IL CLERO INFERIORE NELL’ALTO MEDIOEVO
Testi di riferimento:
1. I molteplici manuali di Storia della
Chiesa
2. Alcuni manuali di storia del diritto
canonico:
a.
H.
E. FEINE, Kirchliche Rechtsgeschichte. Die Katholische Kirche, Köln 41964
b.
W.
M. PLÖCHL, Geschichte des Kirchenrechts, Wien 1953 – 1969
3. Uno studio sintetico di grande
valore: CH. DEREINE, s.v. Chanoines : Dictionnaire d’histoire et de
géographie ecclésiastique, XII (1953), cc. 353-405
4. In particolare per il clero rurale:
a.
P.
IMBART DE LA TOUR, Les paroisses rurales dans l’ancienne France du IVe au XIe
siècle, Paris 1900
b.
G.
FORCHIELLI, La pieve rurale. Ricerche sulla storia della costituzione della
Chiesa in Italia e particolarmente nel Veronese, Bologna 1938
c.
R.
BIGADOR, La iglesia propria en España, Roma 1933
d.
L.
NANNI, L’evoluzione storica della parrocchia : Scuola cattolica,
81 (1933), 475-544
Il clero inferiore urbano
A - Nei primi cinque secoli
Si sa che il cristianesimo primitivo aveva un carattere prevalentemente urbano: nelle città durante il secondo secolo, a mano a mano che l'episcopato si sviluppava in senso monarchico, si delineava sempre più chiaramente il gruppo particolare dei presbiteri.
La vita di questi
presbiteri presentò abbastanza presto due caratteristiche:
una prima caratteristica: il carattere collegiale
della funzione presbiterale: nei primi tre secoli i singoli presbiteri non avevano praticamente funzioni
particolari da svolgere: la vita liturgica e la conduzione della comunità erano
prerogativa esclusiva del vescovo e i presbiteri esistevano piuttosto come
collegio, come senato del vescovo.
La seconda caratteristica: ben presto in concili
ed in disposizioni papali venne a precisarsi una canonica regula, una
disciplina dei presbiteri.
Tale disciplina nel corso
del IV secolo assunse un chiaro orientamento verso la vita celibataria.
Il concilio di Elvira
(306 circa) - seguito poi dai concili di Cartagine, Toledo, Torino – stabilì la
vita verginale per il clero superiore (diaconi, presbiteri, vescovi). San Leone
Magno nel V secolo estese tale impegno anche ai suddiaconi.
Tale disciplina giunse
pure ad esigere da parte dei presbiteri un distacco dal saeculum, cioè proibizione
della vita di commercio, proibizione di dedicarsi all'amministrazione delle cose
temporali, proibizione di prendere parte ai divertimenti profani. Tale distacco
venne significato esteriormente nel corso del IV secolo da un abito particolare
e dalla tonsura.
Il carattere collegiale
della funzione presbiterale connesso con una disciplina improntata a distacco
dal mondo e vita verginale portò alla costituzione di quei monasteria
clericorum, che noi troviamo ad esempio presso Eusebio di Vercelli e Agostino
di Ippona.
Sotto questo profilo
possiamo dire che nella Chiesa primitiva la vita presbiterale assunse presto lo
stile canonicale, anche se tale termine fu coniato, solo in seguito.
B – Nell’epoca
merovingia (secoli VI – metà del secolo VIII)
Primo limite: una certa confusione tra vita
canonicale e vita monastica: ciò dipendeva non solo dal fatto che la disciplina
del clero urbano si avvicinava sempre più a quella dei monaci, ma anche dal
fatto che i monaci ebbero una evoluzione in senso clericale ed apostolico: si ricordino
le azioni missionarie del monaco Agostino in Inghilterra e del monaco Bonifacio
Germania (dunque prese piede la tendenza ad accantonare la distinzione delle
funzioni).
Secondo limite: una tendenza alla dispersione tra
il clero. Un primo fattore di dispersione era rappresentato dalla diffusione
del cristianesimo nelle zone rurali: il presbitero che si trovava preposto a
tali comunità rurali, finiva con l'essere isolato dal gruppo dei presbiteri
urbani che vivevano con il vescovo e ciò anche per il fenomeno delle chiese
private, di cui parleremo. Un secondo fattore di dispersione era rappresentato dall'anarchia
particolaristica, che investì il regno merovingio dopo il 639 e più in generale
dallo sconvolgimento che investì tutto l'Occidente per via delle migrazioni dei
popoli germanici.
Le strutture
ecclesiastiche si trovarono spesso depredate, private del vescovo, sfruttate da
laici avidi, ecc… ecc…. In queste condizioni divenne praticamente difficile
condurre la vita comunitaria e diversi presbiteri si trovarono costretti a
vagare per reperire di che sostentarsi.
E’ in questo
contesto che nel corso del VI secolo venne coniato il termine canonicus, che
assunse di volta in volta sfumature particolari:
-
clerici canonici, perché erano iscritti nel canone, nella lista
ufficiale dei chierici del vescovo: il termine canonicus in questo caso
indicava tutti i chierici urbani, in contrapposizione ai chierici vagi ed ai
chierici delle chiese private di campagna.
-
- - Clerici canonici, perché praticavano la regula canonica: cioè
vita comunitaria, regolata da canones e caratterizzata dalla recita
dell’officium canonicum nelle ore canoniche. In questo senso il termine
“canonicus” aveva un’accezione più ampia, perché indicava tutti quei
chierici che conducevano un certo stile
di vita: potevano essere i chierici urbani che vivevano col vescovo e costituivano
il capitulum della cattedrale (capitulum perché si leggeva quotidianamente un
capitolo della regula canonica); canonici potevano essere anche quei chierici
urbani, che pur essendo iscritti nelle liste del vescovo, non vivevano con lui,
ma formavano un collegium presso un’altra chiesa della città (questo ovviamente
nelle città più grandi) e tale chiesa prendeva il nome di collegiata; oppure
canonici potevano anche essere quei chierici rurali, che pur senza essere scritti nella lista del
vescovo, vivevano vita collegiale presso una chiesa rurale pure detta collegiata.
C - Epoca carolingia
L'esigenza generale di unità e ordine portò ad uno sforzo per superare la confusione e la dispersione del periodo precedente.
Un primo tentativo in questo senso fu compiuto
verso il 755 da Crodegango, vescovo di Metz, che redasse una regula per il
capitolo della sua cattedrale (PL 89, col 1097-1120).
Lo scopo che doveva presiedere alla vita del capitulum
era la vita liturgica della cattedrale; in funzione di ciò i presbiteri venivano
organizzati secondo una disciplina claustrale, che si ispirava sia ad elementi
della disciplina clericale, sia ad elementi della tradizione benedettina: i
presbiteri vivevano all'interno di un recinto, prendevano i pasti in comune, dormivano
in dormitori comuni, oppure in case singole situate all'interno del recinto. Ai
canonici non venivano imposte né la stretta povertà né un'obbedienza rigorosa.
La codificazione ufficiale e generale della vita
canonica si ebbe con il capitolare di Aquisgrana dell’816 (MGH Conc. II/1,
p.308-421).
La
prima parte riportava i canones o le institutiones patrum.
La
seconda parte, rifacendosi soprattutto a Crodegango di Metz, presentava
direttive precise circa la vita dei canonici: in particolare, si sottolineavano
le differenze che intercorrevano tra la vita canonicale e la vita monastica,
così da pervenire ad una più netta distinzione tra i due ordines.
Questa
diversa modalità di vivere la povertà e l’austerità da parte dei canonici e dei
monaci mostra che a quel punto la distinzione tra le due vite non era più
soltanto funzionale (cioè il ministero pastorale dei canonici) ma era anche di
stile di vita.
Il
capitolare di Aquisgrana inoltre per ovviare alle difficoltà derivate alla vita
canonicale
dagli
scompensi economi e politici del periodo precedente, stabilì quanto il vescovo doveva
ai canonici in viveri ed in vesti. Così all'interno delle res ecclesiae incominciò
a distinguersi una parte di beni da riservarsi ai canonici: ci si avviava verso
la mensa canonicorum distinta dalla mensa episcopi.
D
– Decadenza carolingia
Dicemmo
che sulla scia delle disposizioni di Aquisgrana, per assicurare ai canonici il
sostentamento si giunse a destinare una parte della mensa episcopi ai canonici:
nacque così una mensa canonicorum. In un primo momento la mensa canonicorum
ebbe una destinazione solo comunitaria; nel corso del IX secolo si giunse però
ad una suddivisione della mensa: una parte fu riservata alle necessità del
collegio canonicale in quanto tale, una seconda parte invece fu ripartita tra i
vari canonici: nacque così la prebenda, come base economica che veniva garantita
a colui che svolgeva il compito di canonico.
Questa
evoluzione ebbe una duplice conseguenza. Il numero dei canonici, che componevano
il collegio, venne a dipendere dal numero di prebende che la mensa canonicorum consentiva.
Seconda conseguenza: l'ammissione al canonicato si trasformò in concessione
della prebenda, che veniva fatta non dal vescovo ma dal capitolo stesso: la
concessione di tale prebenda assunse il carattere di beneficium: il beneficiato
assumeva il beneficium versando un emolumento detto xenium (= dono dell’ospite)
o venditio e si impegnava a compiere certe prestazioni. Come si vede l’accento andò
a spostarsi sulla prebenda, sul beneficium, più che sulla vita canonicale in se
stessa.
Come si giunse alla prebenda? Si potrebbe
ritenere che furono il decadimento morale dei tempi e la regola di Aquisgrana,
che aveva consentito ai canonici di possedere, ad aprire la strada per una
interpretazione economica e feudale del canonicato. In realtà la ragione va
cercata prima di tutto nel sistema economico del tempo. Allora, come si sa, il
possedere non consisteva tanto nel disporre di beni mobili, ma piuttosto nel
disporre di fondi terrieri . Stante questa prospettiva, si capisce come la
mensa canonicorum consistesse soprattutto in alcuni diritti su fondi terrieri,
disseminati qua e là.
Ora se i canonici volevano tutelare tali
loro i diritti sui fondi terrieri della mensa, non avevano che due vie. Prima
via: per consentire ai canonici di portare avanti la loro vita di comunità
orante, si ricorreva ad intermediari che controllavano sul posto i coloni e provvedevano
a fare pervenire al collegio dei canonici la rendita del fondo. Questa prima
via aveva l'inconveniente di essere dispendiosa,
sia perché comportava che si pagassero gli intermediari, sia perché comportava
la spesa del trasporto della derrate.
La seconda via invece
consisteva nell’assegnare ai vari canonici come prebenda-beneficio una parte dei
fondi terrieri della mensa: é vero che veniva sacrificata la vita canonica in
quanto tale, ma in compenso la mensa canonicorum veniva salvaguardata da una
amministrazione troppo dispendiosa, in quanto i singoli canonici, vivendo sul
loro fondo, avrebbero svolto direttamente la funzione di controllo e avrebbero
consumato in loco, senza spese di trasporto.
Un'altra
osservazione: l'inserimento del canonicato nella struttura feudale, il fatto
che comportasse una prebenda-beneficio redditizia, comportò un notevole
interesse da parte della nobiltà feudale-terriera verso questa istituzione: il
canonicato apparve alla nobiltà un modo per garantire ai propri cadetti una
sistemazione sicura; in questa prospettiva l'aristocrazia terriera pensò bene
di sostenere con donazioni la mensa canonicorum. L'apparato ecclesiastico dal
canto suo vide di buon grado tale connubio con l'aristocrazia che oltre a fruttare
donazioni, assicurava un legame tra contado rurale e cattedrale cittadina.
Il
risultato fu che il canonicato divenne un fatto nobiliare, tramandato da zio a
nipote. Evidentemente un tale sviluppo del canonicato finì con l'incorrere in
due grossi limiti: la simonia per ottenere o per concedere la prebenda-beneficio;
il nicolaismo (matrimonio o concubinato dei canonici): esso da un lato appariva
come mezzo per rendere ereditario il beneficio canonicale e dall’altro era
conseguenza di una scelta canonicale non suggerita da un’autentica vocazione.
F
– La riforma
Nel corso del secolo X e nei primi decenni del secolo XI assistiamo ad un interessante fenomeno di ripresa del canonicato. In Francia, in Lorena, in Germania, nel nord e centro Italia vengono riformati i capitoli e le collegiate ancora esistenti, ne vengono creati di nuovi: questa riforma é caratterizzata non solo da una ripresa della vita comune e della recita corale dell'officum canonicum, ma anche da una certa esigenza di rivedere il capitolare di Aquisgrana sul punto della povertà.
Solitamente la storiografia
trascura o ignora questo fenomeno di rinnovamento della vita canonicale
antecedente alla riforma gregoriana. La cosa dipende da un accostamento troppo
superficiale delle fonti storiche: le fonti storiche, di cui disponiamo, derivano
in gran parte da ambienti di monaci e di canonici regolari (una istituzione
posteriore): è chiaro che tali fonti tendono ad accentuare gli aspetti di
decadenza, in quanto da un lato il monachesimo era preoccupato di affermare la sua propria
superiorità e dall’altro il canonicato regolare poteva vantare di essere una
istituzione davvero innovativa. Gli storici più attenti hanno saputo mettere in
campo una ricognizione molto diligente delle testimonianze positive sparse qua
e là (cfr CH. DEREINE,
s.v. Chanoines : Dictionnaire d’histoire et de géographie
ecclésiastique, XII (1953), cc. 353-405).
Il clero inferiore rurale
A – Secoli III – VIII
Dalla storia socio-economica del periodo tardo-artico sappiamo che prese un notevole sviluppo non più l’urbs, come era stato nei momenti più felici dell'impero romano, ma la campagna: la popolazione tendeva ad abbandonare le città e ad insediarsi nelle villae. Di fronte a questa situazione la Chiesa si trovò impegnata a prestare attenzione anche ai centri rurali.
In un primo momento l'evangelizzazione della campagna fu condotta sotto il
controllo dei vescovi delle città: nel corso del IV secolo il territorio rurale circostante alle città vide
l'organizzazione di una o più comunità cristiane: la popolazione rurale di una
determinata circoscrizione territoriale venne legata ad una determinata chiesa
di campagna, dove un sacerdote del vescovo della città amministrava i
sacramenti (Battesimo, Eucaristia, Matrimonio): nacque così il sistema delle
chiese battesimali, sottoposte alla giurisdizione del vescovo della città vicina,
che vi delegava per l'ufficio pastorale un suo presbitero, che, perché potesse
espletare il suo ufficio, veniva dotato o di uno stipendio o delle rendite dei
beni della chiesa: si noti come nel sistema delle chiese battesimali al centro
stava l'ufficio pastorale ed i beni erano visti in funzione del suo ministero e
del suo ufficio.
Con
le migrazioni dei popoli germanici il fenomeno della campagna ebbe un ulteriore
e assai rilevante incremento. I vescovi della città a questo punto non erano
più in grado di sostenere con le proprie risorse l'evangelizzazione delle
campagne, fondandovi nuove chiese e garantendo sostentamento ai presbiteri ad
esse preposti: intervennero così i grandi proprietari terrieri, che sui propri territori
costruirono una chiesa. Ma i proprietari terrieri fecero valere su tale loro
chiesa il loro diritto di proprietà: nacque così una nuova forma giuridica: la
chiesa propria o padronale.
Questa
nuova forma giuridica si iscriveva nel sistema giuridico tedesco, dove mancava
la distinzione tra ius publicum e ius privatum e pertanto non si conosceva il
concetto di ufficio in ordine ad una istituzione di diritto pubblico: ogni
istituzione era di diritto privato e veniva regolata in termini di proprietà e
di dipendenza dal proprietario. E’ chiaro che in una siffatta prospettiva al
centro non c’era più l’officium ma la res, la proprietà, e quindi non si
guardava più alla Chiesa come ad un’
assemblea di cristiani, che per vivere si serviva di certe strutture, si
guardava invece alla Chiesa come ad un insieme di strutture, ad un’impresa economica,
che per funzionare doveva garantirsi lo svolgimento di certe attività
pastorali.
E’ interessante notare
come questa mentalità abbia un riflesso a livello linguistico: nella lingua latina
è l’ecclesia-assemblea
a dare il nome all’edificio, nella lingua germanica invece è la Kirche-edificio
a dare il nome all'assemblea.
Questo istituto della
chiesa propria ebbe un notevole sviluppo nella Francia merovingia, dove, soprattutto
durante la fase di decadenza della monarchia, giunse praticamente a soppiantare
completamente il sistema delle chiese battesimali: in tale fase di anarchia
infatti i proprietari terrieri si assicurarono chiese proprie non solo
fondandone di nuove, ma anche imponendo con la forza il loro diritto di
proprietà su chiese già esistenti ed ancora sottoposte alla giurisdizione del
vescovo. In tale situazione anche i vescovi più potenti, per garantirsi ancora
una qualche giurisdizione su qualche chiesa, finirono con l'aderire alla logica
di proprietà, dandosi quindi all'acquisto di chiese, sulle quali quindi il
vescovo si imponeva non
più in nome della sola giurisdizione ecclesiastica, ma anche in nome del
diritto di proprietà.
Questa situazione porterà
ad una trasformazione del modo di intendere la relazione vescovo-presbitero:
non più collaborazione pastorale in termini di fraternità, ma in termini piuttosto
padronali.
Evidentemente la logica
padronale, che stava alla base della chiesa propria, ebbe una ricaduta sulla vita del clero rurale. Il padrone, per far funzionare
la sua chiesa, aveva bisogno di un sacerdote, che veniva scelto logicamente in
base al criterio di proprietà: doveva essere una persona che si adattava alle condizioni
di sostentamento meno dispendiose possibili, così che il padrone dal
funzionamento della sua chiesa potesse ottenere il massimo vantaggio economico
possibile: le rendite dei fondi terrieri connessi con la chiesa, le rendite
della attività pastorale della chiesa stessa, cioè le donazioni, le offerte, le
decime, i diritti di stola; a beneficio del prete rurale rimaneva molto poco.
Da ciò derivarono in
particolare due conseguenze.
Prima conseguenza: ad un
genere di vita siffatto potevano adattarsi solo persone provenienti dagli
strati sociali più bassi, praticamente persone sprovviste di formazione
culturale e morale. Il padrone sceglieva in genere il suo sacerdote tra i suoi
servi.
Seconda conseguenza: il
sacerdote rurale era totalmente isolato dal vescovo e dall’altro clero: scelto
dal padrone, viveva alle dipendenze del padrone.
Isolamento
e scarsa formazione morale e culturale divennero frequentemente occasione di decadimento
morale (la piaga del nicolaismo).
B
– L’epoca carolingia
A
ciò si dedicò in particolare un capitolare di Ludovico il Pio dell’anno 819 (MGH
Cap. I, 276, cc 6,9-12,29…). La preoccupazione fondamentale non era di abolire il sistema delle chiese
proprie, ma solo di correggerne alcuni eccessi, creando un certo equilibrio tra
gli interessi dei chierici e quelli dei laici.
Gli
interessi dei laici furono tutelati, riconoscendo loro il diritto di scelta.
Vediamo
poi come furono tutelati gli interessi
dei chierici.
In
primo luogo si garantì anche nel sistema delle chiese proprie uno spazio per la
giurisdizione episcopale: al vescovo fu riconosciuto il diritto di ispezionare
le chiese proprie; i sacerdoti delle chiese proprie dovevano sottostare alla
giurisdizione del vescovo e pertanto la nomina o la deposizione di un sacerdote
delle chiese proprie non potevano avvenire senza il consenso del vescovo; i
sacerdoti erano tenuti a
partecipare ai sinodi diocesani, ai giudizi tenuti dal vescovo.
In tal modo
il vescovo disponeva di mezzi per togliere i sacerdoti delle chiese proprie
dall’isolamento. Il vescovo in particolare poteva
servirsi delle visite pastorali: le visite pastorali erano giorno di festa, il
vescovo amministrava la cresima, predicava, esaminava lo stato della parrocchia,
radunava il sinodo parrocchiale, che era un'assemblea in cui i laici potevano
sottoporre al giudizio del vescovo le irregolarità compiute dal loro sacerdote.
Alla
fine del secolo IX tali visite pastorali però entrarono in crisi.
Sempre
per togliere i sacerdoti della chiese rurali dall’isolamento i vescovi giunsero
a riunire tali chiese rurali in decanati: i sacerdoti del decanato si trovavano
insieme una volta al mese, per kalendas, partecipavano ad una messa e poi si
riunivano in conferenza, dove venivano esaminati i doveri parrocchiali, la conduzione
delle parrocchie, le questioni di sacramentaria, di fede, di vita religiosa, e
talora si passava anche alla correzione dei confratelli negligenti.
Per
attenuare la dipendenza dei sacerdote dal padrone della chiesa si stabilì che
il sacerdote non fosse scelto tra i servi ma tra i liberi, si stabilì anche che
il sacerdote doveva essere deposto per sentenza giudiziaria. Per proteggere il
sacerdote dallo sfruttamento del padrone si fissò una base di sostentamento:
una chiesa per essere dotata di sacerdote doveva essere in grado di assicurare
al prete un pezzo di terreno coltivabile e libero da ogni esazione tributaria,
una casa con giardino ed una parte delle decime e delle offerte.
Questa base di sostentamento assunse subito di
carattere di beneficium, che il padrone concedeva al sacerdote attraverso
l'investitura con libro, bastone, corda della campana e stola.
Il sacerdote a sua volta assumeva
l’obbligo di prestare le sue funzioni ecclesiastiche e presentava al signore un
dono, detto xenium o venditio. A questo punto si ebbe la feudalizzazione anche
del clero rurale.
In questa forma l’istituto della chiesa
propria ebbe una notevole diffusione anche sotto i carolingi e poi sotto gli
imperatori tedeschi: in Francia, in Germania, nella marca spagnola, in
Scandinavia, nell’Italia longobarda, in Inghilterra.
In connessione con l’interpretazione
feudale dell’istituto della chiesa propria il padrone giunse ad affermare due
diritti particolari: lo ius regaliae, cioè il diritto di usufruire delle
rendite del sacerdote durante il periodo di vacanza del beneficium e lo ius
spolii, cioè il diritto di incamerare totalmente o parzialmente i beni mobili
lasciati dal suo sacerdote defunto.
C – La cura pastorale
Il prete delle chiese proprie di campagna era
invece di sua natura dedito all’attività pastorale. Vediamo ora le
caratteristiche di tale attività pastorale.
In
generale possiamo dire che si trattava di una pastorale liturgico-cultuale.
L’attività dei sacerdoti si riduceva
praticamente all'amministrazione dei sacramenti, dato il pacifico presupposto che
il cristianesimo era già presente
come fatto di costume e andava solo mantenuto in vita.
La
concezione del sacerdozio fu influenzata in maniera determinante dal modello
del servizio cultuale mosaico. Il prete carolingio, uomo più di preghiera e di
sacrificio che di predicazione e di testimonianza, era assai vicino al levita.
Agli occhi dei fedeli appariva come un esperto di ciò che è sacro, che da essi
si distanziava grazie alla sua conoscenza dei riti e delle formule efficaci.
L’evoluzione stessa del sacramento dell’Ordine traduceva questa tendenza a
distinguere i ministri di culto. Al sacramento dell’Ordine, che un tempo era
conferito mediante la semplice imposizione delle mani, venne aggregata anche una
unzione, che rendeva il prete l’unto del Signore, in conformità al rituale
descritto nel libro dei Numeri (3,3).
Si
potrà meglio comprendere questa evoluzione qualora si tenga presente
l’importanza assunta in seno al cristianesimo dalla funzione del culto durante
il Medio Evo. L’epoca carolingia è stata definita l’epoca della civiltà
liturgica. La formula è esatta, se si intende con ciò il fatto che la religione
si identifica con il culto reso a Dio dai preti, che ne sono ministri (da A.
VAUCHEZ, La spiritualità dell’Occidente medioevale, Milano 1978, 12-13).
Il
battesimo in situazione di cristianità era dato evidentemente soltanto ai bambini
o durante la veglia pasquale o alla vigilia di Pentecoste. Dopo il battesimo
non c’erano momenti di catechesi per i bambini: la loro formazione cristiana era
piuttosto un fatto di costume: vivendo in ambiente cristiano assimilavano gli
elementi della vita e della dottrina cristiana: dal padre e dal padrino devono
imparare a memoria il Padre nostro ed il Credo.
In situazione di missione il battesimo
veniva conferito agli adulti e allora era preceduto da una fase di
preparazione, che si riduceva a sette giorni dedicati all’istruzione circa gli
elementi fondamentali della dottrina, ai quali facevano seguito altri sette
giorni dedicati alla preparazione ascetico-liturgica. La formazione morale era
lasciata alla vita cristiana, che faceva seguito al battesimo. Non sempre fu
così: ai Sassoni il battesimo fu imposto con la forza.
Altro sacramento: la penitenza: continuò a sussistere la penitenza pubblica
connessa con i peccati pubblici: essa veniva celebrata nel contesto quaresimale:
il mercoledì delle ceneri i peccatori pubblici, ricevendo le ceneri (inizialmente
questo rito era riservato solo ai peccatori pubblici), entravano nell'ordo paenitentium
e dovevano abbandonare la chiesa per dedicarsi alla penitenza, che consisteva
soprattutto in un digiuno rigoroso e in determinati esercizi di orazione
salmica (salmi penitenziali). Spesso si faceva ricorso alla redemptio, cioè
alla possibilità di sostituire la penitenza troppo gravosa con altre forme più
leggere, cioè il digiuno veniva sostituito con la recita di salmi, con
genuflessioni reiterate, elemosine, pellegrinaggi… Talora il penitente giungeva
addirittura a farsi sostituire da un’altra persona nel suo dovere penitenziale.
Il giovedì santo i peccatori pubblici venivano riconciliati mediante imposizione
delle mani ed orazione.
Per gli altri fedeli c’era invece la
confessione annuale, che veniva celebrata all’inizio della quaresima: l'esame
di coscienza veniva fatto sui sette vizi capitali. Se il fedele non era incorso
in colpe rilevanti, riceveva immediatamente una benedizione, sul cui valore sacramentale
si nutrono molti dubbi. Nel caso di colpe gravi il fedele riceveva una congrua
penitenza, che veniva desunta dai libri penitenziali e poi al giovedì santo,
espletata la penitenza, il fedele riceveva la riconciliazione.
Verso la fine del secolo IX si incominciò
a riconciliare immediatamente il fedele, assegnandogli una penitenza, che
avrebbe dovuto adempiere in seguito. Da qui si avviò il processo, che portò a
slegare il sacramento della penitenza dal contesto quaresimale.
Per quanto riguarda l’Eucaristia: già dicemmo che dalla partecipazione
celebrativa si passò sempre più all’assistenza. Si praticò l'obbligo di santificare
la domenica con la Messa, i vesperi e il riposo dai vesperi del sabato ai vesperi
della domenica.
Quanto alla comunione eucaristica si
verificò una rarefazione: la riforma carolingia aveva cercato di introdurre la comunione almeno in tutte le domeniche della
quaresima, concili successivi si limitarono a raccomandare la comunione per la Pasqua,
il Natale e la Pentecoste, ma la prassi si ridurrà ulteriormente, anche a
partire dal fatto che con il secolo IX si incominciò ad esigere la confessione
prima di ogni comunione.
La
comunione veniva in genere amministrata sotto le due specie, per intinzione, ma
con il secolo IX si diffuse l’uso dell’ostia, che veniva posta non più sulle
mani ma direttamente in bocca. Questo ricorso ad un’ostia è indice di una
evoluzione dei riti, che concorse a far perdere di vista il rapporto che esiste
tra il sacramento e la vita quotidiana. La comunione talora, o spesso, era
intesa come un contatto magico con la divinità, pure l’ostia consacrata era
spesso considerata un “oggetto” magico e veniva sotterrata, nella speranza che
favorisse una maggiore fertilità della terra.
La predica era l'unico momento di catechesi: la
legislazione imponeva ai sacerdoti di adempiere a tale dovere in tutte le messe
domenicali, servendosi della lingua del popolo: in realtà il clero, data la sua
scarsa preparazione, tese ad evadere da un tale impegno e comunque era
predicazione di livello molto basso. Si trattava in genere di un commento allegorizzante
ai testi scritturistici della messa, commento in gran parte ricavato da omiliarii
in voga: i temi più toccati erano la
fede trinitaria (tema centrale nell'alto medioevo), l'incarnazione del Figlio,
la risurrezione dei morti e l'inferno come retribuzione dei peccatori. In realtà
l'educazione popolare, la vita cristiana della gente venivano ancorate ad un
dato piuttosto istituzionale, consistente nell’adempimento di alcune leggi e di
alcuni precetti e nella conoscenza a memoria del Padre nostro e del Credo.
Il Matrimonio veniva contratto secondo
le forme del diritto germanico: il padre o il tutore consegnava la sposa allo
sposo; seguiva poi il rito ecclesiastico: per gli sposi veniva celebrata una
messa apposita, durante la quale veniva impartita la benedizione nuziale. Prima
del matrimonio veniva effettuato un esame ecclesiastico al fine di verificare
l'esistenza di impedimenti.
Per potere adempiere questa loro attività
pastorale si esigeva dai sacerdoti una vita esemplare condotta secondo la regula canonica: niente donne, niente armi, niente
caccia, niente osterie, preoccupazione per i poveri, gli infermi, i pellegrini.
Inoltre si esigeva un minimo bagaglio culturale, consistente e nel possesso di
alcuni libri (sacramentario, lezionario, antifonario, omiliario, una esposizione
ortodossa del Credo e del Padre nostro, un martirologio) e nel possesso mnemonico
dei salmi, delle orazioni fisse della messa. Per gli altri testi si esigeva dal
sacerdote che sapesse leggerli senza fare errori. Si deve quindi senz’altro
rilevare che sia la formazione del popolo cristiano sia la formazione del clero
erano piuttosto legate ad un fatto di costume.
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