L’organizzazione della
gerarchia nell’Alto Medio Evo
L’EPISCOPATO
NELL’ALTO MEDIOEVO
Per capire lo sviluppo
che la figura del vescovo ha subito nel corso di questo periodo della storia occorre
prestare attenzione in maniera particolare a due elementi.
Primo elemento: la mentalità di coesione, che già
conosciamo: la ecclesia universalis è anche societas terrena, il potere regale
possiede anche connotazioni sacrali, sacerdotali; il potere sacerdotale ha
connotazioni arche temporali, regali.
Questa visione unitaria è
propria sia del mondo germanico, sia del mondo romano.
Secondo elemento: l’interpretazione
esistenziale di questa mentalità di coesione e su questo punto romanità e
germanesimo divergono: qui ha le sue radici lo scontro che si verificherà
nella riforma gregoriana.
La romanità organizza
l'unità, la coesione assegnando il ruolo primario e paradigmatico allo spirituale:
ciò si attua prima di tutto teoricamente, ma poi trova conseguente applicazione
anche a livello pratico: per es., se rimaniamo al caso particolare di cui ci stiamo
occupando, la legislazione canonica romana nell'episcopato pone in primo piano l'ufficio
spirituale e vi connette il patrimonio solo come mezzo, utile per un adeguato
esercizio dell'ufficio spirituale, Il germanesimo, attraverso l'opera di evangelizzazione,
riceve la visione romana, ma questa rimane esclusivamente su un piano teorico:
sul piano pratico, che è poi il piano su
cui il germanesimo è vincente, ci sono già usi e consuetudini inveterati, molto
empirici e assai radicati; e qui a
guidare non sarà la nuova visione teorica, ma la vecchia empiria.
Si tratta di un sistema
di vita che ha come fondamento la res , il patrimonio, il possedimento terriero,
fondamento non solo della vita economica, ma anche della vita politica e della aggregazione
sociale: chi non possiede terra dipende dal padrone delle terra, chi possiede poca
terra dipende da chi possiede un più vasto appezzamento di terra. Il potere economico
è dunque anche potere politico. Si noti come alla base di tale potere abbiamo non
un principio di diritto pubblico, ma un principio di diritto privato: la
proprietà privata.
Vediamo come tali
elementi influirono sulla figura del vescovo. La mentalità di coesione spinse
sempre più a connettere alle mansioni spirituali del vescovo anche mansioni temporali:
si giunse così con i carolingi ai vescovi integrati nella struttura politica
dell'impero, con funzioni anche civili; gli imperatori tedeschi poi svilupparono
la figura del vescovo-conte, del vescovo-principe per arginare le pretese
ereditarie della nobiltà feudale laica.
L'interpretazione
dell'esistenza, condotta secondo quei criteri molto empirici e primitivi, che assegnavano
un ruolo primario al patrimonio, portò ad
accentuare sempre più nell'episcopato l’aspetto temporale della proprietà
terriera e a collocare in secondo piano gli interessi propriamente spirituali. Il
potere di governo di un vescovo era proporzionale al suo potere economico, al
suo patrimonio. Questo fatto determinò una duplice modalità di azione nei
confronti dell’episcopato da parte del potere centrale e dei poteri locali. Da
una parte con donazioni, concessioni, privilegi, immunità, protezione si
consolidò sempre più la base temporale del potere episcopale e gli si garantì
un ruolo nella societas christiana, che doveva essere retta sia dal potere dei re
sia dal potere dei sacerdoti. Dall'altra, proprio per questa rilevanza
temporale dell'episcopato, il potere politico esercitò il massimo controllo sui
vescovi.
Ciò si manifestava soprattutto nel processo di
elevazione di un vescovo.
Nel periodo tardo-antico
dell’impero romano l'elezione del vescovo spettavo al clero ed al popolo della
città; il metropolita e gli altri vescovi suffraganei della provincia ecclesiastica svolgevano
azione di controllo per garantire la regolarità del processo elettivo e l’idoneità
dell’eletto; infine Il metropolita con almeno altri due vescovi procedeva alla
consacrazione dell'eletto. Con lo svilupparsi della comunità cristiana
cittadina e con il diffondersi del cristianesimo anche nelle campagne divenne sempre
più inattuabile una elezione fatta da tutto il clero e da tutto il popolo: si
giunse così a costituire un gruppo ristretto di elettori, composto dal clero
digniore della città (poi il capitolo della cattedrale) e dai laici più influenti.
Al clero e al popolo della circoscrizione episcopale rimaneva tuttavia un'importante
funzione da svolgere: acclamare colui che era stato eletto dal gruppo ristretto
degli elettori, tale acclamazione si teneva quasi sempre nel contesto della
cerimonia di consacrazione e pertanto divenne parte integrante di tale rito. Si
noti che l'acclamazione era giuridicamente necessaria, perché si potesse
parlare di elezione pienamente canonica. Metropolita e vescovi della provincia
continuavano a svolgere azione di controllo.
Ora i centri di potere germanici, divenuti
cristiani, in questo processo elettivo di un vescovo trovarono alcuni spazi per
poter esercitare il loro influsso. Un primo spazio era rappresentato dal gruppo
ristretto degli elettori: qui la nobiltà terriera ebbe praticamente libero campo,
sia collocando propri membri tra i canonici del capitolo della cattedrale, sia
occupando il posto che spettava ai laici più influenti. L'intervento delle
varie famiglie nobiliari, dettato spesso più da interessi di casato che da
preoccupazione ecclesiale, portava frequentemente alla contrapposizione di
vari candidati o a irregolarità di procedura. In tali frangenti avrebbe dovuto
intervenire la gerarchia ecclesiastica provinciale per scegliere l'eletto più
idoneo o addirittura per avocare a sé l’elezione, ma tale intervento nella
maggior parte del
casi era impossibile, in quanto il sistema romano delle province era stato
sconvolto sia dall’insediamento dei popoli germanici in Occidente sia dal
prevalere del particolarismo locale nella fase di decadenza della monarchia
merovingia.
L'intervento della gerarchia ecclesiastica
provinciale fu pertanto rimpiazzato dall’intervento dell’autorità che dominava in quel luogo: nobile locale o re
merovingio. Venne così a formarsi un diritto del potere temporale di intervenire
nell’elezione di un vescovo per confermare l’elezione avvenuta o addirittura per
imporre un proprio candidato.
Gli
imperatori carolingi prima e gli imperatori tedeschi poi non fecero altro che proseguire
su questa strada: quale suprema istanza di controllo, da una parte si riservarono
il diritto di concedere al gruppo elettorale ristretto il permesso di procedere
alla elezione, magari raccomandando un proprio candidato e dall'altra si
riservarono l'esame e la conferma dell'eletto. Talora l'imperatore rendeva
superflua la procedura di elezione, in quanto provvedeva lui stesso alla
nomina del vescovo, concedendo al clero e al popolo solo la formalità dell'acclamazione.
Grazie a questa forma di controllo, il vescovo divenne per il potere temporale una
delle persone più fidate e perciò al vescovo vennero sempre più concessi privilegi, donazioni, poteri di
carattere temporale. Tra i vescovi-conte
e il sovrano divenne molto
opportuno saldare strettamente il legame reciproco. Infatti spesso i
vescovi-conte si trovarono nella necessità di trovare il sostegno del sovrano
per fare fronte ai membri delle grandi famiglie aristocratiche, che miravano
sia a impadronirsi delle proprietà fondiarie della Chiesa sia ad assicurarsi la
facoltà di decidere la successione episcopale. E pure spesso i sovrani si
trovarono dal canto loro nel bisogno di cercare l’appoggio dei vescovi per
fronteggiare i duchi, i conti, i grandi proprietari terrieri, che insidiavano
il loro potere. Gli imperatori e i vescovi insieme dettero così vita alla
Chiesa dell’impero: minacciati da forze laiche e regionali, i vescovi si
accostarono sempre più all’imperatore, e l’imperatore a sua volta nell’intento
di evitare alleanze fra vescovi e potentati locali poneva sempre ogni cura nel
nominare vescovo di un territorio un prelato, che non fosse originario della
regione. E così i vescovi si trovarono a lottare nel loro proprio interesse
contro i nemici del potere imperiale: cfr J. DHONDT, L’alto Medioevo (=
Storia Universale Feltrinelli 10), 225-226.
Ora
si noti prima di tutto che queste attribuzioni temporali non erano connesse
intrinsecamente con il carattere spirituale dell'episcopato, ma erano
un'aggiunta dovuta all'autorità temporale.
In
secondo luogo si noti che tale connessione divenne permanente: temporalità dovuta al potere temporale, ufficio spirituale,
ricevuto da Dio, divennero in forza della mentalità di coesione un unum
inscindibile.
In
terzo luogo si ricordi che secondo la mentalità germanica, per ragioni empiriche, in tale unità
l'aspetto prevalente era rappresentato proprio dalla temporalità. Allora si
arriva a capire come l'attribuzione del potere episcopale al vescovo eletto
spettasse prima di tutto al potere politico: questi mediante l'investitura per
baculum et anulum (a partire da Enrico III), concedeva il beneficium dell'episcopatum,
che era un'unità, costituita prima di tutto dalle temporalità ed in secondo
luogo dalla mansione spirituale. Ma, secondo la logica feudale, l'investitura,
la concessione del beneficium presupponeva il giuramento di fedeltà, l’homagium
del vescovo, che in tal modo si obbligava a prestare al signore il servitium
feudale: il vescovo poi versava il noto relevium, come tassa-dono per il favore
ricevuto. Alla morte del vescovo il signore godeva dei noti ius spolii et ius
regaliae.
Solo dopo l'investitura si poteva procedere alla consacrazione dell’eletto.
Per transenna: si noti che con questo sistema si
garantiva all'episcopato stabilità e sicurezza, questa stabilità e questa
sicurezza spesso erano pagate con la mondanizzazione del vescovo, che
doveva dedicare parecchie energie a compiti secolari. Ancora si noti come
l'inserimento dell'episcopato nel sistema germanico abbia portato ad accentuare
l'interpretazione di tale funzione in termini di potestas et honor personali,
mettendo in ombra l'idea evangelica del ministerium e l'idea romana dell'
officium.
In connessione con questo sviluppo l'episcopato
divenne facilmente soggetto a due tipi di mali: l'elezione di indegni, dovuta
al fatto che la preoccupazione politica finì spesso con il trascurare
totalmente le esigenze spirituali: e questi indegni evidentemente non si
adattarono mai a vivere secondo le norme canoniche: ed il segno più evidente di
ciò fu la lesione dell'obbligo del celibato.
La simonia: il dovere ottenere l'episcopatus come
beneficium anche temporale e cospicuo, il dovere concedere l'episcopatus come
beneficium divennero spesso occasione di illecita compra-vendita di una
mansione, che era e doveva essere eminentemente spirituale.
LA COSTITUZIONE
DELLA CHIESA NELL’ALTO MEDIOEVO
F. KEPMF, Il
papato dal secolo VIIIalla metà del secolo XI : Problemi di storia dell
Chiesa. L’Alto Medioevo. II corso di aggiornamento per professori di storia
ecclesiatica dei Seminari d’Italia. Passo della Mendola 30 agosto-4 settembre
1970, Milano 1973, 59-71
Y. CONGAR, L’écclésiologie
du haut Moyen-Age, Paris 1968, 131-246
H. M. KLINKENBERG,
Der römische Primat im 10. Jahrhundert : Zeitschrift der
Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 72 : Kanonistische Abteilung, 41(1955), 1-37
LA COSTITUZIONE ECCLESIASTICA INTERDIOCESANA
Il periodo altomedievale rappresenta un momento
di grandissima importanza nella storia della costituzione ecclesiastica in Occidente: la tensione fra una
tendenza romana ed una tendenza non-romana, già presente nel periodo antico, in questa fase della storia non solo
trova nuova vita, ma anche tende ormai a comporsi nella prospettiva indicata da
Roma.
1 - il punto di partenza è rappresentato
da alcuni passi neotestamentari
·
Mt 16, 18-19:
il solo Pietro riceve le chiavi
·
Mt 18, 18 : il
potere è conferito a tutti gli apostoli
·
Gv 21,
15-17: il compito pastorale è posto in stretta relazione con Pietro
·
Gv 20,
22-23: il dono dello Spirito Santo e il compito di rimettere i peccati sono
posti in relazione con tutto il gruppo degli apostoli.
2 – la ricezione di
questi dati nel mondo patristico
La dualità emergente dal
Nuovo Testamento (dato della collegialità e dato petrino), stando a certe
interpretazioni, verrebbe smarrita nel periodo della riflessione patristica.
Secondo queste interpretazioni, infatti, vi si delineerebbero fondamentalmente
due linee.
La prima, che avrebbe
come capo corrente san Cipriano, assolutizzerebbe il dato della collegialità al
punto di sacrificare il dato petrino.
La seconda linea cara
agli ambienti romani e capitanata dal san Leone Magno, assolutizzerebbe il dato
petrino al punto di sacrificare il tema della collegialità.
In realtà questa
interpretazione è riduttiva: ambedue le correnti, ad un’analisi più attenta
delle fonti, rivelano di attenersi al dato neotestamentario della simultanea
presenza dei due elementi. Si diversificano per la diversa accentuazione, che
in esse assumono i due elementi: l’una, quella di Cipriano, si sforza di
interpretare il dato petrino a partire dal primario aspetto collegiale;
l’altra, quella romana, tende a intendere l’aspetto collegiale a partire dalla
priorità petrina.
Si noti che nel periodo
patristico il dato della successione è pacifico: è pacifico che il collegio
episcopale succeda al collegio apostolico, assumendone le prerogative. E’
pacifico che un vescovo, ad es. quello di Roma, succeda al primo vescovo di
quella sede direttamente, ereditandone le prerogative. Il problema invece
riguarda l’interpretazione del ruolo di Pietro, che il vescovo di Roma
erediterebbe per successione: la priorità di Pietro, da tutti riconosciuta, comporterebbe
dunque indiscutibilmente una priorità del vescovo di Roma. Ma quali sono i
contenuti di tale priorità? Si tratta di una priorità potestativa,
giurisdizionale o morale? Se ciò che Pietro ha ricevuto in Mt 16 è il potere
apostolico del collegio apostolico, unitariamente assunto, sotto questo profilo
successore di Pietro è il collegio episcopale, della cui unità il vescovo di
Roma è typos.
Ecco allora la posizione
di Cipriano, che riesce a conciliare il dato petrino con il dato collegiale, ricorrendo
ad una particolare interpretazione di Mt 16, 18-19. Per Cipriano il potere delle
chiavi, il potere di legare e sciogliere, di cui vi si parla, altro non è che
la missione apostolico-episcopale, affidata a tutto il collegio apostolico e
poi, per successione, al collegio del vescovi.
Cipriano
riconosce che Mt 16, 18-19 pone una relazione particolare tra Pietro e la
missione apostolico-episcopale, ma interpreta tale relazione in questi termini:
Pietro in tale passo svolge una funzione tipica (da typos) il potere di legare
e sciogliere quindi è affidato a lui non come individuo, ma come immagine
dell'unico collegio apostolico, che deve guidare l'unico gregge di Cristo. Pietro
allora non riceve una prerogativa singolare, Pietro riceve un potere che è comune
a tutti gli altri apostoli e che va esercitato in spirito di comunione.
Continuando su questa linea interpretativa, il “Tu
es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam” da altri autori, ad
es. S. Agostino, non è letto come affermazione di una posizione singolare e
fondamentale di Pietro nel collegio apostolico, in quanto la pietra sarebbe non
Pietro ma Cristo.
Da
quando detto appare chiaramente che per questa linea logica Mt 16 rappresenta
il principio, l’origine dell'episcopato collegiale, in cui Pietro svolge una
particolare funzione tipica in ordine all’unità: ne traspare un'ecclesiologia,
che dà singolare rilievo al valore della collegialità episcopale, alle
autonomie locali, in quanto il potere dei vescovi è autoctono, non deriva da un
potere superiore, né è subordinato a un potere centrale superiore.
Il secondo tipo di costituzione ecclesiale è
legato agli ambienti romani: due sono i dati fondamentali: il papa è successore
di Pietro e Pietro ha un ruolo prioritario nel collegio apostolico.
Il
cristianesimo primitivo circonda presto Roma di grande stima e venerazione, essendo
la città in cui Pietro e Paolo hanno versato il loro sangue: anzi tale stima e
venerazione sviluppano l’idea mistica secondo cui Pietro e Paolo continuano a
rendere presente in Roma la loro opera.
E’ interessante rilevare che i vescovi di Roma precisano
l'idea della sopravvivenza dell'opera di Pietro e Paolo in Roma con l’affermazione
di esserne loro continuazione vivente: PAPA, PETRUS IPSE.
Le
testimonianze in questo senso si moltiplicano alla fine del IV secolo e nel
corso del V secolo: papa Damaso, papa Siricio, papa Sisto III.
San
Leone non fa altro che raccogliere questa tradizione e darle una sistemazione definitiva,
accostando all’idea del “papa, Petrus ipse” una interpretazione monarchica
del ruolo di san Pietro.
Secondo s.
Leone Mt 16,18-19 non presenta soltanto l’origine del potere di legare e
sciogliere, comune a tutti gli apostoli riuniti in un unico collegio, di cui
Pietro sarebbe Typos, ; secondo s. Leone Mt 16,18-19 presenta anche l’origine
del primato petrino: il “super hanc petram aedificabo ecclesiam meam" è inteso
come riferito non a Gesù Cristo, ma alla persona di Pietro, cui verrebbe riconosciuto
un ruolo fondamentale e fontale, singolare ed esclusivo: il potere di legare e sciogliere
degli altri apostoli trova fondamento e saldezza in Pietro, cui appunto è stato
affidato il compito di confermare i fratelli nella fede.
Questo ruolo
di Pietro è continuato dal vescovo di Roma, che è ipse Petrus: ciò viene
spiegato da Leone ricorrendo al concetto di Vicarius Petri: in esso Leone ravvisa un duplice significato: un
significato giuridico-istituzionale: i vescovi di Roma, quali successori in eadem
Sede, ereditano le prerogative del predecessore; e un significato mistico-sacramentale:
vi è una presenza operante di Pietro nell'esistenza storica dei vescovi di Roma
(quindi “papa, ipse Petrus” non solo perché succede nelle prerogative petrine,
ma anche perché è Pietro che continua ad agire misticamente nella sua esistenza).
Che cosa
comporta questo ruolo singolare di Pietro e dei suoi successori nella sede di
Roma? Si risponde, facendo ricorso ad una espressione paolina, che poi
diventerà usuale nel vocabolario della cancelleria pontificia: a Pietro e ai
suoi successori è affidata la sollicitudo, la cura omnium ecclesiarum, per cui la
sede di Roma viene ad assumere in seno alla ecclesia universalis il ruolo di
caput.
All'espressione “caput” soggiacciono due suggestioni:
una suggestione storico-politica: il riferimento è a Roma caput imperii e una
suggestione fisiologica: la testa come origine e guida di tutte le facoltà del
corpo.
Secondo questa prospettiva si arriva a concludere che tra il vescovo
di Roma e gli altri vescovi vi è sì una similitudo honoris (il compito
apostolico), ma vi è anche una discretio potestatis, in quanto il compito
apostolico trova in Pietro la sua origine, il suo principio, la sua forma, da
cui gli altri vescovi dipendono ed a cui devono fare riferimento.
E' chiaro che questa visione ecclesiologica romana tende ad
una costituzione ecclesiastica di tipo monarchico.
Comunque sia, va sottolineato che tale concezione rimase
praticamente circoscritta all'area geografica della provincia ecclesiastica
romana: nelle altre zone si impose praticamente la visione di Cipriano:
significativo il fatto che almeno dal quinto secolo nelle messe di ordinazione
di un vescovo si leggeva Mt 16, 13-19. Questa la posizione ecclesiologica
quale emerge a livello dottrinale, passiamo ora a considerare qual è la
costituzione ecclesiastica, che si è determinata a livello pratico.
3 - La costituzione ecclesiastica nel periodo tardo-antico.
Il fondamento è rappresentato da due principi, che abbiamo
visti sottolineati con vigore da Cipriano,
-
il principio della
collegialità della funzione episcopale
-
il principio della successione
diretta dei vescovi agli apostoli, senza partecipazione della santa sede: ciò
conferisce all’episcopato un carattere autogeno.
Su tale fondamento vengono a costituirsi vari livelli di
collegialità episcopale con notevole autonomia.
Il primo livello di collegialità episcopale è rappresentato
dalle province: i vescovi di una determinata provincia dell'impero romano
costituiscono una particolare unità ecclesiale.
Data la costituzione fondamentalmente collegiale, la provincia
ecclesiastica ha la sua suprema istanza nel concilio provinciale. Il concilio
provinciale ha:
-
potere amministrativo:
decide l'erezione di nuove diocesi, controlla e conferma le elezioni dei
vescovi; in casi eccezionali decide la traslazione di un vescovo da una sede ad
un'altra
-
potere giudiziario: il
concilio provinciale diventa un tribunale che giudica i vescovi della
provincia accusati di qualche irregolarità e giunge perfino a deporli, giudica
anche le contese fra vescovi della provincia.
-
potere
legislativo.
Tra i vescovi della provincia
ecclesiastica si distingue il metropolita: quanto a poteri è primus inter pares
(il concilio provinciale è la
sola suprema istanza): i vescovi della provincia ecclesiastica pertanto non gli
sono subordinati, quanto ad onore il Metropolita gode di una certa priorità,
che si esprime nel diritto di convocare e presiedere i concili provinciali e
nel dovere di svolgere una funzione di sorveglianza ed ispezione sugli altri
vescovi, in modo. che sia garantita l'applicazione delle decisioni conciliari.
La provincia ecclesiastica per il suo carattere collegiale ed
autogeno si distingue dai vicariati apostolici di Arles e Tessalonica, che
furono istituiti dai papi nel corso del V sec, come rappresentanza del vescovo
di Roma e con poteri delegati.
Un secondo livello di collegialità è
rappresentato dalle convergenze interprovinciali. Nell'Africa settentrionale e
nella Spagna Visigotica i vescovi delle varie provincie spesso si riuniscono in
un concilio regionale, che, sotto la presidenza del primate, delibera sia a
livello amministrativo, sia a livello giudiziario, sia a livello legislativo:
il primate dell'Africa settentrionale ha la sua sede a Cartagine, il primate
della Spagna Visigotica ha
la sua sede a Toledo.
Una prima osservazione: è chiaro che, data la presenza in
seno alla Chiesa occidentale di tali istituti autoctoni con azione ampiamente
autonoma, non si può pensare ad un esercizio di tipo monarchico del potere
primaziale del vescovo di Roma, siamo dunque lontani dalla visione di san
Leone. Anche la prerogativa di unico patriarca dell'Occidente va collocata e
letta nell'ambito di una Chiesa che non conosce ancora la radicalizzazione del
contrasto tra Occidente ed Oriente e pertanto ha ancora il suo unitario centro
di gravitazione nell'area mediterranea: e qui il vescovo di Roma è patriarca
accanto ad altri patriarchi (Alessandria, Antiochia, Costantinopoli, Gerusalemme).
Una seconda osservazione: riguarda il
ruolo primaziale: abbiamo visto che anche Cipriano riconosceva a Pietro ed ai
suoi successori sulla sede di Roma un ruolo prioritario, consistente in una funzione
tipica in ordine all'unità della Chiesa. Ci chiediamo: questa principalitas trovò espressione anche a livello giuridico-istituzionale
ed in quali termini?
L’espressione giuridico-istituzionale
della principalitas di Roma si ebbe al concilio
di Sardica del 343: i vescovi d’Occidente riconobbero nel vescovo di Roma la suprema
istanza di appello per la Chiesa universale in ordine alle più importanti questioni
importanti disciplinari (can. 3-5), le cosiddette causae majores, che
praticamente riguardano i vescovi.
Ma va rilevato che Sardica non volle
affatto sacrificare le prerogative delle autonomie locali alla causa del
primato romano: si tratta prima di tutto di una suprema istanza non assoluta,
esclusivamente di appello e l'appello presuppone evidentemente la procedura
disciplinare locale e la richiesta di intervento da parte del vescovo interessato.
Roma dunque non ha un diritto automatico di intervento! In secondo luogo Roma
nello svolgere il suo ruolo di suprema istanza di appello per questioni disciplinari
deve rispettare le prerogative autonome locali, cioè qualora decida di non
confermare la sentenza pronunziata in prima istanza dal concilio provinciale o
regionale contro un vescovo, Roma deve ordinare una nuova istruttoria per opera
dei vescovi della provincia vicina o per opera di delegati papali inviati sul
posto.
Un'ultima osservazione: le sentenze sia disciplinari
sia dogmatiche pronunciate da Roma non sono ritenute ex sese vincolanti: quando
sono accolte non è in nome di un formale
potere di Roma di interpretare la fede e la disciplina della Chiesa, ma come
conseguenza di una verificata consonanza tra la decisione romana e la
tradizione ecclesiale: si capisce allora come alcune decisioni romane siano
state respinte: non bastava che fossero romane, occorreva che fossero anche ecclesiali!
4 – La crisi istituzionale dei secolo
VII e VIII
l'insediamento dei popoli
germanici sull'area occidentale, la tensione sempre più forte tra Oriente e Occidente,
l'espansione islamica determinarono il crollo di alcune istituzioni ecclesiali,
che in Occidente ponevano spazi di autonomia tra Roma e le Chiese locali.
Vediamo a grandi linee questo fenomeno.
Le strutture provinciali e metropolitane subirono
uno sconvolgimento quasi totale: le province italiane, sottoposte come furono sia
alla spartizione territoriale sia ai contrasti bellici tra Longobardi e
Bizantini, si trovarono praticamente nell'impossibilità di fare sopravvivere l’istituto ecclesiastico metropolitano, che invece esigeva una situazione di
pacifica collaborazione.
Le province del regno merovingio a partire dal 639 furono investite
e frantumate dall'anarchia particolaristica della nobiltà locale: sedi
episcopali della stessa provincia vennero
così a trovarsi dominate da diversi signori locali ed anche qui un discorso di
collaborazione divenne praticamente inattuabile: non per nulla bisogna
attendere i tempi di Pipino il breve e Carlonanno perché si torni a celebrare
dei concili, ma non saranno più concili
provinciali, saranno concili del regno, convocati e guidati non già da un metropolita
ma dall'autorità temporale.
Analoga
sorte toccò alle province ecclesiastiche dell’Europa orientale, che in parte
furono occupate dagli Avari e dagli Slavi,
in parte divennero preda degli Arabi, in parte rimasero sottoposte all’imperatore
bizantino e pertanto venne meno quell'unità culturale e politica, che
consentiva anche un lavoro di collaborazione ecclesiale.
Altra
struttura intermedia tra la principalitas di Roma e le Chiese locali era
rappresentata dalle sedi primaziali di Cartagine e di Toledo: ma, come si sa,
sia l’Africa settentrionale verso la fine del VII sec. sia quasi tutta la
Spagna visigotica a partire dal 711 furono conquistate dagli Arabi: la vita
cristiana molto presto si estinse in Africa settentrionale, continuò invece in
Spagna, ma in maniera completamente isolata.
Anche
l’istituto patriarcale rappresentava una forma di autonomia interdiocesana
rispetto alla principalitas di Roma, perché il vescovo di Roma condivideva la
sua prerogativa di patriarca con altri quattro Patriarchi orientali. Ebbene
anche a questo livello si ebbe una trasformazione. Per via della espansione
islamica le sedi patriarcali dell'area imperiale si ridussero praticamente a
due: Roma e Costantinopoli. E tra Roma e Costantinopoli i rapporti divennero
sempre meno di collaborazione e sempre più di netta contrapposizione. Influì
senz'altro in questo senso la situazione politica. L'impero romano, privato di
terre in Occidente in seguito agli stanziamenti germanici, privato delle coste
mediterranee in
seguito alla espansione islamica, vide ridursi la sua area di dominio alle
terre orientali: Roma divenne sempre più una città periferica, Costantinopoli assunse
invece sempre più una posizione centrale.
Questa situazione
politica ebbe riflessi anche a livello ecclesiale: Leone III fu indotto a
trasferire dalla giurisdizione patriarcale della Roma periferica e ribelle a quella
della centrale Costantinopoli le terre che politicamente gravitavano intorno a
Costantinopoli (Sicilia, Italia meridionale, Macedonia, Dalmazia, Grecia), in
tal modo veniva a crearsi coerenza tra l'apparato politico e l'apparato
ecclesiastico. A questo punto da una parte il
patriarca di
Costantinopoli si sentì ancora più stimolato ad avanzare le sue pretese di
primato ecumenico, dall'altra il vescovo di Roma si trovò costretto a contare
sempre meno sull'Oriente ed a rivolgersi sempre più verso l'Occidente
cristiano. E la Chiesa universale si trovò così coinvolta nella
contrapposizione dei due blocchi politico-culturali: una Chiesa sempre più
latina da una parte, una Chiesa sempre più greca dall'altra; da una parte un
patriarca romano, con pretese di giurisdizione universale, ma con effettive possibilità
di azione solo in Occidente; dall'altra, un patriarca costantinopolitano, pure
animato da pretese ecumeniche, ma a sua volta ridotto al solo Oriente nelle
effettive possibilità di azione: insomma alla struttura patriarcale subentrò la
contrapposizione di due primati.
5 - La ricostruzione
carolingia
a) Si perde l’idea dell’autonomia delle
strutture interdiocesane.
In
connessione con la ricostruzione politica, i primi carolingi si occuparono
anche della riorganizzazione ecclesiastica. Per riportare ad una certa unità la
vita ecclesiale, che con il crollo delle strutture provinciali pure era venuta
a trovarsi in situazione di dispersione particolaristica, si pensò di
rimettere in vigore le vecchie sedi metropolitane e di crearne anche di nuove.
Un primo passo in questo senso
fu compiuto dai concili riformatori degli anni 743-747. Come si sa, decisiva in
quella circostanza fu l'opera di Bonifacio, e ciò spiega come mai la
ricostruzione della struttura metropolitana non fu affatto una semplice riedizione
del sistema tardo-antico, dove i principi di collegialità apostolica e di successione
diretta conferivano alle province ecclesiastiche un potere autogeno, autonomo e
collegiale.
La ricostruzione carolingia,
ispirata da Bonifacio, trovò il suo modello non nelle strutture provinciali
antiche ma nella organizzazione ecclesiastica inglese.
In Inghilterra continuava a
vivere il sistema metropolitano introdotto dai missionari romani, inviati da
papa Gregorio Magno: all’origine di tale sistema non vi erano i principi della
collegialità e della successione diretta, ma vi era il fatto della missione da
parte del papa.
Attraverso Bonifacio
dunque penetrò nel mondo carolingio l’idea
che l'organizzazione ecclesiastica sia a livello diocesano, sia a livello
interdiocesano non fosse un atto autogeno, ma sempre comportasse l'intervento
del papa: non per nulla lo stesso Bonifacio, prima di intraprendere la sua
missione evangelizzatrice si era recato a Roma per
avere l'autorizzazione pontificia. Questa affermazione del potere papale in una
sfera, che prima, era di dominio episcopale, trova significativa espressione
nell'evoluzione,che ha subito il conferimento del pallio e del titolo di
arcivescovo. Il pallio era un'insegna liturgica con valore onorifico: derivata
dal cerimoniale della corte bizantina, in Occidente era divenuta prerogativa-esclusiva
del vescovo di Roma. Questi però cominciò a concedere l'uso del pallio ad
alcuni altri vescovi come segno di stima, quindi senza annettervi alcun particolare
valore giurisdizionale.
Gregorio Magno, Bonifacio, Onorio I, ai
direttori della missione evangelizzatrice in Inghilterra concessero insieme con
la facoltà giuridica di ordinare vescovi suffraganei, tipica dei metropoliti,
anche l'uso onorifico del pallio e del titolo di arcivescovo.
In tal modo in
Inghilterra venne a crearsi un legame estrinseco ma costante fra funzione
metropolitana da una parte e onorificenza del pallio e titolo arcivescovile
dall'altra, data l'identità sia della persona concedente, il papa, sia della
circostanza di concessione.
Papa Gregorio III
si comportò allo stesso modo con Bonifacio e per questa via il legame
estrinseco fra la funzione metropolitana e le summenzionate onorificenze venne
trapiantato anche sul continente. I carolingi, nel ricostruire le sedi metropolitane,
si rivolsero alla Santa Sede sia per ottenere l’autorizzazione giuridica sia
per ottenere il pallio e il titolo arcivescovile. A questo punto il legame
estrinseco si trasformò in sovrapposizione: i papi fecero
della concessione della concessione del titolo arcivescovile ai metropoliti non
più solo un fatto onorifico ma anche un fatto giurisdizionale: conferimento dei
poteri metropolitani da parte del papa. Infatti la Santa Sede cominciò a porre ai metropoliti eletti
condizioni, che legavano l'esercizio delle funzioni metropolitane alla
concessione dei pallio:
·
prima condizione: chiedere il pallio entro tre mesi, accludendo una
professione di fede;
·
seconda condizione: non ordinare vescovi suffraganei e non assidersi sulla
cattedra episcopale durante i pontificali prima di aver ricevuto il pallio.
Certamente lo scopo di tali
postulati era di legare più strettamente i metropoliti alla Santa Sede: si consideri
poi il fatto che il pallio, consacrato dal papa, veniva conservato, prima di
essere consegnato ai metropoliti, nella nicchia dei palli sopra la tomba di san
Pietro, allora si comprende come facilmente venne a formarsi l'idea che il
metropolita sarebbe una specie di vicario del papa, con partecipazione delegata
e parziale al suo primato. Questa identificazione tra metropolita e vicario
apostolico significa il rovesciamento totale dell'antica istituzione
metropolitana, fondata sull'origine autoctona delle associazioni episcopali
interdiocesane.
b)
Scomparsa del
carattere collegiale:
altro mutamento di questa
rinnovata istituzione metropolitana, rispetto al sistema antico, è
rappresentato dalla scomparsa del carattere collegiale. Questa scomparsa va
connessa con la scomparsa del diritto pubblico: oramai tutte le funzioni
vengono interpretate secondo la logica del diritto privato, che concede il
potere in base a considerazioni estremamente personalistiche.
I nuovi metropoliti infatti
all'inizio cercarono di far diventare prerogative personali quelle che nel sistema
antico erano prerogative del concilio provinciale: diritto di controllo
sull’elezione dei vescovi e diritto di giurisdizione sui vescovi. Per tale via
i metropoliti tentavano di trasformare la supremazia d'onore in supremazia
giurisdizionale sugli altri vescovi della provincia, che scadevano dal rango di
vescovi suffraganei al rango di ausiliari.
La cosa evidentemente suscitò
l'opposizione dei vescovi suffraganei, che tentarono in ogni modo di ostacolare
i metropoliti. Tale opposizione trovò espressione nelle false decretali dello
Pseudo-Isidoro, redatte verso la metà del sec. IX.
Intenzione precipua, che
presiede alla compilazione della false decretali, è l’affermazione
dell’autorità monarchica dei singoli vescovi nelle loro rispettive diocesi
contro le limitazioni di tale ruolo ad opera dei metropoliti, dei laici, dei
corepiscopi.
Va rilevato che ciò che viene
difeso non è la collegialità della funzione episcopale, ma la logica opposta di
indipendenza e autonomia.
In
particolare l’affermazione del ruolo episcopale contro il potere dei
metropoliti viene fatta limitando tale potere dall'alto attraverso
un'esaltazione del ruolo primaziale del papa: il ruolo di suprema istanza di
appello per le causae majores, che il concilio di Sardica riconosceva al papa,
viene esteso fino a riservare al papa tutte le causae majores riguardanti i
vescovi:
·
si riconosce al papa il diritto di accogliere l'appello di un vescovo non
solo a concilio provinciale ultimato, ma anche
nel corso del concilio stesso: in tal modo ogni vescovo si garantiva la
possibilità di sottrarsi al giudizio del metropolita;
·
ancora, per via dell'esclusiva papale in ordine alle causae majores, le decisioni
sinodali contro vescovi diventavano vincolanti solo se approvate dal papa;
·
ancora si riconosceva al papa il diritto non solo di convocare e confermare
i concili generali, ma anche il diritto di dare il proprio assenso alla
convocazione e alle deliberazioni dei concili provinciali.
Come
si vede in tal modo le false decretali sottraggono i concili provinciali al
controllo dei metropoliti e li sottopongono in gran parte al controllo della
Santa Sede.
I
compilatori delle false decretali fondano tali affermazioni sia su 115
documenti attribuiti ai pontefici romani, ma in realtà interamente fabbricati,
sia su 125 altre decretali autentiche, ma alterate con varia interpolazioni.
Nel complesso l’operazione tende a imporre alla Chiesa del passato strutture,
preoccupazioni, affermazioni che invece sono di quest'epoca particolare di cui
ci stiamo occupando. Con ciò si incorre nel grave limite di mettere
completamente in ombra il processo storico di sviluppo delle istituzioni
ecclesiastiche e conseguentemente di suggerire un'idea di Chiesa fin
dall'inizio stabilmente costruita su un'autorità romana siffatta. Va poi
rilevato che le false decretali sono testimonianza di uno sviluppo passato e
stimolo per uno sviluppo futuro. Testimonianza di uno sviluppo passato: con le
false decretali noi vediamo che certe idee che prima erano tipiche
dell'ambiente romano ora cominciano a penetrare e guadagnare terreno anche
altrove, e ciò è senz'altro spiegato anche dal fatto che un po’ tutta la riorganizzazione
ecclesiastica carolingia prese come riferimento gli usi ed i libri romani. Stimolo
per uno sviluppo futuro: le decretali pseudo-isidoriane non trovarono subito piena
accoglienza e totale applicazione, tuttavia ebbero nei sec. IX e X una notevole
divulgazione, e in tal modo anch'esse contribuirono a preparare la riforma gregoriana.
Per
ridurre il potere dei metropoliti i vescovi non si limitarono ad una
esaltazione del potere primaziale del papa, fecero anche ricorso ad una
limitazione dal basso. Infatti nel timore che il concilio provinciale
diventasse occasione di affermazione dei metropoliti, i vescovi cominciarono a
disertare tali assemblee, che divennero sempre più rare: a ciò contribuì anche
il fatto che il potere temporale preferì fare ricorso ai concili di tutto l'
episcopato nazionale.
Concludendo: come si è visto, la crisi dei secoli
VII e VIII ha ridotto la scala gerarchica occidentale a due gradini: vescovo e
papa.
Il livello intermedio delle autonomie interdiocesane
e interprovinciali è venuto a mancare. La- ricostruzione carolingia riporta ai
tre livelli: vescovo-metropolita-papa ma il livello intermedio del metropolita
non è più affermazione della diretta successione apostolica, della collegialità
episcopale, di certa autonomia locale ma diventa piuttosto affermazione della
dipendenza da Roma, che d’altra parte riesce a fare sue alcune prerogative che
nel periodo tardo-antico erano proprie delle organizzazioni interdiocesane.
Dunque se da una parte abbiamo un progresso dell’istituto primaziale del
papato, dall’altra abbiamo l'eclissarsi
di un principio rilevante della costituzione ecclesiastica: la collegialità
episcopale, che è pure soggetto di suprema potestà nella Chiesa. La perdita di
sensibilità su questo punto è anche conseguenza del distacco che si è operato tra
Occidente e Oriente: una Chiesa latina più dialogante con la Chiesa orientale avrebbe
meno facilmente smarrito il senso della collegialità episcopale.
6
- Altri diritti acquisiti dal papato
Già
abbiamo accennato a come il fatto della fondazione di nuove strutture ecclesiastiche
in Inghilterra da parte del papato si sia trasformato attraverso Bonifacio in
un diritto di intervento papale nella fondazione di nuove diocesi e province.
Secondo importante avanzamento giuridico del papato:
è rappresentato dalla particolare relazione che viene a instaurarsi tra papato
e monachesimo: parecchi monasteri, per
sfuggire agli assalti particolaristici della nobiltà durante la decadenza carolingia,
fecero ricorso alla Santa Sede o chiedendone la protezione, o offrendosi come
sua proprietà. Venne così a costituirsi in Occidente una fitta rete di
monasteri sottoposti alla protezione o alla proprietà papale e come sappiamo ciò
concluse all'istituto giuridico dell'esenzione monastica (fine sec. X inizio
sec. XI). Per tale via il papato giunse ad avere in sua diretta dipendenza e a sua
totale disposizione un intero ordo ecclesiastico di estensione eccezionale:
tale relazione giuridica permane tuttora!
Una terza acquisizione giuridica per il
papato è rappresentata dalla canonizzazione dei santi. Fino al X sec. la
canonizzazione dei santi era compiuta dai singoli vescovi nella propria diocesi;
ma nel 993 alcuni ambienti tedeschi pregarono papa Giovanni XV di procedere
alla canonizzazione di Ulrico, vescovo di Augsburg; venne in tal modo aperto un
cammino che nel XIII sec. si concluderà con l'affermazione del diritto
esclusivo della Santa Sede in ordine alle canonizzazioni.
Altra
acquisizione: riserva di assoluzione di certe colpe gravi.
La devozione a Pietro,
clavigero e ostiario del cielo, aveva presto spinto alcuni fedeli a recarsi a
Roma per ottenere l’ assoluzione dei propri peccati dal papa, vicarius Petri.
Anche alcuni vescovi, nella stessa prospettiva
devozionale, per l’assoluzione di certi gravi crimini, anziché ricorrere alla propria
potestà, preferirono mandare il peccatore dal papa: si noti bene; la cosa non era
dettata dalla convinzione di un proprio limite potestativo, ma dall’intento di
sottolineare la gravità del crimine, facendo intervenire il vicarius Petri.
Tale prassi in fondo implicava il riconoscimento di una giurisdizione diretta
della Santa Sede su ogni fedele. Però si deve dire che sull’argomento nel nostro
periodo non si ha ancora la fissazione di
norme giuridiche precise: da qui l'opposizione di alcuni vescovi nei confronti
degli interventi papali, che
scavalcavano i diritti dell'episcopato locale.
Da
questa carrellata possiamo senz’altro concludere che i papi della riforma
gregoriana, benché fecero seguito ad un papato decadente, non partirono affatto
da zero nell'affermare la prerogative primaziali, in quanto, come abbiamo
visto, non tanto per propria iniziativa ma piuttosto come risultanza di certe
situazioni, il papato aveva cominciato a
fare importanti acquisizioni sul terreno giuridico; si tratta ora di vedere se
a ciò corrisponda o soggiaccia una concezione dottrinale particolare.
7
- La visione dottrinale della costituzione ecclesiastica nell’alto-medio evo
Le
false decretali dello Pseudo-Isidoro potrebbero fare pensare che nel corso
dell'alto medio evo anche fuori Roma si sia imposta la concezione ecclesiologica
romana, con la sua tendenza ad attribuire al papato un ruolo monarchico nella
Chiesa. In realtà le false decretali sono piuttosto una voce isolata
nell'ambito dell'alto medio evo, voce isolata che si colloca nel particolare
contesto storico della frantumazione dell’impero carolingio, sanzionata definitivamente
dal trattato di Verdun dell'843.
Già dicemmo che col trattato di Verdun l’unità
dell'imperium christianum non ha più riscontro alcuno a livello realistico-territoriale,
diventa soltanto un fatto ideale ecclesiastico: è chiaro che in siffatte condizioni
è il papa più che l'imperatore ad assurgere ad espressione dell'unità. Ecco perciò che nell’850 - proprio nello stesso
periodo in cui si compilarono le decretali pseudo-isidoriane - Ludovico II non
si fece più incoronare imperatore ad Aquisgrana
dal padre Lotario, ma a Roma dal papa Leone IV.
In altri contesti storici, caratterizzati dalla
presenza dominante di Carlo Magno o degli Imperatori ottoniani, evidentemente l’interpretazione
romana del primato con la sua tendenza di tipo monarchico aveva scarsa aderenza
alla realtà dei fatti: la mentalità di coesione, che portava a pensare la
Chiesa alto-medioevale anche come società temperale, non poteva teorizzare molto
facilmente una esclusiva posizione egemonica del vescovo di Roma, ignorando
completamente la forza imperiale.
Si capisce allora come al di fuori di Roma la
quasi totalità degli autori sia nella linea non tanto leonina, ma piuttosto
ciprianea: così Beda, così Incmaro di Reims, così Rabano Mauro, così Pascasio
Radberto, così Oddone di Cluny, così Raterio di Verona, così Attone di
Vercelli.
In questa prospettiva si
deve dire che le acquisizioni di diritti, fatte dal papato in questo periodo,
non vanno tanto lette come traduzioni e conseguenza pratica di una concezione
teorica, che assegna al papa un ruolo monarchico nella Chiesa, ma sono
piuttosto
preparazione di una tale mentalità, che si affermerà solo con la riforma
gregoriana.
Dimostrazione di ciò ci è
offerta dalie collezioni canoniche: quasi tutte le collezioni canoniche a
partire dalla Dionyso-adriana fino a quella di Burcardo di Worms, che si
colloca. all'inizio
del sec. XI, trattano nel primo libro "De primatu Ecclesiae”: vi si parla
del potere dei vescovi e in
tale contesto si accenna anche al vescovo di Roma, come episcopus primae sedis,
ma dotato di una potestas clavium che è della stessa natura della potestas clavium
degli altri vescovi (Questa tesi è stata messa in discussione e in qualche modo
corretta da M MACCARRONE, La teologia
del primato romano del secolo XI. Le istituzioni ecclesiastiche della societas
christiana dei secoli XI-XII, Milano 1971, 33-38).
Le collezioni canoniche
che verranno alla luce nel contesto della riforma gregoriana invece
cominceranno a dedicare il primo libro al tema “De potestate et primatu apostolicae
sedis”. Rimane allora da spiegare come mai nel nostro periodo il papato abbia acquisito
tali diritti. Una prima e fondamentale ragione sta non nel terreno delle idee,
ma nel terreno dei fatti, della circostanze storiche: la crisi dei sec. VII e
VIII ha distrutto le strutture di autonomia collegiale e ha indebolito il senso
della collegialità: come abbiamo visto tale situazione ha consentito al papato
di assumere a livello pratico una posizione più prestigiosa, di quella che
allora gli si riconosceva a livello dottrinale.
Una seconda importante
ragione è rappresentata dalla devozione molto viva nei confronti di san Pietro,
ostiario del cielo, che si traduce anche in grande venerazione per la sede di Roma
e per il vescovo di quella sede. Tale devozione, trapiantata dai monaci romani
in ambiente anglosassone, è stata poi diffusa da Bonifacio e Villibrordo anche
tra i popoli germanici, che addirittura giunsero a interpretarla con maggiore
ardore. Ebbene per via di una siffatta devozione l’ambiente alto-medioevale fu
portato ad accogliere e giustificare con benevolenza i vantaggi che il papato veniva a mano
a mano acquisendo sul terreno giuridico.
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