazione delle sacre immagini, cioè del
Dio e Signore nostro Gesù Cristo, della sua madre Maria, sempre vergine
immacolata e gloriosa, le distruggerà, le profanerà o le bestemmierà, sia
escluso dal Corpo e dal Sangue del Signore nostro Gesù Cristo e dall'unità e compagine
di tutta la Chiesa." (Liber Pontificalis, I, ed. L. Duchesne, Paris
1886, 416).
Leone III volle dapprima reagire con la
violenza: fece veleggiare verso l'Italia una flotta, che però non giunse mai a
destinazione, perché nel mare Adriatico fu distrutta da una tempesta. Si
ripiegò su alcuni provvedimenti amministrativi:
- furono
confiscati i beni, che la Santa Sede possedeva in Calabria ed in Sicilia;
- la Calabria,
la Sicilia e tutte le province dell'antico Illirico (Epiro, Illiria,
Macedonia, Grecia, Creta) furono staccate dalla giurisdizione patriarcale
romana e collocate sotto la giurisdizione patriarcale costantinopolitana.
Si noti che con questo gesto l'imperatore sottrasse
al papato quelle terre, che lo mettevano in contatto con le aree orientali e
quindi spinse il papato sempre più verso l'Occidente. Si noti ancora che con
tale provvedimento l'imperatore volle sottomettere le terre, su cui poteva
ancora vantare un potere effettivo, alla giurisdizione del patriarca di
Costantinopoli, creando coerenza tra impero bizantino e chiesa bizantina e
assegnando al patriarca costantinopolitano il ruolo di unico patriarca
dell'oikumene. Si noti infine che con tale decisione l'imperatore praticamente
dichiarò di volersi disinteressare delle altre
regioni occidentali.
Anche il successore di Leone III, il figlio
Costantino V, fu un tenace assertore della iconoclastia, tuttavia limitò la sua
azione alla sola parte orientale. Nel 754 convocò ad Hieria, presso Calcedonia,
un concilio, che confermò solennemente la proibizione delle immagini.
Il papato, in conflitto dottrinale per la
questione delle immagini, irritato per le limitazioni di giurisdizione,
convinto di non trovare nell'imperatore bizantino una vera potestas capace di
tutelare gli interessi italiani contro i Longobardi, si convinse sempre più di
dovere chiedere aiuto altrove!
2 – La questione longobarda
La presenza longobarda si impiantò su gran
parte della penisola italiana in soli quattro anni: tuttavia all'inizio non
presentava affatto la stabilità di una organizzazione politica compatta e ben
definita (574 - 584 : il decennio di anarchia), divisa com'era in numerosi
ducati spesso in tensione fra loro, segnata com'era dalla presenza di diversi
gruppi etnici e di diverse fedi religiose.
Di fronte a questa situazione iniziale di
debolezza la popolazione italica poté ritenere plausibile la scelta di
un'autonoma opposizione all'invasore: plausibile per la debolezza interna dei
Longobardi, autonoma per l'assoluta inettitudine del potere bizantino, questi
sono i termini della questione.
Per comprendere l'inettitudine del potere bizantino in Italia occorre
considerare:
- l'assetto territoriale disorganico del dominio bizantino, che si
suddivideva in due grosse aree amministrative: la Pentapoli marittima (Rimini,
Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona) e la Pentapoli annonaria (Urbino,
Fossombrone, Iesi, Cagli, Gubbio);
- la crescente debolezza dell'esarca (capo civile e militare), sempre meno
appoggiato politicamente e militarmente dall'imperatore;
- l'impopolarità del governo bizantino, dovuta all'eccessiva pressione
fiscale, alla corruzione dei funzionari, alla quasi nulla capacità di contrastare
militarmente i Longobardi ed anche al diverso atteggiamento religioso (cristologia,
i tre capitoli, iconoclastia, primato romano).
Ecco pertanto che nei vari territori
bizantini gli Italici maturarono la tendenza ad organizzarsi intorno ai grandi proprietari
terrieri per dare vita ad una resistenza anti-longobarda. Nel ducato romano
questa tendenza trovò il suo centro naturale nel papato, che vi disponeva di un
patrimonio sempre più esteso e per di più godeva dì una notevole stima
soprattutto grazie alla sublime dimostrazione di capacità e dedizione offerta
da s. Gregorio Magno. Dal canto suo il papato accettava un tale ruolo non solo
per gli interessi temporali che erano in gioco, ma anche perché era sempre più
persuaso che l'autonomia politica era una condizione necessaria all'esercizio
della missione primaziale in un mondo, che non era più compreso in un unico
grande, universale sistema politico (l'impero romano), ma era oramai diviso in
vari regni.
Tuttavia tale autonomia con l'andar del tempo
fu sempre più minacciata dalla potenza longobarda: la primitiva
disarticolazione non degenerò affatto in una dissoluzione grazie all'opera di
sovrani capaci (Autari, Agilulfo, Teodolinda, Rotari), che lavorarono per
raccogliere le potenzialità disperse ed organizzarle secondo un apparato sempre
più stabile ed unitario. Quest’opera raggiunse il suo apice sotto Liutprando
(712 - 744).
Non attardiamoci ora nell'esposizione dei
fatti salienti, che caratterizzarono questo periodo: ci limiteremo a
tratteggiare le grandi linee di sviluppo.
+
Leone III
Isaurico per un certo tempo fece vari tentativi per ridurre all'obbedienza
Gregorio II e Gregorio III, ostili alla politica imperiale iconoclastica ed
eccessivamente fiscale; alla fine Leone III decise di disinteressarsi
dell'Italia;
+
contemporaneamente
Liutprando diede avvio ad una politica di espansione con l'intenzione di
imporre il dominio longobardo su tutta l'Italia: accanto ad una penisola
iberica prima visigotica e poi araba, accanto ad una Gallia completamente
franca ci sarebbe stata una penisola italiana totalmente longobarda!
+
In questo
contesto il papato si trovò più di tutti impegnato a difendere i territori
italici, guidando autonomamente la politica italiana secondo queste linee:
1.
impedire
tutti i tentativi di scissione dall'impero, perché ciò avrebbe finito col
recare vantaggio ai Longobardi (la possibilità, sia pure ipotetica di un
intervento dell'impero bizantino incuteva certo nei Longobardi più timore della isolata
resistenza di un piccolo stato italiano indipendente);
2. fare leva sui sentimenti religiosi del
cattolico Liutprando;
3. contrastare il potere centrale di Liutprando,
favorendo le tendenze autonomistiche dei ducati longobardi di Spoleto e di
Benevento;
4. sollecitare l'intervento del maggiordomo
franco, Carlo Martello, quando Liutprando ebbe ragione del duca di Spoleto e si
spinse fino a minacciare Roma, ma Carlo
Martello rispose negativamente, perché i Longobardi collaboravano con i Franchi
nel contrastare le incursione arabe sulla Costa Azzurra.
5. infine, data l'inutilità dell'appello a Carlo
Martello, stringere con il re longobardo una pace ventennale (papa Zaccaria,
accordo di Terni del 742).
Negli anni 750 - 751 il nuovo re longobardo,
Astolfo, riprese il progetto di dominio su tutta l'Italia e si dedicò alla
conquista del territorio dell'esarcato. Il papato si trovò così nella necessità
di rimettere in discussione l'intesa con i Longobardi e di ricercare una nuova
strada, che garantisse la salvaguardia del l'autonomia. La nuova strada non
poteva consistere nel ritorno alla opposizione autonoma degli italici, data la
schiacciante superiorità dei Longobardi; si cercò allora il tutore
dell'autonomia italica in Francia: su Bisanzio non si poteva più contare.
3 - La relazione papato-Pipino
a)
i primi
contatti
La premessa fondamentale é rappresentata
dall'acquisizione del popolo franco alla fede cattolico romana, compiutasi
attraverso la conversione di Clodoveo e la romanizzazíone della Chiesa franca,
favorita da Bonifacio. Per questa via tra Franchi e papato venne a crearsi una
importante relazione ideale, che poi orientò anche la soluzione dei problemi
politici.
Ciò si manifestò per la prima volta verso il
750 - 751, quando Pipino per legittimare religiosamente e moralmente il suo
colpo di stato dalla fede sua e del suo popolo fu orientato verso Roma: papa Zaccaria per la difesa dell'autonomia
minacciata da Astolfo vide l'opportunità di una risposta favorevole a Pipino,
che già nel suo rivolgersi al papa mostrava di essere un sovrano cristiano
atto a tutelare e rispettare gli interessi della Sede Apostolica.
La relazione politico-religiosa, che
intercorreva tra papato e Pipino ebbe una seconda manifestazione nel 753. Il
nuovo papa, Stefano Il, si trovò messo alle strette dalle truppe di Astolfo ed
ebbe chiari segni della impotenza dell'imperatore bizantino, che si limitò a
levare proteste diplomatiche contro le usurpazioni territoriali dei Longobardi.
Si decise allora a fare ricorso a Pipino, per sollecitare l'invio di una
delegazione franca a Roma, con la quale avrebbe trattato le modalità per
giungere ad un incontro con il re franco (cfr Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, Paris 1886, 444. Qui si
parla di una lettera inviata segretamente a Pipino attraverso un pellegrino
franco).
Pipino dal canto suo si trovava nella
necessità di consolidare il proprio potere in Gallia, dove era contrastato
dalla opposizione di alcuni grandi, capeggiati dal fratello Carlomanno, che su
invito di Astolfo era uscito dal monastero e tornato in Francia per determinare
una politica filo-longobarda. In tale situazione un nuovo e più stretto legame
col papato dovette apparire a Pipino estremamente proficuo, sia per ottenere la
benedizione di Dio (Pipino era un credente), sia per ottenere una maggiore
solidarietà del popolo. Perciò nell'estate (753) mandò a Roma una delegazione (Crodegango,
vescovo di Metz e il duca Autcaro) per rassicurare il papa e scortarlo in
Francia.
A questo punto ci si potrebbe domandare quale
progetto politico circa l'Italia fosse vagheggiato dal papa e da Pipino. La
risposta scaturirà da alcuni elementi emergenti dall'incontro in Francia e
dalla campagna di Pipino in Italia.
b) l'incontro in Francia
Si noti prima di tutto che Stefano Il,
lasciata Roma il 14 ottobre 753, non marciò direttamente verso la Francia, ma
fece tappa a Pavia, alla corte del re Astolfo per espletare una missione che
gli era stata assegnata dall'imperatore bizantino e che consisteva
nell'ingiungere al re longobardo di abbandonare territori imperiali usurpati.
Da questo fatto e dagli appelli precedenti alla corte imperiale di
Costantinopoli traspare che il papa, pur rivolgendosi ai Franchi, non intendeva
minimamente alterare la situazione giuridica dei territori italici; erano e
dovevano rimanere territorio imperiale!
Dopo l'inutile sosta di Pavia il viaggio
proseguì verso la Francia. Il primo incontro con Pipino avvenne al palazzo
reale di Ponthion (presso Châlons il 6 gennaio 754, festa dell'Epifania.
Interessante notare il cerimoniale con cui Pipino accolse il papa: lo attese a
tre miglia dal palazzo. Appena il papa arrivò, Pipino scese da cavallo, secondo
il protocollo imperiale compi la proskunesis di fronte al papa e poi prestò al
papa l'officium stratoris, cioè a piedi scortò il papa fino al palazzo,
guidandone il cavallo per le briglie: questo gesto diventerà tipico e sarà poi
compiuto da tutti gli imperatori medievali!
Il cerimoniale dice la venerazione di Pipino
per il successore di S. Pietro e in qualche modo anticipa l'idea secondo cui la
protezione prestata alla Sede Apostolica non sarà di tipo sovrano.
Seguì poi la fase dei negoziati. Essa ebbe un
primo momento a Ponthion il 7 gennaio, quando il papa ottenne da Pipino la
promessa giurata di “impegnarsi con tutte le forze per restituire al papa
l'esarcato di Ravenna, come pure tutti i diritti e i territori della Res
Publica Romanorum" (Liber Pontificalis, I, ed. L. Duchesne, Paris 1886,
448).
Se da una parte l'espressione riportata dal
Liber Pontificalis ci testimonia che in Pipino non c'era alcuna intenzione di
estendere la sua sovranità sulle eventuali conquiste italiane, dall’altra
l'espressione non sfugge ad una certa ambiguità: restituzione al papa a che
titolo? I territori della Res Publica Romanorum non sono impero romano?
In base alla promessa fatta, Pipino cominciò
a lavorare in una duplice direzione: trattative diplomatiche con Astolfo per
indurlo ad una pacifica restituzione; trattative con i grandi franchi per
dissipare ogni opposizione e conquistarli alla causa del papato. Su ambedue i
fronti Pipino dovette registrare un nulla di fatto: Astolfo rifiutò ogni
intesa; al campo marzio di Berny-Rivière i grandi franchi si mostrarono
scettici: l'intervento in Italia avrebbe comportato per i Franchi solo una
spesa, il guadagno invece sarebbe stato totalmente del papa!
Riprendendo le trattative con papa Stefano
Il, che si era nel frattempo stabilito presso il monastero di Saint-Denis,
Pipino probabilmente pregò il papa di intervenire personalmente alla dieta che
si sarebbe dovuta tenere in aprile a Quierzy, per giocare di fronte ai grandi
tutto il peso della sua autorità. Ed infatti a Quierzy l'intervento del papa
dissipò ogni resistenza e si addivenne ad un patto. Il Liber pontificalis alla
"Vita Adriani” accenna ad un documento, contenente la promessa dì
Quierzy, che sarebbe stato ripreso e rinnovato da Carlo Magno in occasione
della sua visita a Roma nel 774. Da questo accenno si può arguire che le
promessa di Quierzy assunse una forma documentaria, tale documento però a noi
non é pervenuto!
Sempre in
quel passo della "Vita Adriani" troviamo i contenuti della
promessa "carisiaca": vi si parla di “donazione fatta a S. Pietro e
al suo Vicario" e si tracciano i confini di tale donazione: da Luni,
località ligure, comprendendo la Corsica, attraverso il monte Soriano, il monte
Bardone (attuale Cisa), Parma, Reggio, Mantova, Monselice, l'esarcato di
Ravenna, fino alle province venete e all'Istria, includendovi anche i ducati di
Spoleto e Benevento (cfr Liber Pontificalis, I, ed. L. Duchesne, Paris 1886, 496-497).
Non deve suscitare meraviglia il fatto che
non si parli del ducato romano: da tempo dipendente dall'autorità papale, fu
senz'altro considerato un possesso pacifico del papato. Si deve invece notare
che il confine ivi tracciato comprende un'area vastissima, che non sarà mai
donata al papa né da Pipino né da Carlo Magno. Nasce allora un grosso problema
critico: il testo é autentico o é un falso? E se é autentico, come lo si deve
spiegare?
Secondo alcuni (L. SALTET, La lecture d'un
texte et la critique contemporaine
: Bulletin de littérature
ecclésiastique 41(1940) 176-206; E. GRIFFE, Aux oridines de l'Etat
pontifical : Bulletin de littérature ecclésiastique 55(1954) 65 –
89) si tratterebbe di una mera invenzione romana introdotta nel racconto
mediante interpolazione successiva.
Secondo altri ci sarebbe stato davvero un
documento con simile contenuto (il principale assertore di questa posizione è
L. DUCHESNE, Les premiers temps de l'Etat pontifical.754-1073, Paris 31911 (tr. it. I
primi tempi dello stato pontificio, Torino 21967, 66); idem, Liber
Pontificalis, I, ed. cit., CCXXXVI - CCL). La posizione di Duchesne, massimo
conoscitore del Liber Pontificalis, ha raccolto unanimi consensi tra gli
storici successivi).
Solitamente viene accolta questa seconda
tesi: ma quale sarebbe allora il contenuto reale reale del documento?
Due sono le spiegazioni, che generalmente
vengono proposte.
·
La promessa
di Quierzy conterrebbe una vera donazione, che però mai si realizzò nei termini
indicati, in quanto si trattò di una donazione condizionata: cioè il papa
sarebbe entrato in possesso dei suddetti territori solo se un'eventuale guerra
avesse portato allo scioglimento del regno Longobardo. Pipino però non eliminò
Astolfo e Carlo Magno dal canto suo non soppresse il regno longobardo, ma ne
divenne lui stesso re. A noi la spiegazione pare improbabile, poiché nulla ci
fa pensare - ed i fatti successivi lo confermeranno - che a Quierzy Pipino
ipotizzasse la distruzione del regno longobardo e la sua spartizione col papa
(cfr P. KEHR, Die sogennante Karolingische Schenkung von 774 : Historische
Zeitschrift 70 (1893). 385-441).
·
Seconda
spiegazione: a Quierzy non si promise nessuna donazione, ma semplicemente
Pipino si sarebbe impegnato a riportare in Italia un assetto territoriale, che
garantisse il papato contro il pericolo longobardo. Più precisamente:
+ circa la
vecchia provincia bizantina (Istria, Venezia, Ravenna) Pipino si sarebbe
impegnato a riportarla allo statu quo ante: cioè Astolfo avrebbe dovuto abbandonarla;
+ circa i ducati di Spoleto e Benevento: Pipino si sarebbe impegnato a
difendere la loro autonomia nei confronti del potere centrale longobardo (E.
CASPAR, Pippin und die römische Kirche, Berlin 1914, 99 - 153 (rist.
Darmstadt 1973).
Ma sia
contro la prima spiegazione, sia contro la seconda abbiamo il comportamento di
Stefano Il, che già dal 755 cominciò a rivendicare i territori in questione: la
questione rimane dunque aperta. Ad ogni modo anche dalla promessa di Quierzy
traspare che Pipino non intendeva tenere per sé i territori imperiali strappati
ai Longobardi.
Alla fase dei negoziati fece seguito la
solenne consacrazione regale di Pipino e dei suoi due figli, Carlo e
Carlomanno, compiuta dal papa in Saint-Denis.
In questa occasione Stefano II attribuì ai
tre anche il titolo di "patricius Romanorum". Il patriziato era una
istituzione bizantina, di carattere onorifico elevato, cui non era
necessariamente connesso un ufficio. Tale dignità veniva solitamente conferita
dall'imperatore ed i destinatari erano certi funzionari dell'impero, ad es.
l'esarca di Ravenna, ed anche alcuni capi barbari, che con questo titolo
venivano in qualche modo legati alla politica imperiale.
Ora ci domandiamo: Stefano Il, conferendo il
patriziato, ha forse usurpato una prerogativa imperiale? E quale era il suo
intento nel fare ciò?
Qui bisogna distinguere la posizione espressa
dagli studiosi di storia occidentale da quella espressa dagli studiosi di
storia orientale.
Gli studiosi di storia occidentale in gran
parte ritengono che Stefano II avrebbe agito di sua sola iniziativa, usurpando
coscientemente e volutamente un diritto imperiale. Ciò facendo, Stefano II
avrebbe manifestato la sua volontà di assicurare alle terre ricuperate da
Pipino una notevole autonomia nei confronti del potere imperiale ed una più
forte dipendenza dalla amministrazione papale. Nelle intenzioni del papa
infatti il patrizio Pipino avrebbe dovuto sostituire l'esarca di Ravenna: sia
chiaro, lo avrebbe dovuto sostituire nelle funzioni militari soltanto, non già
nelle funzioni di governo civile, che sarebbero passate al papa. In questa
prospettiva Pipino, quale patricius Romanorum, si sarebbe trovato a dovere
svolgere il ruolo di tutore militare del papato, il ruolo di miles papae, di
defensor Romanae Ecclesiae. In questa attribuzione del titolo di patrizio,
connessa con una consacrazione regale, avremmo il primo accenno di un'idea,
che avrà notevole rilievo nell' impero medievale: con la consacrazione il
potere imperiale viene chiamato a svolgere il ruolo di defensor ecclesiae (cfr F.L. GANSHOF, Note sur les origines byzantines du
titre "patricius Romanorum!' : Annuaire de l'Institut de Philologie
et d'Histoire Orientales et Slaves 10(1950) 261 - 282; TH. SCHIFFER, Winfrid-Bonifatius
und die christliche Grundlegung Europas, Freiburg 1954, 261-263; R. FOLZ, Le
couronnement impérial de Charlemagne, Paris 1964, 42; P. CLASSEN, Karl
der Grosse, das Papsttum und Byzanz. Die BegrUnduns des karolingischen
Kaisertums : Karl der Grosse, I, hrsg. v. H. Beumann, Düsseldorf
1968, 552; J. DEER, Zum Patricius-Romanorum-Titel Karls des Grossen : Archivium
Historiae Pontificiae 3(1965) 31 - 86; lo stesso studio é reperibile anche
in Zum Kaisertum Karls des Grossen. Beitrage und Aufsätze, hrsg.G. Wolf,
Darmstadt 1972,240-308).
Gli studiosi di storia orientale invece
ritengono impossibile che Stefano II abbia osato usurpare un diritto
imperiale, poiché la mentalità romana di allora era ancora molto legata
all'impero. Secondo questi storici dunque l'imperatore bizantino non avrebbe
soltanto incaricato Stefano II di recarsi a Pavia per trattare con Astolfo, ma
avrebbe anche autorizzato il papa a conferire la dignità patrizia a Pipino,
qualora Astolfo non avesse receduto dalle sue posizioni: in tale modo
l'imperatore sperava che Pipino si sarebbe dedicato a liberare i territori
italiani in nome dell'imperatore. Papa Stefano II abilmente volle connettere il
conferimento del patriziato con il rito della consacrazione, perché in tale
modo sarebbe apparso non tanto come un appello alla solidarietà imperiale, ma
piuttosto come un impegno alla tutela degli interessi della Chiesa romana (F. DÖLGER, Besprechung der Arbeit von L.F.
Gahshof : Byzantinische Zeitschrift 45 (1952) 187-190; F. DÖLGER, Besprechung
der Arbeit von H. Dannenbauer : Byzantinische Zeitschrift 52(1959)
110-112; F. DÖLGER, Europas Gestaltung im Spiegel der
fränkisch-byzantinischen Auseinandersetzung des 9. Jahrhunderts : Byzanz
und die europäische Staatenwelt, Ettel 1953, 293-294; H. DANNENBAUER, Das
römische Reich und der Westen vom Tode
Justinians bis zum Tode Karls des Grossen : Grundlagen der mittelalterlichen
Welt, Stuttgart 1958,
44-93).
Comunque sia, sta il fatto che Pipino non usò
mai il titolo di patrizio, né - come vedremo - mai volle agire come un delegato
imperiale: tutto ascrisse alla sua
devozione verso s. Pietro!
Ci resta infine da considerare la natura del
foedus caritatis, che venne a stabilirsi tra Pipino ed il papato. Le fonti, di
cui disponiamo, non ci consentono di interpretarlo come una
"commendatio" del papa a Pipino, quasi che Stefano II si fosse
inginocchiato davanti a Pipino commendandosi alla sua tutela secondo il rituale
di vassallaggio in uso nel regno franco. Pipino attraverso questo omaggio
sarebbe stato chiamato a fare da tutore della Chiesa romana, che verrebbe a
riconoscergli diritti particolari, ad es. il diritto di essere consacrato dal
papa! Le fonti di cui disponiamo, non ci consentono neppure di interpretare il
foedus come una commendatio reciproca, per così dire a doppio senso, quasi che
accanto al vassallaggio del papa nei confronti di Pipino si fosse stabilito
anche il vassallaggio di Pipino nei confronti di S. Pietro e dei suoi
successori. Riteniamo in verità che non si debba cercare di ricondurre il
foedus a forme giuridiche particolari e ben definite: il foedus dovette
consistere in alcune finalità, in alcuni intenti politici molto concreti, che
ambedue i contraenti si proposero e si impegnarono a perseguire.
c)
Il duplice
intervento di Pipino in Italia
Nell'agosto del 754, passando per il
Moncenisio, Pipino penetrò in Italia e rapidamente mise alle strette Astolfo,
assediandolo in Pavia. Allo sconfitto Pipino impose delle condizioni di pace
abbastanza moderate:
+
riconoscere
una certa sovranità franca sul regno longobardo;
+
ritirare le
truppe longobarde dalle province di Venezia ed Istria;
+
restituire
Ravenna "cum diversis civitatibus".
Se vogliamo capire come mai di lì a qualche
mese divenne necessario intervenire di nuovo, dobbiamo senz'altro soffermarci
almeno per un attimo su questa pace.
La trattative furono condotte da un Pipino, che,
pur conoscendo poco la questione italiana, non fece ricorso a consiglieri di
parte pontificia. Ne risultò pertanto un trattato notevolmente ambiguo: vi si
parla di restituzioni, ma non si precisa a chi vadano fatte: al papa?
All'imperatore? Neppure vengono determinate le modalità, di restituzione.
Questa ambiguità fu abilmente sfruttata da Astolfo: evacuando i territori di
Venezia e dell'Istria, attuò la condizione di resa più chiara e precisa; volle
anche compiere la restituzione di Ravenna, ma, sfruttando il silenzio del
trattato, non la consegnò al papa: astutamente affidò la città all'arcivescovo
di Ravenna, intuendo che in tale modo si rendevano possibili due evenienze:
prima di tutto un contrasto tra papa e arcivescovo di Ravenna e quindi una tensione
all'interno del fronte italico, in secondo luogo una soddisfazione bizantina per
il fatto che non veniva favorito quel papato, che aveva voltato le spalle al
sovrano tradizionale per legarsi ai Franchi, questa soddisfazione bizantina poteva essere un'efficace
premessa per un’alleanza Longobardo-Bizantina da contrapporre al fronte
Papato-Franchi. Continuò invece a tenersi le altre città!
Astolfo tuttavia non si limitò alla inadempienza
delle condizioni di pace, bensì nel dicembre del 755 si spinse addirittura
sotto le mura di Roma. Lo dovettero indurre a tanto ardimento quelle stesse
ragioni, che avevano spinto Pipino a stipulare una pace frettolosa e a
ritornare rapidamente in Gallia. Qui larghi strati dei grandi contro la
improduttiva campagna italiana avevano costituito un partito di vivace
dissenso, che realisticamente a quelle condizioni preferiva un buon vicinato
con i Longobardi!
Papa Stefano II, di fronte alla nuovamente
disinvolta e minacciosa politica di Astolfo, non poté fare altro che richiamare
Pipino agli impegni assunti a Quierzy. Nei primi mesi del 756 il re franco
scese una seconda volta in Italia, impose a Pavia un nuovo assedio e ad
Astolfo una nuova resa. Nella seconda pace Pipino cercò sia di rimediare i
limiti e le ambiguità del trattato precedente sia di conferire all'impresa
franca un carattere più produttivo per il mondo franco stesso:
+ colpi più
duramente la potenza longobarda, esigendo che il riconoscimento della
sovranità franca si esprimesse con il versamento di un tributo annuo e
richiedendo quale indennità di guerra la terza parte del tesoro della corona;
+ precisò le modalità di restituzione delle città dell'esarcato: doveva
essere fatta a S. Pietro attraverso un delegato franco (Fulrado, abate di
Saint-Denis questi poi avrebbe depositato sulla confessio sancti Petri le
chiavi delle città restituite); la restituzione includeva solo le città
conquistate da Astolfo e non quelle di Liutprando!
Per capire in base a quale diritto Pipino
fece compiere queste restituzioni a S. Pietro bisogna ricordare un episodio
verificatosi durante questa seconda spedizione in Italia: all'accampamento di
Pipino un giorno si presentò una delegazione bizantina per rammentare
l'appartenenza all'impero dei territori in questione; dal canto suo il re
franco rispose di agire "pro amore beati Petri et venia delictorum”. Da
ciò si arguisce che Pipino non volle tenere in considerazione alcuna il diritto
imperiale, ma volle invece affermare il suo diritto di guerra, considerando
tali territori suoi per conquista e a questo titolo facendone dono a S. Pietro.
Solo con questa seconda pace il papato
acquistò un diritto chiaro e pertanto il 756 può dirsi il vero inizio materiale
dello stato pontificio, che giunse a comprendere 21 città, distribuite nei
territori dell'Esarcato di Ravenna, della Pentapoli e del Ducato Romano. Venne
così a formarsi un’amministrazione pontificia vera e propria, culminante nella
persona del papa, cui popolo e ufficiali prestavano giuramento di fedeltà. Tuttavia
si faccia bene attenzione: siamo solo agli inizi e non si può ancora parlare di
"Stato Pontificio" sovrano ed indipendente, perché si tratta di
territori, che continuano ad appartenere all'impero e sul piano ideale
giuridico si mantiene il legame con l'impero (le monete portavano ancora
l'effigie dell'imperatore, i documenti erano ancora datati secondo gli anni di
governo dell'imperatore).
Però si deve anche rilevare che sul piano
pratico abbiamo una tale autonomia di azione, che si può parlare di un'
effettiva (anche se non giuridica) indipendenza. Ad ogni modo la situazione era
tale che sotto il profilo propriamente giuridico non si poteva ancora parlare
di Stato Pontificio: meglio parlare di Patrimonium sancti Petri.
d)La situazione dopo gli interventi di Pipino
fino all'avvento di Carlo.
Ci limiteremo ad alcuni accenni relativi alla
politica interna e alla politica estera sia del regno longobardo, sia del regno
franco, sia del papato.
Regno longobardo: il
fatto saliente della politica interna é rappresentato dalla successione ad
Astolfo, morto in un incidente di caccia nel dicembre 756. Conquistò il trono
longobardo il duca della Tuscia longobarda, Desiderio. Quanto alla politica
estera va rilevato che Desiderio ottenne il trono, appoggiandosi a Fulrado,
rappresentante di Pipino in Italia e al papa con la promessa che, una volta re,
non solo avrebbe mantenuto gli impegni assunti da Astolfo, ma sarebbe
addirittura andato oltre, restituendo anche le città conquistate da Liutprando.
Raggiunto il potere, Desiderio mise da parte le promesse e fece ritorno alla
vecchia politica di espansione e di controllo su tutta l'Italia: legò più fortemente
al potere centrale di Pavia i ducati di Spoleto e di Benevento, cercò di
stabilire un'intesa con il potere bizantino per controbilanciare il blocco
papato-Pipino.
Regno franco: la sua
politica interna fu caratterizzata da continui tentativi per mantenere sotto
controllo le tendenze autonomistiche della Baviera e dell'Aquitania; ciò influì
notevolmente sulla politica estera: ai ripetuti appelli dei papi Pipino rispose
non con nuovi interventi armati in Italia, ma con trattative diplomatiche, che
verso il 763 determinarono una specie di tregua tra papato e Desiderio.
Il papato: il 26
aprile 756 morì Stefano Il, cui fu dato come successore il fratello Paolo I. La
politica interna del nuovo papa mirò a consolidare l'apparato amministrativo,
ricorrendo soprattutto all'opera dei proceres ecclesiae, cioè l'alta borghesia
ecclesiastica capeggiata dal primicerio Cristoforo. Il prevalere dei proceres
provocò risentimenti in un altro gruppo dell'apparato pontificio: gli iudices
militiae, cioè la nobiltà militare romana, capeggiata dal dux Teodoro di Nepi,
detto Toto. Il risentimento esplose alla morte di Paolo I (767): Teodoro di
Nepi con gli iudices militiae si impossessò di Roma e, senza neppure una
parvenza di elezione, impose come papa suo fratello Costantino. Il primicerio
Cristoforo e suo figlio Sergio per uscire illesi dal colpo di mano dovettero
fingersi intenzionati a seguire una improvvisa vocazione monastica in un
monastero del ducato di Spoleto. Lontano da Roma, Cristoforo si trovò in grado
di organizzare la riconquista del potere, assicurandosi la collaborazione del
duca di Spoleto e dello stesso re Desiderio, cui non parve vero di potere porre
finalmente le mani sul papato. Nel luglio del 768 Cristoforo con i Longobardi
poté penetrare in Roma, eliminare il dux Teodoro e sbalzare Costantino dalla
Sede Apostolica.
Le truppe longobarde si affrettarono ad
imporre un loro papa nella persona di prete Filippo, ma questi non durò che un
giorno: Cristoforo, oramai padrone della situazione, promosse una regolare
elezione canonica, da cui uscì papa Stefano III.
Ci siamo attardati su questo fatto, in quanto
lo riteniamo emblematico: dimostra che il consolidamento del potere
amministrativo nelle mani del papa portò alla drammatica conseguenza che se una
famiglia voleva conquistare il potere politico doveva prima assicurarsi il
potere papale: questo fatto peserà gravemente sulla storia successiva del
papato!
Stefano III, per consolidare la sua
posizione, convocò a Roma un sinodo, che si tenne nell'aprile del 769 e vide la
partecipazione dei vescovi del ducato romano, dell'Esarcato di Ravenna, del
regno longobardo e del regno franco (13 vescovi franchi). Il sinodo non si
limitò a condannare Costantino, ma anche procedette a regolare le modalità di
elezione del papa, attribuendo diritto passivo di elezione solo ai cardinali
non vescovi e diritto attivo solo al clero romano: al laicato venne riservata
l'acclamazione dell'eletto: si noti che questa acclamazione era giuridicamente
necessaria!
Nella datazione del documento sinodale fu
tralasciata la data secondo gli anni di governo dell'imperatore: un sinodo, che
vedeva la partecipazione di vescovi, che in gran parte non erano sottoposti
alla giurisdizione imperiale, non poteva riconoscere una sua sottomissione
alla sovranità imperiale. E' anche questo un segno dell'esigenza sempre più
sentita di una Chiesa romana, che nella situazione di pluralità politica si
presentasse sempre più autonoma.
Quanto alla politica estera del papato si
deve dire che in questo periodo si segui la tradizionale politica anti-longobarda
e filo-franca. Lo mostra il comportamento di Paolo I: preferì levare ripetuti
appelli ai Franchi contro ipotetiche minacce da parte di una fantomatica
alleanza longobardo-bizantina, piuttosto che percorrere la via della
normalizzazione dei rapporti con l'imperatore. Fin da subito, fin dal momento
della sua elezione, volle inviare la comunicazione non più al rappresentante
del potere imperiale in Italia, ma al re dei Franchi Pipino, patricius
Romanorum, defensor Romanae ecclesiae. Il legame coi Franchi però non
significava affatto subordinazione, ma solo garanzia per il mantenimento
dell'autonomia del Patrimonium.
4 La relazione papato - re Carlo
a) Gli inizi del regno di Carlo
Alla morte di Pipino (24 settembre 768) il
regno franco fu diviso tra i due figli: il ventiseienne Carlo ed il
diciassettenne Carlomanno. Sotto questo profilo Pipino continuò quella
concezione privatistica del regno,
che era già stata dei Merovingi.
La diarchia si protrasse fino al 4 dicembre
771, quando Carlomanno morì: in tale fase si riscontrano due caratteristiche:
+ tensione
tra i due fratelli, provocata dal tipo di spartizione operata da Pipino, che
assegnò a Carlo le province atlantiche dalla Guascogna alla Frisia ed a
Carlomanno le terre interne e mediterranee: tale spartizione favoriva Carlo sia
sotto il profilo economico (terre più ricche) sia sotto il profilo strategico
(Carlomanno si trovava accerchiato dai territori di Carlo e dei Longobardi);
+ Carlo per
avere sopravvento sul fratello si legò al re Longobardo, Desiderio, sposandone
una figlia (770) (Benché la tradizione letteraria - Manzoni - attribuisca a
questa figlia di Desiderio il nome di Ermengarda, noi rispettiamo l'anonimato,
che si riscontra nelle fonti storiche!).
Questa situazione franca ebbe un riflesso a
Roma. Prima di tutto la notizia di un matrimonio tra un re franco (non si sapeva quale dei due fosse) e una figlia
di Desiderio provocò in Roma un clima di allarmismo e sdegno, come traspare da
una lettera di Stefano III, in cui si afferma che i Longobardi non sarebbero un
popolo, ma soltanto una progenie di lebbrosi: un nobile franco dovrebbe
guardarsi bene dal mescolare il suo sangue con quello di tale razza. La lettera
poi passa agli avvertimenti: badino bene i Franchi che se rompono il foedus con
S. Pietro, compromettono la loro salvezza; i due re si ricordino che ambedue
sono già validamente sposati; sappiano tutti che il papa é pronto a lanciare il
suo anatema sul popolo franco (Codex carolinus n.45 : M G H Epistolae
III, 560; il Codex carolinus raccoglie la corrispondenza intercorsa tra il
papato e i carolingi).
Tanto sdegno si placò alla fine dell'estate
770, quando si presentò al papa Bertrada, la madre dei due re franchi e strappò
al papa un atteggiamento di accondiscendenza.
In secondo luogo la situazione franca
determinò in Roma la formazione di due correnti politiche: la prima, capeggiata
da Cristoforo, continuava nella decisa opposizione ai Longobardi e teneva
rapporti soprattutto con Carlomanno; la seconda, capeggiata da Paolo Afiarta,
propugnava invece un'alleanza con i Longobardi, che per vendicarsi del
tradimento perpetrato da Cristoforo nel 768, avevano intrapreso una politica
dura nei confronti di Roma.
Nella quaresima del 771, quando re Desiderio
si presentò a Roma con il pretesto di pregare sulla tomba di S. Pietro, si
ebbe un attimo di sbandamento nel partito di Cristoforo: Paolo Afiarta subito
ne approfittò per eliminare dalla scena il rivale, per assicurarsi il potere e
spingere ad un'intesa con i Longobardi quello stesso papa, che ancora l'anno
precedente aveva apostrofato tale popolo come stirpe lebbrosa.
Con la morte di Carlomanno Carlo si trovò
solo al potere in tutto il regno franco: la cosa ebbe una rilevante conseguenza
a livello di politica estera: la rottura con Desiderio. Questi, grazie ad una
saggia politica matrimoniale, era divenuto suocero non solo di Carlo, ma anche
dei duchi di Baviera e di Benevento. Poi grazie alla politica di Paolo Afiarta
era giunto anche a controllare il papato: per questa via Desiderio dunque si
era assicurato una posizione di primo piano in Occidente, cui certo il regno
franco, finché rimaneva diviso, non poteva recare pregiudizio. Si capisce
pertanto come Desiderio non abbia gradito affatto la riunificazione del regno
franco sotto Carlo ed abbia cercato in ogni modo di comprometterla, sostenendo
il diritto ereditario dei figli di Carlomanno, ancora minorenni ed ospiti alla
sua corte. Dal canto suo Carlo rispose, rimandandogli la figlia. Anche a Roma,
con la morte di Stefano III, entrò in crisi l'alleanza con i Longobardi.
Nel 772 infatti divenne papa Adriano I che era
nipote del dux e primicerio Teodoto; apparteneva quindi alla aristocrazia
romana e alla cerchia dei collaboratori sia di Paolo I sia di Stefano III.
Adriano I impose alla politica pontificia una nuova impronta. Non si capisce se
Paolo Afiarta si sia sbagliato nel valutare Adriano, oppure non sia riuscito a
contrastare l'elezione; comunque sia, sta
il fatto che papa Adriano manifestò presto l'intenzione di essere lui ad
amministrare il patrimonio di S. Pietro, senza dipendere da questo o quel
partito romano e senza sacrificare l'autonomia a questa o quella alleanza (E'
interessante rilevare che nel Codex carolinus manca la lettera, in cui Adriano
avrebbe dovuto comunicare al re Franco-Patricius Romanorum la sua elezione:
senz'altro Adriano non inviò mai tale scritto per affermare fin da principio la
sua autonomia anche nei confronti dei Franchi).
A partire dalla volontà di autonomia interna
si liberò velocemente di Paolo Afiarta: lo inviò a Pavia per trattare il
rinnovo della pace con Desiderio e quindi approfittò dell'assenza del
filo-longobardo per aprire un'inchiesta, che scovasse i responsabili
dell'assassinio di Sergio, figlio del primicerio Cristoforo. Risultò che
responsabile del delitto fosse proprio Paolo Afiarta, che fu senz'altro
condannato all'esilio (Papa Adriano ordinò all'arcivescovo di Ravenna di
arrestare Paolo Afiarta, quando sarebbe passato per quella città, ed inviarlo a
Costantinopoli per sottoporlo al giudizio e alla sentenza imperiale:
l'arcivescovo per eccesso di zelo procedette di sua iniziativa alla esecuzione).
A partire dalla volontà di autonomia estera,
papa Adriano non si piegò alle due pesanti condizioni, che Desiderio esigeva
per rinnovare la pace: incontro con il papa in Roma e consacrazione regale dei
figli di Carlomanno. Adriano fu irremovibile, avvertendo lucidamente che una
venuta di Desiderio a Roma poteva significare la perdita dell'autonomia e la
consacrazione regale dei figli di Carlomanno gli avrebbe senz'altro procurato
l'ostilità di re Carlo e dei Franchi.
Al no del papa Desiderio rispose con delle
rappresaglie, miranti anche a vendicare la defenestrazione di Paolo Afiarta: e
così i Longobardi ancora una volta si presentarono alle porte di Roma!
b) Gli interventi di Carlo in Italia
Minacciato dai Longobardi, papa Adriano si
ritrovò a dovere percorrere a sua volta la via degli appelli alla monarchia
franca. Re Carlo dal canto suo non ebbe esitazione: insieme con la devozione a
S. Pietro agiva in lui l'esigenza di ridimensionare re Desiderio, che da una
parte, sostenendo la causa dei figli di Carlomanno, metteva in discussione la
legittimità di parte del suo potere in Francia, dall'altra, volendo soggiogare
il papato ai Longobardi, metteva in discussione quel ruolo singolare che il
popolo franco con Pipino aveva assunto in seno alla cristianità occidentale
(patriziato-defensio Romanae ecclesiae).
Verso la fine dell'estate 773 Carlo scese in
Italia, rapidamente strinse d'assedio Pavia, che cadde dopo nove mesi (giugno
774).
Di questo primo intervento di Carlo in Italia
ricordiamo due cose:
+ la soluzione della questione longobarda:
Carlo, diversamente dal padre tolse dalla scena il re: Desiderio andò a finire
i suoi giorni in monastero; per diritto di conquista poi (quindi non per
elezione, né per consacrazione-incoronazione) collocò se stesso sul trono
longobardo: si noti che formalmente il regno longobardo non scomparve assorbito
dal regno franco, ma continuò a sopravvivere: col regno franco aveva in comune
la persona del re, dal regno franco invece si distingueva, in quanto mantenne per
vari anni la struttura amministrativa dei Longobardi.
+ La visita a Roma: Pipino non si era mai
spinto fino a Roma; Carlo invece nella primavera del 774, mentre era ancora in corso
l'assedio di Pavia, volle recarsi a Roma per celebrarvi la Pasqua. In proposito
ci poniamo tre questioni:
- fu un'iniziativa meramente devozionale? Si deve senz'altro dire
che Carlo si spinse fino a Roma non solo per ragioni devozionali, ma anche
secondo un preciso intento politico: Pipino non aveva mai fatto uso del titolo di
patricius Romanorum, Carlo invece, proprio a partire da questo intervento in
Italia, se ne servì normalmente nella intitulatio dei suoi documenti,
annettendovi evidentemente un significato non solo onorifico, ma anche
giuridico.
- Quale atteggiamento
assunse papa Adriano? Il Liber Pontificalis (Liber Pontificalis I, ed. L.
Duchesne, Paris 1886, 496) nella Vita Adriani ci informa di una reazione
di sorpresa, poiché quell'intervento dei Franchi in Italia, che era stato
desiderato come un gesto in favore dell'autonomia romana, minacciava ora di
trasformarsi in un'affermazione della sovranità franca. Papa Adriano pertanto
cercò di affermare i suoi principi nel cerimoniale, con cui fece accogliere
Carlo:
·
si voleva
riconoscere in Carlo il patricius Romanorum-defensor ecclesiae
e perciò gli si riservarono gli onori, con cui venivano accolti a Roma i
patrizi-esarchi di Ravenna: il sabato santo, 2 aprile 774, Carlo fu accolto a
30 miglia da Roma dagli iudices militiae con bandiere; ad un miglio il corteo
fu salutato dalle scuole della milizia e dai fanciulli, che agitavano palme e
rami di ulivo e cantavano litanie; sui gradini della basilica di s. Pietro
infine il papa stesso si fece incontro a re Carlo.
· Si voleva
però insieme affermare che Carlo era sì defensor, ma non padrone e sovrano,
perciò non gli si consentì di prendere dimora sul colle palatino, residenza
imperiale, dove pure si stabiliva l'esarca di Ravenna, quando veniva a Roma.
Carlo, quale sovrano straniero, dovette accamparsi fuori Roma nei prati
adiacenti a s. Pietro. Prima di entrare nella città per prendere parte alle
celebrazioni pasquali Carlo dovette giurare di rispettare la sicurezza della
città. (Il sabato santo Carlo prese parte alla cerimonia dei battesimi in s.
Giovanni in Laterano; il giorno di Pasqua partecipò prima alla Messa in s.
Maria Maggiore e poi al banchetto papale nel palazzo lateranense; il lunedì di
Pasqua presenziò alla messa in S. Pietro, dove gli furono cantate le laudes
regiae; il martedì nuovo incontro in s. Paolo fuori le mura).
·
Quali le
conseguenze politiche? Furono tratte il mercoledì di Pasqua in un incontro che
si tenne in S. Pietro: su proposta di papa Adriano, Carlo rinnovò la promessa
di Quierzy (Negli anni successivi Carlo si
presentò a Roma altre due volte: per la Pasqua 781; nell'inverno 786 e
primavera 787: non sappiamo se celebrò il Natale a Roma, senz'altro fu presente
per la Pasqua. Tali visite significarono per la sede apostolica l'acquisizione
di qualche nuova località, ma non si arrivò mai a concederle un territorio
esteso quanto la promessa di Quierzy aveva fatto sperare al papato).
c) La
configurazione giuridica del Patrimonium Sancti Petri sotto papa Adriano.
Papa Adriano I, come abbiamo detto, nel
cerimoniale con cui ricevette Carlo nel 774 mostrò di pensare il Patrimonium
come un'entità territoriale ampiamente autonoma
non solo nei confronti dei Bizantini, ma anche nei confronti dei Franchi. Tale
orientamento trovò espressione concreta intorno agli anni 781 e 782, quando
papa Adriano smise di datare i documenti secondo gli anni di governo degli
imperatori di Bisanzio; ma, si noti, non vi sostituì gli anni di governo di
Carlo, introdusse invece i suoi propri anni di pontificato. Allo stesso modo
cominciò a fare coniare monete argentee, ma non vi impresse né il nome e l'effigie
imperiale, né il nome e l'effigie di Carlo, ma il suo proprio nome e la sua
propria effigie. In queste iniziative é legittimo scorgere sia la volontà di
una totale libertà nei confronti dell'impero, sia la volontà di non lasciarsi
soggiogare dalla sovranità franca: abbiamo dunque un passo importante versa
l'idea di una signoria papale, indipendente da ogni sovranità terrena. E qui ci
pare di rilevare una notevole consonanza tra la politica di Adriano e le tesi
espresse dal Constitutum Constantini.
Nel Constitutum Constantini si possono distinguere
tre parti:
1.
Costantino
annuncia la sua propria conversione e propone la sua propria professione di
fede: il falsificatore con una certa libertà si serve di materiale
preesistente.
2.
Viene
presentata la storia della conversione di Costantino. L'imperatore, colpito
dalla lebbra, si presentò ai sacerdoti pagani per essere purificato. Costoro
gli suggerirono di fare un bagno nel sangue di un bambino. Di fronte alle
lacrime della madre del bambino prescelto, Costantino rinunciò all'attuazione
del suggerimento dei sacerdoti pagani. Quella notte ebbe un sogno: due
personaggi sconosciuti lo elogiarono per la decisione presa e lo invitarono a
recarsi sul monte Soratte, dove avrebbe trovato nascosto in un monastero papa Silvestro.
Ed infatti sul Soratte Costantino incontrò il papa, che gli svelò l'identità
dei due personaggi misteriosi sognati: si trattava di s. Pietro e di s. Paolo.
Presto l'imperatore si decise ad abbracciare la fede cristiana e mentre
riceveva il battesimo, si trovò mondato dalla lebbra. Anche per questo racconto
il falsificatore poté disporre di una fonte precedente, i "Gesta papae
Silvestri", leggenda
composta a Roma nel secolo V.
3.
Contiene le
concessioni e donazioni fatte da Costantino a papa Silvestro: dapprima si
afferma che Roma gode di una potestà, di una dignità, di un vigore e di un
onore tali da imporsi su tutti gli altri patriarcati. In secondo luogo si fa dono
al papa delle basiliche di s.
Giovanni in Laterano, s. Pietro e s. Paolo (le basiliche costantiniane). In
terzo luogo dota tali chiese di patrimoni, che comprendono l'Italia e un po'
tutto l'Occidente. Costantino afferma di trasferire la propria sede a Costantinopoli,
perché ritiene che non sia giusto che l'imperatore terreno abbia potere dove risiede
la suprema autorità, stabilita dall'imperatore celeste. Infine vengono concessi
al papa gli onori imperiali: residenza nel palazzo imperiale del Laterano, diadema
(poi sostituito da Silvestro per umiltà con la mitra) manto purpureo, diritto
al corteo imperiale, diritto a godere dell'officium stratoris; al clero romano
vengono attribuiti gli onori senatoriali.
Come si sa, il Constitutum Constantini
rappresenta una delle questioni più dibattute in sede di critica
storico-letteraria.
Tutti
convengono nel ritenerla una falsificazione (in realtà durante l'Alto Medioevo
il Constitutum Constantini non fu mai utilizzato come documento, che fondasse
particolari pretese e diritti: si conosce un tentativo di parte pontificia per
ottenere da Ottone III (inizi XI secolo) certe donazioni, l'imperatore però
affermò di concedere tali donazioni per sua sola benignità, non riconoscendo al
Constitutum Constantini alcun valore. La cosa non deve sorprendere: il Constitutum
Constantini per la sua lunghezza rivelava immediatamente di non potere risalire
ad un tempo, in cui si usava come materiale scrittorio il papiro, perché ne
sarebbe risultato un rotolo eccessivo per le sue dimensioni).
Si sono
create invece diverse divergenze, quando si è cercato di stabilire dove, quando
e perché si sia operata siffatta falsificazione.
Schematizzando e semplificando, ricordo qui solo le due tesi più importanti.
A partire
dal fatto che i codici più antichi del Constitutum Constantini sono stati
trovati in Francia, si é sostenuto che il luogo della falsificazione dovrebbe
essere cercato in Francia, e più precisamente alla corte carolingia. Da questa
osservazione dipende la determinazione sia del quando, sia del perché. La
falsificazione sarebbe stata opera alla corte carolingia per giustificare
l'incoronazione imperiale del Natale 800; la data, della falsificazione
risalirebbe quindi ai primi decenni del secolo IX.
Studi
recenti, in particolare del Fuhrmann (H. FUHIMANN, Konstantinische Schenkung und Silvesterlegende in neuer Sicht : Deutsches Archiv für Erforschung
des Mittelalters 15(1959) 523-540; idem, Konstantinische Schenkung und
abendländisches Kaisertum : ibid.
22(1966), 63-178), hanno mostrato che i codici rinvenuti in Francia lasciano
trasparire l'esistenza di un originale, confezionato negli ambienti romani.
L'ambiente della falsificazione sarebbe pertanto la cancelleria pontificia, lo
scopo della falsificazione sarebbe da ricercarsi negli interessi della Sede
Apostolica, in particolare nella sua volontà di autonomia sia nei confronti dei
Bizantini, sia nei confronti dei Franchi; la data della falsificazione sarebbe
da collocarsi negli anni che intercorrono tra il 756 (seconda pace di Pavia) ed
il 795 (morte di papa Adriano).
Noi
riteniamo che si debba preferire quella ipotesi, che meglio riesce a collocare
il Constitutum Constantini in un periodo e in un contesto, dove dominino le
stesse idee che il Constitutum Constantini esprime. Perciò propendiamo per una
collocazione del Constitutum Constantini nella seconda parte del secolo VIII.
Domandiamoci:
qual é l'intento che soggiace ad una falsificazione? Affermare nuovi diritti?
No di certo! In tal caso infatti il documento rivelerebbe subito la sua natura
di falso, offrendo una situazione giuridica nettamente diversa dalla situazione
di fatto. L'intento di una falsificazione in genere é quello di dare
legittimazione documentaria a usi e situazioni già in atto, ma prive di
fondazione documentaria.
Ora si
consideri il fatto che il Constitutum Constantini parla di officium stratoris:
si dovrebbe dunque trattare non dell'affermazione di un uso nuovo, ma della codificazione
documentaria di un uso già in atto: avremmo qui dunque un elemento che ci
consente di dire che il terminus a quo non può essere prima del 754, quando per
la prima volta Pipino prestò l'officum stratoris al papa.
Ancora
si consideri il fatto che il Constitutum Constantini parla di dominio su Roma e
sulla provincia occidentale, parla di onori imperiali da ascriversi al papa: ebbene
é con Stefano II che i papi cominciano ad assumere in maniera consistente
l'amministrazione autonoma di parte della provincia occidentale dell'impero di
allora, provincia occidentale che si riduceva appunto all'Italia Bizantina.
L'autore
del Constitutum Constantini vorrebbe dunque dare base documentaria alla
situazione conseguente gli avvenimenti del 756. Quanto agli onori imperiali:
vanno collocati in un contesto, che vede l'accentuazione dell'idea di un
dominio sovrano del papa: e sotto questo profilo il momento privilegiato
dovrebbe essere rappresentato dal pontificato di papa Adriano. Lo scopo del
documento dovrebbe essere questo: dare un fondamento documentario alla
autonomia papale sia nei confronti dell'imperatore bizantino, sia nei confronti
dei Franchi, che nel loro intervenire in Italia devono badare al fatto che
hanno a che fare con un papa, che é una sorta di imperatore! (Una presentazione
sintetica della questione é offerta da Y. M.-J. CONGAR, L'ecclésiologie du
Haut Moyen Age. De Saint Grégoire le Grand à la désunion entre Byzance et Rome,
Paris 1968,198-200, nn. 10 - 15. Il terminus ad quem non può essere dopo l'850,
data della compilazione delle false decretali dello Pseudo-Isidoro, dove il Constitutum
Constantini viene citato!).
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