IL MONACHESIMO
NELL’ALTO MEDIOEVO
1 – La decadenza
Anche
il monachesimo appartiene al secolo X, il cosiddetto secolo di ferro, come un
elemento di decadenza. Tale decadenza fu favorita da due fattori:
un fattore esterno: rappresentato dalle invasioni dei Normanni,
Saraceni, Ungari, che saccheggiarono e distrussero monasteri, costrinsero
monaci alla fuga o addirittura li uccisero;
un fattore strutturale: rappresentato
dall'inserimento della istituzione monastica nel sistema giuridico-tedesco con
le sue relazioni di dipendenza. Come si sa, il diritto germanico era un diritto
realista: poneva come fondamento la res, la proprietà. Tutto il resto era
funzionale alla proprietà, doveva infatti servire per il mantenimento e lo
sviluppo della proprietà. Se si applicava ciò alla istituzione monastica, ne
conseguiva che passava in secondo piano il proprium del monachesimo: il soli
Deo vivere, anzi il proprium del monachesimo veniva condizionato ed addirittura
compromesso da ciò che più contava secondo il diritto germanico: la res, la
proprietà: siamo al trionfo dell'istituzione, della struttura sullo spirito.
Si tratta ora di vedere come il
monachesimo venne a trovarsi coinvolto in tale ordine di cose, quali limitazioni
vi derivarono.
Alla
base del coinvolgimento del monachesimo nel sistema giuridico germanico stava
il diritto di fondazione: un monastero trovava stabilizzazione in un posto, su
un fondo terriero, entro certe strutture grazie all'intervento di un
proprietario terriero, che "donava" al santo tutte queste cose. Ma il
termine "donazione" va inteso
bene: non indicava quasi mai cessione di proprietà: colui che donava, solitamente
conservava la proprietà del suolo e di tutto ciò che veniva a connettersi con
tale suolo, cioè la basilica, il monastero, le decime, le oblazioni, le chiese
parrocchiali o le cappelle affidate a tale monastero, i fondi terrieri,
ecc.ecc. Per i monaci il dono non comportava il diritto di proprietà, ma semplicemente
il compito di garantire lo sfruttamento della proprietà attraverso l'esercizio della
vita monastica di preghiera e di lavoro. Quindi per i monaci la donatio
significava subiectio. Fondatori di monasteri furono non solo i proprietari
terrieri ma anche i re merovingi e qualche vescovo: si svilupparono così tre
tipi di abbazie: quelle padronali, quelle regie e quelle episcopali; a
proposito di queste ultime si noti che il vescovo esercitava su di esse non solo il diritto di giurisdizione
ecclesiastica, che la legislazione della Chiesa gli attribuiva, ma anche il
diritto di proprietà.
Durante
la decadenza merovingia divennero sempre più rare la abbazie concepite secondo
il diritto romano, soggette cioè all’esclusivo potere dell’abate, si
moltiplicarono invece le abbazie padronali. La ragione fondamentale di questa
proliferazione va ricercata nel fatto che i re merovingi concedevano alle loro
abbazie il privilegio di immunità, che comportava fra l’altro la proibizione di ingresso
nel territorio monastico da parte degli impiegati civili, la proibizione di
raccogliervi tributi e di esercitarvi l’autorità pubblica. Come si vede, il privilegio di immunità da una parte garantiva al fondatore
l'intangibilità dei suoi territori e delle rendite "donate" al
monastero, dall'altra concedeva al fondatore notevole libertà d'azione nella
sua abbazia.
I vantaggi, che il privilegio
di immunità veniva ad aggiungere al diritto di fondazione, determinarono
durante il periodo della decadenza merovingia una notevole proliferazione di
abbazie padronali. Diversi proprietari terrieri si sentirono infatti stimolati
a fondare nuove abbazie; altri con la forza imposero il proprio dominio o le propria
protezione su qualche abbazia libera o episcopale; altri ancora ricevettero
l'abbazia dai monaci stessi, che cercavano tuitio contro qualche grande meno
gradito o contro gli invasori; altri infine dai re merovingi furono dotati di
abbazie regie, come ricompensa o come richiesta di sostegno.
Per tale via il
monachesimo si trovò coinvolto nel processo di disgregazione particolaristica,
divenendo con le sue abbazie un elemento importante del peso politico dei
grandi.
2 – La
riforma carolingia
L’avvento del forte
potere carolingio segnò un’inversione di tendenza, in quanto si impose l’esigenza
dell'unità.
Tale unità fu perseguita
mediante la riforma della vita monastica, che ebbe la sua massima espressione nel
capitolare di Aquisgrana dell’anno 817, che fu opera soprattutto di Benedetto
di Aniane. Negli 83 capitoli del capitolare (MGH, Conc. II, 464-465; Capit.
343-352) si mirava ad istituire un'osservanza uniforme in tutti i monasteri dell’impero
franco, perciò vi si prescrisse per tutti i monaci la sola regola benedettina
secondo le consuetudini di Bendetto di Aniane, affidando allo stesso Benedetto
di Aniane il compito di ispezione sui monasteri dell'impero. Come si vede
Aquisgrana scelse la via dell'unanimitas consuetudinis e non la via
dell'unificazione in una sola congregazione monastica benedettina.
Quanto ai contenuti, si
sottolineò come specifico della vita monastica la dedizione a Dio soprattutto
nella preghiera liturgica. Pertanto, come conseguenza, si affermò la necessità
del distacco dal mondo attraverso una rigorosa clausura ed uno stile di vita molto
ascetico, riaffermando la pratica del lavoro manuale, della povertà nel vitto,
nel vestire, nel possedere.
Evidentemente per
raggiungere questa unanimitas consuetudinis bisognava sottrarre i monasteri al
dominio particolaristico dei proprietari. La soluzione fu trovata da Ludovico
il Pio, che legò l’immunità monastica non più alla protezione o al dominium dei
signori terrieri, ma alla protezione regia. Le abbazie vennero così a cadere
sotto il potere del re, che poteva farvi valere un diritto di proprietà.
Ed i carolingi in forza della protezione
regia, che comportava un certo diritto di proprietà, ritennero di potere
incorporare le strutture monastiche nel loro sistema di potere.
La cosa ebbe varie conseguenze sulla vita monastica.
3 – Le
conseguenze della riforma carolingia
Una prima conseguenza: i carolingi, non
potendo disporre di un apparto burocratico capace di amministrare tutta
l’estensione del territorio, pensarono di sfruttare per l'amministrazione locale
anche il mondo monastico: gli abati vennero così investiti di diritti pubblici
di carattere giudiziario e finanziario (mercato, moneta, dogana)
Una
seconda conseguenza: i carolingi ritennero di dovere intervenire nella elezione
dell'abate in quanto questi veniva a trovarsi a capo di una res, che era
soggetta alla protezione regia e che godeva di alcuni privilegi rilevanti. La
cosa non suscitò reazioni nell'ambiente monastico, in quanto mancava una
procedura precisa di elezione dell'abate. Il cap. 64 della Regula Benedicti prevedeva
che elettori dell’abate fossero i monaci della comunità, e tale prassi per un
certo tempo fu la più diffusa; ma spesso era invalso anche l'uso che fosse il
vecchio abate ad eleggere il successore; talora invece i vescovi, avvalendosi
del potere di ordine e giurisdizione, che il concilio di Calcedonia riconosceva
loro anche in relazione ai monaci della loro diocesi, erano intervenuti per
imporre un loro abate, soprattutto nel caso che la comunità dei monaci non
fosse stata unanime nella scelta o
avesse commesso qualche irregolarità nella procedura elettiva o avesse scelto
un candidato non idoneo.
Anche
nel periodo di sviluppo delle abbazie padronali talora si era fatto ricorso a
modalità particolari di elezione, che vedevano la partecipazione sia della comunità,
sia del vescovo, sia del signore col prevalere di caso in caso dell'una o
dell'altra parte.
I
carolingi intervennero nell'elezione in vari modi: o designando il candidato,
oppure concedendo alla comunità o di volta in volta o anche per sempre di
eleggere il proprio abate, riservandosi la conferma dell’eletto.
L’intervento
dei carolingi spesso era dettato da interessi politici più che da motivazioni religiose:
così, per ricompensare questo laico, o quel chierico si giunse alla elezione di
abati non-monaci, i cosiddetti abati secolari (del resto questi abati proprio
perché secolari, potevano rendere dei servizi, che un abate regolare non
sarebbe stato in grado di garantire: partecipare alle sedute di consiglio, alla
guerra, guidare milites). In teoria l’abate secolare avrebbe dovuto presiedere
a tutti gli aspetti della vita monastica, quelli spirituali e quelli temporali,
di fatto parecchi abati secolari si limitarono
alle sole cure temporali, affidando invece quelle spirituali a un preposto,
scelto fra i religiosi dai religiosi stessi. Gli abati secolari più coscienziosi giunsero a
fare eleggere dalla comunità un secondo abate per le cose spirituali,
assegnandogli per il suo ufficio una certa somma di beni.
Bisogna senz'altro dire
che questo intervento nell’elezione, sia che portasse alla creazione di un
abate secolare, sia che portasse alla nomina di una abate monaco, era quasi
sempre negativo, in quanto la scelta veniva per lo più compiuta secondo criteri
estrinseci alla vita monastica e quindi raramente la scelta cadeva su una
persona capace di guidare la comunità in senso spirituale. Va inoltre ricordato
che l’avidità degli abati secolari spesso riduceva i monaci ad estrema povertà,
spingendo parecchi monaci a cercare di che vivere fuori dal monastero, con
grave detrimento per la loro vita monastica.
Talora si volle ovviare
all’inconveniente, istituendo la mensa conventuale, cioè una parte prefissata
dei beni dell’abbazia veniva destinata alla comunità e veniva da questa stessa
amministrata.
Si ebbe inoltre un'altra conseguenza
negativa: l'abate secolare era spesso sposato o comunque non aveva impegno di
vita celibataria: pertanto con il suo seguito veniva ad introdurre nella vita
monastica presenze ed usanze estranee, che recavano notevole disturbo, spesso
poi gli stessi monaci vi aderivano, dedicandosi alla caccia, alle donne e ad altre
consuetudini secolari.
Una terza conseguenza: il
compito dell'abate, secondo l'ottica realista del diritto germanico, fu letto
spesso soprattutto in relazione alla proprietà e al suo inserimento nel sistema
carolingio, perciò si giunse da parte
dei carolingi a interpretare il compito dell'abate in termini di beneficium-vassallaggio.
L'eletto si presentava davanti al sovrano, si
inginocchiava, poneva le sue mani nelle mani del sovrano, compiva l’homagium,
cioè si professava homo del sovrano e gli giurava fedeltà.
Il sovrano, ricevuto l’atto di vassallaggio,
baciava il vassallo sulla bocca e poi gli concedeva il beneficium mediante l'investitura
con pastorale, cui al tempo di Enrico III si aggiunse anche l’anello. Come si
vede il beneficium comprendeva non solo i beni della abbazia, ma anche l’ufficio
spirituale, che, essendo considerato solo in funzione della res, finiva col
passare in secondo piano e con l’essere interpretato come un corollario della
res.
In sostanza, i rapporti tra signore e vassallo
erano quelli tra padre e figlio adottivo. Nascevano, per solito, con la
“commistione delle mani”, cerimonia che probabilmente simboleggiava la
mescolanza del sangue, che nei riti primitivi era ottenuta con una incisione delle
vene del polso dei due contraenti. Il vassallo si inginocchiava come un
inferiore e metteva le mani giunte entro le mani del signore; il signore, per
solito, lo baciava sulla bocca e lo rialzava come un consanguineo e un eguale.
Poi si svolgeva il patto, l’homagium (R.S. LOPEZ, La nascota dell’Europa.
Secoli V-XIV, Torino 1966, 180).
Il vassallo, ricevuta l'investitura, versava una
specie di tassa, detta relevium, xenium, venditio. Il legame durava, fino alla
morte dell’abate; a questo punto il pastorale e l'anello dovevano essere restituiti al sovrano, quale
simbolo del ritorno del beneficio alla sua fonte. Durante il periodo di vacanza
il sovrano godeva dello ius regaliae (usufrutto dei beni dell'abbazia). Alla
morte del vassallo il sovrano godeva anche dello ius spolii (diritto sopra i beni
mobili del defunto).
Per via della dipendenza
feudale, l'abate doveva prestare al signore il servitium, cioè frequentare la
corte, assicurare il mantenimento di milites, offrire ospitalità al sovrano e
al suo seguito, tutte incombenze che contrastavano con l’ideale monastico del
“soli Deo vivere” e che spesso comportavano prestazioni economiche tali da ridurre
alquanto l’entità di beni utilizzabili per la vita della comunità monastica.
Una quarta conseguenza: sempre nell' ottica
dell'abbazia proprietà dei re, parecchi beni delle abbazie furono secolarizzati
e destinati a fini temperali (ricompensare subalterni, accasare milites, costruire
fortificazioni).
Da
quanto detto si deve concludere che la riforma carolingia si rivelò molto
ambigua: da una parte voleva spingere al ricupero di uno spirito monastico
autentico ed unitario, dall'altra, inserendo il monachesimo nella struttura
feudale dello stato, lo sottoponeva a pesanti condizionamenti temporali.
4 – La riforma
monastica del X secolo – Premesse
Un’ultima
parola sullo sviluppo del monachesimo durante il periodo della decadenza
carolingia. Distinguiamo l’area franco-occidentale da quella franco-orientale, perché
in queste due zone il diritto tedesco, per via della diverse condizioni
politiche, fu applicato alla vita monastica in maniera diversa e quindi poi vi
si operarono due riforme diverse.
Sappiamo che nell’area franco-occidentale, con il
crollo dell’impero carolingio, venne a mancare una forte autorità monarchica:
pertanto si ridusse sempre più il numero delle abbazie tutelate dalla protezione
regia e tornò a svilupparsi il numero delle abbazie padronali. Questo sviluppo
da una parte espose maggiormente il monachesimo francese alle ingerenze laicali,
dall’altra acuì la consapevolezza di dovere addivenire ad una riforma
strutturale: il peso delle ingerenze
laiche fu tale da rendere sempre più viva nei monaci la necessità della
libertas monasterii. La monarchia dal canto suo non ostacolò questo moto, sia perché
esso avrebbe comportato l'indebolimento della nobiltà locale, che controllava
le abbazie padronali, sia perché la struttura monastica oramai non svolgeva più
un ruolo di appoggio così rilevante, come invece continuò ad avvenire in
Germania.
Qui, nell’area franco-orientale invece, anche
quando crollò l’impero carolingio, si ebbe una potente monarchia e pertanto questa
riuscì a garantire la protezione regia.
Anzi la dinastia ottoniana prima e quella salica
poi accentuarono l’inserimento delle abbazie nel sistema statale, concedendo
agli abati benefici sempre più ampi. Evidentemente questa azione mirava a
indebolire il potere della feudalità laica, che, per la sua insistente
aspirazione a rendere ereditario il feudo, rappresentava un notevole pericolo
per il potere monarchico stesso.
5 – La
riforma monastica nella zona franco-occidentale: Cluny
·
K. Hallinger, Gorze - Kluny. Studien zu den monastischen Lebensformen und Gegensätzen im
Hochmittelalter (= Studia Anselmiana 22-25) 2
voll., Roma 1950-1951;
·
K. Hallinger, s.v. Cluny : Enciclopedia
Cattolica III (1949), 1883-1893
·
E.
SACKUR, Die Clunlacenser in ibrer
kirchlichen und allgemeingeschichtlichen Wirksamkeit bis zur Mitte des 11 Jh,
Halle 1892-1894 (ristampa Darmstadt 1965)
·
E. Werner, Die gesellschaftlichen Grundlagen der
Klosterreform im 11. Jahrhundert, Berlin 1953
·
Il monachesimo
nell’alto medioevo e la formazione della civiltà occidentale : Settimana di studi del Centro Italiano di studi sull’alto Medioevo,
4, Spoleto 1957
·
Spiritualità
cluniacense (= Convegno del centro di studi sulla spiritualità medievale,
2), Todi 1960
·
Cluny: Beiträge zu Gestalt und Wirkung der cluniazensischen
Reform (= Wege
der Forschung, CCXLI, hrsg. H. Richter, Darmstadt 1975
La fondazione di Cluny
è frutto dell’incontro e della collaborazione tra un laico, proprietario
terriero, e un monaco abate. Il laico è Guglielmo il Pio, che era conte
d’Alvernia e duca di Aquitania: Cluny faceva parte della sua proprietà
terriera. Il monaco è Bernone, che era abate di Gigny e Baume, i due monasteri
più ferventi della Francia. A causa dell’afflusso rilevante di vocazioni questi
due centri divennero angusti. Bernone allora si mise alla ricerca di uno spazio
adeguato e si rivolse al proprietario di Cluny. Questi aderì alla richiesta e
così l’11 settembre del 910 venne fondato il monastero di Cluny.
Nell’atto di fondazione
furono posti tre elementi di notevole importanza.
1)
Si fece donazione della proprietà ai santi apostoli Pietro e
Paolo. Si pose la condizione che nel monastero vivesse una comunità zelante,
che seguisse la regola di san Benedetto e che ogni 5 anni versasse a Roma un
tributo di 10 soldi.
2)
Fu esclusa ogni soggezione a potestà terrena ed ecclesiastica.
3)
Si stabilì che l’elezione dell’abate da parte della comunità
avvenisse in maniera assolutamente libera.
Si manifesta quindi in
maniera molto chiara il tema della libertas monasterii, che si poneva in
evidente contrasto con l’intento di coesione perseguito dalla riforma
carolingia.
Stupisce che si scelga
di fare donazione a Roma in un’epoca, il secolo di ferro, in cui i papi notoriamente
non brillavano per l’integrità della loro vita personale: ma questo mostra
quanto la devozione ai santi Pietro e Paolo fosse radicata nella spiritualità
franca.
Al tempo dell’abate
Bernone l’apprezzamento per il gruppo delle sue tre abbazie (Gigny, Baume,
Cluny) fu tale che altri tre monasteri scelsero di legarsi alla persona del loro
abate: Déols, Massay, Ethice.
Nel 926 l’abate
Bernone, sentendo molto avanzata la sua età, decise di lasciare la sua carica
di abate. E’ interessante la scelta che fece, avvalendosi del diritto di
libertà della elezione dell’abate sancito dalla fondazione: non seguì la regola
di san Benedetto, che stabiliva che il nuovo abate venisse scelto dalla
comunità dei monaci, ma si comportò come un proprietario laico e lasciò a due
eredi le 6 abbazie. A Guido, suo parente, lasciò Gigny, Baume, Ethice; al
discepolo Oddone invece lasciò Cluny, Déols, Massay.
Questo passaggio voluto
da Bernone era denso di conseguenze.
Prima di tutto per il
sistema di Cluny divenne norma che l’elezione del nuovo abate fosse fatta
dall’abate uscente e così fu posta una forte garanzia di continuità
In secondo luogo la
scelta della spartizione mostra che siamo ancora lontani dall’idea di una
congregazione. In terzo luogo però anche la scelta di Bernone afferma la
volontà di superare il vecchio sistema benedettino, che sanciva l’autonomia
delle singole abbazie. Infatti, ai due abati Bernone chiese l’unanimitas di
osservanza rispetto alle consuetudini di Baume. Con questa indicazione Bernone
si collocava solo parzialmente in linea con l’abate imperiale, Benedetto di
Aniane, che secondo il programma carolingio di unificazione dell’Occidente,
aveva tentato di costruire un monachesimo unitario. Ma l’unitarietà prospettata
da Benedetto di Aniane non si poneva a livello istituzionale, bensì a livello
spirituale: le abbazie rimanevano a sé stanti, ma dovevano attenersi ad una
comune osservanza, secondo le disposizioni del Capitolare di Aquisgrana
dell’816-817. In Bernone invece c’era la volontà di andare oltre la sola
unanimitas spirituale, introducendo una certa unanimitas anche istituzionale: i
due abati dovevano reggere le loro comunità in accordo.
Oddone fu abate per 16
anni, dal 926 al 942. Con lui il monachesimo fu chiamato a perseguire non solo
l’ideale della fuga dal mondo ma anche l’ideale della conquista del mondo,
soprattutto quello monastico: conquista alla vita cluniacense. Infatti, Oddone
estese le consuetudini di Cluny oltre l’Aquitania, oltre la Borgogna, toccando
anche l’Italia.
A livello istituzionale
nel periodo di Oddone si ebbe un consolidamento non solo dell’immunità del suo
monastero di Cluny, grazie a un Privilegio concesso da papa Giovanni XI nel
931, si ebbe anche un consolidamento sul versante delle relazioni tra le varie
abazie. Gran parte delle abazie, che erano legate a Cluny per il fatto che ne
avevano in comune l’abate e le consuetudini, furono chiamate a stabilire anche
alcuni legami organici permanenti. Se ne imposero di due tipi. Il legame come
cellae, i cui priori erano nominati dall’abate di Cluny. Il legame come abazie,
che dovevano dipendere permanentemente dall’abate di Cluny.
A Oddone nel 942
successe Aimardo, che governò per 12 anni (942-954). Si ebbe poi un dato di
notevole portata per la vita del sistema cluniacense: in un tempo di 155 anni
si ebbero solo 3 abati e tutti e tre di notevole valore. Questo dato assicurò
una continuità ad alto livello.
·
Maiolo, 954 - 994, 40 anni:
·
Odilone, 994 – 1049, 55 anni;
·
Ugo, 1049 – 1109, 60 anni.
In questo periodo Cluny
si estese notevolmente in Italia, Spagna, Lorena e Germania dove vigeva il
monachesimo imperiale, Inghilterra.
Sulla radice
cluniacense si svilupparono due importanti linee monastiche autonome:
·
la linea di Fleury-sur-Loire con l’abate Abbone, che si
distanziò da Cluny con la scelta di dare maggiore spazio allo studio;
·
la linea di Saint-Bénigne de Dijon con l’abate Guglielmo da
Volpiano, che si distanziò da Cluny per la severità della sua ultraregula.
6 – Valutazione del fenomeno cluniacense
Per coglierne
l’originalità, seguiremo una duplice prospettiva:
·
considereremo Cluny in relazione con la vita monastica nel suo
evolversi;
·
e poi considereremo Cluny in ordine alla realtà ecclesiale del
suo tempo.
In
relazione alla vita monastica nel suo evolversi
Cluny rappresentò un
fatto particolare rispetto al monachesimo antico per via di queste 4
particolarità.
1)
L’ESENZIONE:
Il canone 4° del
concilio di Calcedonia (451) aveva stabilito che tutte le comunità monastiche
dovevano sottostare al vescovo diocesano, che aveva il diritto di sorvegliare e
ordinare. Forti di questo loro diritto, i vescovi si spinsero a sottoporre i
monaci ad uno sfruttamento pastorale eccessivo. I sinodi di Cartagine del 525 e
del 534 tentarono di porvi un freno, sia richiamando che i monaci non devono
essere usati per servizi, che spettavano al clero, sia precisando che i vescovi
nell’esercitare la loro azione di vigilanza non dovevano invadere l’ambito
proprio dell’abate, sia infine precisando che i vescovi dovevano esercitare il
loro diritto di ordine solo su proposta dell’autorità monastica.
San Benedetto tenne una
posizione di equilibrio tra i due estremi: da una parte affermò l’autonomia del
settore monastico, dall’altra riconobbe il dovere del ricorso al vescovo
locale.
Papa Nicolò I,
nell’867, stabilì i chiari confini: il vescovo ha diritto di ordinazione e di
vigilanza disciplinare, l’abate gode di libertà di conduzione della vita
monastica nel suo monastero e la sua elezione deve essere libera.
A partire dal VII
secolo il monachesimo fu chiamato a fare i conti con tre fattori, che lo
condizionarono parecchio.
Primo fattore: la mentalità feudale,
che fu assimilata dai vescovi, spingendoli a trasformare il loro diritto di
sorveglianza e di ordine in una signoria feudale e quindi in diritto di
proprietà. Il monachesimo da un lato subì questa mutazione, dall’altra dal suo
ideale riceveva una profonda ragione spirituale per cercare ed esprimere una
reazione.
Secondo fattore: la tensione
escatologica tipica dell’ideale monastico infatti induceva il monachesimo a una
posizione critica verso l’assolutizzazione della res, della proprietà, che caratterizzava
il sistema feudale. La tensione escatologica pertanto portava il monachesimo a
relativizzare la logica del possesso dei beni materiali per anticipare il nuovo
Eone.
Terzo fattore: l’influenza dei
monaci iro-scozzesi, che con la loro peregrinatio da una terra all’altra, erano
efficace attuazione dell’idea dell’indipendenza dal possesso e dalla terra e
proposta di anticipazione di quel tempo, in cui i popoli di tutti i tempi e di
tutti gli spazi saranno un solo popolo.
Dunque il monachesimo visse
l’assalto feudale della logica del possesso, coltivando in sé il desiderio di
limitare questo assalto, affermando la sua autonomia. Il monachesimo fece
ricorso a tre vie.
Prima via: Benedetto di Aniane
ritenne di trovare rimedio nella protezione statale, ma in Francia molto presto
si verificò un indebolimento del potere monarchico e quindi un ritorno delle
pretese della nobiltà terriera. Diversa invece fu la situazione, che
caratterizzò il territorio franco-orientale.
Seconda via: la protezione papale,
fu appunto la via intrapresa da Cluny nel suo atto di fondazione del 910, ricorrendo
alla donazione ai santi Pietro e Paolo, segno dell’esigenza della libertas
monasterii da contrapporre alle degenerazioni particolaristiche del
feudalesimo. La protezione papale così intesa e praticata assicurava al
monastero la proprietà ma lo lasciava esposto al diritto di sorveglianza e di
ordine del vescovo.
Terza via: l’azione effettiva
per liberarsi da questa autorità del vescovo. Questa azione fu messa in campo dall’abate
Abbone di Fleury in occasione della vertenza contro il vescovo Arnoul di Reims,
accusato di fellonia dal re. Fu riunito un concilio; a difesa dell’accusato si
fece ricorso a questo argomento: trattandosi di causa maggiore la competenza
non spettava al sinodo episcopale ma spettava alla Sede Apostolica. Abbone si
schierò con la difesa e così cadde in disgrazia del suo vescovo, Arnoul
d’Orléans, che riconosceva la competenza del sinodo episcopale. A questo punto
per Abbone divenne necessario trovare un modo per difendersi e liberarsi dalla
giurisdizione del suo vescovo. Cercò, soprattutto in san Gregorio Magno, testi
sulle libertà monastiche. Con questi testi poi si recò a Roma e dal papa
ottenne un privilegio, che sottraeva Fleury dal potere coercitivo del vescovo
(997). Il privilegio papale stabiliva che in caso di conflitto tra vescovo e
abate di Fleury l’unica sede di giudizio competente era Roma. In tal modo anche
le cause con l’abate di Fleury diventavano causa maior.
Nel 998 o 999 Gregorio
V estese il privilegio anche a Cluny, allargandolo: esenzione non solo dal
potere coercitivo del vescovo ma anche esenzione dal suo potere di ordine.
Ovviamente questi privilegi furono affermazione del primato universale del
papa, che non poteva essere limitato dalle competenze territoriali dei vescovi.
Ulteriore allargamento
del privilegio di Cluny fu introdotta nel settembre del 1016 da papa Benedetto
VIII, che estese la difesa anche ai possedimenti del monastero. Nel 1024 papa
Giovanni XIX volle estendere il privilegio a tutti i monasteri e a tutti i
monaci legati a Cluny “ubicumque positi” in quanto figli della Santa Sede:
l’unica sede competente a giudicare le cause, che li riguardavano, era la sede
romana.
Questa realtà giuridica
dell’esenzione fu uno sviluppo nuovo nella vita monastica. Non fu affatto un
provvedimento antiepiscolista: l’intervento del primato papale non era dettato
dall’intento di contrastare l’episcopato: né l’episcopato in sé né l’episcopato
laicizzato di quei tempi; l’intervento del primato papale era dettato prima di
tutto dalla preoccupazione di salvaguardare un elemento essenziale della vita
monastica, che è appunto la separazione dal mondo: la libertas monasterii ne è
conditio necessaria.
Con questo privilegio
dell’esenzione il primato papale da un lato legò alla sua causa un organismo
potente e dall’altro pose sotto la sua diretta dipendenza e giurisdizione un
organismo vigoroso. Tuttavia questo legame ad una autorità superiore lontana
talora degenerò in abusi, perciò all’inizio del XII secolo il gran san Bernardo
espresse perplessità nei confronti di questa pratica dell’esenzione.
2)
LA CENTRALIZZAZIONE
Come abbiamo
detto, molto presto nell’area cluniacense si fece viva la tendenza a superare
sia il sistema dell’autonomia tipico del monachesimo antico sia il sistema
dell’unanimitas, che fu proposto da Benedetto di Aniane: questa unanimitas però
non era di tipo giurisdizionale, dal momento che si limitava a chiedere alle
varie abbazie di condividere tutte la stessa osservanza e di stare sottoposte
alla sua personale sorveglianza. Cluny introdusse legami nuovi anche di tipo
istituzionale, legami che però non erano ancora tali da consentire lo
strutturarsi di una congregazione.
L’esigenza di
creare una congregazione, con un’autorità centrale, si impose più tardi, quando
i privilegi papali di esenzione sganciarono Cluny e le case connesse
dall’organizzazione diocesana: ciò che non poteva più essere fatto dal vescovo,
doveva essere fatto da qualcun altro. Venne così a crearsi una nuova gerarchia,
la gerarchia monastica, dipendente direttamente dal papa. Pertanto è solo a
partire dagli anni 1024-1027 che si può parlare di ordine cluniacense. Questa
intuizione nuova di Cluny con sfumature diverse sarà seguita anche dai nuovi
ordini monastici.
Al vertice
dell’organizzazione centralizzata c’era l’abbas abbatum, l’abate dell’abbazia
madre di Cluny. All’abbazia di Cluny e al suo abate diversi signori feudali
affidarono le loro abbazie o per un tempo determinato (ad correctionem) o in
maniera definitiva. In questo caso alla “traditio” dell’abbazia faceva seguito
la “subiectio”, cioè l’accoglienza dell’abbazia come centro secondario. La
preferenza di Cluny era per la forma traditio-subiectio perennis, ma non sempre
fu possibile. In questi casi Cluny cercava di ottenere dal signore feudale in
maniera perenne il diritto di ordinazione, perché era la via per imporre e
conservare le sue proprie consuetudini.
L’abate o il
priore, che veniva preposto alle comunità dipendenti doveva porre le sue mani
nelle mani dell’abate di Cluny, come un vassallo con il signore feudale: si
affermava così chiaramente la relazione di dipendenza delle comunità secondarie
alla comunità principale: si affermava anche la struttura piramidale
dell’ordine, che aveva al suo vertice il papa (Cluny era monastero proprio del
papa).
Dalla fine del
secolo XI si introdusse questa usanza: i monaci, dopo avere compiuto la
professione nella casa dipendente, si recavano a Cluny per ricevere lì la
consacrazione, che li rendeva pienamente monaci. Questa consacrazione ricevuta
a Cluny comportò il venir meno della stabilitas benedettina: un monaco non era
più stabilmente legato ad una casa, ma poteva essere trasferito da una sede
all’altra della congregazione, dal momento che la congregazione era come una
sola abbazia con un solo abate. L’abate di Cluny poi subentrava ai vescovi nel
diritto di visita e di sorveglianza, che veniva esercitato o personalmente o
mediante delegati.
Questa centralizzazione
fu un fenomeno profetico, in quanto l’organizzazione piramidale di Cluny
prefigurò quella che sarà l’organizzazione ecclesiastica dopo la riforma
gregoriana: il papa al vertice della piramide ecclesiale.
La
centralizzazione fu anche un fenomeno provvidenziale, in quanto liberò una
notevole quantità di monasteri dall’assalto del particolarismo feudale,
arrestando il processo di polverizzazione, al quale era stato sottoposto il
monachesimo in precedenza.
La
centralizzazione fu pure un fenomeno di grande efficienza, perché garantiva
all’interno continuità di tradizione e perché metteva nelle mani del papato uno
strumento di estensione europea.
La
centralizzazione ebbe anche i suoi limiti. Sacrificò la dimensione di famiglia
del monastero antico. Poi, come è tipico di ogni centralismo esasperato, venne
meno l’attenzione alle particolarità, alle legittime differenze e si impose una
uniformità monolitica. La riforma cistercense tenterà appunto di mitigare
questa centralizzazione, facendo spazio a strutture periferiche.
3)
LE NOVITA’ DI CONSUETUDINE
Secondo san Benedetto
la vita monastica comportava la presenza equilibrata di tre elementi: opus Dei,
silenzio, lavoro.
Cluny alterò
questo equilibrio, dando un rilevo massimo, unilaterale all’opus Dei. A
fondamento di questa scelta c’era l’esigenza di vivere una vita vere
apostolica. Noi poniamo l’accento sul termine apostolica e intendiamo
la funzione evangelizzatrice. Allora invece si poneva l’accento sul termine vita
e si rimandava allo stile di vita cristiana condotto dalla primitiva comunità
cristiana, secondo la descrizione che ci viene offerta da At 2, 42- 47, dove si
dà rilievo alla unanimitas e alla perduratio in templo. Questi due elementi poi
venivano ricondotti a At 1,14, dove della piccola comunità, riunita nel
Cenacolo in attesa del dono dello Spirito, si dice: “Hi omnes erant perseverantes unanimiter in oratione”. Ecco dunque
lo stile di vita monastica vere apostolica:
vita communis, che si configurava come orazione incessante, in tal modo veniva
vissuta la condizione per ricevere lo Spirito di santificazione.
A partire da
questa visione spirituale, Cluny dette uno sviluppo notevole all’opus Dei,
secondo l’ideale della “laus perennis”. Si fece ricorso quindi ad un aggravio
quantitativo del salterio (più di 138 salmi al giorno). Si praticò una cura
minuziosa delle cerimonie liturgiche, facendo anche ricorso ad uno sfarzo
liturgico esteriore (suppellettili, basilica imponente: fu l’edificio di culto
più vasto del mondo di allora).
In questo
contesto di laus perennis fu dato uno spazio significativo alla preghiera per i
defunti: fu appunto l’abate Odilone di Cluny a istituire la commemorazione dei
defunti del 2 novembre. Questa scelta assicurò a Cluny notevoli elargizioni da
parte dei nobili (in G. DUBY, L’arte e
la società medievale, Bari 1977, alle pagine 50, 72-74, si trovano
interessantissime considerazioni sulla concezione della preghiera dei monaci e
sul rapporto di questa preghiera con la realtà della morte).
Che dire di
questo sviluppo, che portò l’opus Dei da funzione centrale a funzione unica?
Questa
tendenza, che aveva avuto un iniziatore in san Benedetto di Aniane, alterò
notevolmente lo stile della vita monastica, che l’altro san Benedetto aveva
delineato. Questi, infatti, aveva posto un limite minimo, cioè non meno di 150
salmi settimanali, ed un limite massimo, che consisteva nel mantenere la
preghiera comunitaria sufficientemente breve da consentire la oratio secreta ed
il lavoro manuale.
Cluny, andando
oltre questi limiti, incorse proprio in quei difetti, che san Benedetto voleva
evitare. Primo grosso difetto: riduzione notevole dello spazio per la preghiera
in solitudine. La riduzione dello spazio della oratio secreta comportò la
riduzione della meditazione sui testi sacri (la lectio divina) e quindi la prevalenza
dell’esteriorità sull’interiorità. E quindi la ritualizzazione degenerò in
ritualismo rubricistico: la quantià danneggiò la qualità. In ciò Cluny fu
figlia del suo tempo, che si caratterizzava per una religiosità materialistica,
quasi magica, nella quale i diritti dell’interiorità erano quasi del tutto
misconosciuti e l’essenza della vita religiosa era ridotta alla pura
esteriorità dei riti e delle cerimonie.
Secondo
difetto: l’assorbimento totale nella preghiera determinò la scomparsa quasi
totale del lavoro manuale ed intellettuale nel suo significato di povertà di
vita, che si fonda non sulle rendite, come è per i ricchi, ma sul proprio
lavoro, come è per i poveri. La povertà fu pertanto trasformata in una
dimensione spirituale di vita cristiana e ciò portò ad accettare
l’arricchimento dell’ordine senza farsi grossi problemi.
In connessione
con questa trasformazione dell’ideale di povertà e con la ritualizzazione della
vita, si giunse ad un vestire più ricercato e più sfarzoso di quello che era
abituale per i monaci.
4 – I FRATELLI
CONVERSI
L’assorbimento
quasi totale del monaco nella preghiera liturgica portò a dare vita a una nuova
istituzione monastica, che si dedicasse al lavoro manuale: i fratelli conversi.
Nel monachesimo
antico “converso” era ogni monaco, in quanto la vita monastica era intesa come
modo di rispondere all’esigenza fondamentale di conversio.
Verso i secoli
IX e X il termine “conversus” passò ad indicare non più tutti i monaci, ma solo
una categoria particolare di monaci: le vocazioni adulte in contrapposizione
agli oblati e nutriti, cioè i monaci che fin da bambini erano stati donati al
santo patrono del monastero (spesso si trattava non di scelta squisitamente
religiosa, ma piuttosto di scelta di convenienza mirante ad assicurare ai
cadetti l’approvigionamento). Questi conversi spesso all’interno della comunità
monastica costituivano un gruppo inferiore. Infatti la decananza nella comunità
era determinata dagli anni di professione monastica e quindi gli oblati erano
avvantaggiati rispetto ai conversi. Spesso si dava anche il caso che i conversi
non godevano di preparazione spirituale e culturale, molti erano illitterati.
Quando invece eccezionalmente si davano conversi litterati, questi erano
preferenzialmente scelti per il ruolo di abate, perché dotati di più
esperienza: Oddone, Ugo di Cluny erano dei “conversi”.
Negli anni
settanta del secolo XI Guglielmo di Hirsau (monastero legato alla consuetudine
cluniacense) introdusse l’istituto dei fratelli conversi. In questo caso non
erano più delle vocazioni adulte ma pienamente inserite nella comunità dei
monaci, erano invece dei laici, che non sarebbero mai diventati monaci in senso
pieno. Dal momento che non avevano il dovere della preghiera corale, questi
fratelli conversi potevano dedicarsi al lavoro. A spingere in questa direzione
intervenne anche un altro dato: a partire dal VII secolo si verificò una forte
clericalizzazione del monachesimo e ai sacerdoti non si addiceva il lavoro
fisico.
Tuttavia
l’introduzione dei fratelli conversi ebbe anche importanti motivazioni
spirituali, precisamente la ripresa di due ideali evangelici: l’ideale
evangelico del “servire” i fratelli e l’ideale evangelico del valore meritorio
del servizio prestato in nome del Signore ai suoi apostoli, in questo caso i
monaci impegnati nella vita vere
apostolica della laus perennis (Mc 9,41; Mt 10,42).
In relazione alla
realtà ecclesiale del suo tempo
Cluny rappresentò
chiaramente una innovazione sia a livello di disciplina monastica sia a livello
costituzionale all’interno del monachesimo. Quali segni di novità recò invece
all’interno dell’intera compagine ecclesiale del suo tempo, strettamente
coinvolta nel sistema feudale?
Si può ritenere che
Cluny fu l’iniziatore della Riforma gregoriana? Alcuni lo hanno sostenuto, ma
occorre fare, in proposito, qualche precisazione.
In ordine alla Riforma
gregoriana senz’altro Cluny ebbe il merito di averle offerto il clima morale,
dando un notevole rilievo all’esigenza di superare le degenerazioni indotte dal
feudalesimo.
Ebbe anche il merito di
offrire alla causa della riforma personalità, che si erano formate nei suoi
ranghi. Umberto da Silvacandida, infatti, era stato monaco nel monastero di
Moyenmoutier, dove si seguiva la consuetudine di Guglielmo da Volpiano.
Gregorio VII fu educato a Roma in stretto legame con il movimento cluniacense;
Urbano II era stato priore di Cluny.
Spicca anche la figura
di Alinardo, che era stato monaco a Saint-Bénigne de Dijon, sotto l’opera
riformatrice del cluniacense Guglielmo da Volpiano: quando nel 1042 fu eletto
vescovo di Lione si rifiutò di prestare il giuramento all’imperatore Enrico
III.
Possiamo sostenere che
Cluny dall’esigenza di riforma morale si spinse anche sul fronte dell’esigenza
di riforma strutturale, istituzionale, perché non si sarebbe limitato a
contrastare la degenerazione morale, ma anche avrebbe preso di mira il sistema
feudale, che era la causa di tale degenerazione?
Va certamente
riconosciuto che Cluny non giunse ad avvertire il problema con questa chiarezza.
Cluny, pur volendo opporsi al particolarismo feudale con gli istituti della
immunità e dell’esenzione, non si sottrasse totalmente dalla logica e dai
metodi feudali. Infatti fece ricorso all’acquisto di chiese proprie, regolò la
relazione dell’abate di Cluny con i suoi subalterni secondo lo schema del
vassallaggio.
Tuttavia si deve
ammettere che nel cammino verso la riforma strutturale Cluny pose dei passi,
che saranno importanti.
Primo passo: con il
tema della libertas monasterii dette avvio ad un moto di idee, che culminerà
nel tema gregoriano della libertas ecclesiae.
Secondo passo: con la
scelta di ottenere la libertas monasterii, ricorrendo alla protezione di
Pietro, non solo difese il principio monastico del soli Deo vivere, ma anche
rilanciò il principio ecclesiastico della Roma-caput, principio che avrà un
influsso decisivo nel superamento del particolarismo feudale.
In questa considerazione
sulla relazione di Cluny con la realtà ecclesiale del suo tempo, vorrei fare
un’osservazione su una tesi esposta da E. WERNER, Die gesellschaftlichen Grundlagen der Klosterreform im 11.
Jahrhundert, Berlin 1953. Fondandosi sulla tesi marxista secondo la
quale gli aspetti religiosi sono sovrastrutture dipendenti dagli aspetti
economico-sociali, il Werner interpreta la riforma cluniacense come un
tentativo per neutralizzare i movimenti antifeudali del secolo XI. In questa
prospettiva lo splendore liturgico avrebbe svolto un’opera di alienazione: la
plebe, attratta da queste forme, sarebbe rimasta soggiogata al dominio feudale
e sarebbe sfuggita all’azione delle sette antifeudali. Inoltre la notevole
potenza economica di Cluny, associata con il fascino dello splendore delle
celebrazioni liturgiche, avrebbe svolto un’azione di freno sociale: avrebbe
infatti attratto i contadini, inducendoli a rimanere nel contado per sfruttarne
le zone incolte e devastate e quindi tenendoli lontani dai moti antifeudali
delle città. Secondo Werner proprio per questa azione antifeudale Cluny ottenne
la fiducia e l’appoggio dei nobili.
Come si vede, la tesi è
totalmente costruita sull’a priori marxista del ruolo primario degli elementi
economico-sociali nello sviluppo storico e della funzione alienante del
fenomeno religioso. La cosa sarebbe legittima se fosse usata come ipotesi da
verificare e giudicare sui fatti e sui dati, ma il Werner va oltre,
trasformando l’ipotesi in una tesi , alla quale piega i fatti e i dati. La
storia così diventa una narrazione a tesi.
7 – La riforma monastica nella zona franco-orientale
Il centro monastico,
che guidò questa riforma, fu Gorze, in Lotaringia.
Il 16 dicembre 933
Adalberone I, vescovo di Metz, affidò con obbligo feudale l’abbazia episcopale
di Gorze a un gruppo capeggiato da Ainoldo. Non si trattava di un gruppo di
monaci dell’abbazia di Gorze, ma di un gruppo di persone eterogenee, che erano
estranee alla vita monastica e però erano desiderose di condurre una vita
altamente ascetica. Ainoldo era stato arcidiacono a Toul, altri erano dei
chierici, altri dei monaci irlanesi vaganti, altri ancora dei reclusi solitari.
Questo gruppo
eterogeneo ritenne di realizzare la propria aspirazione, restaurando la vita
monastica secondo le consuetudini di san Benedetto di Aniane. La cosa fu
apprezzata dalla signoria feudale sia per ragioni religiose sia per ragioni
politiche, si trattava infatti di una riforma che si situava nel quadro del
monachesimo imperiale-feudale. (Si ricordi che in questa zona il potere regio
sufficientemente forte aveva impedito le degenerazioni del particolarismo
feudale: questo spiega come mai in questa zona il monachesimo riformato non si
pose il problema della libertas monasterii). La signoria feudale si impegnò
pertanto a favorire e diffondere questo moto di riforma avviatosi a Gorze, che
così venne a trovarsi all’origine di una
vasta rete di centri riformati.
Si noti che mentre
Cluny riformò in senso innovativo, Gorze riformò in senso di restaurazione,
ricuperando lo stile e le costituzioni di san Benedetto di Aniane. Gorze
pertanto si oppose decisamente alle innovazioni cluniacensi, considerandole
come qualcosa di sapore ereticale.
Ironia della sorte
volle che verso il 1015 l’abbazia di Gorze venisse affidata dal vescovo di Metz
a Guglielmo di Volpiano e così Gorze entrò nella sfera cluniacense.
L’introduzione degli usi cluniacensi però non comportò la totale scomparsa
degli usi propri di Gorze. Pertanto Gorze divenne una realtà monastica
particolare, che fu a capo di un nuovo movimento di riforma, detto movimento
dei giovani gorziani.
A questo punto si
ebbero due movimenti, che erano legati a Gorze: i vecchi gorziani e i giovani
gorziani.
Si formò anche un terzo
movimento, che aveva come suoi esponenti Riccardo di Saint-Vanne e Poppo von
Stablo: questo terzo movimento introdusse un’osservanza mista, che combinava
insieme usi di Cluny e usi di Gorze, però mai volle legarsi né all’uno né
all’altro.
Caratteristiche
di questa riforma lotaringia rispetto a Cluny
La riforma lotaringia
fu solo di tipo morale, a livello strutturale invece si mantenne pacificamente nell’ambito del
sistema feudale. Riferimento primario furono le consuetudini di san Benedetto
di Aniane e quindi si nutrì forte avversione
alle innovazioni di Cluny.
Quindi qui non si fece
ricorso alla esenzione, sia perché si trattava di una riforma promossa non
contro ma in connessione con il sistema feudale e sia perché questo monachesimo
conservava un forte legame con la tradizione evangelizzatrice del monachesimo
tedesco antico (si ricordi l’opera missionaria di san Bonifacio): un’opera
evangelizzatrice era possibile solo con il consenso del vescovo locale.
Questo legame, che fu
conservato con il clero locale, consentì al monachesimo riformato della
Lotaringia di esercitare sul clero un influsso maggiore di quello esercitato da
Cluny. Molti di questi monaci poi divennero vescovi. In Lorena pertanto si
formò un clima generale di riforma (monaci e clero), che anticipò e poi aiutò
validamente la riforma romana (da questo mondo vennero Bruno von Egisheim-Dagsburg, che poi divenne papa
Leone IX e Federico Gozzelon von Lothringen, che poi divenne papa
Stefano IX)
Sempre a differenza di
Cluny, questo monachesimo riformato lotaringio non praticò forme di
centralizzazione: in linea con lo spirito di san Benedetto di Aniane, ci si
limitava a perseguire solo l’unaninmitas, che consisteva nella una consuetudo e
nella confraternitas, cioè comunione di preghiera, soprattutto per i defunti.
Sempre a differenza di
Cluny, non si introdusse l’istituto dei fratelli conversi: lo spazio più
contenuto, che veniva dato all’opus Dei e al silenzio liberava spazio per il
lavoro, che in buona parte fu lavoro per lo studio e per la scuola: erano previste
una scuola interna per coloro che diventavano monaci e una scuola esterna per
coloro che sarebbero rimasti nel mondo.
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