IL MONACHESIMO ANTICO IN OCCIDENTE
1 - Gli inizi
Gli studiosi oramai tendono a lasciare cadere
la tesi, secondo cui anche in Occidente il monachesimo si sarebbe sviluppato
autonomamente all'interno del preesistente ascetismo. Pare invece più appropriato
ritenere che l'ascetismo occidentale si indirizzò verso le forme monastiche
intorno alla metà del eccolo IV soltanto
e sia stato determinato a questo da chiari influssi del monachesimo orientale e
“per circa un secolo il monachesimo in Occidente fu una semplice appendice di
quello orientale: i suoi protagonisti principali o erano nativi dell'Oriente
o, se anche erano nati in terra latina occidentale, si erano dati alla vita monastica
in Oriente prima di ritornare nell'Occidente" (A. SAITTA, Dall'impero di Roma a Bisanzio (= 2000 anni di storia 2) Bari 1979, 226; cfr K. BAUS - E. EWIG, L'epoca dei concili. IV
- V secolo (= Storia della Chiesa, dir. H. Jedin, II) Milano 1977, 411).
Molteplici furono le possibilità di influsso.
I frequenti pellegrinaggi di occidentali in Oriente non si limitavano a
raggiungere i luoghi santi della Palestina, ma anche penetravano negli ambienti
monastici dell’Egitto, della Siria, della Palestina (si pensi a Rufino, Melania senior e junior, Paola,
Eustochio...). Atanasio, biografo di Antonio, dovendo più volte scontare la pena dell'esilio in Occidente (335 a Treviri;
340-343 a Roma; 345 ad Aquileia) contribuì senz'altro all'irradiazione dell'ideale
monastico. Verso il 370 Evagrio d'Antiochia poi con intelligenza (ma anche con
una certa libertà) tradusse in latino la "Vita Antoni", che ebbe una
grande diffusione ed una rilevante efficacia propagandistica in ordine
all'ideale monastico: ce lo testimonia Agostino nelle sue
"Confessioni": "Un certo giorno ecco viene a trovarci, Alipio e
me,.. , un certo Ponticiano, nostro compatriota in quanto africano, che
ricopriva una carica cospicua a palazzo. Ignoro cosa volesse da noi.... Dirò
che era cristiano e battezzato.... Ci raccontò la storia di Antonio, un monaco
egiziano, il cui nome brillava in chiara luce tra i tuoi servi, mentre per noi
fino ad allora era oscuro. Quando se ne avvide, si dilungò nel racconto, istruendoci....
Tutti eravamo meravigliati: noi, per quanto erano grandi (le tue meraviglie), lui
per non essere giunte al nostro orecchio.... Ponticiano infervorandosi,
continuò a parlare per un pezzo e noi ad ascoltarlo in fervido silenzio. Così
venne a dire che un giorno, non so quando, ma certamente a Treviri, mentre
l'imperatore era trattenuto dallo spettacolo pomeridiano nel circo, egli era
uscito a passeggiare, con tre suoi camerati nei giardini contigui alle mura
della città. Lì, mentre camminavano accoppiati a caso, lui con uno degli. amici
per proprio conto e gli altri due ugualmente per proprio conto, si persero di
vista. Ma questi ultimi, vagando, entrarono in una capanna abitata da alcuni
tuoi servitori poveri di spirito, di quelli cui appartiene il regno dei cieli,
e vi trovarono un libro ov'era scritta la vita di Antonio. Uno dei due cominciò
a leggerla e ne restò ammirato, infuocato. Durante la lettura si formò in lui
il pensiero di abbracciare quella vita e abbandonare il servizio del secolo per
votarsi al tuo. Erano in verità dei funzionari, di quelli cha vengono chiamati
agenti amministrativi. Improvvisamente pervaso di amore santo e di onesta
vergogna, adirato contro se stesso, guardò fisso l'amico e gli chiese: «Dimmi,
di grazia, quale risultato ci ripromettiamo da tutti i sacrifici che, stiamo
compiendo? Cosa cerchiamo, a quale scopo prestiamo servizio? Potremo sperare di
più, a palazzo, del rango di amici dell'imperatore? E anche una simile
condizione non é del tutto instabile e irta di pericoli? E quanti pericoli non
bisogna attraversare per giungere a un pericolo maggiore? E quando avverrà che
ci arriviamo? Invece amico di Dio, se voglio, ecco lo divento subito». Parlava
e nel delirio del parto di una nuova vita tornò con gli occhi sulle pagine. A
mano a mano che leggeva un mutamento avveniva nel suo intimo, ove tu vedevi che
la sua mente si svestiva del mondo, come presto apparve. Nel leggere, in quel
rimescolarsi dei flutti del suo cuore, a un tratto ebbe un fremito, riconobbe
la soluzione migliore e risolse per quella. Ormai tuo, disse all'amico suo: «Io
ormai l'ho rotta con quelle nostre ambizioni. Ho deciso di servire Dio e questo
da ora. Comincerò in questo luogo. Se a te rincresce di imitarmi, tralascia di ostacolarmi».
L'altro rispose che lo seguiva per condividere con lui l'alta ricompensa di così
alto servizio. Ormai tuoi entrambi cominciavano la costruzione della torre, pagando
il prezzo adeguato e cioè l’abbandono di tutti i propri beni per essere tuoi
seguaci. In quella Ponticiano e l'amico, che con lui passeggiava in altre
parti del giardino, mentre li cercavano, giunsero là essi pure, li trovarono e
li esortarono a rientrare, visto che il giorno era ormai calato. Ma i due
palesarono la decisione presa e il proposito fatto, nonché il modo come era sorta
e si era radicata in loro quella volontà. Conclusero pregando di non
molestarli, qualora rifiutassero di unirsi a loro. I nuovi venuti persistettero
nella vita di prima, ma tuttavia piansero su di sé, come diceva Ponticiano,
mentre con gli amici si felicitarono piamente e si raccomandarono alle loro
preghiere, per poi tornare a palazzo strisciando il cuore a terra, mentre essi
rimasero nella capanna, fissando il cuore in cielo. Entrambi erano fidanzati; quando
le spose seppero l'accaduto, consacrarono anch'esse la loro verginità a
te" (SANT’AGOSTINO, Le confessioni, (traduzione di Carlo Carena),
Roma 1965, 233- 4).
2 - Il monachesimo in Gallia
a) le
fonti:
+ Gli inizi
assumono contorni precisi con s. Martino, che noi possiamo conoscere attraverso
le opere di SULPICIO SEVERO (+ 420 circa), un laico che, rimasto vedovo, si dedicò ad una vita di "conversione”,
che ricalcava le forme monastiche, seguite dagli ambienti di s. Martino.
Notizie su Martino ed il suo monachesimo si trovano disseminate qua e là nelle seguenti
opere di Sulpicio Severo:
· Cronaca universale
· Dialoghi
· Tre lettere.
Direttamente
a Martino e alla sua esperienza Sulpicio Severo ha dedicato la celebre
· Vita Sancti Martini, che rappresenta l'archetipo dell'agiografia
latina: “correttamente interpretata, contiene, sotto un involucro assai
stilizzato, un importante nucleo storico, di cui non si potrebbe contestare
l'autenticità" (J. FONTAINE, Vie de
Saint Martin, Paris 1967, cit. da A. SAITTA, Dall'impero di Roma
a Bisanzio, op.cit., 474)
Questi
scritti di Sulpicio Severo sono stati editi in CSEL, 1).
+ Necessari riferimenti per ricostruire la
vita di s. Onorato e gli inizi di Lerino sono:
· ILARIO di ARLES, Sermo de vita sancti
Honorati (PL L, 1249-1279);
· Vitae sanctorum Honorati et Hilarii, ed. S. Cavallin, Lund 1952;
· EUCHERIO, De laude eremi (CSEL 31,
179-194
+ Sugli
inizi del monachesimo marsigliese siamo illuminati dagli scritti monastici del
fondatore:
· GIOVANNI CASSIANO, De
institutis.coenobiorum et de octo principaliurn vitiorum remediis
· GIOVANNI CASSIANO, Collationes Patrum
+ Utili
riferimenti per la ricostruzione del contesto gallico e franco sono:
· GREGORIO DI TOURS, Historia Francorum (MGH scr. rer. mer.- I)
In gloria confessorum (MGH
scr. rer. mer. I)
Vitae Patrum (MGH
scr. rer. mer. I)
· PAOLINO da NOLA, Lettere
· GIROLAMO, Lettere
· SALVANO, De gubernatione Dei (CSEL 8)
Ad Ecclesiam (CSEL 8)
· RUTILIO NAMAZIANO, De reditu suo
· Carmen de Providentia Divina (PL II)
· FORTUNATO, Vita sancti Paterni (MGH
auct. antiq. IV)
· Vita Patrum iurensium (MGH
scr. rer. mer. III)
· Vita Caesarii (MGH scr. rer. mer. III)
· Vita Theudarii (MGH scr. rer. mer. III)
· Vita sancti Germani (MGH scr. rer. mer. VII)
· Vita Columbani (MGH scr. rer. mer. IV).
b) S. Martino
Nacque a Sabaria
(Pannonia) verso il 316 (quindi dopo il cosiddetto editto di Milano) e divenne
cristiano a diciotto anni, quando già da tre anni prestava servizio
nell'esercito imperiale. Dopo venticinque anni di servizio militare, nel 356,
decise di dedicare la sua vita esclusivamente alla militia Christi: come asceta
itinerante vagò per le regioni balcaniche, passando anche dal paese natale per
recare l'estremo saluto ai genitori. Poi affascinato dalle esperienze
monastiche orientali (E. GRIFFE, Der Hl. Martinus und das gallische, Mönchtum
: Askese und Mönchtum (= Wege dei Forschung 409) hers. K.S. Frank,
Darmstadt 1975, 264)), volle vivere come eremita in una cella situata nei
pressi di Milano: voluit sed non potuit. Poco prima Martino si era lasciato
conquistare dalla personalità di Ilario di Poitiers, esule per la sua strenua
difesa del credo niceno, giungendo così a condividerne la posizione antiariana;
a Milano invece era vescovo un ariano, che non poteva certo sopportare la
presenza dell'asceta, che con la sua vita compiva una efficace propaganda dì
segno contrario! Divenne inevitabile il trasferimento dell'eremitaggio
sull'isola di Gallinaria. Il ritorno di Ilario dall'esilio significò per
Martino la decisione di raggiungere il maestro a Poitiers (fine 360 o inizio
361). Rifiutata la proposta di un inquadramento nel clero locale, Martino
preferì continuare la sua esperienza eremitica, ritirandosi nella località di
Ligugé (8 km a sud di Poitiers). A questa fondazione di Martino viene
solitamente riconosciuto l'onore del primato nella storia del monachesimo
gallico, ma anche questa volta si tratta di un primato dotato di una
preistoria: Sulpicio Severo nella sua "Vita sancti Martini" (V,3)
afferma che nella zona di Poitiers vivevano dei "fratres" dediti ad
una rigorosa ascesi ancor prima del 356: “con ogni probabilità erano monaci. Il
monachesimo gallico esisteva dunque senza dubbio già prima di s. Martino, però
effettiva certezza storica viene raggiunta solo con la fondazione di Ligugé "
(CH. COURTOIS, Die Entwicklung des Mönchtums in Gallien vom heiligen Martin
bis zum heiligen Columban : Mönchtum und Gesellschaf im Frühmittelalter
(= Wege der Forschung 312) hrsg. F. Prinz, Darmstadt 1976, 13 n.1). Il
solitario, che era stato ufficiale nell'esercito imperiale e veniva da lontano,
fu presto sulla bocca di tutti e toccò il cuore di alcuni, che si posero sotto
il suo esempio e la sua guida per vivere anch'essi come eremiti nella solitudine
di Ligugé.
Nel 371, quando
venne a mancare il vescovo di Tours, si volle Martino come suo successore: e
Martino, dopo notevoli pressioni, accettò, " rimanendo il monaco, che era:
stessa umiltà nel cuore, stessa povertà negli abiti" (Vita Sancti Martini , 10). In Tours il escovo Martino assolveva le
sue incombenze liturgiche e amministrative; si spingeva poi nelle campagne
circostanti per distruggere quanto persisteva della presenza pagana e per
edificare comunità cristiane. Il monaco Martino invece amava rifugiarsi nella
solitaria landa di Marmoutier per coltivarvi la sua grande aspirazione al
cammino verso Dio in solitudine ed ascesi perfette. Pertanto a Tours intorno al
vescovo non si formò il monasterium clericorum, che troveremo invece a Vercelli
e ad Ippona: e ciò proprio perché il vescovo di Tours pensava l'ideale
monastico in prospettiva eremitica.
Ma a Marmouitier, come già a Ligugé, chierici
e laici seguirono l'esempio di Martino, costituendovi una colonia eremitica.
"Vi vivevano circa ottanta discepoli,che
si volevano formare sull'esempio del loro maestro spirituale. Là nessuno
possedeva in proprio nulla. Tutto apparteneva alla comunità. Vendere e
comperare - cosa frequente presso gran parte
dei monaci - là non era possibile. Oltre il lavoro di scrittura non vi era
consentito altro lavoro manuale. E a questo lavoro si dedicavano solo quelli
giovani: gli anziani invece si consacravano esclusivamente alla preghiera. Quando non era tempo di digiuno, prendevano il
pasto insieme. Non conoscevano il vino a meno che fosse necessario per prestare
cura a qualche malato. Quasi tutti portavano vesti di peli di cammello: un
abito più raffinato era ritenuto peccaminoso. Questa austerità sorprende
maggiormente se si considera che molti monaci provenivano dalle classe
aristocratica.... Poi abbiamo rivisto parecchi di questi monaci come vescovi.
In verità, quale città, quale chiesa non avrebbe desiderato un vescovo, che
provenisse dal monastero di Martino?" (Vita sancti Martini, 10).
Sull'esempio di Marmoutier si costituirono
nella zona altri centri monastici: alla sepoltura di Martino (397) si
sarebbero presentati per l'ultimo omaggio ben duemila monaci (SULPICIO SEVERO,
Epistola III ad Bassulam, 18 : CSEL 1, 150).
Questo monachesimo, che faceva capo a
Martino, rimase ad un livello molto spontaneo: non conobbe regole, organizzazione
codificata: assunse Martino come sua "regola viva"! Ma ciò
evidentemente finì con il trasmettere a tutto il movimento la dicotomia della
vita di Mattino: questi era apostolo e monaco nello stesso tempo, ma non per
un'armonica fusione dei due ideali, bensì per un'estrinseca e sofferta giustapposizione.
La fuga dal mondo, la solitudine, intese in maniera radicale, decisamente fisica,
a malincuore furono ridotte a dei ritiri temporanei, per fare fronte alla
necessità di quel momento, che vedeva il mondo gallico entrare nella grande
stagione delle conversioni (cfr CH. COURTOIS, Die Entwicklung des Mönchtums
in Gallien, op. cit., 20 - 21).
Con la scomparsa della "regola
viva" il movimento venne trovarsi senza istruzioni scritte, senza
un'istituzione definita, che ne garantisse la durata, e senza una guida
indiscutibilmente autorevole: il nuovo vescovo Brizio, benché sia venerato come
santo, non ebbe forza per imporsi come guida carismatica di un movimento, che
rimaneva fondamentalmente carismatico (cfr E. GRIFFE, Der hl. Martinus, op.
cit., 261).
c) S.
Onorato e la fondazione monastica di Lerino
Nato e cresciuto in una famiglia illustre,
sentì agli inizi del V secolo il desiderio della perfezione cristiana e volse
lo sguardo ad Oriente, tentandovi una peregrinatio monastica, che però non ebbe
successo.
Con l'amico Caprasio si ritirò allora
sull'isola di Lerino, per condurvi vita anacoretica di tipo egiziano. La data
precisa della fondazione di Lerino non può essere determinata: dal XVII secolo,
con una certa probabile approssimazione, si indica l'anno 410 (cfr CH.
COURTOIS, Die Entwicklung des Mönchtums in Gallien, op. cit., 23 n.1).
Nel ventennio successivo sull'isola vennero a ritirarsi monaci in numero
sempre più rilevante e così Onorato si trovò costretto a trasformare la sua
anacoresi in un cenobio, cui dette una regola di vita, probabilmente scritta,
anche se, non essendoci pervenuto il
testo scritto, non ci é possibile precisarne il contenuto (CH. COURTOIS, Die
Entwicklung des Mönchtums in Gallien, op. cit., 23, n.37).
Su questo punto é possibile stabilire un
raffronto con il primo monachesimo gallico: Lerino ne mantiene l'esigenza di
distacco radicale, fisico (si tratta di un'isola), però segna anche un
superamento sia evolvendo decisamente verso la forma cenobitica, sia
introducendo una chiara tendenza alla regolamentazione, che trasforma il monachesimo
da movimento spontaneo di individualità ferventi in movimento definito quanto a
metodologia di formazione e di vita e quanto a configurazione giuridica. Ancor
più del monachesimo martiniano il sistema lerinense partecipò alle esigenze
apostoliche dell'epoca, offrendo alla chiesa della Gallia figure eminenti di
vescovi (Onorato divenne vescovo di Arles; da Lerino uscirono anche Ilario di
Arles, Cesario di Arles, Lupo di Troyes, Massimo di Riez, Fausto di Riez,
Eucherio di Lione).
Si deve rilevare che nei monaci lerinensi il
connubio apostolato-monachesimo appare meno sofferto, anzi talora porta
addirittura alla fondazione di monasteria clericorum, quale forma di vita
ideale per il clero cittadino chiamato a collaborare con un vescovo di provenienza
lerinense.
Si deve anche rilevare che i monaci di Lerino
frequentemente sono scelti come vescovi non solo perché provenienti da un
ambiente, che garantisce un'alta spiritualità, ma anche perché provenienti da
un ambiente aristocratico, avvezzo all'esercizio del potere: Lerino infatti
divenne meta di parecchi giovani aristocratici.
Per iniziativa di un certo Romano il
monachesimo lerinense ebbe una felice irradiazione sul Giura.
Lo spirito lerinense, che noi non possiamo
ricostruire a partire dalla regola di Onorato, perché non ci è pervenuta, può
essere in un certo senso raggiunto attraverso l'opera legislativa di Cesario di
Arles. Nato a Chalon-sur-Saône, in età ancor giovane decise di praticare
l'ideale monastico sull'isola di Lerino: ben presto però la sua salute
cagionevole lo costrinse ad abbandonare i rigori monastici. Il vescovo Eonio di
Arles, dovendo reperire una guida per un monastero della sua città (un monasterium
clericorum), si rivolse senz'altro a Cesario, che poi nel 502 gli succedette
sulla cattedra episcopale. Nei ,quaranta anni di ministero episcopale Cesario
continuò ad occuparsi della vita monastica, elaborando due regole.
Sia nella più breve "Regula ad Monachos" (PL
LXVII, 1099 -1103) sia nella più estesa "Regula ad virgines"
(PL LXVII, 1107-1116), Cesario si rifà sia alla Sacra Scrittura, sia alla
produzione monastica di Cassiano e di Agostino (lettera 211), sia alle usanze
monastiche di Lerino. La sua personale difficoltà a sostenere un tipo di vita
eccessivamente severo lo ha spinto a prospettare un tipo di vita monastica, che
assegna il primato all'interiorità e mitiga la mortificazione del corpo (si
prevede la possibilità del vino e della lettura a tavola); H. v. SCHUBERT, Geschichte
der christlichen Kirche im Frühmitelalter, Darmstadt 21976, 61). “Grande
innovazione, con la quale egli annuncia e prepara l'opera di s. Benedetto, sarà
oltre all'esistenza rigorosa di una comunanza effettiva di tutte le cose del
monastero (comunismo anche dei vestiti), quella della stabilità (appartenenza
perpetua alla stessa casa e sottomissione per tutta la vita alla regola ed
all'abate di quella casa), con cui intendeva porre freno a quella fioritura
disordinata di tentativi molteplici, ma senza avvenire, in cui il monachesimo
occidentale si era fino ad allora troppo esaurito (L. BOUYER, La spiritualità
dei Padri (= Storia della spiritualità cristiana 2), Bologna 1968, 509).
Nel fissare l'ufficiatura in termini
notevolmente estesi (più estesa dell'ufficio benedettino), Cesario indica e
interpreta una tendenza verso un monachesimo prevalentemente
liturgico-rituale-cultuale, che poi troverà codificazione nelle consuetudini di
Benedetto di Aniane (+821) e più ancora nel sistema cluniacense (cfr P.
POURRAT, La spiritualité chretienne,
I, 403).
E' di un certo interesse rilevare che nel
corso dei secoli "la regula ad Virgines" di Cesario seppe stare in
onorevole concorrenza con la stessa regola di Benedetto nella orientazione dei
monasteri femminili.
d) Cassiano
e la fondazione di S. Vittore di Marsiglia
Il monachesimo di Cassiano appare determinato
dalla convergenza di tre elementi: la sua personale esperienza monastica
acquisita in Oriente; la situazione del monachesimo gallico al momento del suo
arrivo; la situazione politica dell'epoca.
Originario della Dobrugia, provincia
orientale di lingua latina, molto presto
si dedicò all'esperienza monastica in centri di grande rilievo: Betlemme prima e
in Egitto - a Sketis - poi per dieci anni. Ordinato diacono a Costantinopoli
verso il 400, divenne sacerdote ad Antiochia intorno al 413. Qui avrebbe
conosciuto due vescovi, che avevano dovuto abbandonare le loro sedi in Gallia:
Lazzaro di Aix e Eros di Arles: probabilmente ambedue erano stati discepoli di
Martino, probabilmente informarono Cassiano delle difficoltà in cui versava il
monachesimo gallico dopo la morte del grande padre-fondatore, probabilmente
Lazzaro, tornando in Gallia, a Marsiglia, nel 417, si fece accompagnare da Cassiano
con l'intento di impegnarlo in un'azione di riforma ed organizzazione del
monachesimo in Gallia (H. - I. MARROU,
Jean Cassian à Marseille : Revue du Moyen Age 1(1954) 5-6; E.
GRIFFE, Der hl. Martinus, 265-266). Dal vescovo di Marsiglia, Proculus,
Cassiano ottenne per la sua attività una Chiesa, che si trovava nel sobborgo di
S. Vittore e divenne il centro monastico di Cassiano. Il monachesimo gallico
agli occhi del nuovo arrivato appariva segnato da "abitudini odiose":
uno zelo sregolato nel salmodiare, che spingeva ad una recitazione precipitosa
e poco interiorizzata per il gusto di accumulare il più possibile salmi su
salmi; una diffusa "voluptas otii”, conseguente ad una scarsa
considerazione del lavoro manuale; una perniciosa instabilità di vita in
parecchi monaci, i quali, per amore di indipendenza, si ritenevano in diritto
di mutare posto e di prestare all’abate solo una sottomissione temporanea (cfr
G. CASSIANO, De institutis coenobitorum, 2,7: 3,5; 10,23). Tutto ciò
Cassiano attribuiva alla mancanza di una precisa norma per la vita di
perfezione e pertanto a tutto ciò ritenne di dovere ovviare, elaborando una
“norma interiore ed esteriore per la sequela di Cristo” (A. SAITTA, Dall'impero
di Roma a Bisanzio , op. cit., 301; E.
GRIFFE, Der hl. Martinus, 276).
Nacquero così il “De institutis coenobitorum
et de octo principalium vitiorum remediis” (424 c.) e le “Collationes
Patrum" (426-428 c.), dove Cassiano "esprime tutte le ricchezze
della tradizione monastica in un'ultima sintesi.... Difficilmente si sarebbe
potuto fare in una maniera migliore per trasmettere sotto una forma
assimilabile il meglio dell'esperienza egiziana, illuminata da un Evagrio
filtrato da un origenismo improntato alla più larga moderazione" (L. BOUYER,
La spiritualità dei Padri, op. cit., 496). Quindi a Cassiano l'Occidente
deve la diffusione delle concezioni monastiche orientali.
Fine che presiede a tutta la vita spirituale
del monaco é la ricerca di Dio e del suo Regno. Condizione per giungervi é la
purezza di cuore, che é insieme eliminazione di tutti i legami malvagi con il
"mondo" esterno ed interiore (gli otto vizi) ed espansione della
divina carità (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 497).
Rifacendosi a una quasi unanime convinzione orientale, Cassiano codifica nel
contesto monastico occidentale il principio della priorità di valore dell’anacoresi,
come vita di perfetta solitudine con Dio. Il cenobitismo viene quindi
presentato sia come il lungo e necessario esercizio di preparazione all'anacoresi
per i monaci spiritualmente più vigorosi, sia come la meno eroica vita di
perfezione per coloro, che non sarebbero capaci di affrontare e sopportare
l'ardua prova della solitudine. In questo contesto di "gradazione"
della perfezione cristiana merita senz'altro di essere considerato un altro
apporto, discutibile certo, di Cassiano alla mentalità spirituale occidentale: “In
Cassiano il modello di perfezione immaginato tra il secolo IV e V assume una
diversa caratterizzazione, che prescinde da Agostino: non più un monachesimo
volto alla conversione dei cristiani alla pienezza della fede, alla costruzione
di una Chiesa per tutto il popolo, ma un monachesimo che tende a considerare
la perfezione come un’opera peculiare che riguarda solo l'anima di chi entra
nel cenobio.... Solo il monaco é cristiano e il monaco non si occupa del mondo
e della storia: chi vive nel secolo, il secolare, é equiparato. ai gentili, é
un pagano, é in qualche modo fuori della vera Chiesa. Quello che nella chiesa
primitiva era possibile generaliter, ora lo é solo peculiariter, privatim, per
pochi. Ai monaci é concesso il senso spirituale della Scrittura, che introduce
ai misteri dei Regno; agli altri invece il solo senso letterale. L'equiparazione
cristiano-monaco- e secolare-pagano, la divisione infra-eccelsiale é il prezzo
storico per potere ancora proporre alla cristianità costantiniana la piena
sequela di Cristo come storicamente possibile" (C. LEONARDI, Alle origini
della crisi della cristianità medievale: Giovanni Cassiano e Salviano di
Marsiglia : Studi medievali, 1977, 543-549). Questa immagine storica
di Chiesa durerà molto: "una Chiesa dove la perfezione cristiana é
possibile in quanto strutturata in un istituto di perfezione, in quanto viene istituzionalizzata
nella condizione monastica: il cenobio é visto non solo come separazione dal
mondo, ma anche come separazione dai cristiani che vi vivono, dai non perfetti"
(A. SAITTA, Dall'impero di Roma a Bisanzio, op. cit., 301). Ma con la
fondazione di un monastero cenobitico in contesto cittadino Cassiano da una
parte ha il merito di avere introdotto nel monachesimo gallico una nozione meno
fisica, più interiore di isolamento, dall'altra ha efficacemente contribuito a
intendere la vocazione monastica non tanto come una vocazione alla solitudine,
ma piuttosto come una vocazione all'obbedienza.
Questa scelta diventa pienamente
comprensibile, se si considera il momento storico in cui Cassiano dovette
operare: essendo le Gallie da qualche anno esposte agli assalti delle orde
germaniche, anche ai monaci si imponeva il problema della sicurezza: gli uni
la perseguirono, insediandosi in località così isolate da non potere essere
raggiunte dai "barbari"; gli altri (Cassiano ne fu il modello)
preferirono la protezione delle mura cittadine; quasi tutti optarono per la
coesione monastica, sancita dalla regola e dalla vita cenobitica (cfr C.
COURTOIs, Die Entwicklung des Mönchtums
in Gallien, op. cit.,22-29).
Grazie alla cristianizzazione merovingia del
regno franco, grazie alla stabilità politica verificatasi nel secolo VI, il
monachesimo in Gallia conobbe una imponente fioritura: del resto proprio la
metodologia monastica, ben definita dalle regole, aveva fatto perdere al
monachesimo gallico il carattere eccezionalmente severo e lo aveva sempre più
fatto apparire come un'esperienza praticabile da un gran numero di uomini.
e) Colombano
e la fondazione di Luxeuil
Di origine irlandese (540 c.), monaco secondo
il sistema irlandese a Bangor, Colombano si trasferì nel regno franco verso il
590, dove dette vita a varie fondazioni, di cui la più celebre é Luxeuil.
Intorno al 610 per dissapori con la regina Brunechilde dovette abbandonare il
regno: in Italia a «Bobbio fondò un celebre monastero, dove morì verso il 615.
Solitamente
(cfr P. POURRAT, La spiritualité chrétienne, op. cit., 405-407) viene
contrapposto al discreto Benedetto come interprete di un monachesimo più rude
(ufficiatura più lunga; sanzioni penali più rigorose; regola complessivamente di
difficile applicazione per la sua severità). In realtà quello di Colombano è un monachesimo di "sintesi": sia
perché nella sua regola compaiono diverse reminiscenze benedettine (cfr J.
DUBOIS, s.v. Monachisme : DSAM c. 1559), sia perché più di tutti i suoi
più o meno illustri predecessori fondatori ha sentito l'esigenza di sviluppare
tra le sue varie fondazioni una specie di solidarietà monastica, che in qualche
modo prelude ai sistema successivo della congregazione monastica (cfr C.
CURTOIS, Die Entwicklung des
Mönchtums in Gallien, 14).
3 – Il
monachesimo in Africa: il caso Agostino
a) le
fonti:
Le notizie pi preziose ci sono offerte da s.
Agostino in diverse sue opere. Ci limitiamo ad indicare le più importanti fra
le opere tipicamente monastiche:
De opere monachorum: su
richiesta di Aurelio, vescovo di Cartagine, Agostino polemizza con certe
esperienze monastiche del suo tempo e dell'ambiente africano, delineando la sua
propria concezione monastica, che per i monaci ritiene opportuno il lavoro
come fonte del proprio sostentamento.
·
Lettera
211: indirizzata alla comunità monastica
femminile, di cui era stata superiora la sorella di Agostino. Vi si distinguono
due parti:
ü la obiurgatio (1 - 4) in cui Agostino
rimprovera le monache per le sedizioni, che travagliano la comunità;
ü la regularis informatio (5 -16): si tratta di
una regola monastica. Gli studi più recenti ed autorevoli (L. M. J. VERHEIJEN, Die
Regel des Hl. Augustin. Der gegenwärtige Stand der Forschung : Askese
und Mönchtum in der alten Kirche (=
Wege der Forschung 409) hrsg. v. K.S.Frank, Darmstadt 1975, 349-368)
attribuiscono ad Agostino solo la prima parte: la obiurgatio, considerano
invece la regularis informatio come un adattamento per monache della regola (il
praeceptum), che Agostino aveva dato ai monaci di Ippona, un adattamento che
praticamente è una copia verbale della vera e propria regola autenticamente
agostiniana, con un minimo di varianti per l'ambiente femminile: il problema
del chi avrebbe compiuto l'adattamento e del dove si sarebbe compiuto rimane
aperto (L. M. J. VERHEIJEN, Die Regel
des Hl. Augustin, op. cit., 361-362).
·
Praeceptum (o Regula tertia), contrariamente alle
vecchie tesi, che lo ritenevano una versione maschile della "Reguiaris informatio",
oggi si propende a vedervi l'autentica regola di Agostino, dal quale sarebbero
derivati i successivi testi di legislazione monastica, che si richiamano ad
Agostino (L. M. J. VERHEIJEN, Die Regel des Hl. Augustin, op. cit.,
355-360)). Il cosiddetto. "Ordo
monasterii" (o regula secunda) quanto a stile si scosta in maniera
chiara dalle maniere espressive tipicamente agostiniane (L. M. J. VERHEIJEN, Die
Regel des Hl. Augustin, op. cit., cit. 358), si può azzardare l'ipotesi che
sia una prefazione successivamente aggiunta al Preeceptum autenticamente agostiniano
(L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 488).
·
POSSIDIO, Vita
Augustini: soprattutto nei capitoli 5; 11; 22 - 26 sono reperibili notizie
sul monachesimo agostiniano.
b) il
monachesimo non agostiniano
Agostino stesso (Retractationes 2,47; De
opere monachorum) ci informa di una presenza monastica, che nelle sue forme
non é certo riconducibile all'ambiente spirituale del vescovo di Ippona:
niente lavoro, perenne instabilità, capelli lunghi ed incolti, bizzarrie nel
tratto esterno per il gusto di farsi notare, uso arbitrario della Sacra Sscrittura….
Questo monachesimo, talora esorbitante, non
deve certo i suoi inizi ad Agostino, anzi forse gli preesiste. Il segno che
Agostino ha lasciato nel monachesimo africano non é dunque quello
dell'iniziatore, tanto meno quello dell'inventore. Anche in questo caso Agostino
assume un qualcosa di già dato, lo plasma e
trasforma, lasciandovi l'impronta eccezionale della sua personalità: ne
è risultato un qualcosa di originale e
di incisivo per la vita ecclesiale del suo tempo.
c) gli
inizi del monachesimo agostiniano
"Fatto
prete, subito istituì un monastero accanto alla chiesa e cominciò a vivere con
i servi di Dio secondo il modo e la norma stabiliti al tempo degli
apostoli" (POSSIDIO, Vita Augustini, 5,1 ).
"Io,
che voi vedete qui vostro vescovo, per la grazia di Dio, venni ancor giovane
in questa città, come molti di voi sanno. Cercavo un luogo dove fondare un
monastero per viverci con i miei confratelli. Avevo abbandonato ogni speranza
in questo mondo. Ciò che avrei potuto essere, non desideravo essere: né cercai
di essere quello che oggi sono. Scelsi infatti di essere umile nella casa del
mio Dio, piuttosto che vivere nelle tende dei peccatori..." (Sermone 355,2). Ad Ippona Agostino si trovò costretto
a diventare ciò che non voleva, presbitero, in compenso dal vecchio vescovo
Valerio ottenne di potere fondare un monastero nel giardino della chiesa
maggiore.
"Raggiunsi
l'episcopato. Mi avvidi che il vescovo deve usare continua ospitalità a quelli
che vengono o passano da lui, che, se non lo facesse, sarebbe chiamato
inospitale. Ma se questa consuetudine si fosse introdotta nel monastero (dei
laici) sarebbe stato un inconveniente. Perciò volli avere con me, in questa
casa del vescovo, un monastero di chierici"(Sermone 355,2).
Da queste
citazioni traspare che la prima fondazione monastica di Agostino risale
all'epoca della sua ordinazione sacerdotale ad Ippona (391). Al primitivo
monastero per laici in un secondo momento - dopo la consacrazione episcopale
(396 c.) - si aggiunse una seconda fondazione, il monasterium clericorum.
d) L'ideale
monastico di Agostino: la vita comunitaria
Il cardine é rappresentato (cfr la citazione
di Possidio) dall'ideale della comunità apostolica primitiva, interpretato però
secondo le categorie culturali, che gli prestava il neoplatonismo e secondo le
esigenze della sua struttura psicologica.
Il tema cristiano della unanimitas, del
vivere insieme un cuor solo ed un'anima sola, trovava echi profondissimi nella
psicologia di Agostino, dove era saldamente annidato "il naturale spirito
di clan degli Africani. Agostino si adoperò per non trovarsi mai solo … persino
la più intima esperienza mistica ebbe luogo alla presenza di sua madre (la
visione di Ostia) …. Agostino aveva, bisogno dell'attenzione costante di un circolo di amici e di sentirsi
rassicurato da essi: in altri termini sapere di essere amato (De
catechizandis rudibus, 4,7) e sapere che vi era qualcuno degno, a sua
volta, di esserlo… era per lui un enorme incoraggiamente a riamare (De
Trinitate, VIII, 9,13) … La sua concezione dell'amicizia, come un'armonia
completa di menti e di intenti (Epistola 258, 4), era adattissima a
tenere unito un gruppo di uomini consacrati a Dio” (P. BROWN, Agostino
d’Ippona, Torino 21971, 188-189). Pertanto ad Ippona si costituì
una comunità monastica animata da un vero e proprio gusto per l'amicizia - cosa
piuttosto rara nelle comunità monastiche -
coltivata in tutte le sue più delicate sfumature: il rispetto per gli amici
assenti diventava avversione animosa nei confronti di ogni maldicenza, come traspariva
chiaramente dai versi, che spiccavano sulla tavola: "Chiunque creda di
potere / Rosicchiare la vita degli amici assenti / Deve sapere che è indegno di
questa tavola" (Possidio, Vita Augustini, 22,6).La lontananza dei
confratelli era sentita con fitte di nostalgia (Epistola 84).
Alla luce del neoplatonismo poi l'ideale
della comunità apostolica primitiva sprigionava note e tonalità particolari.
Il sogno plotiniano (cfr PORFIRIO, Vita di Plotino, 12) di costituire
una comunità di filosofi dal nome significativo di Platonopoli, ove si
praticasse l’“otium", il "colto ritiro", trovò una realizzazione
cristiana nel monastero agostiniano, in cui, attraverso il "christianae
vitae otium" (Retractationes, I, 1,1), si perseguiva l'ideale del
"deificari in otio" (Epistola 10, 2), diventare simili a Dio
nel proprio ritiro. Evidentemente il tema del "deificari in otio" rimanda
al principio neoplatonico di partecipazione, secondo il quale tutte le cose
provengono da Dio e insieme sono una partecipazione ed un'imitazione di Dio,
che é "la causa dell'universo creato, la luce della verità percepita, la
fonte della verità da raggiungere" (De Civitate Dei, VIII,9): cfr
A. TRAPE’, S. Agostino. Luomo, il pastore, il mistico, Fossano 1976,
127.
Sia però chiaro che il tema filosofico dell’ "otium"
non ha solo un riverbero culturale (amore per lo studio, per le discussioni) ma
anche assume tonalità ascetiche. A questo riguardo mi limito a due
esemplificazioni. Il tema classico dell'ascesi monastica, quello della fuga,
del distacco dal mondo esteriore, alla luce del plotiniano "Rientra in te
stesso e contempla” (PLOTINO, Enneadi, I,6), viene riespresso in termini
di interiorità (cfr per es. De libero arbitrio, 2,16 41). Anche il
tradizionale tema del distacco dal corpo e dalle passioni che ne scaturiscono,
viene riletto secondo l'essenziale distinzione neoplatonica tra sensibile e
intelligibile: “Se le anime che noi abbiamo sono eterne e divine , dobbiamo
concludere che quanto più lasciamo ad esse liberamente dispiegare l'attività
loro propria, cioè quella di ragionare, ricercare e sapere, e quanto meno sono
implicate nei vizi e negli errori dell'umanità, tanto più facilmente potranno
ascendere e tornare al cielo" (De Trinitate, XIV 19 26: si tratta
di una citazione di CICERONE, Hortensius, framm.97).
"(Per vedere Dio) l'anima ha bisogno di
tre disposizioni: che abbia occhi di cui possa bene usare, che guardi, che veda.
Occhio dell'anima é la mente immune da ogni macchia del corpo, cioè già
separata e purificata dai desideri delle cose caduche” (Soliloqui,
1,6,12).
Così commenta il "beati i
pacificatori": "Pacificatori sono nel loro intimo coloro che, avendo
vinto e assoggettato alla ragione... tutti i movimenti dell'anima ed avendo
domato i desideri carnali, sono diventati in se stessi un Regno di Dio… Essi
godono di quella pace che é data in terra agli uomini di buona volontà, … la
loro é la vita del saggio, completo e perfetto..." (De sermone
dominico in monte, 1,2,9).
In questa prospettiva la pratica della povertà,
della castità, dell'obbedienza, tipica dell'ideale monastico, in Agostino viene
a connettersi con l'esigenza neoplatonica di divenire "lanterna", cioè
intelletto splendente di verità, collocato su di un corpo ridotto a completa
sottomissione (P. BROWN, Agostino d'Ippona, op. cit., 131). Vigoroso é
il tema della povertà: "Soprattutto in quella società nessuno doveva avere
alcunché di proprio ma tutto per loro doveva essere in comune, e ad ognuno
doveva essere dato secondo le proprie necessità” (POSSIDIO, Vita Augustini,
5,1). "E poiché mi disponevo a vivere nel monastero con i fratelli, il
vecchio Valerio, di santa memoria, conosciuto il mio disegno e la mia volontà,
mi diede quell’orto nel quale ora é il monastero. Cominciai a raccogliere
fratelli di buona volontà, che non avevano nulla come io non avevo nulla e
disposti ad imitare il mio esempio. Di modo che, come io avevo venduto la mia
piccola proprietà e l'avevo data ai poveri, così facessero anche coloro che
volevano vivere con me; saremmo vissuti tutti così del bene comune; anzi ci
sarebbe diventato comune il grande e fertilissimo podere che é Dio"(Sermone
355, 2). "Le sue vesti, i calzari, la biancheria da letto erano di
qualità media e conveniente, né troppo di lusso né di tipo troppo scadente....
Usava di una mensa frugale e parca, che però fra le verdura e i legumi aveva
qualche volta anche la carne, per riguardo agli ospiti o a qualcuno che non
stava bene, e aveva sempre il vino.... Usava d'argento soltanto i cucchiai ma
il vasellame per portare i cibi a tavola era o di terracotta, o di legno o di
marmo, e ciò non perché non potesse, ma perché non voleva" (POSSIDIO, Vita
Augustini, 22, 1-2.5; cfr anche 23 e 24). "Non dite di nulla «E' mio»,
ma ogni cosa sia comune tra voi; dalla vostra superiora sia distribuito a
ciascuno di voi il vitto e il vestiario, non però a tutti in egual misura,
poiché non tutte avete la medesima salute ma ad ognuna secondo le sue
necessità.... Coloro che, quando entravano in monastero possedevano qualcosa
nel mondo, lo mettano di buon grado in comune: coloro
invece che non possedevano, non cerchino di avere in monastero ciò che non
potevano avere neppure nel mondo" (Epistola 211, 5). “E’ meglio
avere meno bisogni, che possedere più cose… L’abito non dia nell'occhio e non
cercate di piacere per le vesti, ma per il contegno... Vestitevi servendovi di
un solo guardaroba. Allo stesso modo nessuna lavori mai per se stessa, per
procurarsi indumenti e pagliericcio, o cintura, o mantelli, o veli per la
testa, ma tutti i vostri lavori siano compiuti per il bene comune, con maggiore
impegno e con più assidua diligenza che se ciascuno facesse ciò per sé. La
carità, infatti, di cui sta scritto che non cerca il proprio tornaconto, va
intesa nel senso che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni"
(Epistola 211,9 -12). "Nessuno faccia dono d'un mantello o di una
tonaca di lana o di qualsiasi altra cosa, se non per essere messa in comune.
Io stesso, memore del mio proposito di avere tutto in comune, prendo dal guardaroba
comune quanto mi serve.... Nessuno mi offra un mantello prezioso: sì, forse
potrebbe convenire ad un vescovo, ad Agostino però non si addice, perché é un
uomo povero, nato da poveri.... Voglio averne uno, che poi possa essere dato a
un qualsiasi mio fratello,quando ne abbia bisogno, uno che possa essere portato
convenientemente anche da un presbitero, da un diacono o suddiacono.... Se me ne
danno uno migliore, lo vendo, come sono solito fare; così, non potendo mettere
in comune il mantello, in comune metto il ricavato: lo vendo e ne do il
ricavato ai poveri" (Sermone 355,13).
Dai passi citati appare che la povertà é un
mezzo per vivere tutti del e per il bene comune, in maniera certo non
indigente, ma neppure fastosa e sempre attenta alle esigenze obiettive dei
singoli. La povertà svolge non solo una funzione ascetica ma anche sociale: il
principio “E’ meglio avere meno bisogni, che possedere più cose" sfocia
nell'esigenza di essere in grado di dare di più agli altri (A. TRAPE', S.Agostino,
op. cit., 178), ai più poveri definiti "compauperes", compagni di
povertà: "Si ricordava sempre dei compagni di povertà e dava loro
attingendo a quel che serviva per sé e per coloro che abitavano insieme con
lui, cioè delle rendite della chiesa e anche delle offerte dei fedeli"
(POSSIDIO, Vita Augustini, 23,1). Già questa carità ci fa intuire che il
monachesimo agostintano non era chiuso in se stesso: intendiamo ora
approfondire l'aspetto delle relazioni con il mondo e la grande Chiesa.
Convertendosi al cattolicesimo, Agostino
aveva lasciato cadere ed aspramente criticato il dualismo manicheo, cui aveva
aderito in un primo momento. Pertanto per il cattolico Agostino il distacco dal
mondo non era più, come ai tempi del manicheismo, una svalutazione del mondo, ma
un'affermazione della assoluta priorità di Dio, che dei beni creati é la causa
suprema e di cui i beni creati sono partecipazione ed imitazione limitata,
perché creati dal nulla: "Immaginate, fratelli, che un uomo faccia un
anello per la sua fidanzata e che costei amasse l'anello più del fidanzato, che
lo ha fatto per lei…. Lasciamo, certo, che ella ami il suo dono: ma se ella
dovesse dire: «L'anello mi basta! Non voglio più vedere la sua faccia! », che
cosa diremmo di lei? ... Questo pegno le é dato dal fidanzato, affinché nel suo
pegno egli stesso sia amato. Dio, dunque, vi ha dato tutte queste cose. Amate
lui, che le fece!" (Tractatus in epistolam Ioannis I, 2,11).
Pertanto il distacco monastico altro non é
che l'affermazione emblematica del cristiano-pellegrino: questi é uno
sradicato dalla sua patria, sente la nostalgia della sua terra, ma insieme é un
residente temporaneo, "che deve accettare un'intima dipendenza dalla vita
che lo circonda: deve rendersi conto che questa vita é stata creata da uomini
come lui, per conseguire un qualche bene, che egli é lieto di condividere con
loro, per migliorare una determinata situazione, per evitare qualche male più
grande; deve essere sinceramente grato delle condizioni favorevoli che gli
offre. In pratica Agostino aveva finito per aspettarsi dal cristiano la
consapevolezza della tenacia dei vincoli, che lo avrebbero sempre legato a
questo mondo.... Così la “Città di Dio” lungi dall'essere un libro sulla fuga
dal mondo, é un libro il cui tema ricorrente é quello del "nostro dovere
nell'ambito di questa comune vita mortale" (De Civitate Dei
XV,21,15): é un libro sul come vivere nel mondo, distaccati dal mondo. I membri
della civitas peregrina, pertanto, mantengono la propria identità non già col
distacco, ma con qualcosa di assai più difficile: col conservare una ferma ed
equilibrata prospettiva su tutto l'arco delle passioni, di cui gli uomini sono
capaci nel loro stato presente: "E’ per questo che la sposa di Cristo, la
città di Dio, canta il Cantico dei cantici: ordinate in me caritatem: mettete
ordine nel mio amore" (Cantico dei Cantici 2,4 in De Civitate
Dei XV, 22,29). Nel mondo il monaco é il richiamo radicale dell'amore
ordinato! (P. BROWN, Agostino d'Ippona, 324-326). Alla ecclesiologia
alternativa e sacrale dei donatisti, che pensavano la purezza come esclusione
di ogni rapporto con il secolo profano ed impuro, Agostino contrappone una
concezione di Chiesa come microcosmo, che in sé assume, trasforma, perfeziona
ogni positività, dovunque essa si trovi: così il microcosmo Chiesa cattolica in
sé realizza ed attorno a sé promuove l'unificazione della razza umana, creata
da Dio in un solo uomo, Adamo (cfr P. BROWN, Agsotino d'Ippona, op. cit., 216-217).
Come la Chiesa é microcosmo, così il
monastero per Agostino é microecclesia: non rappresenta una chiesa dei puri,
che si contrappone alla grande Chiesa: il monastero è pensato e voluto come
incarnazione di quell'ideale ecclesiale, che il libro degli Atti degli
Apostoli aveva delineato e che tutta la chiesa in quanto tale deve perseguire.
Quindi per Agostino l'ideale monastico quanto a contenuti non si distingue
dall'ideale ecclesiale: la distinzione si pone soltanto nell'ordine dei mezzi:
il monaco rinunciando ai beni materiali, può aderire più rapidamente degli
altri cristiani a quello, che é il possesso e la meta di tutti i cristiani:
Dio!( cfr L. VERHEIJEN, Die Regel des Hl. Augustin, op. cit., 363).
Poiché l'ideale monastico agostiniano é
essenzialmente ecclesiale, non si dà netta separazione del monaco dalla vita
ecclesiale, al contrario la necessità ecclesiale può portare il monaco al
diretto impegno pastorale (cfr Agostino ad Ippona; Possidio a Calama; Alipio a
Tagaste...: il monastero di Ippona divenne un seminario di vescovi). Cito in proposito passi assai significativi
di Agostino:
”Se la chiesa madre richiederà i vostri
servizi, non accettateli per avida brama di salire né rifiutateli per il
seducente desiderio di non fare nulla, ma ubbidite con umile cuore a Dio... Non
anteponete la quiete della vostra contemplazione alle necessità della Chiesa;
ché se nessuno dei buoni volesse portarle aiuto nel generare nuovi figli,
neppure voi avreste trovato il modo di nascere in essa" (Epistola 48,
2).
"L'amore della verità ricerca la quiete
della contemplazione (otium sanctum), la necessità dell'amore accetta
l'attività dell'apostolato (negotium justum). Se nessuno ci impone questo
fardello, applichiamoci allo studio e alla contemplazione della verità; ma se
ci viene imposto, dobbiamo accettarlo per la necessità della carità. Tuttavia,
anche in questo caso non dobbiamo rinunciare completamente alle gioie della
verità, affinché non accada che, privati di quella dolcezza, restiamo oppressi
da questa necessità" (De civitate Dei XIX,19).
Parlando, di Pietro che, dopo la
Trasfigurazione vorrebbe rimanere sul Tabor, così ebbe a dire Agostino: "Scendi,
o Pietro! Bramavi riposare sul monte; ma no, scendi, proclama la parola... lavora,
sopporta la fatica, soffri i tormenti.... La realizzazione del tuo desiderio,
o Pietro, é in serbo, ma dopo la morte! Ora egli stesso, il Signore, ti dice: «Scendi
'a terra a lavorare, a servire, ad essere disprezzato, ad essere crocifisso. E'
discesa la Vita per farsi uccidere; é disceso il Pane per soffrire la fame; é
discesa la Via per stancarsi sulla via; é discesa la Sorgente per soffrire la
sete: e tu ti ricusi di lavorare? Non cercare il tuo interesse. Abbi la carità,
proclama la verità: giungerai all'eternità e troverai la pace»" (Sermone 78, 6).
Si noti però: la necessità ha suggerito ad
Agostino la "clericalizzazione" estrinseca, contingente del
monachesimo. La convenienza, l'opportunità ha determinato Agostino a
"monachizzare” il suo clero: ha voluto cioè che tutti coloro che erano
chiamati a guidare i fratelli verso l'unico fine ecclesiale, si servissero di quell'ordine
di mezzi che rendeva più spedito il passo (cfr Sermone 355, 6): la
rinuncia ai beni materiali e la vita d'insieme! Fu criticato per la sua
eccessiva severità; fu anche tradito dall'ipocrisia di qualche suo sacerdote e
perciò con amarezza ebbe a dire: "Io muto atteggiamento: chiunque desidera
avere mezzi propri, chiunque non é pago di Dio e della sua Chiesa, risieda pure
dove vuole: non lo priverò dei suoi ordini! Non voglio ipocriti... Se é
disposto a vivere del solo Dio nella sua Chiesa e a non possedere nulla che gli
appartenga… resti pure con me! Chiunque non se la sente, riabbia pure la sua
libertà: ma si accorgerà da solo, se potrà conseguire la sua eterna
felicità!" (Sermone 355, 6).
Sulla strada della “monachizzazione” del
clero Agostino aveva dei precedenti in Eusebio di Vercelli, in Paolino di Nola,
forse in Victricio di Rouen: tuttavia l'impulso di Agostino fu incomparabilmente
più vigoroso ed esteso.
Ma il vivere insieme in povertà, obbedienza,
castità di questi monaci-pastori o pastori-monaci ebbe una importante
conseguenza: comunità, castità, povertà, sganciandosi dalla vita contemplativa
e sempre più circoscrivendo la vita dei pastori, finirono col creare la figura
del religioso, che vive e agisce tra i fratelli, distinguendosi da loro come
membro di una casta più sacrale: a questo punto il sacerdote si distingue dal laico
non solo per una diversità di funzione ecclesiale, ma anche per una diversità
di stato di vita (cfr L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 491-493).
4 – Il monachesimo in Italia
a) gli
inizi nel IV secolo
Anche in Italia il monachesimo si é
sviluppato sul terreno del preesistente ascetismo. La genesi può essere
attribuita al convergere di due fattori.
Nel IV secolo, in seguito alla pace
costantiniana, il mondo si fece progressivamente e velocemente cristiano e le
comunità cristiane, dal canto loro, videro sempre più affluire cristiani
mondani. In tale contesto la vita degli asceti, soprattutto delle vergini, ambientata
come era all'interno delle varie comunità cristiane, appariva esposta a
pericoli, minacce, incomprensioni. I responsabili delle comunità cristiane
avvertirono pertanto l'esigenza urgente di porre degli argini allo spontaneismo
ascetico: si ebbe. così una proliferazione di scritti sulla verginità
(Atanasio, Ambrogio, Girolamo ad es.) miranti a regolamentare la vita delle
vergini (circa l'abitazione, le uscite, la preghiera personale e la preghiera insieme
con le altre vergini nelle ore indicate, il digiuno, l'elemosina, la vicinanza
ai malati); si attribuì loro uno status quasi ufficiale (cfr il diffondersi del
rito della consacrazione delle vergini, celebrato dal vescovo: il rito
comprendeva la "velatio", che costituiva per le vergini una specie
di divisa).
A questa tendenza alla regolamentazione,
sempre nel corso del IV secolo, si associò un secondo fattore: l'influsso del
monachesimo orientale!.
Ne conseguì prima di tutto una accentuazione
della tendenza alla coesione fra le vergini di uno stesso centro (cfr i
circoli ascetici di vergini e vedove romane, che negli anni 381-384 si
raccolgono per esempio intorno a Girolamo, appena tornato da un ritiro
monastico in Siria): talora si giunse anche alla costituzione dì comunità
ascetiche.
L'influsso monastico orientale in secondo
luogo spinse a radicalizzare la distanza dalla vita ordinaria della comunità
cristiana (P. POURRAT, La spiritualité chretienne, op. cit., 118 -122).
Ma a questo punto l'ascetismo é divenuto
monastico!
Agostino nel
337 c. accenna (De moribus ecolesiae catholicae et de moribus Manichaeorum,
I, 33, 70-73) ad un monastero femminile romano, in cui vivono vergini e vedove,
seguendo insieme l'ideale della carità. Ambrogio a sua volta esalta la voce orante
degli asceti, che sulle isole abbandonate fanno a gara col mormorio delle onde
marine (Hexaemeron, III, 23-24).
Alla Epistola
48 di Agostino, dove si accenna ad una comunità monastica ritiratasi
sull'isola Capraia, fa eco il De reditu suo (439-452) di RUTILIO
NAMAZIANO, che sulla stessa isola colloca uomini spregevoli, che "dalla
luce se ne fuggono"!. Con evidente disgusto poi lo stesso Rutilio narra di un giovane, che tutto ha
lasciato per cercare viva sepoltura sull’isola Gorgona (ibid. 515-526).
Ad Eusebio di Vercelli si deve l'introduzione
in Italia del "monasterium clericorum" (dopo il 363), che rappresenta
la prima fondazione monastica italiana maschile e probabilmente la prima
iniziativa in tutta la Chiesa, dove monachesimo ed impegno clericale si fondono
in maniera organica ed istituzionale. Il vescovo di Milano Ambrogio a sua volta
é all'origine di una comunità monastica maschile, che viveva fuori le mura
della città di Milano (AGOSTINO, De moribus ecolesiae catholieae et de
moribus Manichaeorum, I, 33,70-; Confessioni,
VIII,6,15). Noto é anche l'indefesso lavoro dà Ambrogio per la vita ascetica
femminile.
b) Il
monachesimo in Italia nel secolo V
La diffusione crescente del fenomeno é la
prima caratteristica (Monteluco di Spoleto; Farfa; Arnobio il giovane a Roma; Liberio presso
Ancona; Antonio di Lerino sul Lago di Como; Eugippio presso Napoli; a Bologna
intorno al vescovo Petronìo; a Brescia intorno al vescovo Onorio; a Nola intorno
al vescovo Paolino; a Ravenna intorno al vescovo Piero Crisologo; a Pavia
intorno al vescovo Ennodio; a Verona intorno al vescovo Zeno).
La diffusione comportò l'esigenza di una regolamentazione: poiché in Italia mancarono
sia un grosso centro monastico, che si imponesse sugli altri con le sue
consuetudini, sia una personalità di rilievo nazionale, si ebbe un pullulare di
regole eclettiche, che si rifacevano alla letteratura monastica orientale ed
occidentale allora in circolazione (Vita Antonii; Regola di Pacomio nella
traduzione di Girolamo; regole basiliane nella versione di Rufino di Aquileia;
opere di Cassiano; Apoftegmi e vite dei padri del deserto): nessuna di queste
regole divenne dominante.
Terza caratteristica: lo sviluppo fu ben
presto inserito nel quadro degli
ordinamenti diocesani: il legame con il vescovo e con le esigenze delle
chiese locali fu quindi molto stretto. I vescovi spesso si servirono di monaci
per incombenze pastorali e per attività liturgiche (cfr Sisto III e Leone Magno,
che collocano monaci rispettivamente accanto alla basilica di s. Sebastiano ad
catacumbas e accanto alla basilica Vaticana.
c) Benedetto
Per tracciare la biografia di Benedetto si
deve fare riferimento obbligato, anzi quasi esclusivo al secondo libro dei Dialoghi
di GREGORIO MAGNO (altri riferimenti: Dialoghi, III,16; IV, 8-9).
Gregorio Magno volle offrire all’Italia
un’agiografia, che potesse affiancare la Vita Antonii per l’Egitto e la Vita
Martini per le Gallie.
La vita di Benedetto è come il pannello
centrale di un trittico, i cui pannelli laterali (libro I e libro III) presentano una folla di personaggi secondari.
Con i suoi circa 40 miracoli Benedetto eccelle rispetto a questi taumaturghi
minori…. Posto al centro dei primi tre libri, Benedetto anche apre il quarto
libro. L’abate di Montecassino non è dunque solo la figura dominante
dell’opera, ma anche è il motivo centrale intorno al quale si articola tutta
l’opera, è insomma il trait d’union tra le parti del trittico e tra questo e il
quadro che lo sovrasta (A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle,
Abbaye de Bellefontaine 1981, 18).
Si noti che Gregorio Magno scrisse, quando
Montecassino era già stato distrutto dai Longobardi (577). Per poco rimase
attivo il monastero di Subiaco. Quindi a fare memoria di Benedetto, fino al 717
– anno della ricostruzione di Montecassino -, non rimasero che la Regola e il
ritratto dei Dialghi.
Un confronto tra la data di composizione
dell'opera (593-594) e la data della morte di Benedetto (547) porta a rilevare
la relativa vicinanza tra narrazione ed eventi narrati! L'introduzione poi pare
esaltare il valore storico del testo gregoriano, affermando : "Quel- poco che
sto per narrare, l'ho saputo dalla relazione di quattro suoi discepoli: il
reverendissimo Costantino, suo successore nel governo del monastero, Valentiniano,
che fu per molti anni superiore presso il monastero al Laterano; Simplicio, che
per terzo governò la sua comunità, infine Onorato, che ancora dirige il monastero in cui egli abitò nel primo periodo di
vita religiosa."
La lettura dell'opera in realtà suscita
parecchie perplessità sul valore storico di quanto vi viene esposto.
C’è una evidente propensione al miracolistico:
infatti, oggetto dello scritto altro non è che raccontare dei miracoli. Di
questi si tenderà senz’altro a relativizzare l’importanza e ad attenuare il
fascino, subordinandoli con insistenza alla virtù, della quale sono indice. I
miracoli sono collocati con un certo ordine e connessi con le tappe successive
di un itinerario verso la perfezione.
Prima parte: Ciclo
di Subiaco (capitoli 1-8a): nei cc 5-8 modelli di Benedetto sono Mosé,
Eliseo, Pietro, Elia, Davide. Pietro, quale taumaturgo del Nuovo Testamento, è
posto al centro; agli estremi è posta la Legge (Mosè e Davide) e poi i profeti
in posizione intermedia.
Questa prima parte è costruita come un trittico.
I due pannelli laterali
sono dati da: capitoli 1-3 da un lato e capitolo 8 dall’altro e presentano i
fatti successivi di Roma, Affile, Subiaco, Vicovaro, persecuzione di prete
Fiorenzo.
Il pannello centrale:
capitoli 4-7: 4 miracoli situati tutti nell’arco di tempo, in cui Benedetto
esercita il ruolo di abate senza ostacoli e raccontati in una sorta di
atemporalità.
Seconda parte: Ciclo
Cassinese (capitoli 8b-38). Anche questa parte è costruita come un
trittico: il primo pannello laterale (capitoli 8b – 11) presenta dei fenomeni
diabolici iniziali; il secondo pannello laterale (capitoli 34-38) racconta la
fine; il pannello centrale (capitoli 12-33) presenta una serie di miracoli
narrati non in ordine cronologico ma in ordine sistematico.
Emerge un itinerario spirituale,
in
cui vengono affrontate e superate quattro grandi tentazioni secondo la
tipologia di Gesù tentato e vittorioso.
I tentazione: nella
solitudine di Subiaco matura il rifiuto della gloria, il trionfo sulla superbia
e sulla vanità. E’ la vittoria sulla parte razionale dell’anima (logistikòn).
II tentazione: vittoria
sulla lussuria mediante il sacrificio. E’ la vittoria sulla parte
concupiscibile dell’anima (epithymetikòn)
III tentazione: nel
contesto di opposizione dei monaci, nel contesto di persecuzione da parte di
prete Fiorenzo e a fronte delle
tentazioni di aggressività fa trionfare la carità e l’umiltà sulla collera e
l’odio. E’ la vittoria sulla parte irascibile dell’anima (thymikon).
Montecassino rappresenta
il vertice del cammino spirituale, dove Benedetto affronta lo scontro a faccia
a faccia con satana-paganesimo e ne esce dotato dei poteri soprannaturali della
profezia, della potenza e della veggenza escatologica.
In tutto questo itinerario
si mostra che ogni volta che Benedetto supera una tentazione gode di una
crescita della capacità di relazioni benefiche con gli altri (la gente, monaci
di Vicovaro, monaci suoi discepoli) e quindi della sua paternità di fondatore
(cfr A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 15-43).
Di fronte all’evidente uso del miracolistico,
dobbiamo sentirci spinti a ricercare qual é l'intento precipuo, che presiede alla biografia e qual é
il genere letterario, a cui deve essere ascritta. Su questo punto Gregorio
Magno é esplicito: sono fatti meravigliosi, che "devono giovare all'edificazione
di tanti” (c. 7); “sono fatti meravigliosi, che devono provare la dottrina
(c.32): del resto il dialogo continuo con Pietro mira chiaramente a mettere in
evidenza, l'insegnamento, che il prodigio nasconde ed insieme proclama. Lo
scritto di Gregorio pertanto non va collocato tra le "opere storiche” ma tra le agiografie, che prima di tutto
perseguono uno scopo parenetico, quasi catechistico (G. TURBESSI, Ascetismo
e monachesimo in S.Benedetto, Roma 1965,
20).
In quel declinare del VI secolo Gregorio
Magno, era mosso da una grande
preoccupazione: ridare vitalità ad una cristianità, che languiva sempre più nel
pessimismo e nella disperazione. Rapito alla tranquillità del monastero dalle
incombenze pastorali, Gregorio - lo rivela nell'introduzione - avverte nella
sua carne quanto gli affanni e le difficoltà del secolo possano rendere lontano
e impercettibile il porto della sicurezza serena e tranquilla che è Dio. Ecco
pertanto la provvidenziale funzione delle grandi figure dei solitari italiani:
proclamare emblematicamente - al dì là e al di sopra di ogni frastuono mondano -
qual é il porto, verso cui deve veleggiare l'esistenza umana; mostrare che é
raggiungibile; mostrare come si
raggiunge! Questo “come” consiste in
un intreccio insolubile di potenza di Dio e di ascesi dell'uomo: dal momento
che la mentalità elementare sia della romanità decadente sia del germanesimo
invasore leggeva la potenza divina in termini miracolistici, progresso ascetico
e crescendo miracolistico si snodano parallelamente.
Da una parte
lo snodarsi dei miracoli, affermando la vicinanza di Dio a cattolici vissuti
anch'essi in quei tempi oscuri, svolgeva una funzione consolatoria presso i
fedeli scoraggiati e una funzione apologetica presso chi cattolico non era:
dimostrando che Dio stava dalle parte del cattolicesimo romano, i Dialoghi
servirono da efficace argomento contro i Longobardi ariani o pagani (Gregorio
Magno inviò una copia della sua opera alla regina Teodolinda: PAOLO DIACONO, Storia
dei Longobardi, IV,5). Dall' altra parte il cammino ascetico rappresentava
una proposta di vita, accessibile anche ai fedeli di quel tempo, qualora si
fossero resi fiduciosi nella potente vicinanza divina!
Il cammino
ascetico di Benedetto, secondo i Dialoghi, ha come fondamento un duplice e radicale
distacco: dal mondo con la sua cultura (c.1), dal corpo con le sue passioni (c.2).
Ne consegue che Benedetto si viene a trovare unito in maniera profonda a Dio,
di cui. riceve lo Spirito, che lo costituisce maestro di virtù per molti (c.2).
In quest'opera Benedetto - in forza dello Spirito di Dio - mostra di possedere
la stessa giustizia dei grandi giusti della Bibbia (cc. 3-11: i miracoli
riproducono la tipologia biblica di Mosè, Eliseo, Elia, Davide, Pietro) la loro
stessa capacità profetica (cc. 12-22) e il
loro stesso potere taumaturgico (cc. 23-38).
Al c. 36 dei Dialoghi si legge: “C'é una cosa
però interessante, che non devi ignorare, cioè che l'uomo di Dio, oltre ai
tanti miracoli che lo resero così conosciuto nel mondo, rifulse anche per una
eccezionale esposizione di dottrina. Scrisse infatti anche una regola per i
monaci, regola caratterizzata da una singolare discrezione ed esposta in chiarissima
forma. Veramente se qualcuno vuole conoscere a fondo i costumi e la vita del
santo, può scoprire nell'insegnamento della regola tutti i documenti del suo
magistero, perché quest'uomo di Dio certamente non diede nessun insegnamento
senza averlo prima realizzato lui stesso nella sua vita".
L’espressione “discrezione” attribuita alla
regola di san Benedetto normalmente viene intesa come “moderazione”. Sarebbe
meglio intenderla nel senso di discernimento degli spiriti attraverso “dura et
aspera” (si veda GREGORIO MAGNO, In Librum I Regum, 4,70: cita la regola
di Benedetto circa il modo di provare i postulanti e lo loda per la sua
rudezza, perché è mezzo sicuro per “discernere” le vocazioni: A. de VOGÜÉ, Saint
Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 70-74).
In realtà il confronto regola-Dialoghi porta
a rilevare che si dà una certa discrepanza tra le due proposte ascetiche: il Benedetto
della Regola appare discreto e misurato, appassionato sostenitore della vita
cenobitica, totalmente ed esclusivamente dedito all'esperienza monastica; il
Benedetto dei Dialoghi invece presenta le connotazioni di una personalità
eccezionale, impegnata in una sua impresa personale, singolare (cfr singolarità
e straordinarietà dei miracoli), che comporta anche incursioni pastorali (cfr
L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, op. cit., 510-512). Che dire? Non
o'é dubbio che si tratta di un'agiografia, che risponde ad esigenze e
preoccupazioni, che sono di Gregorio Magno. Se, come abbiamo cercato dì fare, a
queste esigenze e preoccupazioni gregoriane viene ricondotto il miracolistico,
allora al di là dello straordinario viene in evidenza un itinerario spirituale
accessibile. Anche in questo itinerario spirituale emergono delle prospettive,
che sono più gregoriane che benedettine: ad esempio lo sviluppo pastorale del
monachesimo è chiaramente ascrivibile
al papa della conversione dei Longobardi e della evangelizzazione dell’Inghilterra
attraverso monaci; ma così facendo, Gregorio si comporta come tutti i capi di
centri monastici del suo tempo, i quali pur ispirandosi ad una particolare regola,
non la sentono come assolutamente cogente ma anzi la modificano secondo le loro
personali inclinazioni spirituali e secondo le esigenze particolari e concrete
del momento, ispirandosi ai molteplici testi della letteratura monastica!
Tuttavia si deve riconoscere anche che é una agiografia, che si fonda, su un
nucleo autenticamente benedettino e consistente in alcuni dati biografici ed
in alcuni elementi fondamentali della proposta monastica di Benedetto,
riconducibili alla regola benedettina: “Che un certo Benedictus ha fondato,
nella prima metà del VI secolo, monasteri a Subiaco, a Montecassino e a
Terracina, che ha avuto per successori gli abati Costantino, Simplicius,
Onorato e per discepolo Valentiniano, il futuro superiore del Laterano, sono
questi dei fatti e dei nomi di notorietà pubblica, legati a posti precisi, a
edifici visibili, a comunità ben definite. L’autore dei Dialoghi non ha potuto
inventarli” (A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit.,
15).
Ora vogliamo ricordare questi dati biografici.
"Era nato da nobile famiglia, nella
regione di Norcia (verso l'anno 480; Schuster preferisce il 470). Pensarono di farlo studiare e lo
mandarono a Roma, dove era più facile attendere agli studi letterari (retorica).
Lo attendeva però una grande delusione: non vi
trovò altro che giovani sbandati, che si stavano rovinando per le strade del
vizio. Era ancora in tempo. Aveva appena posto un piede sulla soglia del mondo
e subito lo ritrasse indietro. Aveva capito che anche una parte di quella scienza
mondana sarebbe stata sufficiente a precipitarlo intero negli abissi.
Abbandonò quindi con disprezzo gli studi, abbandonò la casa ed i beni paterni e partì alla ricerca di un abito che lo
designasse consacrato al Signore. Gli ardeva nel cuore un'unica ansia: quella
di piacer soltanto a Lui. Si allontanò quindi così: aveva scelto
consapevolmente di essere incolto, ma aveva imparato sapientemente la scienza
di Dio." (Dialoghi II, introd.).
“Si diresse verso una località solitaria e
deserta chiamata Subiaco, distante da Roma circa 40 miglia… Si affrettava
dunque a passi svelti verso questa località, quando si incontrò per via con un
monaco di nome Romano, gli domandò dove andasse. Conosciuta la sua risoluzione,
gli offrì volentieri il suo aiuto. Lo rivesti quindi dell'abito santo, segno
della consacrazione a Dio, lo forni
del poco necessario, secondo le sue possibilità, e gli rinnovò la promessa dì
non dire il segreto a nessuno. In quel luogo di
solitudine, l'uomo di Dio si nascose in una
stretta e scabrosa spelonca. Rimase lì dentro tre anni e nessuno seppe mai
niente... In seguito… la fama di lui si diffuse in tutti i paesi
vicini..." (Dialoghi II,1).
"Non molto lontano dallo speco (presso
Vicovaro) viveva una piccola comunità di religiosi, il cui superiore era morto
di recente (comunità di s. Cosimato). Tutti insieme questi uomini si
presentarono al venerabile Benedetto e lo pregarono insistentemente perché
prendesse il loro governo. Il santo uomo si rifiutò a lungo, con fermezza,
soprattutto perché era convinto che i loro costumi non si sarebbero mai potuti
conciliare con le sue convinzioni. Ma alla fine, quando proprio non poté più
resistere alla loro insistenza, acconsentì. Li seguì dunque nel loro monastero
e cominciò subito a vigilare attentamente che la vita fosse regolare e che
nessuno si potesse permettere, come prima, di flettere a destra e a sinistra
dal diritto sentiero della osservanza monastica. Questo li fece stancare e
indispettire… e così quei malvagi si accordarono di cercare qualche mezzo per
togliergli addirittura la vita.... (Benedetto) se ne tornò alla grotta
solitaria, che tanto amava, ed abitava lì solo solo con se stesso.... Attorno
a sé aveva radunati molti al servizio di Dio onnipotente, in sì gran numero,
che, con l'aiuto del Signore Gesù Cristo vi poté costruire dodici monasteri, a
ciascuno dei quali propose un abate e destinò un gruppetto di dodici monaci.
Trattenne con sé alcuni pochi ai quali credette opportuno dare personalmente
una formazione più completa..." (Dialoghi II,3).
In questa fase Benedetto “non ha nulla di
specificamente «pacomiano» o «basiliano», ma piuttosto fa pensare alla Regola
del Maestro, scritta per piccole comunità di una o due dozzine di monaci, del
resto autorizzate a crescere; come pure fa pensare ai gruppi di monasteri
fondati nella stessa provincia Valeria da un Equizio e uno Spes (Dialoghi,
I, 14 e IV,11)… Nel passaggio da un sistema all’altro, la differenza dei tempi
e dei luoghi ha forse più influito dei concetti e dei modelli teorici (A. de
VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 17).
"In tutte le zone circostanti la dimora
del santo, si era andato sviluppando un grande fervore religioso.... Purtroppo
però c'é stato sempre il tristo costume dei cattivi di urtarsi della virtù che
altri hanno e che essi non si curano mai minimamente di avere. Il prete di una
chiesa vicina, di nome Fiorenzo..., istigato dallo spirito maligno, cominciò a
bruciare di invidia per i progressi virtuosi dell’uomo di Dio… Reso ormai ceco da quella tenebrosa invidia, progettò
infine un'orrenda decisione: inviò al servo di Dio un pane avvelenato,
presentandolo come pane benedetto e segno di amicizia. L'uomo di Dio lo accettò
con vivi ringraziamenti, ma non gli rimase nascosta la pestifera insidia che il
pane celava.... Intanto però Fiorenzo, visto che non era riuscito ad uccidere il
maestro nel corpo, macchinò di rovinare nell'anima i suoi discepoli… Allora il
santo credette più opportuno cedere alla gelosia altrui: sistemò ben bene
l'ordinamento dei monasteri che aveva costituito, stabilendo i superiori,
aggiungendo altri fratelli; poi, portando con sé solo alcuni monaci, partì per
andare ad abitare altrove....
Il paese di Cassino è situato su un fianco di
un alto monte.... C'era in cima un antichissimo tempio, dove la gente dei
campi, secondo gli usi antichi dei pagani , compiva superstiziosi riti in onore
di Apollo. Appena l'uomo di Dio vi giunse, fece a pezzi l'idolo, rovesciò
l'altare e dove era il tempio di Apollo eresse un oratorio in onore di S. Martino...
"(Dialoghi II,8).
Era l'anno 528. Sorsero altre fondazioni: a Terracina
(Dialoghi, II,22), a Roma presso il Laterano (Dialoghi, II, intr.). In
quegli anni procedette pure alla composizione della Regola ( Dialoghi II,36).
Dal punto di vista cronologico non si deve
dimenticare che la fondazione di Montecassino è stata seguita da un lungo
periodo di guerre continue (535-553). Ciò ha comportato delle difficoltà
enormi, di ciò la Regola di Benedetto, se la si confronta con attenzione con
quella del Maestro, porta tracce assai chiare. La povertà, l’obbligo per i
monaci di coltivare loro stessi le proprietà del monastero, forse una certa riduzione
delle vocazioni, queste nuove condizioni hanno potuto spingere Benedetto a più
prudenza. L’audace espansione di Subiaco avrebbe fatto posto a una crescita più
lenta e più circospetta, a un concentrarsi delle forze e delle risorse, a un
desiderio di radicamento e di sicurezza. Questa differenza istituzionale tra
Subiaco e Montecassino così rilevante al nostro sguardo, interessò molto poco
all’autore dei Dialoghi (A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle,
op. cit., 17).
A Montecassino Benedetto mori verso il 547:
secondo A. de VOGÜÉ, Saint Benoît, sa vie et sa règle, op. cit., 16 oggi
si preferisce ritardare fino agli anni 555-560.
d) la
questione della Regula Benedicti
Accanto alla Regula Benedicti (RB) ci é
pervenuta un'altra regola, più ampia, ma per molti aspetti simile alla RB: si
tratta della Regula Magistri.
A - Era opinione comune che la RM fosse del VII secolo,
quindi posteriore alla RB e da essa dipendente.
B - Negli anni Quaranta è stata però avanzata la tesi opposta dal benedettino di Solesmes
A. GENESTOUT (La Règle du Maître et
la Règle de S. Benoît : Revue
d'ascétique et de mystique 21(1940) 51-112; La Règle du Maître
n'était-elle pas digne d’être utiisée par Saint Benoît? : Studien und
Mitteilungen zur Geschichte des Benediktinerordens und seiner Zweige
61(1947), 77-92).
Genestout fonda la tesi dell'anteriorità della RM su
argomenti di critica interna:
·
RM sarebbe stilisticamente e lessicalmente più unitaria e coerente di RB;
·
il monachesimo di RM presenterebbe caratteristiche meno evolute rispetto
a quello di RB;
·
RB in più punti mostra di voler perfezionare RM sotto il profilo
istituzionale e disciplinare;
·
R.B tenderebbe a sunteggiare ed abbreviare RM.
Da allora si sono
succedute le tesi più disparate: ricordiamo le più importanti.
C - R. HANSLIK, Benedicti Regula (CSEL 75) Vienna 1960 e TH. PAYR, Der
Magístertext in der Ueberlieferungsgeschichte der Benediktinerregel : Studia
Anselmiana 44, Roma 1959, 1-84 : sostengono che RB e RM si fonderebbero su
una fonte comune, la perduta regola di Lerino. Tuttavia la RB sarebbe
cronologicamente anteriore (530 c.); la RM invece risalirebbe agli anni 570-580
e si servirebbe anche della RB.
D - J. FROGER, La Régle du Maître et les sources du monachisme
bénédectin : Revue d'ascétique et de mystique 30 (1954), 275-258:
ritiene che la regola benedettina, a cui allude Gregorio Magno nei Dialoghi,
sia in realtà la RM in una redazione probabilmente più breve. Successivamente
Benedetto stesso, o altri, avrebbe portato la RM all'attuale ampiezza. La RB
invece sarebbe una regola gallica della prima metà del secolo VII, opera
dell’abate Venerando.
E - Si tratta di tesi che fanno derivare l'attuale RB
dalla RM, che sarebbe pure un tentativo legislativo di Benedetto: alcuni nella RM vedono la prima stesura, imperfetta
(O.J. ZIMEERMANN; I.M. GOMEZ); altri (D.RENNER) invece ritengono che Benedetto
prima della RM avesse steso un abbozzo più breve: la RM sarebbe quindi il
momento intermedio tra il primo abbozzo e l'attuale RB, che rappresenterebbe
l'edizione definitiva, curata dal Santo.
"A parte le due
ultime ipotesi (D ed E), le altre tre hanno tutte una certa probabilità di
essere vere; quale però sia la vera, oggi nessuno lo può affermare con
argomenti apodittici. E' certo tuttavia che l'ipotesi dell'anteriorità della
RM sulla RB é oggi la più comune nel mondo degli eruditi" (G. TURBESSI, Ascetismo
e monachesimo in s Benedetto, op. cit., 53: su tutta la questione cfr ivi
le pagine 51-54; L. BOUYER, La spiritualità dei Padri, 520-521; la più completa panoramica é offerta da B.
JASPERT, Regula Magistri-Regula Benedicti : Studia Monastica
13(1971),129-171).
e) fonti,datazione e località di composizione della RB
Per quanto concerne le fonti stiliamo una specie di classifica
in base alla frequenza di citazione:
§
Bibbia: sta senz'altro al primo posto. Per reminiscenza più che
testualmente Benedetto cita molti libri della Sacra Scrittura, dando prova di
una grande familiarità con il testo sacro. Il N.T. vi compare quasi al
completo; dell'A.T. la preferenza va ai Salmi ed ai Libri Sapienziali
(soprattutto Proverbi);
§
Cassiano: è l'autore monastico cui più deve;
§
Agostino
§
Pacomio
§
Historia monachorum in Aegypto nella versione di Rufino;
§
Basilio
§
Girolamo
§
Cesario
§
regola di s. Macario
§
Cipríano
§
Sacramentario gelasiano
§
Sulpicio Severo
§
Leone Magno.
Come si vede, Benedetto dà
prova di eclettismo. Tuttavia non si deve pensare che il risultato di tale
opera sia un centone, privo di originalità: Benedetto si serve delle fonti in
maniera molto libera e secondo un progetto suo personale, dando vita ad
un'opera, che reca chiaramente la singolare impronta della sua personalità. E'
certo interessante rilevare che con questa sua codificazione Benedetto esprime
una tendenza epocale: in quegli stessi anni Giustiniano aveva promosso la
codificazione del diritto imperiale romano, in quegli stessi anni Dionigi il
Piccolo elaborava una importante collezione canonica: cfr P. de LABRIOLLE La
vita cristiana in Occidente (= Storia della Chiesa dalle origini
ai giorni nostri, dir. A. Fliche-V. Martin, IV) Torino 1972, 745).
Per la datazione della RB
le fonti ci offrono indicazioni importanti: la "Vita Pacomii" é
utilizzata secondo una versione latina del 527: quindi la RB ha come terminus a
quo il 527! Nella RB sono reperibili anche riferimenti dalla Regula ad virgines
di Cesario (534): il terminus a quo viene quindi meglio precisato. Concludendo:
la redazione definitiva della RB può essere ascritta a due momenti:
a) 540 c. fino al cap.66;
b) 540-547: i cap. 67-73, più il prologo e aggiunte,
disseminate qua e là nel testo. Dunque la RB non fu scritta tutta di seguito,
ma a tappe successive: perciò sembra mancare di una logica coordinazione.
A questo punto è possibile
anche determinare la località di composizione: Montecassino: "pur
ammettendo l'esistenza di orientamenti e norme sublacensi, riteniamo che la
fuga a Montecassino vada messa in relazione con la ricerca di un ambiente
nuovo per attuare un ideale cenobitico, che oramai abbastanza chiaro e definito
brillava nella sua mente". Quanto al titolo va ritenuto che noi non
possediamo l'intitolazione benedettina: Gregorio Magno parla di Regula monachorum;
i vari manoscritti parlano ora di "sancta Regula", ora di
"Regula monachorum", ora di "Regula monasteriorum".
(Per tutta questa parte
cfr G. TURBESSI, Ascetismo e monachesimo in s. Benedetto, op. cit., 37-
46).
Dovremmo ora dedicarci
all'analisi della Regola, ma ci pare senz'altro opportuno che ognuno accosti
personalmente il testo.
f) rapporti
della RB con il monachesimo anteriore
"San
Benedetto possedeva una conoscenza approfondita della letteratura monastica. Le
fonti della sua regola lo provano. Ma, più della lettera, Benedetto ha fatto
suo lo spirito: e proprio per questo ha potuto fare un’opera personale e nuova.
I gradi principi spirituali della vita religiosa rimasero inalterati.
Tuttavia, per assicurarne la durevole vitalità in Occidente, Benedetto elaborò a modo suo le modalità di applicazione. In tale
modo la sua regola è una creazione che fa epoca nella storia del monachesimo. Un
confronto rapido con le precedenti regole monastiche rivela le caratteristiche
proprie della regola benedettina.
Prima di tutto la sua originalità.
L'originalità formale appariva a prima vista. Le regole prebenedettine non
offrivano che una raccolta di massime spirituali, una serie di statuti, una lista
di proibizioni, un catalogo di dettagli pratici. Nessuna era nello tesso tempo
un codice completo di leggi e una esposizione di principi, capaci di
organizzare perfettamente un monastero, di regolarne il buon funzionamento, di
dirigere e santificare gli abitanti. Il primo grande merito del patriarca dei
monaci é stato di dare al monachesimo un codice pratico, preciso, ragionato. Accanto
ai precetti, per investirli con tutta la loro luce, si rinvengono i principi
che li spiegano e li sostengono, le esperienze che li giustificano. Offrendo al
monachesimo una "legislazione", Benedetto ne ha fissato
definitivamente gli elementi e ne ha soppresso le arbitrarietà.
S. Benedetto ha introdotto la pratica dei
voti in Occidente. Salvo quello di castità, i voti non sono menzionati né in
Cassiano, né nelle antiche regole latine. In Egitto l'usanza di pronunciar dei
voti non era universale. San Basilio invece li conosce. San Benedetto li ha
diffusi in Occidente. Per primo, per quello che noi conosciamo, ha richiesto al
professo una promessa scritta e firmata
da conservarsi in monastero.
Di questi voti il più nuovo era quello della
stabilità (non in maniera radicale, qualcosa di simile era stato previsto da
Cesario). Rappresenta l'apporto più importante della RB nella organizzazione
del monachesimo. Si può discutere sul significato esatto del voto. Bisogna tuttavia
prenderlo nel senso stretto della stabilità locale, che fissa il monaco al
monastero in cui ha effettuato la sua professione.
Uno degli elementi più fecondi apportati
dalla regola nella vita monastica è senza dubbio la sua discrezione. Dopo
avere raccomandato all'abate questa "madre delle virtù", la RB gli
propone questa norma di condotta: “L’abate moderi tutte le cose così che i
forti desiderino fare di più ed i deboli non rimangano scoraggiati” (c.64). La sua
ascesi in effetti si basa sulla purezza d'intenzione e non sulla difficoltà
degli atti. Il santo non vuole imporre nulla di austero: nihil asperum, nihil
grave, perché ritiene che la vita monastica debba essere accessibile a chiunque
voglia cercare Dio. Anche il regime, che egli fissa é molto sopportabile,
addirittura largo, sotto il cielo dell'Italia meridionale, nel VI secolo. In
maniera molto liberale concede spazio per il riposo (otto ore circa di riposo
continuo) vitto, abiti, permette il vino. Sul terreno della mortificazione
corporale san Benedetto scoraggia francamente le prodezze personali: in ciò
rompe con il passato dell'Oriente. In nessuna parte della sua Regola si incontra
la parola “mortificazione”; in nessuna parte si fa questione di penitenze positive
(discipline, catene di ferro, immersioni ascetiche…), che uno possa infliggersi
volontariamente (per la quaresima il santo invita a qualche penitenza
supplementare, ma si tratta di penitenze negative: subtrahat de cibo...de
loquacitate…). Le sole pratiche che possono dare l'impressione di una certa
austerità consistevano nell'ora piuttosto tarda dei pasti, nei digiuni
frequenti, nell'astinenza perpetua. Ma non si tratta che di astinenze dalla
carne di quadrupedi e per i malati, i gracili non é obbligatoria. Inoltre
queste pratiche - pare - non pesavano affatto all'italiano del Sud (era il
vitto ordinario della gente comune, che però trovava una integrazione varia nei
prodotti della terra). Se é vero che Benedetto trascura le penitenze corporali
supplementari, é altrettanto vero che egli, mettendo alla base della vita
monastica i precetti ed i consigli evangelici, ripropone evidentemente tutto
il complesso di lotte e di sforzi, che questi necessariamente suppongono.
Inoltre, forse più di tutti, insiste sull'ascesi che esigono le virtù, che lui
ritiene essenziali, specialmente l'ubbidienza e l'umiltà: predica l'esercizio
di queste virtù fino all'eroismo. Infine le lunghe ore di lavoro quotidiano
(uno spazio di tempo circa tre volte di quello dedicato alla preghiera) ed il
giornaliero ufficio divino "pensum servitutis" rappresentano loro
pure una dura mortificazione.
(Giornata tipo del monaco:
· 8 ore di riposo
· da 3 a 4 ore di orazione
· quasi 4 ore di studio e
lettura spirituale
· da 6 a 8 ore di lavoro.)
San Benedetto é anche molto nuovo nella
disposizione precisa dell'ufficio divino e nella brevità, che gli assegna. Le
"piccole ore" sono ridotte a ben poca cosa: tre salmi
molto brevi. I Vesperi a loro volta non comportano che quattro salmi contro i
dodici in uso nei monasteri egiziani. Ciò che gli antichi monaci recitavano in
un giorno, i discepoli di Benedetto lo reciteranno in settimana. Sulla
preghiera privata il santo dà delle direttive, che gli sono esclusive: sarà
interiore, breve ma fervente. Ignora il lavoro e la preghiera simultanee.
Con San Benedetto il lavoro diventa oramai un
elemento essenziale della vita monastica. La regola vuole che i monaci siano
sempre occupati, perché il lavoro offre la garanzia della sanità dell'anima. Il
lavoro (ivi compresa la lectio) dura una parte della giornata quasi tre volte
maggiore del tempo consacrato alla preghiera (in estate più di tre volte): ciò
ai vecchi, monaci sarebbe apparso inaudito!
Però
non si tratta di un lavoro fine a se stesso, dove gli uni fanno e gli altri disfanno
per potere ricominciare; no, sarà un lavoro utile per il monastero (PH. SCHMITZ,
s.v. Benoît et Bénédectins : DSAM I, cc. 1385 1387).
f) Cassiodoro
e la fondazione di Vivarium
Il panorama monastico italiano da noi tracciato sarebbe largamente e gravemente
lacunoso, se fosse lasciato privo di un accenno a quella che senz'altro, dopo
la legislazione benedettina, è la più celebre legislazione monastica d'Italia.
Noi già
conosciamo il Cassiodoro collaboratore e consigliere di Teodorico e di Vitige:
alla caduta di Ravenna, durante la guerra gotica (540), fece ritorno nella sua terra di origine, la Calabria (vi
era nato verso il 477) e dette vita nella sua proprietà di Vivarium ad una
comunità monastica. Accanto alle tipiche connotazioni monastiche (clausura, contemplazione, carità verso i malati ed i pellegrini) Vivarium dette uno sviluppo
particolare all'attività culturale. Le "Istituzioni delle scritture
divine a profane" di Cassiodoro enunciano chiaramente la
conciliabilità tra cultura sacra e profana e quindi raccomandano un'assidua dedizione
sia alla letteratura cristiana sia alla letteratura classica!
Per
questa via capolavori antichi, trascritti negli scriptoria monastici, sono sfuggiti all'oblio e sono
pervenuti fino a noi.
RIFLESSIONE CONCLUSIVA
“Il cristianesimo ha il monachesimo nel
sangue” (R. LORENZ, Die Anfänge des abendlädndischen Mönchtums in 4 Jh. : Zeitschrift der
Kirchengeschichte 77(19 66), 2).
Questa affermazione verrebbe senz'altro
sottoscritta sia dalla Chiesa Cattolico-Romana, sia dalle Chiese Orientali. Un
discorso diverso invece si deve fare per le Chiese protestanti: dapprima
assunsero una netta avversione al monachesimo; al presente però si può rilevare
che la questione ascetico-monastica non é del tutto scomparsa dal loro
orizzonte, sia perché ora trova consenso e attuazioni pratiche, sia perché ora
invece viene ancora sottoposta a distanza critica e deciso rifiuto.
Ascesi e monachesimo da sempre sono stati
considerati e indicati come forme particolari di vita cristiana. La vita
ascetica si pone come una rinuncia volontaria a forme di vita in linea di
principio lecite, a attuazioni dell’esistenza umana per sé rette. Il motivo di
siffatta autolimitazione é religioso: è per il "regno dei cieli”, è per la "gloria del Signore" .
Religiosa è anche la finalità: la rinuncia
non ha nessun valore in sé: deve invece condurre ad una più elevata forma di
vita religiosa. La vita religiosa comporta sempre due aspetti: quello della
rinuncia e quello della meta positiva. Così almeno vuole ogni forma di
ascetismo, che sia autenticamente cristiana. Gli storiografi della Chiesa
antica e medievale - ed anche i loro colleghi di buona parte dell'evo nuovo -
considerano la vita ascetica come naturale espressione di vita cristiana, anzi
la forma più alta di vita cristiana. Non é molto importante se il concetto, che
vi sta alla base e la rappresentazione, che vi si connette, provengono dal
mondo ellenistico. Senz'altro l'annuncio cristiano primitivo contiene
elementi, che sono suscettibili di interpretazione ascetica. E si tratta non
già di parole isolate, ma dell'atteggiamento fondamentale richiesto dal Nuovo
Testamento.
Si pensi alla radicale richiesta di sequela
di Cristo da parte del discepolo; si pensi alla sottomissione del credente alla
signoria di Dio, che si manifesta in Gesù e che nella vita umana rimanda tutto
il resto al secondo e terzo posto. Inoltre l'annuncio, proclamato e creduto,
della imminente fine del mondo vietava al credente di stabilire un serio
contatto con questo mondo: gli restava solamente la possibilità di stabilire
col mondo relazioni, come se col mondo non avesse relazione (1Cor 7,29-31).
Perché
questo annuncio giungesse a generare vita ascetica in ambito cristiano, bastava
che venisse ad incontrarsi col mondo extra-cristiano, sia pagano sia tardo-giudaico,
mondo improntato di spirito ellenistico, mondo colmo densamente di prassi
ascetica, mondo in cui piccola non era la simpatia per le varie attuazioni di
vita ascetica. Perciò la vita ascetica cristiana deve essere intesa come una
conseguenza dell'insolubile e non più revocabile processo di fusione di
antichità e cristianesimo. Qui vale in maniera particolare la legge dell’epanorthosi
(rialzo, miglioramento), formulata classicamente da Filone: "La vecchia
moneta viene riconiata e di nuovo messa in circolazione".
L'ascesi
pre-cristiana aveva già delineato il campo della prassi ascetica: vitto, abito,
riposo, godimento della vita, possesso, vita sessuale. Questi ambiti rimasero
il campo tipico di competenza dell'ascesi. Su questo terreno il cristianesimo
non poteva introdurre nulla di nuovo sotto il profilo quantitativo. Muta pero
il motivo di siffatto modo di fare: la fede in Dio creatore esclude
necessariamente ogni ascesi motivata dualisticamente. Del resto il necessario
muro di protezione non fu assolutamente elevato in maniera da impedire ogni
forma di relazione!
Muta anche
la meta dell'ascesi cristiana: essa é intesa a partire dalla fede cristiana in
Dio e dalla connessa perfezione possibile all'uomo, anche se il vocabolario si
deve servire ampiamente delle formule ellenistiche.
Un
allargamento quantitativo apportato dall'ascesi cristiana può forse essere
riscontrato nell'obbedienza, intesa come opera ascetica Sotto questo profilo
sono normative l'autoalienazione di Gesù e il suo atteggiamento nei confronti
del Padre dei cieli. Decisiva in tale senso é anche la storia del peccato
originale, poiché l'esegesi tende a fare consistere il peccato originale in un
peccato di disobbedienza. Conseguenza inevitabile é pertanto l'atteggiamento
cristiano dell'umiltà, che dall'obbedienza viene assicurato in misura
rilevante.
Benché senza ascesi non si dà monachesimo, tuttavia non si deve semplicisticamente
identificare la vita ascetica con la vita monastica; si può vivere
asceticamente senza che per questo si debba assumere la forma di vita monastica.
A ragione gli storici della Chiesa distinguono un tempo di ascesi pre-monastica
dal tempo del monachesimo. L'asceta diventa monaco non appena in maniera
visibile attua quell'istanza di fuga dal mondo, che é propria dell'ascesi: si
sottrae così dal'ambiente, che fino a quel momento gli era stato familiare e fa
della solitudine il suo nuovo mondo: diventa “monachos”, vivente solitario.
Nella Chiesa cristiana questo processo è rilevabile dal III secolo: si delinea più
facilmente in Egitto, indipendentemente dall’Egitto ha uno sviluppo anche Siria,
nel corso dei primi decenni del IV secolo,
poi coinvolge l'intera area ecclesiale… Il monachesimo trovò la sua prima attuazione
nell’eremitismo orientale dove la forma di vita ascetica era dominata dal
pensiero della solitudine. Sua cornice esterna era il deserto, oltre il mondo
abitato. Non si deve però pensare ad un totale isolamento del monaco: ad
impedirlo intervenivano i limiti invalicabili della natura umana, anche se i suoi
bisogni erano ridotti il più possibile. Anche il monaco, che viveva nel deserto,
rimaneva in contatto con il mondo: nel mondo vendeva il frutto del suo lavoro
manuale; dal mondo era richiesto come esperto padre spirituale; dal mondo gli
si raccoglievano intorno sempre più nuovi aspiranti alla vita monastica,che
volevano essere da lui introdotti nelle pratiche della vita ascetica.
Inoltre nell'isolamento si sviluppò tra i
monaci un molteplice e vivace scambio. Pertanto il primo stadio del monachesimo
cristiano si presentò nella forma sociologica della colonia di anacoreti. Anche
l'eremitismo quindi non poté sfuggire alla classica definizione greca, che
vuole l'uomo in relazione con la società. Questa tradizione antropologica fu
rinvigorita dalla teologia cristiana della creazione, secondo la quale non é
buona cosa, che l'uomo viva solo. Il Dio
creatore della Bibbia fece l'uomo non come un essere isolato e selvaggio, ma
come un essere sensibile e socievole: così affermava Basilio contro gli eremiti
(BASILIO, Regulae fusius tractatae 3,1; 7,1). Di fatto nel corso del IV
secolo la forma della vita monastica
si trasformò rapidamente. La disorganica colonia eremitica venne soppiantata
dal chiostro, regolato con rigore. Il cenobitismo, in cui i monaci vivono
entro uno spazio ben delimitato, secondo un identico ordinamento di vita e di
lavoro, sotto un superiore dotato di grande autorità, cominciò a dominare
nell'ambito monastico a partire dalla metà del secolo IV e lasciò sopravvivere
l'arcaica forma primitiva dell'eremitismo come forma secondaria, tollerata o
raccomandata ai monaci perfetti. I grandi strateghi della vita cenobitica
furono Pacomio (+346) in Egitto; Basilio (+379) in Asia Minore; per l'ascetismo-eremitismo
siriano, che pure nel IV secolo giunse al cenobitismo, non é possibile addurre
nessun nome di organizzatore, che si sia imposto in maniera particolare.
Il monachesimo in Occidente si sviluppò in
dipendenza dal monachesimo orientale, tuttavia già da tempo il terreno era
preparato per la crescita della vita monastica: l'ideale di verginità praticato
fin dagli inizi e altre forme ascetiche testimoniano la presenza di una ascesi
premonastica anche nella Chiesa occidentale. (Abbiamo qui tradotto: K.S. FRANK,
Einführung : Askese und Mönchtum
in der alten Kirche (= Wege der Forschung 409), Darmstadt 1975, 1-5).
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