IL MONACHESIMO ANTICO IN ORIENTE
1 – Gli inizi
Dallo studio
della storia della Chiesa nei primi tre secoli abbiamo appreso che molto presto
si é sviluppata la tendenza a seguire Cristo, praticando una vita di rigore
ascetico: la più significativa caratterizzazione esterna era costituita dalla
attuazione dei consigli evangelici di povertà e verginità. Come si sa, questi
asceti vivevano all'interno delle varie comunità cristiane.
A partire da
questa premessa possiamo dire che il monachesimo comparve, quando degli asceti
decisero di separarsi dalla vita ordinaria della comunità cristiana per vivere
l'istanza ascetica in un contesto diverso.
La
fonte più antica, che ci informi del fenomeno, é senz'altro la "Vita
Antonii", che oramai quasi unanimemente viene attribuita ad Atanasio,
vescovo di Alessandria e campione dell'ortodossia contro l'arianesimo. Dalle
molteplici discussioni tra gli specialisti si evince che la stesura sarebbe
avvenuta verso il 365 (poco prima secondo J. G. EICHHORN e P. de LABRIOLLE;
invece poco dopo secondo i Maurini).
Se si tiene
presente che Atanasio aveva conosciuto personalmente il protagonista della sua
'biografia" e che questi sarebbe morto verso il 356, si deve ammettere
che l'opera gode di una sorprendente contemporaneità!
Per
un'adeguata utilizzazione della "Vita Antonii" in sede storica, occorre
evidentemente definire a quale genere letterario essa appartenga: sono state
avanzate le ipotesi più disparate: c'é chi (J.-LIST; L. BOUYER) vi vede la
cristianizzazione del genere dell'encomio, tipico dell'antica retorica; chi
invece rimanda (K. HOLL; R. REITZENSTEIN; B. STEIDLER) al genere del θεῖος ἀνήρ (theiòs anèr) reperibile nella vita di
Apollonio di Tiana, scritta un secolo prima da Filostrato e più recentemente riproposto da Giamblico (+ 330 c.) nella sua
vita di Pitagora. Sotto questo profilo Atanasio intenderebbe "contrapporre
il santo cristiano, che cerca di trovare la via verso Dio con l'aiuto di Dio,
al filosofo pagano, che in pratica é quasi un Dio egli stesso" (A.
MOMIGLIANO, Storiografia pagana e
cristiana nel secolo IV d.C : Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo
IV, Torino 1975, 104). Qualcuno inoltre (P. de LABRIOLLE) ritiene che
Antonio sia piuttosto occasione per sviluppare un discorso sulle quattro virtù
cardinali.
Infine
ricordiamo anche l'ipotesi di coloro (F. LOT) che connettono la "Vita Antonii"
con il genere letterario dell'aretalogia (aretè qui nel senso di miracolo,
fatto meraviglioso).
Forse
proprio questa pluralità di ipotesi potrebbe rivelare che la "Vita Antonii"
si ispira non a un particolare e determinato genere letterario preesistente, ma
a più generi letterari e per questa via giunge a creare un nuovo genere
letterario: quello dell'agiografia cristiana (G. TURBESSI).
Trattandosi
di agiografia, é prima di tutto proposta di un modello di vita spirituale
autenticamente cristiana (Gregario di Nazianzo, elogiando Atanasio, a proposito
della "Vita Antonii" nella Orazione 21, 5 così si esprime: "una
regola di vita monastica in forma di narrazione"), però é anche legittimo
ritenere che in secondo piano si possano anche discernere i fondamentali lineamenti storici.
Nato verso
il 251, Antonio si dedicò all'esperienza monastica verso il 270, quando si
ritirò ai margini del suo villaggio natale (Qeman): per quindici anni fu
anacoreta, tra altri anacoreti, sotto la guida spirituale di un vecchio
eremita. L'indicazione é molto preziosa: ci porta a dedurre che Antonio non fu
affatto l'inventore della vita monastica: c'é una preistoria del monachesimo,
che alla storia non ha consegnato altro che un tenue indizio di esistenza. E'
vero che Girolamo dà l’impressione di sollevare il velo di mistero, che avvolge
questi inizi, narrando la vita di un Paolo, eremita dal 250 al 341; la critica
storica però nutre forti sospetti nei confronti di quest'opera, avanzando
l'ipotesi che il protagonista di questo romanzo monastico non sia che
un'invenzione letteraria del focoso e fantasioso dalmata. Si deve quindi
riconoscere che Antonio merita il titolo di padre del monachesimo, essendo il
primo personaggio che, grazie ad Atanasio, ma ancor più grazie alla sua
eccezionale statura morale, ha lasciato una traccia chiara nella storia del
monachesimo.
Comunque
sia, va rilevato che la comparsa del monachesimo si colloca in un momento
storico preciso: nella seconda metà del secolo III. E, si badi, la cosa é piena
di significato. Verso il 260 il cristianesimo entrò in un periodo di stasi
delle persecuzioni, che si protrasse per un quarantennio, cioè fino alla
persecuzione di Diocleziano, e passa alla storia con il nome di "piccola
pace". In tale contesto la Chiesa si trovò sottoposta a due tensioni
diverse e contrastanti.
Da una parte
la Chiesa tese a diventare una “grande Chiesa" sia riaccogliendo con
misericordia i "lapsi" delle persecuzioni precedenti, sia aprendo le
porte ad un numero rilevante di convertiti. Il fenomeno evidentemente comportò
in abbassamento di livello, un affievolirsi del comune entusiasmo dei
primissimi cristiani. La cosa divenne macroscopica dopo la svolta costantiniana,
quando il cristianesimo si vide accolto dal secolo, in un certo qual modo vi si
installò e talvolta troppo confortevolmente" (H.- I. MARROU, Le origini
e i primi sviluppi del monachesimo : Nuova storia della Chiesa, I,
Torino 1970, 318). "Le masse allora surrettiziamente riportarono nel cristianesimo
superstizioni, germi pagani: il paganesimo é l'erba cattiva, che rifiorisce
senza posa nel cattolicesimo.... Si attenuarono invece la tensione
escatologica, il senso di alterità rispetto al mondo e si instaurò una specie
di identificazione Chiesa-mondo" (F. LOT, La fin du monde antique et le
début du moyen âge, Paris 21968, 61).
Dall'altra
parte questo contesto di "piccola pace" prima e di "grande
pace" poi favorì nei circoli più ferventi, soprattutto tra gli asceti,
un'ulteriore rigorizzazione della loro vita. Alcuni, improvvisamente, presero la via della contrapposizione
netta alla "grande Chiesa", costruendo in alternativa delle settarie
chiese dei puri, dei santi, in cui il fondamento ed il criterio di appartenenza
consistevano nella fedeltà ed integrità dell'uomo più che nella misericordia salvifica
di Dio (Novaziano, Novato e Felicissimo). Altri invece, senza condannare la
"grande Chiesa", di cui continuarono ad accettare l'autorità e
ricevere i sacramenti, ricercarono la perfezione evangelica nella povertà, nel
celibato, nella separazione dal mondo, compreso il mondo ecclesiale nella
esteriorità delle sue relazioni ed espressioni (cfr J. GRIBOMONT, s.v. Monachisme
: DSAM, c.1540).
Non credo
che si penetri esattamente il fenomeno, quando lo si presenta primariamente e
direttamente come una reazione al dilagare della mediocrità in seno alla grande
Chiesa (nemo dat quod non habet): mi pare più rispondente al vero e alla logica
considerare la nascita e l'esplosione del monachesimo primariamente e direttamente
come una ricerca positiva di una nuova forma di perfezione evangelica. Nella
fase delle persecuzioni perfezione evangelica era il martirio. In epoca di
pace però il martirio diventava idea improbabile e improponibile. Urgeva quindi
rinvenire una nuova forma di assoluta dedizione a Dio e di assoluto distacco
dallo spirito del mondo, secondo l'esigenza evangelica dell'essere nel mondo
senza essere del mondo. Come all'epoca, delle persecuzioni fu l'ambiente
fervente degli asceti a inoltrarsi con maggiore coraggio sulla strada del
martirio, così in epoca di pace fu ancora l'ambiente fervente degli asceti a
inventare e incrementare la nuova forma di perfezione: il monachesimo. Un
chiaro segno di questa evoluzione dal martirio all'ascetismo radicale si
riscontra per esempio in Metodio di Olimpo (III secolo), Convivio o discorso
sulla verginità, VII, 3 (PG XVIII,128-129): “Le vergini si impegnano a subire una sorta di martirio perpetuo. Infatti non é che sopportino il peso del loro corpo
solo negli attimi fuggevoli del martirio: lo sopportano per tutta la vita. Non hanno
paura di sostenere la lotta senza tregua e veramente olimpica della castità e di opporre resistenza agli assalti
torturanti delle passioni".
Certo non si
può escludere che di riflesso la scelta monastica comportasse anche un giudizio
sulla evoluzione - in parte involutiva - della vita ecclesiale, ma si trattava
di un giudizio, che riproduceva lo stile del giudizio profetico: si trattava
cioè di un giudizio, che in positivo diventava segno e stimolo e richiamo
ideale di perfezione. Si deve insieme riconoscere che, finché venne da un
monachesimo, che considerava l'umiltà garanzia suprema di saggezza, questo
richiamo non assunse mai la forma presuntuosa e supponente, tipica di chi
assolutizza la propria esperienza, imponendola come l'unica forma autentica di
vita cristiana (J. GRIBOMONT, op. cit., c. 1540).
Al c.16 della
Historia monachorum in Egypto (PL XXI,391) si legge: "Non si deve
in questo mondo disprezzare nessuno, sia che si occupi degli affari della campagna,
sia che si occupi dei traffici del commercio, perché non vi è condizione in questa vita nella quale
non sì incontrino anime fedeli a Dio e che compiano nel segreto le azioni che
piacciono a Lui. Il che mostra che ai suoi occhi é gradita non tanto la
professione, che uno abbraccia, né colui, che per il genere di vita scelto
possa sembrare più perfetto, ma piuttosto, ai suoi occhi sono gradite la
sincerità, la disposizione dello spirito, unite alle opere buone."
2 - Antonio prototipo del monachesimo in
forma anacoretica
Nel delineare
l'itinerario e l'esperienza spirituali di Antonio ci lasciamo guidare da una
intuizione di R. REITZENSTEIN: secondo questo autore, Atanasio metterebbe in
luce un fondamentale dinamismo, che si articolerebbe in tre momenti.
Primo momento (V.A. 1-7) : sarebbe caratterizzato esteriormente da un graduale distacco dal mondo
delle relazioni esterne. La premessa é rappresentata dalla famiglia benestante
e cristiana, dalla quale Antonio ricevette una formazione, che già comportava
l'eliminazione di quei rapporti, che nei giovani inducono dissolutezza (V.A.
1).
Dopo
questa prima riduzione dei rapporti esterni, il momento decisivo é
rappresentato da un intervento di Dio: la scelta monastica é prima dì tutto
una iniziativa divina, che si esprime come chiamata, vocazione: "Dopo la
morte dei genitori, rimase solo con una sorella assai piccola e, a diciotto anni o venti, si
prendeva cura da solo della casa e della sorella.
Non
erano trascorsi sei mesi dalla morte dei genitori, quando, secondo il solito,
si recò in Chiesa... e capitò che proprio allora venisse letto nel vangelo il
passo in cui Cristo dice al ricco: «Se tu vuoi essere perfetto, vai, vendi
tutti i tuoi beni e
dalli ai
poveri e di nuovo ritorna da me e avrai un tesoro nei cieli» (Mt 19,21)" (V.A.
2). Così, all'insegna della obbedienza a Dio, si compie il secondo grande
distacco, il distacco dalla domus, cioè dalla sorella e dal patrimonio!
Si dedica ad un'esperienza
monastica di tipo anacoretico, non lontano dal suo villaggio, sotto la guida di
un vecchio eremita e stabilendo contatti con altri anacoreti: rimangono dunque
ancora delle relazioni; non siamo ancora. alla perfetta e radicale solitudine
eremitica, perché siamo ancora agli inizi dell'ascesi, della lotta spirituale e
l'aiuto degli altri é ancora necessario al principiante. E’ possibile vedere qui
quale interpretazione dava Atanasio del monachesimo cenobitico: ascesi insieme
con altri, inferiore e preparatoria
rispetto all'ascesi eremitica!
La vita ascetica comportava
lavoro con le proprie mani; carità verso i poveri; preghiera continua; lettura
assidua della Scrittura anche al fine della memorizzazione; lunghe veglie notturne,
digiuno (un pasto al giorno; talora anche meno; niente carne; niente vino).
Alla fine di questa
prima fase Antonio appare amabile agli occhi di Dio e agli occhi degli uomini
(V.A. 4) e capace di dominare e vincere le seduzioni asserventi del mondo
esterno (V.A. 5): ciò dipende prima di tutto dalla grazia di Dio, dall'opera del
Salvatore. Il primo momento durò quindici anni.
Secondo momento_(V A.
8-13) : é caratterizzato da
un graduale distacco dal mondo delle passioni interiori. La vita anacoretica ha
portato Antonio alla capacità della lotta solitaria, in vita perfettamente
eremitica. L'ambiente esterno é costituito prima da un sepolcreto lontano dal
villaggio e poi dal deserto selvaggio (Pispir) ancora più lontano dal
villaggio. La scelta di questi ambienti non é casuale, risponde ad una
mentalità spirituale (cfr K. HEUSSI, Der Ursprung des christlichen Mönchtums,
Tubinga 1936, 111; A. GUILLAUMONT, La concezione del deserto presso i monaci dell'Egitto :
A. SAITTA, Dall'impero di Roma a Bisanzio
(= 2000 anni di storia 2), Bari 1979, 361-378).
Nella storia della
spiritualità la nozione di deserto è ambivalente.
Si aveva del deserto in
primo luogo una concezione realistica, finanche pessimista: comune ai popoli
dell'antico Vicino Oriente, trovava particolare rilievo presso i
Sumero-Accadici, che l'associavano al culto degli dei della fertilità e si
affermò anche tra gli Ebrei.
"Il deserto é ciò
che si oppone alla terra abitata e coltivata, sia la regione per natura deserta
e sterile, sia quella che é diventata tale in seguito alle devastazioni della
guerra o alle maledizioni di Iahvè: sono luoghi abitati unicamente dalle bestie
selvatiche (iene, sciacalli, gatti selvatici, ecc.) e dai demoni, essendo del
resto la distinzione tra gli uni e gli altri assai incerta. E’ laggiù che
vengono respinti i rifiutati, gli esclusi: Caino, Agar e Ismaele, il capro
espiatorio caricato dei peccati di Israele… Si rileggano le narrazioni
dell'Esodo e, nei profeti, tra gli altri testi, il capitolo 20 di Ezechiele: il
tempo del deserto é anche il tempo dell'infedeltà, del vitello d'oro, della
contestazione a Meriba ed anche del castigo, poiché nessuno appartenente alla
generazione del deserto doveva entrare nella terra promessa, ove scorrevano
latte e miele. In Egitto, paese che fu se non proprio la patria, almeno la terra
di predilezione del monachesimo, troviamo monaci... per i quali l'idea del
deserto é quella da sempre familiare all'Egiziano, attinente alla configurazione
geografica dell'Egitto, dove più violento che altrove é il contrasto tra la
campagna coltivata, la stretta valle del Nilo, e l'immensità delle zone
desertiche, deserto libico ad occidente, deserto arabo, più montagnoso ad
oriente... Anche qui (il deserto) si riveste di un carattere religioso e
mitico: la terra coltivata, irrigata
dall’inondazione del Nilo, la "terra nera" (Kémi, Io stesso nome che
gli Egiziani davano al loro paese) é proprietà del dio della vita, Osiris e
del suo figlio Horus, ai quali si oppone Seth, il dio del deserto, della
"terra rossa", sterile, dio ostile e malvagio. Il deserto non è soltanto la terra, sterile, ma anche
la regione dei sepolcri, il campo della morte, dove l'Egiziano non si
avventurava mai senza timore; non poteva incontrarvi, nel migliore dei casi, che
bande di nomadi, di pelle nera, Libici, Mazichi, Blemmi ed altri, che erano
per lui degli stranieri, il più delle volte ostili; e soprattutto, degli
animali pericolosi e temuti, dei serpenti..., dei carnivori.., ai quali la sua
immaginazione, aggiungeva animali fantastici e terrificanti. Questi animali,
compagni e servitori di Seth, sono per l'Egiziano fattosi cristiano dei veri
demoni, confusi con i falsi dei del paganesimo, che infestano ancora i templi
in rovina disseminati nel deserto... Questa concezione del deserto, tipicamente
egiziana, é illustrata alla perfezione nella Vita di sant'Antonio.... Il
deserto vi appare come l'habitat per eccellenza dei demoni ed é per questo che
l'ascesi, nel deserto, é presentata soprattutto come una lotta contro i
demoni....V'é un legame molto stretto tra anacoresi nel deserto e attacchi
demoniaci... : il motivo è che il demonio difende il suo territorio contro
l'asceta che ha l'audacia di avventurarvisi...: “Allontanati da noi"
gridano i demoni ad Antonio in mezzo ad un frastuono veramente infernale,
"che legame c'é tra te e il deserto?" (V.A. 13).
Antonio spiega come
stanno le cose (V.A. 22). Ai tempi del paganesimo i demoni erano padroni in
ogni luogo; ma, all'avvento di Cristo, hanno dovuto cedere il posto. Satana, il
principe dei demoni, si lamenta con Antonio del fatto che, con la propagazione
del cristianesimo, non ci sono più città o luoghi ove risiedere; gli restavano
almeno dei siti aridi e spopolati; ma il deserto stesso si riempie di monaci
(V.A. 41)... Se il demonio otta contro Antonio con tanto accanimento, é per
difendere l'unica proprietà, che gli rimane....
Se si considera questo
fenomeno nella prospettiva delle antiche concezioni del deserto, quelle degli
antichi semiti e degli antichi Egizi, la lotta dell'asceta contro il demonio,
la conquista che egli fa del deserto, habitat dei demoni, è il prolungamento in
qualche sorta del combattimento del dio della fertilità, della terra coltivata,
contro le potenze della sterilità del caos. Ma le fonti monastiche preferiscono
considerare l'ascesi monastica nel deserto in una prospettiva specificamente
cristiana.... Il combattimento dell'asceta nel deserto contro il demonio evoca
in modo irresistibile il racconto della tentazione di Gesù, che riposa appunto
sull'antica e realistica concezione del deserto da me analizzata. La scena
raffigura la vittoria di Cristo su Satana, mediante la quale si inaugura
l'opera di redenzione. In questa prospettiva, il monaco, recandosi nel deserto
per lottare contro il demonio e trionfare su di lui, riproduce e in certo modo
continua l'azione redentrice.... Anche il monaco come Cristo é un atleta che va
nel deserto per affrontare i demoni, per lottare con loro, come si esprime Cassiano:
"Aperto certamine ac manifesto conflictu", " a viso scoperto, gli occhi negli occhi", come
traduce piuttosto liberamente, ma con felice risultato Dom Pichéry."
L'Antico Testamento
però, accanto a questa visione realistico-pessimista, sviluppa una concezione
"idealistica", "mistica" del deserto.
"Essa si riferisce
sia al passato di Israele, sia ai tempi messianici, escatologici. E' legata al
ricordo che gli Ebrei avevano dell'Esodo, della marcia nel deserto del Sinai, nel corso della quale Dio aveva suggellato un'alleanza con il suo
popolo: è l’epoca del fidanzamento con Iahvè... Rimase sempre una certa
nostalgia di quest'epoca, nutrita in modo particolare dai profeti.
La riconciliazione con
Iahvè si manifesterà mediante un ritorno al deserto, luogo dell'amore e
dell'intimità divina...".
Su questa concezione
idealistica, soprattutto con Filone di Alessandria, si é poi innestato un tema
ellenistico, frequente nella letteratura del I secolo a.C. e dei primi secoli
della nostra era: “Una specie di aspirazione romantica alla solitudine, al
ritiro nel deserto si impadronisce dell'uomo stanco delle città; il cittadino
disincantato di Roma e di Alessandria si costruisce degli eremi idilliaci,
immagina delle sorti di conventi, dove, in una vita studiosa e pura, ritroverà
la pace.... Questa associazione tra il deserto e la purezza, la fuga nel
deserto presentata come mezzo per sfuggire alla contaminazione, si ritrova in
alcuni scritti ebraici di questa stessa epoca: Giuda Maccabeo si ritira con una
decina di persone nel deserto giudaico... per non essere contaminato dalla
macchia che consegue alla profanazione del tempio da parte di Antioco Epifanio
(2Macc 5,27). Parimenti i settari di Qumran si sono stabiliti nel deserto
vicino al mar Morto per fuggire dalle macchie che il clero asmoneo impone alla
città santa...
Questo tema del deserto,
considerato come il luogo per eccellenza dove l'uomo gode la calma, (si gioca
sulle parole ἔρημος, έρημία, "deserto" e ἠρεμία, "calma", “tranquillità"), si ritrova dopo
Filone e sotto la sua influenza in tutta una stirpe di autori cristiani
(Clemente d'Alessandria, Origene, Metodio d'Olimpo). A partire dal IV secolo… questo
tema fa la sua comparsa nella letteratura monastica (Basilio, Gregorio di
Nazianzo, Girolamo)..." (cito da A. GUILLAUMONT, op. cit.).
Al di là dei temi
mitologici e letterari si deve scorgere una importante realtà psicologica: la
solitudine é la situazione privilegiata, in cui l'uomo può scoprire ed affrontare
tutte le forze oscure, che porta in sé. Per questa via il termine μοναχός (monachòs) raggiunge pieno significato:
solitudine esteriore e, ancor più in profondità, unità, unificazione interiore
mediante la rinuncia a tutto ciò che é fonte di divisione, di frazionamento,
non soltanto nelle sue attività esteriori ma anche nella sua vita psichica;
unità, unificazione mediante l'ἡσυχία (esichia), parola difficile da tradurre, perché indica contemporaneamente la
solitudine, la tranquillità, quello stato di vita in cui il monaco potrà
praticare senza distrazioni "il ricordo di Dio", l'esercizio costante
della presenza di Dio, il “soli Deo vivere”
(Cfr A. GUILLAUMONT, op. cit. 374-375; P.
MIQUEL, s.v. Monchisme : DSAM c. 1549).
La solitudine di Antonio
si protrasse per venti anni circa. Conclusione: Antonio si trovò svincolato da
ogni sudditanza nei confronti di Satana e animato dalla carità integrale.
Terzo momento (V.A. 14 –
fine) : la carità divina fa
di Antonio un θεῖος ἀνήρ, capace di stabilire con gli uomini relazioni nuove, espressive di un vero
amore e quindi apportatrici di autentico bene.
Per esprimere la
perfezione raggiunta, caratterizzata da assoluta dedizione a Dio e totale
distacco dal mondo delle passioni esteriori ed intime, Atanasio ricorre a
molteplici esemplificazioni:
·
Antonio è
abilitato ad. una vera paternità spirituale: intorno a lui si raccolgono molti
discepoli, desiderosi di averlo come padre, maestro, medico: la fuga dal mondo
si risolve dunque in una più alta e responsabile partecipazione alla storia
dell'umanità;
·
Antonio é
come un martire: durante le persecuzioni del 305 Antonio raggiunse Alessandria,
avvicinò e confortò i confessori, nella speranza che qualcuno lo notasse e lo
condannasse al martirio: subì invece il martirio incessante del non-martirio
(V.A. 46); ma in tale modo Antonio poté rendere alla Chiesa un servizio
maggiore e insieme si sottopose al martirio quotidiano della sua coscienza e
della lotta contro le prove della fede (V.A. 47): é manifesta l'intenzione di
Atanasio di equiparare la perfezione ascetica del monaco alla perfezione del
martire;
·
Antonio é
stato reintegrato nella perfezione originaria, prelapsaria, quando Adamo aveva
potere anche sulle bestie feroci (V.A. 50);
·
Antonio é divenuto un sicuro e tenace assertore
della retta fede (V.A. 68-69) contro le varie sette scismatiche ed ereticali:
verso il 335 Antonio intervenne direttamente contro gli ariani, raggiungendo
Alessandria e sostenendo con la sua predicazione le tesi di Atanasio.
La morte-apoteosi
si sarebbe verificata verso il 356, quando per i suoi 105 anni Antonio poteva
vantare la longevità patriarcale!
Nota bene: oltre alla Vita Antonii,
disponiamo di altre fonti letterarie per la ricostruzione della figura e dello
sfondo spirituale del grande patriarca:
·
Una serie di 38 apoftegmi (PG LXV, 76a - 88b): la scelta e la stesura
letteraria si collocano in un ambiente a noi più vicino. Tuttavia emerge una
immagine di Antonio più autentica, in quanto non ancora raggiunta dal processo
di esaltazione eroica, che si riscontra invece nella Vita Antonii (cfr J. GRIBOMONT,
op. cit., 1540-1541).
·
Sette lettere: conosciute da Girolamo (De viris illustribus, 88) in
una versione greca, che a noi non é pervenuta,
sono invece reperibili in alcuni frammenti in copto (la lingua della stesura
originale: Antonio non conosceva il greco), in due versioni latine (PG XL,
999-1066; PG XL, 972-1000) ed in una versione georgiana. L'autenticità é
probabile (F. KLEJNA; L.v. HERTLING; G. GARITTE). Meritano menzione per tre
ragioni: a) il linguaggio appare molto oscuro non solo per la assai travagliata
tradizione letteraria, ma anche per il fatto che l'autore non dispone ancora di
un vocabolario monastico ben definito; b) Antonio, pur mostrando di disporre e
di una non vasta cultura e di una limitata capacità logica, appare imbevuto di
un origenismo spinto: si deve pertanto concludere che Atanasio, nello scrivere
la vita, ha attenuato i toni origenisti; c) va ridimensionata la tendenza a
distinguere un monachesimo dotto (quello della seconda fase) da un monachesimo
popolare ed evangelico (quello delle origini), tendenza seguita anche da L.
BOUYER, La spiritualità dei Padri (= Storia della spiritualità
cristiana 2), Bologna 1968, 255. Non Si deve fare coincidere la non-conoscenza
del greco con l'assenza di ogni formazione culturale: l'Egitto nel quadro
della sua tendenza autonomistica aveva sviluppato una sua tradizione culturale
copta (cfr G. GARITTE; E. STEIN).
·
R. DRAGUET, Une lettre de Sérapion de Thmuis aux disciples d'Antoine: Museon XIV
(1951), 1 - 25: si tratta di. una
lettera, che Serapione inviò ai discepoli di Antonio, per consolarli in seguito
alla recente morte del loro maestro: é anteriore alla Vita Antonii e porta una
importante conferma circa
l'esistenza di Antonio, circa
la sua eccezionale statura morale, circa l'esistenza di un gruppo che in lui trovava modello di vita.
cfr
J. GRIBOMONT, op. cit., 1540-1541; A. SAITTA, Dall'impero di Roma a Bisanzio (= 2000 anni di storia 2), Bari 1979, 415-419.
3 - Gli sviluppi dell'anacoretismo in
Egitto
a) le fonti:
+ Historia monachorum in Aegypto sive de vitis Patrum (PL XXI,
388-462)
contenuto: in 33 capitoli di diversa lunghezza viene narrato un
viaggio all'interno degli ambienti monastici egiziani: si sarebbe effettuato nel
394-395, vi avrebbero preso parte sette laici e un diacono, ai quali fu
possibile accostare direttamente quasi tutti ì centri monastici. Per quanto
concerne il monachesimo della Tebaide invece non fu possibile la testimonianza
oculare, perché la marcia, inoltrandosi in zone esposte ai briganti ed ai
barbari, diventava assai rischiosa: quindi gli otto si limitarono a raccogliere
le voci e le tradizioni!
datazione: 400 circa
autore: secondo C. BUTLER sarebbe un certo Timoteo, arcidiacono
della Chiesa di Alessandria. Girolamo nella sua lettera CXXXIII a Ctesifonte contesta
aspramente l'opera per il suo indulgere nei confronti di monaci origenisti e ne
attribuisce la paternità a Rufino di Aquileia: in realtà Rufino fu soltanto il
traduttore di un originale greco, che Girolamo non ebbe modo di conoscere. Pure
é priva di fondamento l'attribuzione ad un Petronio di Bologna, suggerita da
Gennadio nel "De viris illustribus”, XLII.
+ Apophtegmata
patrum:
descrizione: si tratta fondamentalmente di tre raccolte
di detti degli eremiti e anacoreti:
- I raccolta: in greco; ordina i detti secondo il criterio degli autori
in successione alfabetica (PG LXV, 71 - 440);
- II raccolta: l'originale greco é ancora inedito; é stata pubblicata una
versione latina, che risale al VI secolo ed é opera di due diaconi romani (poi
ascesi al papato): Pelagio e Giovanni; caratteristica: i detti sono ordinati
per tematica (PL LXXIII, 381-1062);
- III raccolta: in latino; é una recensione ibrida elaborata dal diacono
Pascasio nel VI secolo secondo il criterio della distribuzione per tematiche.
Queste tre
collezioni sono ben lontane dall'esaurire tutto il materiale.
datazione: il passaggio dalla tradizione orale alla stesura scritta
si ebbe verso il 450 ad opera di un discepolo dell'eremita Pimenio.
+
Historia
Lausiaca:
contenuto: narra le vite di parecchi padri del monachesimo
egiziano. Lausiaca da Lauso, il ciambellano di Teedosio II, che sollecitò
l'opera e ne ottenne la dedica; accanto ad una propensione per il miracolistico
sì rileva una preoccupazione di obiettività, che induce a esporre anche gli
eccessi, i limiti e le debolezze del fenomeno monastico.
autore: Palladio, dapprima monaco in Egitto, poi vescovo di Helenopolis
in Bitinia.
data: intorno al 420. Ci é giunta in tre recensioni latine, in redazioni greche
e siriache parecchio divergenti fra loro! (PG XXXIV, 995-1260: testo greco
artificiosamente interpolato su una traduzione latina del 1555!)
+ Collationes Patrum XXIV di Giovanni Cassiano, pubblicate dal 420 al
429.
Sia la
Historia Lausiaca sia le Collationes, pur riportando fatti e testimonianze
primitive, risentono del successivo lavoro di sistemazione dottrinale,
compiutosi soprattutto sotto l'influsso di Evagrio Pontíco (cfr L. BOUYER, La
spiritualità dei Padri, Bologna 1968, 223), Anche A. SAITTA, Dall'impero
di- Roma a Bisanzio, op. cit., 410-415; K. BAUS - E. EWIG, L'epoca dei
concili. IV - V secolo (= Storia della Chiesa, dir. H. Jedin, II) Milano
1977, 385.
b) i centri monastici: .
+ Alto Egitto: in Tebaide si
sviluppa un monachesimo in forma anacoretica in connessione con l’esperienza
di Antonio.
+ Basso Egitto (zona circostante
il delta del Nilo): si segnalano tre aree monastiche:
·
NITRIA (oggi
Barnugi, a sud di Alessandria, verso il deserto libico) Iniziatore fu Ammone
(verso il 330).
· CELLE (a un giorno di marcia a sud di
Nitria): insediamento monastico collegato con Nitria. Caratteristico di queste
due fondazioni é il tentativo di mitigare l'isolamento individualistico: gli
anacoreti vivevano in capanne disseminate, ma il sabato e la domenica
convergevano per la celebrazione liturgica nella Chiesa centrale. Figura di
spicco nel centro di Celle fu Macario di Alessandria (+394).
·
SKETIS (a
circa 40 miglia a sud di Nitria, odierno Wadi-el-Natrûn fu la sede di Macario
il Grande ( o l'Egiziano) a partire dal 330 c. per un arco di sessanta anni.
·
MONTE SINAI:
in questo periodo delle origini il monachesimo qui sviluppatosi non fu che
un'appendice del monachesimo egiziano: infatti, anche se originario della
Palestina, proveniva dal centro monastico di Sketis quel Silvano, che con
dodici compagni nel 380 sì insediò nella zona del Sinai. Importante fonte per
lo studio del monachesimo sinaitico è la Peregrinatio o Itinerarium
di quella vergine, cui gli studiosi ora attribuiscono il nome di Silvia ora
quello di Eteria ora anche il nome di Egeria!
4
– Gli sviluppi dell’anacoretismo siriano
a) le fonti:
Mi limito a segnalare
quelle più importanti in ordine a questo nostro tema: sono due e sono ambedue
opera di uno stesso autore: Teodoreto di Ciro. Nato ad Ahtiochia verso il 393,
in giovane età si fece monaco nel monastero di Apamea. Creato nel 423 vescovo
della città di Ciro, in Siria, nel 449 si trovò costretto ad abbandonare la
sede episcopale, perché sospettato di connivenze con i nestoriani ed i
monofisiti. Finì i suoi giorni nel monastero di Apamea (+ 457).
·
Storia
religiosa (o monastica): tratta
esclusivamente degli anacoreti siriani (PG LXXXII, 1283-1496).
·
Storia
ecclesiastica: scritta
poco dopo la precedente, espone gli avvenimenti fino all'anno 428 (PG LXXXII,
882-1280).
b) le
origini:
Gli ultimi studi sono
propensi a considerare la nascita ed il primo sviluppo del monachesimo siriano
come un fenomeno autogeno, determinatosi nell'alveo dell'ascetismo siriano: gli
influssi egiziani si sarebbero fatti sentire solo in epoca post-costantiniana.
Il monachesimo siriano sarebbe dunque un fenomeno indipendente e parallelo
rispetto a quello egiziano (cfr G. TURBESSI Ascetismo e monachesimo e
benedettino (= Universale Studíum 78) Roma 1961, 121).
Ma per
una più adeguata comprensione del carattere del monachesimo siriano é
senz'altro più utile e più importante prestare attenzione all'origine e alla
evoluzione del cristianesimo siriano. La cristianizzazione fu introdotta non
dalle comunità cristiane ellenistiche, ma da quelle giudaiche: in Siria
pertanto l'influsso aramaico dette al kerigma cristiano un orientamento
fondamentalmente ascetico, che determinò una particolare visione
ecclesiologica. La Chiesa, detta Qeyâmâ (= patto), era formata esclusivamente
dagli asceti: al Battesimo e alla vita sacramentale erano ammessi solo coloro
che si impegnavano a condurre una vita verginale. Non sorprende pertanto se
nel II secolo proprio qui in Siria si sviluppò intorno a Taziano il movimento
degli encratiti, che rigettavano no il
matrimonio, l'uso della carne e del vino (ἐγκράτεια = dominio di sé, raggiunto attraverso la pratica costante della temperanza
e dell'astinenza).
Verso la
fine del III secolo lo stile del cristianesimo ellenistico raggiunse anche la
Chiesa siriana, che cominciò ad aprire le porte anche ai non-asceti. Tuttavia
gli ambienti di più rigoroso ascetismo vollero mantenersi nella vecchia
tradizione e riservarono a sé il nome di Qeyâmâ, presentandosi come "figli
e figlie del patto". Allorché questi "perfetti" si portarono a
vivere il proprio ascetismo lontano dalle comunità cristiane, anche in Siria
prese avvio il monachesimo (cfr A. VÖÖBUS, History of Asceticism in the Syrian Orient: A Contribution to
the History of Culture in the Near East, Louvain,
1958- 1988).
c) forme e
centri del monachesimo siriano
I primi
anacoreti comparvero sul finire del III secolo in Mesopotamia e per quasi tutto
il quarto secolo l'anacoretismo rimase la forma dominante. Fu però interpretato
secondo varie modalità:
· i reclusi (καθειργμένοι): per un certo
periodo o per sempre si facevano “murare” in un sepolcro o in una grotta…;
· quelli che vivevano all’aperto (ὑπαίθριοι): si rifiutavano di avere una dimora, per essere sempre esposti al
pubblico: agiva anche la preoccupazione pedagogica di coinvolgere gli astanti
nella esperienza ascetica. In pubblico si praticavano poi le più bizzarre e
maceranti forme ascetiche: gli stazionari vivevano in piedi quasi
perpetuamente; i dendriti ponevano la loro residenza stabile tra i rami degli
alberi; gli stiliti ( ad es. Simeone il Vecchio c. 390-459) sulla cima di una
colonna, esposti alle intemperie e al solleone, pregavano e predicavano; altri
si aggiravano tra la gente, trascinando pesanti catene di ferro.
Qui traspare
la prima particolarità del monachesimo siriano: la tendenza ad un ascetismo
estremo, che talora o spesso scadeva in eccessi impressionanti. “Questi si
possono facilmente comprendere quando si pensa che in quelle immense regioni
non ci fu una regola, universalmente accettata, che, come quella di Pacomio,
abbia impresso un orientamento fisso e definito. L'ascesi libera, eremitica vi
fu preminente e l'iniziativa personale non fu "mortificata", ma anzi
favorita, specie quando i monaci erano anche sacerdoti, pastori e
missionari... L'individualismo ascetico portò la mortificazione corporale fino
agli estremi delle possibilità umane..." (G. TURBESSI, Ascetismo e
monachesimo prebenedettino, op. cit.,123).
E’ illuminante
in proposito la testimonianza di Teodoreto di Ciro (Storia religiosa, 27):
"Alcuni lottano, vivendo in comunità..., altri preferiscono la vita
dell'eremita e mirano a intrattenersi solamente con Dio. Altri ancora esaltano
Dio, abitando in tende e capanne, altri in grotte e caverne. Molti...sopportano
i danni delle intemperie: ora gelano nel freddo più intenso, ora bruciano agli
ardenti raggi del sole. Alcuni stanno sempre in piedi; altri dividono la
giornata tra lo star seduti e la preghiera. Alcuni si rinchiudono all'interno
di recinti, protetti da muri ed evitano i contatti umani, altri rifiutano un
siffatto isolamento e stanno a disposizione di tutti coloro che vogliono
vederli".
Seconda peculiarità del monachesimo siriano é la
dedizione all'attività missionaria e pastorale: la regione era ancora in gran
parte pagana ed i monaci, per necessità, si fecero missionari; molti poi furono
promossi al sacerdozio e all’episcopato (L. BOUYER La spiritualità dei padri,
op. cit., 250). Potrebbe qui tornare significativa una affermazione su Efrem
(nato a Nisibi in Mesopotamia verso il 306 e morto ad Edessa verso il 373), che
forse non praticò mai la vita monastica, ma molto vi influì con i suoi scritti:
"Per Efrem é connaturale il restare in mezzo ad un gruppo di asceti e il
consacrarsi nello stesso momento al servizio della comunità cristiana. Postula
semplicità verso Dio e varietà di atteggiamento verso gli uomini. Essere allo
stesso tempo lontano e vicino agli altri, isolato dallo spirito del mondo e
accessibile a tutti…" (testo di W. CRAMER, The Christian
Father: What He Should Be, And What He Should Do , citato da A. SAITTA, Dall’impero
di Roma a Bisanzio, op. cit., 260).
Qui in Siria
dunque, sia pure per ragioni estrinseche e contingenti, il monachesimo per la
prima volta manifesta la tendenza a trasformarsi da modalità particolare di
vita cristiana (che si tratti di un chierico o di un laico non importa) a
modalità di vita di un gruppo elitario e direttivo: si arriverà alla
clericalizzazione del monachesimo e alla "monachizzazione" del clero!
Il
monachesimo siriano trovò localizzazione nella Calcide; sui monti di Antiochia
(in queste due zone comparve nel 374
anche Girolamo); nei dintorni di Edessa; sulle montagne della Mesopotamia
settentrionale.
Legato a
questa esperienza monastica siriana é senz'altro Giovanni Crisostomo: Giovanni
Crisostomo é non solo dimostrazione di un monachesimo impegnato pastoralmente
fino a ricoprire l'ufficio episcopale; é anche espressione di una resipiscenza
degli ambienti ecclesiastici locali nei confronti delle esagerazioni ascetiche:
nelle sue opere infatti (Comparatio regis ad
monachum. Adversus oppugnatores vitae monasticae) spinge
l'eremitismo a interpretare l'ascesi non tanto come lotta contro il corpo, ma
piuttosto come lotta senza quartiere contro le passioni.
5 - Pacomio, l'inventore del monachesimo
cenobitico
a) le fonti:
· Vita Pacomii: delle sei biografie pervenuteci le più
importanti sono la Vita I e la Vita II.
·
Paralipomena: una serie di racconti a sé stanti,che
risalgono agli inizi del secolo V.
·
PALLADIO, Historia
Lausiaca cc. XXXII e XXXI I.
· Regola di Pacomio: ci é giunta solamente nella versione latina,
che Girolamo compì su una traduzione greca dell'originale copto. Di questa
versione latina conserviamo due recensioni: una brevior e una longior.
Frammenti copti, scoperti nel 1919, hanno dimostrato che la longior é la
recensione originale, mentre la brevior sarebbe una riduzione operata per
adattare la regola ai monasteri europei, che certo non potevano adottare tutti
gli usi egiziani (longior: PL XXIII, 61-86).
·
Doctrina
de institutione monachorum: opera
di Orsiesi, secondo successore di Pacomio: utile per conoscere gli immediati
sviluppi del sistema pacomiano (PG XL, 869-894; PL CIII, 453-476)
· Lettera sulla Pasqua: versione latina, curata da Girolamo, di uno
scritto di Teodoro,
vicario di Orsiesi: altra fonte, che illumina circa il dopo-Pacomio (ML
XXIII, 104-106).
·
Lettera
di Ammonio al patriarca di Alessandria Teofilo: scritta tra il 399 e il 401, é ricca
di notizie su Pacomio, Teodoro e sulla vita di Pêbu.
b) Pacomio:
Nacque
verso il 290 da una famiglia ancora pagana, che risiedeva in un villaggio della
Tebaide superiore. Per capire gli orientamenti spirituali successivi è
opportuno considerare come avvenne il suo approccio decisivo con il cristianesimo.
Arruolato di forza nell'esercito esercito imperiale, un giorno a Tebe si trovò
incarcerato con le altre reclute: sul fare della sera il gruppo dei prigionieri
ricevette la visita coraggiosa di un gruppetto, che recava conforto e cibo. Si
trattava di un gruppo di cristiani. Nell'episodio va sottolineato non tanto e
non solo il fatto che Pacomio fosse un militare e quindi covasse una
propensione per l'inquadramento; piuttosto va rilevato che Pacomio accostò il
cristianesimo come carità, come dedizione agli altri: da questa caratteristica
fu attratto, abbandonò, non appena fu possibile, la vita militare e si fece
battezzare.
Volle
subito (c. 307) abbracciare una vita cristiana di rigore, associandosi agli
anacoreti, che presso Scenesît seguivano l'esempio e la scuola spirituale
dell'eremita Palamone.
Non fu solo
un contatto salutare con le alte vette della vita monastica, fu anche una
sofferta osservazione della assai più estesa bassura. Per molti la solitudine
infatti diventava individualismo, bizzarria spirituale, sregolatezza, arbitrio.
Per i vari gruppi di anacoreti, che con il passare del tempo si espandevano in
maniera impressionante, diventava sempre più minaccioso il problema della sopravvivenza materiale: le scarse risorse del
deserto oramai non garantivano più alla folla di asceti il minimo
indispensabile per vivere, fosse pure ad un regime di massima riduzione delle
esigenze. Bisognava trovare il modo per evitare che la scelta anacoretica
diventasse una scelta di suicidio.
Alcuni
pensarono di risolvere il problema, portandosi dove trovavano il cibo. Certo,
il perpetuo girovagare alla ricerca della carità altrui, liberava
dall'assillante ed assorbente esigenza del lavoro e tuttavia non favoriva
affatto la serena concentrazione nelle cose di Dio e nella ascesi e per di più
collocava il monaco girovago nella inaccettabile categoria dei parassiti. Era senz'altro
più rispondente al carattere ascetico della vita monastica trovare la soluzione
del problema della sopravvivenza nel lavoro degli stessi monaci, insieme però
bisognava evitare che tale lavoro finisse con il compromettere o attenuare lo
sforzo spirituale del monaco. In questo contesto a Pacomio la scelta di un'organizzazione
comunitaria della vita monastica dovette apparire come notevolmente
raccomandabile: il lavoro d'insieme e razionalizzato garantiva alla vita
spirituale uno spazio adeguato; la vita d'insieme e guidata da una regola e da
un superiore avrebbe impedito le degenerazioni individualistiche! Infatti verso
il 323 Pacomio decise di dare vita ad un monachesimo vissuto comunitariamente.
c) la vita comunitaria:
Dalla Vita
Antonii é apparso chiaramente che per il monachesimo-antico la solitudine,
l'isolamento non rappresentavano affatto il fine del monachesimo, ma erano solo
dei mezzi, delle condizioni per perseguire nel miglior modo possibile il fine
del monachesimo, che è la carità, come relazione di profonda comunione con
Dio, che diventa fonte di meravigliose e benefiche relazioni con gli uomini. Con
Pacomio il monachesimo antico, anche sulla base dell'esperienza, giunge a
percepire con chiarezza che solitudine ed isolamento non sono mezzi e
condizioni assolutamente necessari al perseguimento del fine monastico: si
riconosce che per molti solitudine ed isolamento possono risultare di
impedimento più che di aiuto, ma con ciò non si conclude che per molti la
professione monastica é impraticabile, bensì si conclude che la perfezione
monastica può essere raggiunta anche su vie, che non contemplano solitudine ed
isolamento assoluti. Con ciò non si deve pensare che per Pacomio il monachesimo
cenobitico avesse soltanto la plausibilità del fenomeno di risultanza, della
soluzione di ripiego. Chi si era fatto battezzare per il fascino di un cristianesimo,
che gli si presentava come coraggiosa dedizione agli altri, non poteva certo
considerare semplice soluzione di ripiego un genere di vita, che si regolava sul principio:
"Tutti devono esserti di aiuto, tutti tu devi aiutare". Infatti
Pacomio concepiva e presentava la koinonia della sua istituzione come una
ripresa ed una riproposizione di quell'ideale di Vita cristiana, che trovava
espressione nella comunità cristiana delineata dagli Atti degli Apostoli.
D'ora in poi sempre il monachesimo cenobitico vivrà di questa intuizione
pacomiana.
E' ancora legittimo
l'uso dei termini “monaco/monachesimo”
in questo contesto cenobitico, visto che “monaco” e “monachesimo” derivano da
monos?
Sì, é possibile
per tre ragioni: anche alla vita cenobitica si arriva dopo una scelta di
isolamento dalla famiglia, dal patrimonio,
dalla società; anche nella vita cenobitica si tende all’ideale della unificazione
interiore ed infine nella vita cenobitica si realizza l’ideale dello
"habitare in unum cor unum et anima una" (P. MIQUEL, op. cit., 1549).
Quanto al
termine cenobitismo: é evidentemente costruito sulla espressione greca κοινός
βίος (koinòs bìos). Il termine non é usato da Pacomio, che invece preferisce
parlare di ἱερά κοινωνία (ierà koinonìa): è stato introdotto
nel linguaggio monastico da Nilo il Vecchio o il Sinaitico (morto dopo il 426),
che lo mutuò dal linguaggio neo-pitagorico (Giamblico per esempio nella sua
"Vita di Pitagora" se ne serve, per indicare i pitagorici della Magna
Grecia: cfr A. SAITTA, Dall’impero di Roma a Bisanzio, op. cit. 249-257).
Ci sia, infine,
consentita un'ultima osservazione: Pacomio é "inventore" del
cenobitismo come Antonio fu inventore dell'anacoretismo e padre del monachesimo:
non mancarono tentativi cenobitici prima dl Pacomio, ma solo quello di Pacomio
riuscì e si consegnò alla storia con una struttura stabile e ben definita!
d) la dimensione verticale della vita
comunitaria
L' assoluta dedizione e
sottomistione a Dio nella vita cenobitica pacomiana si riflettono in una
triplice forma di sottomissione.
Si deve massima e
primaria attenzione alla Sacra Scrittura (H. BACHT), che deve ispirare tutta la
vita del monaco, come ha ispirato Pacomio nella stesura della sua regola
monastica (cfr la leggenda secondo cui la regola sarebbe opera di Dio,
consegnata da un angelo a Pacomio).
Si esige
perciò che ogni monaco sappia leggere, perché possa stabilire un contatto
assiduo con il testo sacro. Anche si dispone che il superiore si fondi sulla
Bibbia sia nell'esercizio della sua autorità (quindi la Bibbia offrirebbe al
superiore il criterio per una autentica interpretazione della regola), sia
nell'opera di istruzione religiosa dei monaci. Sottomissione si deve anche alla
regola. La sua redazione si é compiuta sia a partire dalla ispirazione biblica,
sia sulla base della quotidiana esperienza: il che da una parte significa che Pacomio
non si rifece a teorie ascetiche già definite e teologicamente elaborate;
dall'altra spiega come mai la regola non abbia un carattere sistematico, ma sia
arrivata all'attuale struttura in 194 articoli attraverso una stesura graduale,
suggerita dalla osservazione della vita quotidiana della comunità. Si dove
pertanto riconoscere che é scaturita una regola saggia nella sua discrezione,
una regola che a tutti consente di esserne osservanti, ma senza intima
afflizione ed angoscia (P. POURRAT, La spiritualité
chrétienne, I, Paris 71943, 133): da una parte su certi punti
secondari dell'ascesi individuale consente una grande libertà, dall'altra però
contro le trasgressioni di un certo rilievo prevede delle punizioni, che vanno
dalla pubblica prosternazione davanti ai fratelli in Chiesa o in refettorio
fino alla pubblica fustigazione, alla riduzione del vitto ai soli pane ed acqua
e - misura estrema - anche la definitiva esclusione dal monastero. La regola di
Pacomio ebbe una irradiazione grandissima non solo sul monachesimo orientale,
ma anche su quello occidentale; non solo sul monachesimo antico, ma anche su
quello più recente ( ad. es. gesuiti).
Si deve
infine sottomissione alle autorità monastiche costituite. Si distinguono vari
livelli di autorità. Al vertice abbiamo l'abate generale: era a capo di tutti i
vari monasteri pacomiani, che costituivano un ordine accentrato. L'abate
generale dal 337 risiedeva a Pêbu (in un primo momento a Tabennesi, prima
fondazione di Pacomio), ma visitava frequentemente la varie comunità. A livello
locale occupava il primo posto di responsabilità il “padre del monastero",
coadiuvato da un “secondo".
Ogni
monastero nel suo interno si articolava in più case, ciascuna delle quali
raccoglieva dai trenta ai quaranta monaci, svolgeva un'attività specifica
(tessitura, forno, pesca, pascolo...) ed era retta dal "superiore della
casa" (οἰκιακός), coadiuvato da un "secondo" (δεύτερος).
Come si
vede, la virtù che si impone, nella dimensione verticale della vita comunitaria
è l'obbedienza: da un lato essa svolge una importante funzione comunitaria,
garantendo un organico sviluppo della vita d'insieme, dall'altra essa esercita
un ruolo considerevole nella vita dell'individuo, che, attraverso la
mortificazione e la lotta contro l'egoismo e la superbia, giunge ad acquisire
il controllo della propria volontà (H. - I. MARROU, Le origini e i primi
sviluppi del monachesimo, op. cit., 326).
Se nell'anacoretismo
l’obbedienza alla guida spirituale assumeva il carattere di un temporaneo
esercizio tecnico, che mirava ad imbrigliare intelligenza e volontà, in vista
dell'autocontrollo e dell’autonomia, ora nel sistema pacomiano l’obbedienza
diventa una componente irrinunciabile e perenne della vita monastica (K. BAUS
- E. EWIG, L'epoca dei concili, op.
cit., 380). Tuttavia il sistema pacomiano non solo pone degli argini alla soggettività
di base con l’obbedienza, ma anche impedisce il personalismo di vertice: i capi
da una parte, come l'ultimo dei monaci,
devono obbedienza alla Regola e alla Legge di Dio, dall'altra devono confrontarsi
con il "capitolo generale": esso si riuniva due volte l'anno: in
occasione della Pasqua per le celebrazioni liturgiche e per il rinnovamento
spirituale; alla fine del mese di agosto per la discussione su problemi
organizzativi ed economici. Insieme si deve però riconoscere che nel sistema
pacomiano la funzione di guida non é tanto un ruolo carismatico esercitato da
personalità carismatiche, ma diventa piuttosto un ufficio istituzionalizzato,
esercitato da persone che si impongono prima dì tutto per ragioni
istituzionali!
e) la
dimensione orizzontale della vita comunitaria
Sotto
questo profilo la vita comunitaria deve comportare l'assenza di ogni
privilegio, che susciti gelosia, invidia, vanagloria. Questa preoccupazione si
esprime fin dal momento del reclutamento: alla vita monastica possono accedere sia poveri sia ricchi, purché liberi, però
tutti devono rinunciare al tanto o poco, di cui dispongono, per sottomettersi
alla rigorosa povertà individuale, che tutti eguaglia!
E'
interessante rilevare che il monastero pacomiano é generoso nell’aprire le sue
porte, finché non si tratti di sacerdoti: accoglie bambini, accoglie sposati,
che abbiano ottenuto il consenso della consorte davanti a testimoni, accoglie
invece con una certa riluttanza i sacerdoti ed esige da loro la rinuncia
all'esercizio delle funzioni sacerdotali: queste introdurrebbero tra i monaci
una pericolosa distinzione e pertanto si preferisce o partecipare alle funzioni
liturgiche della chiesa del villaggio vicino o fare venire in monastero il
sacerdote del villaggio vicino. (Pacomio non si fece mai ordinare sacerdote!)
Tutti poi sono sottomessi all'unica e medesima regola; tutti godono di uno
stesso trattamento quanto a vitto (normalmente due pasti al giorno; in
quaresima e sempre al mercoledì e venerdì un solo pasto dopo nona) e quanto ad
abito (tunica di lino; cocolla per coprirsi la testa; melote di pelle di
capra).
La vita
comunitaria in positivo per quanto concerne la dimensione orizzontale deve
comportare la corresponsabilità, la sollecitudine reciproca.
Il principio
pacomiano "Tutti devono esserti di aiuto, tutti tu devi aiutare" si
incarna nel quotidiano impegno di tutti sia per garantire alla comunità i mezzi
di sostentamento e della carità verso i poveri attraverso il lavoro, sia per
rendere il monastero una autentica "famiglia di Dio" attraverso la
sollecitudine non solo per la propria salvezza, ma anche per il bene di ogni
fratello. Perciò odio, ira, egoismo sono elencati tra i mali più gravi, che un
monaco possa commettere.
f) la dimensione intima
Sia
l'obbedienza, che caratterizza la dimensione verticale, sia l'uguaglianza, la
corresponsabilità, la sollecitudine reciproca, che caratterizzano la dimensione
orizzontale, nascono e si sviluppano sulla radice dell'umiltà. Da una parte
umiltà significa liberare la propria vita dall'amor sui e quindi impone la
lotta ascetica per raggiungere la ἀπάθεια (apàtheia),
cioè la quiete della propria passionalità, in tutti i suoi aspetti. Dall'altra
parte umiltà significa porre la propria vita alla insegna dell'amor Dei et
fratrum. Da ciò traspare che l'umiltà é non solo la categoria, che fonda la
vita monastica nella sua esteriorità (dimensione verticale ed orizzontale), é anche la categoria
che fonda la vita monastica nella sua interiorità (ascesi e comunione).
L'esercizio
dell'autorità, che si radichi in siffatta umiltà, non può scadere in
autoritarismo (amor sui), ma giunge a configurarsi come servizio (amor Dei et
fratrum; ascesi/comunione). La stessa ubbidienza, se radicata in tale umiltà,
non assume la connotazione negativa o neutra del gesto subito o formalistico,
ma assurge invece a gesto espressivo della lotta contro l'amor sui, a tensione
(gioiosa) all'amor Dei et fratrum. Analoga osservazione andrebbe fatta circa la
preghiera, che è insieme lotta, ricerca, comunione. Nel sistema Pacomiano si
prevedeva una preghiera comunitaria ( una serie di incontri durante la giornata;
celebrazione eucaristica il sabato e la domenica); una preghiera personale di
impronta biblica; giaculatorie per dare un carattere di orazione anche alle
attività più ordinarie.
L'ascesi
consisteva in una disciplina codificata dalla regola (lavoro; esclusione dei
cibi cotti e della carne dal vitto;
digiuni secondo i ritmi ricordati; silenzio assoluto a tavola, nel passaggio
dal refettorio alla cella, durante il lavoro, durante la notte; dormire senza
distendersi completamente, ma su seggiole, vestiti e tenendo la cella aperta; sanzioni
disciplinari) e in ascesi volontarie.
g) valutazione
Si deve
senz'altro riconoscere alla istituzione di Pacomio il merito di avere saputo rispondere
ai problemi materiali e spirituali, che in quel momento assillavano il
monachesimo: in particolare, mentre offriva all’anacoretismo la possibilità di
sfuggire all’anarchia, che minacciava di affondarlo, creava insieme la
possibilità di garantire a tutti gli aspiranti al monachesimo una formazione
metodica e rigorosa (L. BOUYER, La spiritualità dei padri, op. cit.,
246).
Se ne
avvidero i contemporanei e l'iniziativa pacomiana conseguì immediatamente un
notevole successo: alla morte di Pacomio (346) l'ordine comprendeva già undici
fondazioni. Tuttavia il successo finì anche per nuocere. I monasteri, che già
nel progetto iniziale prevedevano un numero considerevole di monaci, divennero
straripanti, così che la governabilità sia a livello generale sia a livello
locale divenne molto problematica. Col passare del tempo il successo comportò
anche un eccessivo arricchimento dell'ordine. Tuttavia credo che meriti una
considerazione primaria il fatto della istituzionalizzazione del monachesimo:
la scelta monastica cessa di essere un fenomeno inquadrabile come aspirazione
personale e diventa invece aggregazione ad una categoria sociale ben definita.
In secondo luogo l'istituzionalizzazione se da una parte libera dall'anarchia e
introduce i vantaggi summenzionati, dall'altra pone il rischio e la tentazione di
far consistere la vita ascetica “nell’esecuzione esterna di alcune pratiche
(obbedienza esterna; osservanza della regola)", svilendo sempre più il
carisma, l'interiorità, la creatività di chi pratica l’ascesi (cfr H. – I.
MARROU, Le origini e i primi sviluppi del monachesimo, op. cit., 326).
Questi
limiti furono avvertiti già allora e ciò spiega sia come mai il successo
dell'invenzione pacomiana non abbia affatto determinato la scomparsa dell'eremitismo
e dell'anacoresi, sia come mai abbia conservato vigore e prestigio l'idea
secondo cui il monachesimo raggiunge il suo apice solo nella vita solitaria.
Giustamente il Bouyer osserva: "Il monachesimo è dell’ordine dei carismi,
della libertà spirituale; appare dunque contrario alla sua natura profonda ed
originaria rinchiuderlo in una legislazione, in una organizzazione, per quanto
ben concepite esse siano. Non soltanto (se si vuole) l'abito non fa il monaco,
ma non è neppure la regola che lo fa, né l'obbedienza materiale al superiore,
né alcuna pratica regolata, ma soltanto la vita interiore, alla quale tutte le
pratiche sono ordinate e che nessuna pratica, per ben ordinata che sia,
saprebbe produrre in quanto tale. Il vero monaco non é e non sarà mai colui che
arriva a conformare il suo comportamento a un quadro, anche ideale: è lo
"spirituale" per eccellenza, e lo "spirituale" giudica di
tutto e non può essere giudicato da alcun criterio.
Al monaco
poi è essenziale abbandonare tutto per Dio solo, pertanto si deve riconoscere
l'assoluta relatività del quadro sociale, in cui il monaco si trova inserito.
L'opera del monaco … é un'opera che solo il monaco può compiere. I fratelli, la
vita con loro, possono aiutarlo a ciò, metterlo sulla strada, ma spetta a lui
solo, nel rapporto da solo a solo con Dio, di giungere o no al termine"
(L.BUOYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 247).
6 – Il monachesimo palestinese
a) le fonti:
+ Vita di Paolo di Tebe; Vita
di Malco, Vita di Ilarione : queste tre biografie, scritte da
Girolamo, non meritano molto credito: quanto vi viene narrato, é con ogni
probabilità parto della fantasia dello scrittore. I più benevoli fra i critici
(H. DELEHAYE) sono disposti solo a riconoscere la reale esistenza dei
personaggi, che sono stati chiamati a interpretare la vicenda romanzata.
+ Vita
di Caritone: scritto anonimo, risalente alla fine del VI secolo; di dubbio
valore storico, poiché dichiara di fondarsi esclusivamente su tradizioni orali.
+ CIRILLO
di SCITOPOLI, Vita Eutymii:
importante e credibile.
+ PALLADIO,
Historia Lausiaca, cc. 46 e 54-55;
e PAOLINO da NOLA, Lettere nn. 28; 29;
31; 45;
e RUFINO
da AQUILEIA, Apologia contra Hieronimum, 2,11:
queste tre fonti sono riferimenti necessari
per conoscere Melania seniore.
+ GIROLAMO,
Lettere n.108: necrologio di Paola;
+ GERONZIO, Vita s. Melaniae
senatricis Romae : scoperta nel 1884, importante perché scritta da un contemporaneo ed amico
di Melania la giovane.
b) premessa:
In Palestina
il monachesimo non fu un fenomeno autogeno, ma fu importato da personaggi, in
cui l'asceta si era fuso con il pellegrino. Tali personaggi, a seconda della
loro provenienza orientale o occidentale, introdussero un monachesimo
improntato secondo le forme dominanti nelle rispettive aree di provenienza.
c) Il monachesimo palestinese di impronta
orientale:
Il merito
della iniziativa monastica spetta senz'altro al monachesimo orientale. Si
dovrebbe qui fare il nome di Ilarione, ma - come sappiamo - le notizie di
Girolamo non sono affatto attendibili; perciò si deve concludere che l’eremita
Ilarione, benché sia il primo a guadagnarsi uno spazio nella memoria della
storia, non vi lascia tuttavia che il nome!
Un primato più
consistente va riconosciuto invece a Caritone: originario dell'Asia Minore (Iconio),
giunse in Palestina verso il 333 e dette vita a Faran, presso Gerusalemme a un
sistema monastico, che diventerà tipico del mondo palestinese: la laura. Si
tratta di un sistema intermedio tra l'anacoresi e il cenobitismo: i monaci
vivevano gran parte della loro vita in solitudine entro capanne, che però erano
tutte comprese in una determinata area; tutti dipendevano organicamente e
perpetuamente dal superiore della laura e tutti, due volte la settimana, si
riunivano per le funzioni liturgiche nella Chiesa, che si trovava al centro
del villaggio monastico.
Ad Epifanio
di Eleuteropolis, poi vescovo di Salamina (+403) si deve l'introduzione della
forma cenobitica secondo il modello pacomiano (in località BESANDUC): si
trattò di una fondazione, che non ebbe
irradiazione. La diffusione del cenobitismo in Palestina va invece ascritta a
Eutimio di Melitene (Piccola Armenia): nel 411 con l'amico Teocisto a Wadi
Mukellik (ad ovest di Qumrân ) fondò una sua laura, cui poi si affiancò un
cenobio: nel cenobio il giovane monaco riceveva istruzione e formazione spirituale;
quando all'abate sembrava venuto il momento opportuno, il momento della
maturità spirituale, il giovane monaco entrava nella vicina laura per vivervi
una forma più esigente, ma pure più
elevata! Discepolo di Eutimio (+
473) fu quel san Saba, che rappresenta senz'altro la figura più prestigiosa
del monachesimo palestinese in versione orientale. A san Saba (439-532) viene attribuito il Typikon: si
tratta insieme di una raccolta di prescrizioni ed indicazioni liturgiche e di
una collezione di 150 articoli disciplinari, che compendiano usanze monastiche
palestinesi e forse anche egiziane (G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, op. cit., 124).
Col passare del tempo il Typikon si é trasformato in una specie di calendario
liturgico delle comunità orientali.
d) il monachesimo palestinese di impronta
occidentale
Il
monachesimo latino si rese presente in Palestina solo sul finire del IV secolo:
non si deve ritenere che abbia trovato tardi la strada per la Terra Santa: anzi
se si considera che il mondo occidentale si accostò al monachesimo tra il
335-345, si deve senz'altro concludere che le fondazioni palestinesi
rappresentano una delle sue prime espressioni.
Vi si
costituirono tre centri monastici latini.
I - Sul monte degli Olivi a Gerusalemme per iniziativa di Melania seniore.
Nata verso il 341 e rimasta vedova verso il 362, si dedicò alla vita ascetica
in Roma. Nel 372 intraprese una "peregrinatio monastica", che ebbe
come prima meta le fondazioni egiziane e si concluse a Gerusalemme verso il
380 con la fondazione di un monastero maschile e di un monastero femminile
sulle pendici del monte degli Olivi. Qui maestro e guida fino al 397 fu Rufino
di Aquileia, che favori un grande interesse per gli scritti ascetici e
teologici.
Il - A Betlemme per iniziativa di Paola seniore. Altra nobildonna romana,
che dopo essere stata assidua frequentatrice del circolo ascetico di Girolamo
in Roma, seguì il suo "adorato" maestro in Palestina, portando con sé
le sue cospicue sostanze e la sua figlia Eustochio. Nel 386 a Betlemme finanziò
tre istituzioni: un monastero maschile, un monastero femminile ed un ospizio
per i pellegrini occidentali. Il monastero femminile, per il numero elevato
delle sue monache, fu articolato in tre gruppi secondo il criterio della
provenienza sociale. Il monastero maschile non ebbe mai grossi problemi di numero
e rimase unitariamente organizzato sotto la guida di Girolamo.
In ambedue i
monasteri si sviluppò un monachesimo di contemplazione (si seguiva la liturgia
latina), di azione caritativa (ospitalità ai pellegrini) e catechetica
(assistenza ai catecumeni e cristiani della zona) e di studio (partecipazione
viva alle polemiche teologiche del tempo: origenismo e pelagianesimo).
A Paola
seniore succedettero prima la figlia Eustochio (404-419) e poi la nipote Paola la
Giovane.
III - A
Gerusalemme per iniziativa di Melania la Giovane, nipote di Melania seniore.
Dopo avere perso prematuramente due figli, Melania la Giovane ed il marito
Piniano decisero di dedicarsi alla vita ascetica. Abbandonata Roma per sfuggire
alla invasione di Alarico (410), anche essi si dedicarono ad una specie di
"peregrinatio monastica": in Sicilia prima, nell'Africa
settentrionale poi (contatti con s. Agostino), indi in Egitto ed infine a
Gerusalemme (418 circa).
Dopo qualche anno di
anacoresi rigorosa sul modello egiziano, Melania preferì passare alla
fondazione di un monastero femminile, cui fece seguito un monastero maschile.
Vi si coltivò un discreto interesse teologico, ma vi furono prevalenti l'azione
caritativa e l'interesse per i contatti religiosi con l'aristocrazia orientale,
corte costantinopolitana compresa. Conseguenza di queste relazioni fu che alla
morte di Melania la Giovane (439) le sue fondazioni passarono in mano greca,
perdendo completamente il carattere latino.
e) particolarità del monachesimo palestinese:
Sono due:
+ il monastero qui
diventa centro di attività teologica: sotto questo profilo è particolarmente
importante e significativa la figura di Evagrio Pontico (345c.- 399), che introdusse nella vita monastica le
visioni di Origene, ma secondo un orientamento molto problematico!
+ Il monachesimo
palestinese, molto più di quello egiziano e di quello siriano, mantenne e
sviluppò contatti con la vita ecclesiale locale, diventando una specie di
"fabbrica" di vescovi (Epifanio di Salamina, Domno di Antiochia,
Stefano di Jamna, Martirio di Gerusalemme...).
7 – Basilio, colui che porta il
monachesimo sulle vette della dottrina e della organizzazione monastica
a) le fonti:
+ SOZOMENO, Storia ecclesiastica, III, 14: 31-17;
+ EPIFANIO di SALAMINA, Panarion, 75
a queste due
opere si deve fare riferimento per raggiungere la figura di Eustazio di Sebaste,
che ha introdotto il monachesimo nell'Asia Minore e in un certo senso ha
iniziato Basilio alla vita monastica.
+ BASILIO, Piccolo Asketikon, che ci é giunto soltanto nella
versione latina di Rufino d'Aquileia ed in una versione siriaca. Fu elaborato
prima della elevazione episcopale (370) e comprende circa 200 questioni, in cui
Basilio risponde ai problemi dei suoi compagni monaci, rifacendosi alla
dottrina spirituale maturata durante una "peregrinatio monastica" in
Egitto, Siria, Mesopotamia, Palestina e perfezionata successivamente nella
riflessione e contemplazione della sua personale esperienza spirituale.
BASILIO, Grande
Asketikon: redazione successiva ed ampliata dell'opera precedente. Le
questioni, oramai salite quasi a 400, sono state così distinte dagli editori:
· Regulae fusius tractatae (Grandi Regole): presentano le prime 55 lunghe
questioni, dove in forma di colloqui spirituali vengono affrontati i principi
dell'ascesi monastica, con una certa preoccupazione sistematica.
· Regulae brevius tractatae (Piccole Regole): presentano le altre 313
questioni, dedicate ai vari problemi particolari della quotidiana vita
monastica senza alcuna preoccupazione sistematica: si segue la forma della
domanda e risposta (cfr PG 31, 889-1306).
Come si vede, ci limitiamo a elencare le opere di carattere monastico,
confidando nella competente integrazione, che viene proposta nel corso di
Patrologia.
b) il contesto in cui Basilio maturò la sua
visione monastica:
Un posto di
primaria importanza va riconosciuto alla famiglia, in cui Basilio si trovò a
vivere: famiglia ricca, di tradizione senatoria, colta (il padre era un retore
molto stimato) e cristiana da più generazioni (vi si contavano dei martiri
cristiani; i nonni, consci dell'umana debolezza di fronte alla prospettiva
della morte violenta, vollero mettere al sicuro la propria indefettibilità
nella fede cristiana, rifugiandosi nel deserto per condurvi vita ascetica, che
preparasse lo spirito ad affrontare con forza il martirio, qualora ciò si fosse
reso necessario; una sorella di Basilio, Macrina, divenne monaca; due fratelli
divennero vescovi: Gregorio di Nissa, e Pietro di Sebaste; tutti e tre sono
venerati come santi.
Questa estrazione
familiare consentì prima di tutto a Basilio di ottenere una accurata formazione
culturale: fu discepolo del padre a Neocesarea; continuò gli studi di retorica
e sofistica a Cesarea di Cappadocia; li perfeziono a Costantinopoli prima e ad
Atene poi, dove fu compagno ed amico di Gregorio di Nazianzo.
L'ambiente familiare
favorì pure in Basilio l'esigenza di perfezione nella vita cristiana, che fu
letta - secondo gli orientamenti spirituali del tempo - in prospettiva
monastica: "Avendo letto il Vangelo e avendo in esso rilevato che mezzo
assai efficace per conseguire la perfezione era quello di vendere le proprie
sostanze, di spartirne il ricavato tra i fratelli poveri, di essere totalmente
liberato dalle preoccupazioni della vita presente e di non permettere che per
qualche indulgenza l'anima abbia a volgersi alle cose terrene, io bramavo rinvenire
qualcuno tra i fratelli che avesse intrapreso a camminare su tale strada.
Allora insieme con lui mi sarei accinto ad affrontare la traversata del profondo
fiume della vita. Ne scoprii parecchi: ad Alessandria, nel resto dell’Egitto,
in Palestina, in Siria, in Mesopotamia (allude ad una sua peregrinatio
monastica, svoltasi negli anni 357 - 358). Rimasi ammirato per la loro
astinenza nel mangiare, per la loro capacità di sopportare la fatica del lavoro;
mi impressionò la loro costanza nel pregare e la loro capacità di dominare la
voglia di dormire: nessun bisogno di natura li poteva piegare, abili nel
conservare sempre alto e libero il pensiero dell'anima loro anche nella fame,
nella sete, nel freddo, nella nudità: al corpo non badavano, non gli
riservavano nessuna attenzione! Come se vivessero in una carne, che non era la
loro, mi dimostrarono con la loro vita che cosa vuol dire essere quaggiù come
forestieri, che hanno in cielo la loro città. Ammirai questa virtù, dichiarai
la loro vita beata perché essi mostravano nel loro agire di recare la morte di
Cristo nella carne loro E io stesso mi decisi a diventarne emulo, nella misura
in cui ciò mi sarà possibile" (lettera 223, a Eustazio di Sebaste).
Infatti dal
359 c. fino al 370, anno della elevazione episcopale, Basilio si impegnò con
alcuni compagni nella vita monastica, ritirandosi nella località solitaria di
Annesi (Ponto). Qui l'uomo di cultura lavorò tenacemente per acquisire anche
una salda formazione teologica, accostando la produzione teologica da Gregorio
Taumaturgo a Origene (dunque non avvertiva nessun dissidio tra lo studio e
l'impegno ascetico-spirituale).
Qui il cultore della
perfezione spirituale si dedicò anche alla riflessione ed all'azione per spingere
il monachesimo dell'Asia Minore verso le alte vette della perfezione e della
organizzazione monastica, liberandolo da quei grossi limiti, che invece in quel
momento lo mortificavano e lo rendevano fortemente sospetto.
Infatti sotto
l'influenza di Eustazio di Sebaste (300 - 377) si era sviluppato in Asia
Minore un monachesimo, che si rifaceva al rigorismo siriano e lo radicalizzava
a tal punto da assumere tonalità encratiste.
In tre aspetti
soprattutto rappresentava un pericolo per la sana ecclesiologia:
+ la
ricerca della povertà estrema era fondata sulla convinzione che la rinuncia ad
ogni avere é condizione necessaria per la salvezza: ciò evidentemente
comportava la riduzione della vera Chiesa all'ascetismo più rigoroso e l'esclusione
di ogni altra forma di vita cristiana;
+ la scelta della vita verginale implicava un estremo disprezzo del matrimonio,
al punto che siffatti monaci si rifiutavano di partecipare all' Eucaristia
celebrata da sacerdoti sposati;
+ le
disposizioni rigoriste della disciplina monastica talora giungevano a
contrapporsi alla abituale disciplina ecclesiastica: i monaci al carattere
festivo della domenica contrapponevano la pratica del digiuno domenicale e
invece di prendere parte alla celebrazione liturgica della comunità cristiana
locale, preferivano dare vita in case private a celebrazioni di gruppo.
Basilio, benché amico di
Eustazio, maturò un lento ma progressivo distacco, che divenne addirittura
separazione, quando Eustazio nella questione ariana si oppose all’omousios e si
fece assertore dell'omoiusios.
c) la vita
comunitaria
Basilio - caso piuttosto
isolato nella storia della spiritualità monastica - afferma categoricamente la
superiorità della vita cenobitica su quella solitaria degli eremiti o degli
anacoreti: " Come si potrebbe nella vita solitaria realizzare il bello e
gioioso stare insieme, nella stessa dimora, dei fratelli?... Il convivere di
fratelli, insieme raccolti, rappresenta infatti un valido terreno di prova,
una magnifica via di progresso, un esercizio incessante ed
una meditazione continua dei precetti del Signore. Questa vita d'insieme tende
alla gloria di Dio... Si tratta di uno stile
di vita simile a quello che praticavano i "santi" menzionati dagli
Atti degli Apostoli: i fedeli si mantenevano in unità e tutto mettevano in
comune" (Regulae fusius tractatae, VII, 4).
Questa posizione si
sviluppa a partire da un triplice fondamento:
·
Fondamento
scritturistico: Abramo, Elia, Giovanni Battista, modelli tipici della vita
anacoretica, da Basilio - come già aveva fatto Pacomio - vengono sostituiti con
il rimando all'ideale della comunità apostolica primitiva di Gerusalemme,
delineata dagli Atti degli Apostoli. Anche una profonda meditazione del tema
della carità, secondo la prospettiva paolina e giovannea, conduce Basilio a
ritenere che siffatto esercizio della carità sia possibile prima di tutto e
meglio nella vita cenobitica (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei Padri,
op. cit., 264 e H.-I. MARROU, Le origini ci primi sviluppi del monachesimo,
op. cit., 327.e 328).
·
Fondamento
gnostico-alessandrino: il vero gnostico non può formarsi e vivere che in vita
comune, in quanto deve rendere gli
altri partecipi delle sue ricchezze (cfr L. BOUYER, Le origini ci primi
sviluppi del monachesimo, op. cit., 264; H.-I. MARROU, Le origini ci
primi sviluppi del monachesimo, op.
cit., 328).
·
Fondamento
ellenico-aristotelico: "E' anche vero che dietro il cristianesimo tutto
evangelico di Basilio si trova, perfettamente in accordo con esso e da esso
illuminato, l'umanesimo greco. Le considerazioni iniziali (nelle Regole) sul
carattere fondamentalmente sociale
dell'uomo parafrasano Aristotele e sono tutte impregnate del senso ellenico
della vita umana come vita in una polis " (L. BOUYER, La spritualità
dei padri, op. cit., 26).
In generale si deve
senz'altro rilevare che Basilio rigorizza, in un certo senso radicalizza, il
ruolo della comunità. Pur scostandosi dalle forme anacoretiche, Pacomio aveva
costruito un cenobitismo, che conservava diversi tratti dell'anacoretismo: la
casa come versione cenobitica della colonia di anacoreti; la cella per la meditazione
ed il riposo; la discrezione individuale nel determinare modalità di ascesi,
che inasprissero la disciplina fissata dalla regola; il numero rilevante dei
monaci, che impone una varia articolazione della vita comunitaria. Basilio
invece vuole che la vita comunitaria
non sia soltanto un elemento dell'esperienza monastica, ma giunga invece ad
essere lo sfondo normale, primario, in cui la vita spirituale si sviluppa:
sfondo primario anche rispetto all'individuo stesso, Le prove sono molteplici:
quando si tratta dell'obbedienza, il tema del bene immediato dell'individuo,
che l'obbedienza dovrebbe favorire e garantire, quasi scompare dietro alla
giustificazione di natura comunitaria: l’obbedienza cioè assicura l'armonia della
vita d'insieme. Perché possa veramente e totalmente attuarsi una vita
comunitaria si riduce notevolmente il numero dei monaci; si eliminano le
suddivisioni interne; si sottopongono tutti e direttamente ad un unico e
medesimo superiore (prevosto); si escludono le celle individuali e si creano
dei dormitori. Vengono pure messe al bando le libere ed individuali radicalizzazioni
della disciplina, perché, suscitando vanagloria, invidia, confronti e
scoraggiamenti, possono compromettere l’armonia dl vivere insieme: le veglie ed
i digiuni supplementari sono previsti come delle eccezioni, che devono essere
approvate dal prevosto, garante dell'armonia.
“Quel che sarà dunque santificante
nella vita del cenobita così concepita, è l'adattamento alla vita della comunità in quanto tale, che appare in fin
dei conti come il mezzo per eccellenza e insieme lo scopo dell'ascesi
monastica. Basilio ha dunque significato un mutamento radicale all'interno del
monachesimo: il monachesimo basiliano è quasi agli antipodi del monachesimo
primitivo: da opera di liberazione essenzialmente solitaria è diventato una
istituzione essenzialmente comunitaria.... La separazione dalla vita corrente
resta il solo tratto comune: ma questa separazione tende a sostituire una
società mediante un'altra e non ad impegnare in un’avventura spirituale
essenzialmente solitaria...". (L. BOUYER, La spiritualità dei Padri,
op. cit., 267-268).
Se la fuga dal mondo diventa
in qualche modo scelta di una società diversa, ne consegue necessariamente che
per il monaco la solitudine perde ogni carattere di isolamento fisico e materiale
e diventa - come per tutti gli altri – una dimensione spirituale: silenzio, raccoglimento interiore…
d) La dimensione verticale della vita
comunitaria
Vi si
distinguono tre livelli di dipendenza: Sacra Scrittura, Regola, autorità
monastica.
Al primo grado di
autorevolezza troviamo la Sacra Scrittura, cui però Basilio concede un ruolo
assai più rilevante di quello, che le riserva invece la regola pacomiana. Lo
studio della Bibbia diventa per il monaco basiliano il primo grande lavoro, in
cui viene guidato dalle regole interpretative suggerite dal grande padre e
maestro Basilio (P. POURRAT, La spiritualità chretienne, I, 153).
In questa
prospettiva (priorità della Bibbia) dobbiamo senz'altro dire che Basilio
contesterebbe la qualifica di "regole", che noi assegniamo alle sue
disposizioni, perché per Basilio in esse é autenticamente normativo solo ciò
che é citazione biblica!
La storia
della spiritualità riconosce alle regole Basilio una grande moderazione:
categoriche negli enunciati fondamentali, concedono invece ampio spazio di
decisione al superiore e al singolo monaco, quando sono in gioco questioni di
scarsa importanza. Prescrivendo esercizi identici per tutti, Basilio ha sentito
la necessità di chiamare i suoi monaci al cimento con difficoltà medie,
accessibili a tutti. Per evitare il pericolo che il monaco vi si sottometta
formalisticamente, con ossequio soltanto esteriore, Basilio ha prescritto lo
studio assiduo della regola, che in tale modo dovrebbe imporsi come
"mentalità, habitus mentale" e quindi ricevere un'osservanza "di
buon cuore" (P. POURRAT, op. cit.,158-159).
Poiché
l'esperienza spesso dimostra che la pluralità di centri di potere degenera in
contrapposizione ed anarchia, Basilio ha stabilito un'unica istanza di potere:
in ogni comunità non può esserci che un superiore, il preposto, che non deve
patire limitazioni né dall’alto (ogni monastero é autonomo, non dipende da un potere
centrale superiore) né dal basso (mancano superiori di gruppi di case: si
prevede un consiglio di anziani, ma ha solo un ruolo consultivo). Benché dotato
- come s'è visto - di autorità assoluta, il prevosto deve agire secondo il
criterio della paternità spirituale: deve sempre essere sacerdote; deve sempre
comportarsi con umiltà pazienza e dolcezza; deve cioè rendere la sua autorità
amabile, così, che gli si obbedisca non per costrizione fisica o morale, ma per
intima persuasione. Esplicitamente Basilio invita il prevosto a non formulare
mai seccamente i comandi che sempre devono essere motivati con rimandi alla
Sacra Scrittura.
Dunque nella
regola basiliana e nella autorità secondo tale regola non c’è nulla di simile
alla spiritualità dell’ "age contra": si vuole decisamente
un'obbedienza, che nasca dalla amabilità e dall'amore, poiché si sa che ogni
altra obbedienza, coatta e dilacerante, finirebbe con il compromettere l'ideale
dell'armonia (P. POURRAT, La spiritualità chretienne, I, 148; 158 -159).
In tale
prospettiva anche le sanzioni disciplinari subiscono una interessante
evoluzione: colpiscono non il corpo ma il cuore del monaco negligente, che per
un certo periodo viene privato della compagnia dei fratelli.
e) la dimensione orizzontale della vita
comunitaria
Garantita
dal saggio esercizio dell'autorità e
dalla fedele sottomissione dei monaci, l'armonia appare come la dimensione
normale, in cui si esprime la vita della comunità monastica. Nell' impostare le
loro relazioni i singoli monaci devono tutto finalizzare non solo al bene particolare
delle persone, che sono in causa, ma anche e prima di tutto al bene
comunitario. Con ciò non si mira affatto alla comunità massificante e
spersonalizzante, al contrario si vuole che la vita d'insieme, la composizione
in unità di cuore e di anima, sì compia attraverso un tipo di convivenza tutta
giocata all'insegna delle dirette relazioni interpersonali tra i vari monaci:
proprio per questo Basilio esige che le sue comunità monastiche siano ridotte,
a misura d'uomo: vuole che l'armonia del sistema sia data prima di tutto
dall'armonia intersoggettiva delle persone, che si accettano positivamente e
si amano come dei "tu" ben definiti e proprio perché sono "quei
tu" ben definiti!
f) la dimensione intima
Secondo Basilio
la categoria, che deve dominare la dimensione intima, è l'amore, che nasce,
cresce, matura attraverso la partecipazione sempre più consapevole alla vita
comunitaria.
Sotto questo
profilo l'adesione alla vita comunitaria é insieme la grande ascesi-lotta, che
converte all'amore e il conseguimento anticipato della condizione escatologica
di comunione totale.
Il carattere
ascetico del vivere comunitario é espresso chiaramente dalla disciplina, dalla ἐνκράτεια: dopo avere abbandonato con la fuga il nemico-mondo, il monaco in comunità
e con la comunità deve affrontare ancora due nemici: il demonio ed il corpo
del peccato. Qui Basilio, pur "condividendo l'ammirazione greca per il
cosmo, rimane un uomo del suo tempo, poiché vede nel corpo, con Platone, un estraneo all'anima, e, con Plotino, un
grave peso che ingombra l’anima, la sorgente delle impurità, che la corrompe.
L'ἐνκράτεια, rinuncia ai piaceri sensuali e più
genericamente a tutti i legami che provengono dal corpo, come quelli familiari,
é dunque al centro dell'ascesi: essa permetterà alla libertà di fiorire per
compiere tutti i comandamenti del Cristo formulati nella Scrittura e che sono
la regola ultima del monachesimo" (L. BOUYER, La spiritualità dei Padri,
op. cit., 267).
Anche in H.
– I. MARROU, Le origini e i primi sviluppi del monachesimo, 328, si afferma: "la penitenza ha
una sua ragion d'essere anche nella concezione platonica, che considera l'anima
come prigione del corpo: liberarsi da tutto ciò, che sa di terrestre per
aderire maggiormente a Dio".
Anche in G.
TURBESSI, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, op. cit., 130 – 131,
si legge: "La sua ascesi é impregnata dello spirito evangelico, ma tiene
conto anche dell'insegnamento della filosofia platonica e neoplatonica nei
rapporti tra anima e corpo, il quale ultimo é considerato un po' come la fonte
dell'impurità e della corruzione”.
La
disciplina, completamente sottratta all'iniziativa individuale, comportava
veglie, digiuni (un solo pasto giornaliero in quaresima; un solo pasto al
mercoledì e al venerdì durante gli altri periodi dell'anno; mai carne e vino);
grandi momenti di silenzio; riposo in dormitori, mantenendosi vestiti. Un posto
di rilievo spetta al lavoro manuale, che Basilio presenta come assolutamente
necessario al monaco, perché possa dirsi pienamente obbediente a quel Dio, che
ha ordinato ad Adamo: "Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della
tua vita..., con il sudore del tuo volto mangerai il pane" (Gn 3, 17.19). Il monaco, lavorando, si
garantiva la pratica del consiglio evangelico della povertà, poiché faceva sua
la condizione materiale di coloro che non hanno rendite e vivono del lavoro
delle loro mani (i poveri). Le rendite del lavoro monastico dovevano dunque
servire per il sostentamento dei monaci stessi nel corpo e anche nello spirito:
il lavoro doveva anche offrire risorse per l'esercizio della carità verso i
fratelli bisognosi: i monaci basiliani parteciparono cosi attivamente alle
opere sociali della Chiesa, praticando con generosità l'ospitalità verso i
pellegrini; istituendo orfanatrofi e scuole.
L'attività
più raccomandata da Basilio era l'agricoltura, i cui prodotti non venivano
tanto smerciati sui mercati delle città vicine, ma piuttosto venivano scambiati
tra i vari monasteri basiliani.
In
connessione con le pratiche ascetiche ricordiamo sia l'esame di coscienza, sia
la pratica della direzione spirituale o apertura di coscienza: il monaco si
rivolgeva al confratello, che mostrava particolari doti di discernimento dello
spirito (non si trattava necessariamente di un sacerdote: il carisma prevaleva
sull’ufficio) e gli confidava non solo i peccati ma anche le ispirazioni, le
suggestioni, i pensieri, le inclinazioni: il direttore spirituale poteva così
discernere ciò che era dito di Dio e ciò che invece era inganno del Maligno. Al
direttore spirituale il monaco doveva obbedienza incondizionata, poiché in lui
doveva riconoscere il "suo Gesù maestro" (G. TURBESSI, Ascetismo
e monachesimo prebenedettino, op.cit.,178-179),
Il vertice
della vita cenobitica era raggiunto nella preghiera comunitaria: qui la
comunione fraterna, diventando presenza di Cristo, consentiva all'anima di
vivere un incontro intimo e familiare con Dio e di adempiere "per
Christum" al suo dovere di adorazione, rendimento di grazie e propiziazione.
Nelle tradizionali ore canoniche (mattutino, terza, sesta, nona, vespero,
compieta) tutti i monaci si riunivano nello stesso locale per celebrare una
liturgia, che era un insieme di orazioni e di salmi. Perché questa preghiera
riuscisse nel migliore dei modi doveva collocarsi in un contesto di
raccoglimento, ascesi (serenità e tranquillità dell'anima attraverso la
purificazione dalle passioni) ed elemosina.
g) sviluppi
Con Basilio
il cenobitismo raggiunse la sua forma più perfetta. Tuttavia per una esatta
valutazione degli sviluppi occorre distinguere opportunamente tra forma
cenobitica ed ideale monastico.
La forma
cenobitica del monachesimo sia in Oriente (dopo il VI secolo anche nell'Egitto
di Pacomio), sia in Occidente si rifece in gran parte al sistema basiliano.
L'ideale monastico basiliano, che voleva il cenobitismo al vertice della
perfezione monastica, non ebbe successo invece in Oriente, dove la vita
monastica non cessò mai di tendere attraverso il cenobitismo verso l'anacoresi
e l'eremitismo. Maggiore fortuna l'ideale monastico basiliano ebbe in
Occidente, sia pure nella forma mitigata della regola di s. Benedetto (cfr L.
BOUYER, La spiritualità dei Padri,
op. cit., 268 e G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo prebenedettino, op.
cit.,131).
8 - Gli eccessi stravaganti del
monachesimo
a) I girovaghi: si tratta di una parola ibrida,
in cui sono fusi insieme un termine greco: γυρεύω (= girare, vagare) ed un
termine latino: vagus. S. Benedetto nel I capitolo della sua Regola così li
descrive: “Per tutta la vita si fanno ospitare per tre o
quattro giorni nei diversi centri monastici sparsi nelle varie province;
sempre vaganti e mai stabili, sono dominati dalle loro voglie e dai piaceri
della gola".
b) i sarabaiti: l'etimologia é incerta:
secondo alcuni si tratterebbe di una parola di derivazione aramaica (SARAB =
ribelle), secondo altri il termine avrebbe un'origine copta (SAR = disperso più
ABET = monastero) e quindi indicherebbe quei monaci, che vivono dispersi,
perché slegati da ogni struttura monastica. Cassiano nelle sue
"Collationes Patrum" (18, 7) propende per l'origine egiziana del
vocabolo, che così viene spiegato: "si allontanavano dalle comunità dei
cenobi e ognuno per proprio conto badava alle sue necessità".
Una presentazione di
questa genìa monastica ci é offerta anche da s. Benedetto sempre nel I capitolo della sua Regola: "Una
'terza nefasta specie di monaci è quella dei sarabaiti: non provati, come oro
nella fornace, dalla pratica istruttiva di una regola, ma rammolliti come
piombo, con le opere si mantengono ancora fedeli al secolo; con la tonsura
invece dichiarano che mentiscono a Dio. A due a due, a tre a tre, o anche soli
senza pastore, chiusi entro ovili, che sono loro proprietà e non del Signore,
seguono come legge la voluttà dei desideri: chiamano santo quel che a loro
piace e da loro viene scelto, dichiarano illecito ciò che a loro non
garba".
c)
i messaliani
o euchiti: messaliano è parola di origine siriana e significa "uomo di
preghiera"; euchita invece é vocabolo di origine greca (εὐχή = preghiera; εὔχομαι = pregare). I due termini quindi hanno identico significato. Rinveniamo vaghe
notizie sul fenomeno in Efrem il Siro (Orazione XXII), in Gregorio di
Nissa ( De virginitate, XXIII,3) ed in Epifanio di Salamina (Panarion
4,11). Più ampio nel riferire é invece Teodoreto di Ciro ( Storia
Ecclesiastica IV, 11, 1 - 8). Lo sfondo dottrinale ci é rivelato da due
sinodi, che presero posizione contro i messaliani (sinodo di Side in Panfilia,
390 c., e sinodo di Costantinopoli,
426).
La svalutazione dei sacramenti si
accompagnava con l'esaltazione massima della preghiera incessante, quale unica
possibilità di eliminare il peccato e scacciare il demonio dall'anima
dell'uomo. Insieme con questa pars destruens la preghiera incessante svolgeva
una pars construens: permetteva la percezione diretta, sensibile di Dio, delle
mozioni dello Spirito e del futuro. Per perseguire l'ideale della preghiera
incessante il messaliano si rifiutava di lavorare, di vivere delle rendite di
qualche proprietà (amministrazione = distrazione dalla preghiera) e si affidava
alla elemosina dei fedeli. Anche il concilio di Efeso del 431 si schierò contro
le tesi messaliane.
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