LA CRISTIANIZZAZIONE DEI POPOLI
GERMANICI NEI SECOLI V –VII
La nostra esposizione seguirà questa articolazione:
1.
premessa: la crisi dell’Impero
2.
il fenomeno delle migrazioni nei secoli V – VI
3.
riflessi sulla relazione Occidente – Oriente
4.
riflessi sulla strutturazione dell’Occidente
5.
Chiesa e “barbari”.
1.
Premessa: la crisi
dell’Impero
In quale contesto politico-sociale
avvennero li migrazioni germaniche?
L’Impero romano stava vivendo una crisi
rilevante. Nel corso dei secoli III, II, I a.C. il dominio romano si era esteso
su diverse regioni dell’Europa Orientale, dell’Asia Minore, sulla Siria e sulla
Palestina. Ma, come solitamente si verifica nella storia dell’umanità, questo
processo di espansione dette avvio ad un lento, ma inesorabile processo di
contrazione. Vediamo i fattori che più contribuirono a determinare questa
contrazione.
Prima di tutto l’enorme espansione
dell’Impero comportò un notevole incremento della spesa pubblica: si doveva,
infatti, sopperire ad una duplice necessità: finanziare il mastodontico
apparato burocratico e finanziare l’esercito per la difesa dei confini divenuti
sempre più estesi e continuamente minacciati dai “barbari” e dai Persiani: si
pensi che alla fine del III secolo secondo la Notitia dignitatum (documento della fine del IV secolo) l’esercito sarebbe raddoppiato, raggiungendo
il numero di 500.000 uomini. Ovviamente quanto veniva devoluto a queste spese
pubbliche, veniva sottratto agli investimenti produttivi.
In secondo luogo, l’economia si rivelò
sempre più incapace di sostenere la spesa pubblica, per due ragioni
soprattutto.
Prima ragione: attenuazione della capacità
produttiva globale. A ciò concorse pesantemente la riduzione del numero degli
schiavi causata in gran parte dalla politica della “pax romana”: se la guerra
con i suoi prigionieri rappresentava il serbatoio a cui si attingevano gli
schiavi, la “pax romana” evidentemente ne comportò il progressivo esaurimento.
L’assottigliamento del numero degli schiavi fu dovuto anche all’alto tasso di
mortalità precoce per via della vita di stenti e sfruttamento, al quale si
associava il basso tasso della natalità. I padroni, infatti, cercavano di
impedire la nascita di figli tra gli schiavi, perché per diversi anni sarebbero stati una spesa improduttiva
(era sui 13 anni che uno schiavo cominciava a rendere in pieno).Gli stessi
schiavi praticavano in larga misura il controllo delle nascite per evitare di
avere figli, che dovessero subire la loro stessa sorte. Gli esperti in economia
sostengono che l’economia romana era stata fiorente proprio perché in larga
misura schiavistica: gli schiavi sia in agricoltura sia nell’industria
assicuravano la mano d’opera a basso costo e quindi larghi margini di profitto.
La riduzione del numero degli schiavi determinò la crisi dell’industria, che si
trovò nella necessità di fare ricorso alla più costosa mano d’opera di uomini
liberi con la conseguente riduzione dei margini di profitto. Coloro, che
disponevano di capitali, reputarono quindi sempre più svantaggioso investire in
attività industriale e quindi orientarono gli investimenti verso l’agricoltura.
Il settore agricolo, che era già di per sé
la base fondamentale dell’economia romana, dovette pure fare i conti con la
riduzione degli schiavi. Prima conseguenza fu la concentrazione delle proprietà
terriere nelle mani dei grandi proprietari, che rivolsero totalmente
sull’agricoltura il loro impegno economico. Ovviamente i piccoli proprietari
terrieri in gran numero dovettero arrendersi di fronte alla soverchiante
concorrenza dei latifondisti, cedendo loro i piccoli appezzamenti di cui
disponevano e trasformandosi in braccia sostitutive degli schiavi. Questa
sostituzione di liberi agli schiavi comportò la trasformazione del sistema
agricolo: i latifondisti, infatti, suddivisero i propri fondi terrieri in due
grandi parti: l’indominicatum, gestito direttamente dal proprietario mediante
lo sfruttamento degli schiavi di cui ancora disponeva; il dominicatum diviso in
poderi, che venivano affittati ai vari nuclei familiari dei coloni liberi e
liberti, che da un lato dovevano trarvi il loro sostentamento e dall’altro
dovevano sia versare al dominus una parte del raccolto sia prestarsi a lavorare
per un certo numero di giorni sull’indominicatum.
Quindi alla pratica scomparsa
dell’industria subentrò un sistema di produzione agricola, che assicurando a
schiavi e coloni solo possibilità di sostentamento e non di accumulo di beni,
precludeva loro di fare ricorso alla vita di mercato. Il signore latifondista
invece otteneva dalla vita agricola qualcosa di più del solo sostentamento. Che
ricaduta ebbe tutto questo sul sistema sociale? Da un lato si produsse un
fenomeno crescente di concentrazione della ricchezza e dall’altro si verificò
una riduzione quantitativa dell’attività commerciale.
L’attenuazione della capacità produttiva
globale fu provocata anche da una progressiva flessione demografica,
determinata
·
dal diffondersi di pratiche contraccettive (era tramontato
l’ideale della grande famiglia patriarcale): si dava qui una sorta di circolo
vizioso: da una parte la crisi economica spingeva ad una diminuzione delle
nascite e dall’altra la diminuzione delle nascite accentuava la crisi economica;
·
dal dissanguamento continuo operato dalle guerre;
·
dall’incidenza notevole di alcuni flagelli epidemici ed
endemici, quali la pesta e la malaria (si sa che la peste si presentò verso il
180 d.C. e da allora i suoi colpi si susseguirono ad intervalli ravvicinati fin
verso la metà del VI secolo; la malaria imperversò dal canto suo in maniera
impressionante durante gli ultimi secoli dell’Impero romano e durante i primi
secoli del Medio Evo.
Per una legge ferrea dell’economia, la
legge della domanda-offerta, la prima conseguenza della riduzione della
capacità produttiva globale fu la lievitazione dei prezzi.
Una seconda ragione rese l’economia romana
sempre meno capace di sostenere la spesa pubblica: la riduzione delle riserve
aurifere ed argentifere dello Stato. Lo Stato da una parte ritenne di dover far
fronte all’aumento dei prezzi, mettendo in circolazione una maggiore quantità
di moneta e dall’altra la monetazione gli divenne sempre più difficile, perché
le riserve di oro e di argento diminuirono sempre più per il continuo venir
meno degli schiavi minatori. Lo Stato allora ritenne di far fronte al problema,
coniando monete, in cui diventava sempre più pesante la lega di vile metallo e
si riduceva sempre più la quantità di oro e di argento. Alcuni esempi: l’aureus
di Nerone conteneva dagli 8,18 ai 7,4 grammi di oro; Costantino invece fece
coniare il solidus con solo 4,55 grammi di oro. Traiano faceva coniare un
denaro d’argento che conteneva dai 3,90 ai 3,21 grammi di argento, Caracalla
agli inizi del III secolo faceva coniare denari d’argento che al 98,5 % era di
bronzo.
A fronte di questa ampia immissione di
moneta svalutata, coloro che possedevano le vecchie monete pesanti, preferirono
non metterle in circolazione per evitare che subissero il processo inflattivo;
e coloro che invece praticavano il commercio preferirono essere pagati in
natura anziché con moneta di scarso valore. Lo stesso Stato romano a un certo
punto preferì raccogliere le tasse in derrate alimentari, in quanto non nutriva
fiducia nella sua propria moneta. Questa scelta comportò gravi scompensi: far
fronte a forti spese di trasporto e fare i conti con i furti e il deperimento
delle merci.
Tutto ciò contribuì a determinare un forte
squilibrio tra le esigenze della spesa pubblica e le effettive risorse
economiche disponibili. Lo Stato ritenne di risolvere il problema inasprendo la
pressione fiscale e quindi nei cittadini maturò un atteggiamento di crescente
ostilità nei confronti dello Stato con incremento della tendenza a rivendicare
autonomie particolaristiche. Nel IV secolo Siria ed Egitto interpretarono alla
grande questa spinta autonomistica e la cosa ebbe ricadute anche sulla stessa
vita ecclesiale sia a livello di costituzione ecclesiastica, in quanto le sedi
di Alessandria e di Antiochia rivendicarono un peso maggiore sia a livello
dottrinale, dove certamente lo scontro tra Alessandria e Antiochia nel dibattito
cristologico risentì di questa politica particolaristica.
La grande crisi si caratterizzò anche per
un secondo elemento, che si fece sentire più pesantemente in Occidente che in
Oriente. Roma, quando conquistò le province occidentali delle Gallie e della
Spagna, si trovò a dover fare i conti con terre sottosviluppate, che quindi da
un lato erano incapaci di contrastarne l’egemonia e dall’altro diventavano
mercato fiorente sul quale esportate la produzione romana. Ben diverso riflesso
ebbe invece la conquista delle province orientali, che erano già civilizzate e
notevolmente progredite economicamente: molto presto queste province entrarono
in concorrenza produttiva e commerciale con l’Occidente, riducendolo a loro
mercato. La maggior prosperità dell’Oriente ebbe in Occidente anche un pesante
riflesso demografico: parecchi occidentali scelsero di trasferirsi laddove si
presentavano maggiori possibilità economiche e per l’Occidente fu un esodo sia
di braccia sia di capitali.
Il crescente predominio orientale si
espresse per esempio nel campo culturale, determinando il fenomeno della
ellenizzazione della cultura e favorendo anche il successo delle religioni
orientali (il culto di Mitra e il cristianesimo stesso). Si espresse anche in
campo politico: non per nulla con il III secolo si ebbe la comparsa di
imperatori provenienti dalla province orientali.
Ovviamente l’Occidente, sempre più debole
a livello di potere di acquisto, incominciò ad attenuare i suoi scambi
commerciali con l’altra parte dell’Impero.
Ovviamente si ebbe anche lo spostarsi
nella “Romania” dell’asse di gravitazione verso Oriente: lo dimostrò
chiaramente Costantino, quando nel 330 trasferì la capitale a Costantinopoli.
La diversità di peso tra le due parti ebbe
un duplice riflesso in sede politica. Prima di tutto si tese alla distinzione
di governo: nel 364 l’esercito acclamò Valentiniano I come imperatore, ma gli
impose di associarsi un secondo Augusto
per la parte orientale e la scelta cadde sul fratello Valente. Da allora,
tranne per un breve periodo durante il governo di Teodosio, le due parti ebbero
diversità di governo. In secondo luogo la politica dell’Impero fu sempre più
determinata dall’Oriente e fu sempre più in prospettiva orientale.
Tutto questo ci fa capire come mai
l’Impero subì il fenomeno delle migrazioni e come mai lo subì nella sua parte
occidentale, quella più debole, quella che era meno in grado di fronteggiarlo.
La parte orientale invece si servì delle armi, della diplomazia e delle
maggiori disponibilità di denaro per dirottare le orde germaniche verso
l’Occidente. La parte orientale si servì anche del suo predominio politico per
ammassare le truppe lungo il Danubio, sguarnendo il Reno e quindi aprendo la
via di penetrazione in Occidente ai popoli germanici occidentali.
2 – Il fenomeno delle migrazioni nei secoli V - VI
Possiamo distinguere 5 stadi.
I STADIO: questa terza ondata prese le mosse
nel IV secolo. La scossa iniziale venne da un popolo, gli Unni, che non erano
né di origine germanica né di origine celtica. “Che gli Unni siano stati una
popolazione asiatica non è affatto da dubitare; ma con quale popolo precedente
essi siano da identificare… argomento di discussioni e di netti contrasti”. Per
la questione si può fare riferimento a: L. HAMBIS, Le problème des Huns : Revue
Historique 220 (1958), p.249 ss.
Popolazione analfabeta di pastori, che vivevano in perenne
nomadismo sia per rinvenire sempre nuovi pascoli sia per integrare con le
razzie gli insufficienti proventi dell’allevamento e della caccia. In questo
loro girovagare, gli Unni, respinti dalla Cina, si rivolsero verso l’Europa,
dando qui vita ad un nuovo sommovimento di popoli: infatti, le tribù
germaniche, che stavano stanziate tra il Mar Baltico ed il Reno, si trovarono
sospinte verso l’Impero in cerca di un nuovo spazio, in cui stabilirsi.
I primi, che furono costretti a ciò, furono i Goti, che
durante la seconda ondata, quella del II e III secolo, si erano insediati tra
il Danubio e il Don e avevano dato vita a due regni distinti: il regno visigoto
(attuale Romania) e il regno ostrogoto (attuale Ucraina).Gli Ostrogoti furono
sbaragliati nello scontro con gli Unni: parecchi morirono, altri si riversarono
nel regno visigoto e altri infine furono assorbiti dagli Unni. I Visigoti,
invece, nel 376 ottennero dall’imperatore della parte orientale di penetrare
nell’Impero e di stabilirsi come federati nella Tracia (attuale Bulgaria).
L’oppressione dei funzionari romani spinse i Visigoti ad un ammutinamento.
L’imperatore Valente cercò di contenere la ribellione, ma perse la battaglia e
la vita nei pressi di Adrianopoli (378). Il suo successore Teodosio, che era
più disponibile ad una politica di accondiscendenza, permise ai Visigoti di
stanziarsi in Mesia (attuale Bulgaria settentrionale) e insieme offrì diversi
settori della Pannonia (pianura ungherese) a gruppi sbandati di Ostrogoti,
concedendo e agli uni e agli altri ampia autonomia.
II STADIO: primi del V secolo. Dal 395
sedevano sul trono imperiale i figli di Teodosio.
Onorio: imperatore della parte occidentale,
dodicenne, incapace sia per età sia per limitatezza di ingegno e di volontà, fu
affiancato dal generalissimo, magister utriusque militiae (cioè fanteria e
cavalleria) Stilicone, di origine vandala e romanizzato da una generazione, che
era imparentato con Teodosio, avendone sposato la nipote Serena. Stilicone fu lealissimo
all’impero.
Arcadio: imperatore della parte orientale,
diciassettenne, con gli stessi limiti del fratello, rimase in balia di vari
curiali. Al suo governo si deve l’iniziativa di spingere i Visigoti, capeggiati
da Alarico, verso l’Occidente.
Per difendere i confini
orientali dell’Italia (Friuli e Istria), che erano minacciati prima dai
Visigoti di Alarico e poi da un agglomerato di Ostrogoti, Vandali, Alani e
forse Alamanni, Stilicone si trovò costretto a sguarnire il confine del Reno.
Ne approfittarono Vandali, Svevi, Alani per penetrare nel territorio imperiale,
devastare la Gallia e la Spagna e stabilirvisi (Vandali al sud, Andalusia; Alani
al centro; gli Svevi in Galizia). Stilicone fu accusato di tradimento e fu
eliminato nel 408.
Alarico, non avendo più nessuno
che potesse contestargli il passo, riprese con i suoi Visigoti la strada
dell’Italia ed inflisse all’Impero l’umiliazione del saccheggio di Roma (24
agosto 410). Si diresse poi verso il Sud per raggiungere forse l’Africa, ma
morì presso Cosenza. Ataulfo, successore di Alarico, preferì cambiare direzione
e si spostò in Gallia. Il suo secondo successore, Vallia, su incarico di
Onorio, si dedicò alla conquista della Spagna, che divenne visigota ad
eccezione e della Galizia, che rimase agli Svevi e della Betica (Andalusia),
che rimase insediamento dei Vandali. Questi però nel 428-429 sotto la guida di
Genserico si trasferirono nell’Africa romana.
III STADIO: metà del V secolo. Ricordo quattro
avvenimenti significativi.
·
Nel
451 gli Unni, capeggiati da Attila, si buttarono sulla Gallia. Respinti
dall’esercito del generale Ezio, ripiegarono sull’Italia, dove conquistarono
Padova, Verona, Milano, Pavia e manifestarono l’intenzione di raggiungere Roma.
Un’ambasciata romana, di cui faceva parte il papa Leone, distolse Attila dai
suoi progetti grazie al versamento di un cospicuo tributo più che all’azione
suasiva del papa. Tornato in Pannonia, Attila morì di lì a poco e il suo regno
di disgregò quasi subito.
·
Onoro
morì nel 423 e come imperatore della parte occidentale gli successe nel 425
Valentiniano III, figlio di Galla Placidia. Nel 455 Valentiniano III fu
assassinato. Con il pretesto di vendicarlo si fece avanti il vandalo
Genserico (Valentiniano III gli aveva
promesso che avrebbe dato sua figlia Eudossia in sposa a Unerico, figlio di
Genserico appunto). Genserico si spinse fino alle foci del Tevere e per 15
giorni (2 – 17 giugno) tenne Roma sotto saccheggio. Pago del bottino e
dimentico della vendetta, Genserico se ne tornò in Africa.
·
A
partire dal 456 i Franchi intrapresero la penetrazione nel territorio
imperiale, insediandosi nelle regioni della Gallia, che si affacciano sul Reno
e che alla fine del V secolo assunsero il nome di Francia Rinensis. Alla metà
del V secolo Angli, Sassoni, Iuti dal litorale germanico del Mare del Nord procedettero alla conquista della Britannia.
IV STADIO: anni 70 del V secolo. Dal 455, dall’assassinio di
Valentiniano III, si susseguirono e si contrapposero vari imperatori per lo più
insignificanti. Finalmente nel 475 un patrizio di origini barbare di nome
Oreste, appoggiandosi su un esercito composto da varie tribù germaniche (Sciri,
Eruli, Rugi…), riuscì ad imporre come imperatore suo figlio Romolo, detto
Augustolo, per il suo esiguo valore. L’esercito barbaro, che aveva favorito
l’operazione, presto si mostrò malcontento del soldo che percepiva e cominciò a
pretendere un terzo delle terre italiane
occupate. La risposta negativa dell’imperatore provocò una immediata
ribellione, capeggiata dallo sciro Odoacre. Romolo Augustolo fu senz’altro
deposto e non ci fu più nessuna successione: era l’anno 476. Odoacre assunse il
potere in Italia e lo mantenne fino al 493, quando in Italia si impose
l’ostrogoto Teodorico.
V STADIO: seconda metà del VI secolo. E’ una faccenda che interessa
l’Italia. A partire dal 568 il popolo longobardo sottrasse gran parte del
territorio italiano ai bizantini, che con la ventennale guerra gotica (535-553)
avevano strappato l’Italia agli Ostrogoti.
Concludendo: in Occidente in seguito
alle invasioni si ebbe questa situazione:
Ø Regno dei Vandali: nell’Africa
compresa tra l’odierno Marocco e la Tripolitania; nel 534 sarà ricuperato
dell’Impero d’Oriente.
Ø Regno dei Visigoti: in quasi tutta la
penisola iberica e nella Gallia meridionale.
Ø Regno degli Svevi: nord ovest della
penisola iberica (la Galizia).
Ø Regno dei Franchi: al Nord della
Gallia con tendenza ad allargarsi verso il centro-sud della regione.
Ø Regno dei Burgundi: nella Savoia.
Ø Regno dei Goti: in Italia, ma poi
sarà spartito tra la dominazione bizantina e e la dominazione longobarda.
A questo punto diventa d’obbligo
domandarsi quale riflesso questo nuovo ordine di cose ha avuto sulla relazione Occidente
e Oriente?
Diventa anche d’obbligo domandarsi
come è venuto a strutturarsi l’Occidente a fronte di questo nuovo ordine.
3
-
Oriente e Occidente
Il fenomeno delle migrazioni dei
popoli ovviamente accentuò lo squilibrio tra le due parti dell’Impero. Si
trattò sempre meno di due parti di un sistema unitario e invece si avviò in
maniera sempre più decisa il cammino verso quella contrapposizione dei due
blocchi, che si è protratta fino ad oggi.
Lo squilibrio sul piano politico: si manifestò in maniera particolare
in questi due aspetti:
· L’articolarsi della parte occidentale
dell’Impero in vari regni germanici – prodromi delle nazioni – dice che
l’Occidente si trovò sottoposto ad una tendenza alla particolarizzazione, che
si differenziava notevolmente dall’unità della “Romania”, che continuò a
sussistere in Oriente.
· L’Occidente si organizzò in autonomia
rispetto all’Oriente. A dire il vero i capi germanici si professavano in
generale federati e subordinati rispetto all’imperatore, ma si trattava di una
subordinazione che era solo nominale, perché di fatto agirono con una
conduzione politica autonoma. Emblematico è quanto avvenne nel 476: Odoacre
depose l’imperatore della parte occidentale, ne rimandò le insegna
all’imperatore bizantino, ma non si affrettò a dare un nuovo imperatore per
l’Occidente. Quindi mentre ufficialmente veniva affermata la subordinazione, di
fatto si dichiarava insostenibile una presenza e un’azione imperiale diretta in
Occidente.
Lo squilibrio sul piano economico: le invasioni germaniche non furono
certamente per l’Occidente fattore positivo di ripresa, ma anzi accentuarono il
fenomeno di contrazione, che era già in atto e quindi crebbe il divario
rispetto all’Oriente. Va poi rilevato che il particolarismo, che si espresse in
Occidente nella pluralità dei regni germanici, ebbe un’analogia a livello
economico: in Occidente ad una attività economica aperta secondo prospettive
universalistiche subentrò una tendenza economica sempre più chiusa, sempre più
di tipo autarchico, tendenza che è caratteristica delle società piuttosto
primitive, limitate sia nelle proprio esigenze di acquisto sia nelle proprie
capacità di acquisto. Ovviamente questa tendenza contribuì pure a ridurre le
relazioni commerciali tra Occidente e Oriente.
Lo squilibrio sul piano culturale: l’Oriente continuò sulla scia
dell’ellenizzazione, l’Occidente invece non solo perse la conoscenza del greco,
ma anche vide la barbarizzazione del latino, la scomparsa di quasi tutte le
scuole, l’esaurirsi della già ridotta originalità creativa. Questo ebbe
conseguenze anche a livello linguistico: l’Occidente, da un lato faticò sempre
più a intendersi con l’Oriente, dall’altro dette vita ad una sorta di esperanto
latino, che favorì il lavoro di amalgama tra indigeni e “barbari”. In Oriente
invece il dominio bizantino non fece del greco la lingua ufficiale delle
popolazioni sottomesse all’Impero e quindi fu molto difficile il formarsi di
una unità culturale.
Lo squilibrio amministrativo e
legislativo: i regni
barbarici non erano in grado di conservare il troppo raffinato apparato
amministrativo e legislativo dei Romani e quindi si fece ricorso alla
formazione di strutture amministrative e legislative prevalentemente
germaniche, nelle quali però si fece spazio agli elementi più semplici e più
concreti del sistema romano (cfr editto di Rotari del 641). Quindi anche su
questo terreno si accentuò la divaricazione tra Occidente e Oriente.
Lo squilibrio religioso:
·
a
livello dottrinale Occidente e Oriente svilupparono una cristologia non sempre
coincidente (cfr la questione monofisita, la questione del “filioque).
·
A
livello di costituzione ecclesiastica (come vedremo più diffusamente in
seguito) ad una sede romana, che esprimeva in maniera sempre più decisa e
precisa il principio primaziale, e ad un Occidente, che si organizzava
ecclesiasticamente sempre più in dipendenza da tale principio primaziale, si contrapponevano
in Oriente una sede costantinopolitana, che avanzava a sua volta pretese
primaziali e una organizzazione ecclesiastica, che dava centralità ai principi
della collegialità episcopale e della successione diretta.
·
A
livello di disciplina ecclesiastica si moltiplicarono le diversità: celibato
ecclesiastico, il pane azzimo per l’Eucaristia, la data della Pasqua).
·
A
livello di concezione della relazione Chiesa-Stato: in Oriente si mantenne la
prassi cesaropapista dell’imperatore, in Occidente invece si affermò sempre più
la concezione dualista, che trovò la sua più alta e precisa esposizione in papa
Gelasio.
Con l’imperatore Giustiniano
(527-565) si ebbe un tentativo di restaurazione unitaria:
¾ Si cercò di ricostruire l’unità
politica, conquistando l’Italia, l’Africa (533-534) e la Spagna (550).
¾ Si lavorò per favorire l’unità
religiosa e culturale.
¾ Si promosse l’unificazione
legislativa mediante la ristrutturazione del diritto romano (rilancio dei
principi dogmatici nelle Institutiones, raccolta della
giurisprudenza più accreditata nel Digestum
seu Pandectae; raccolta delle leggi vere e proprie nel Codex
e la raccolta delle successive costituzioni imperiale nelle Novellae:
l’insieme di queste quattro parti costituiva il Corpus Iuris civilis o Corpus
Iuris Iustinianeum).
Ma l’invasione longobarda del 568
mise in luce la fragilissima consistenza di questa operazione di Giustiniano.
Nuovi elementi di divaricazione tra
Occidente e Oriente furono introdotti dalla invasione araba. Con i territori
che conquistò l’Islam frappose una barriera territoriale tra le regioni più
occidentali e quelle orientali, ridusse le aree di influenza bizantina nella
parte occidentale e praticamente si assicurò il pieno possesso del
Mediterraneo. In seguito a questo, divenne praticamente impossibile percorrere
il Mediterraneo come via di relazioni commerciali e ideali con l’Oriente.
Rimaneva la via continentale, che però fu poco praticata. I viaggi
continentali, infatti, erano diventati sempre più difficoltosi sia perché le
vecchie strade romane erano cadute in
rovina per la mancanza di un potere centrale che se ne prendesse cura sia
perché era enorme la piaga del brigantaggio.
Al di là dei problemi, che venivano
alla pratica del commercio dalla carenza di vie di comunicazione, si dava
comunque il fatto che l’Occidente ai tempi della dominazione barbarica dispose
sempre meno di oggetti di scambio e di capacità di acquisto
Nonostante tutto ciò, non si può
concludere che Occidente e Oriente divennero totalmente estranei: le relazioni
commerciali non si esaurirono del tutto; a livello culturale si mantenne
qualche contatto (ad es. a Bisanzio furono edite anche le opere di Severino
Boezio); i rapporti religiosi, benché tesi, rimasero molto forti; se ne ha un
esempio nel fatto che la liturgia occidentale nel corso del VI secolo prese da
quella orientale il Gloria, il Kyrie, alcune feste mariane (Purificazione,
Annunciazione, Assunzione, Natività di Maria).
Significativo è il fatto che dal 640
al 741 abbiamo ben 12 papi di origine orientale; è anche significativo che in
quel periodo vennero eretti una dozzina di monasteri greci in Occidente: a
Roma, ma anche altrove, per esempio a Castelseprio, dove la chiesetta di santa
Maria fu affrescata probabilmente da monaci orientali.
Può essere utile per questa parte
fare riferimento a L. GENICOT, Profilo
della civiltà medievale, Milano 1968, 19-32.
4 – Struttura
interna dell’Occidente
L’Occidente, quando fu investito
dalle invasioni germaniche, presentava un contrasto notevole tra le regioni del
Nord e quelle meridionali, mediterranee. Lo spartiacque era segnato dalle Alpi
e dal corso della Loira.
Al Nord, nella Gallia belgica, nella
Renania, in Inghilterra, si riscontrava un considerevole ritardo rispetto
all’Italia, alla Provenza, all’Aquitania e alla Spagna: qui romanizzazione,
progresso economico e vivacità culturale avevano raggiunto livelli
apprezzabili.
Le invasioni germaniche ebbero come
effetto immediato di esaltare questa divaricazione. Nelle regioni
settentrionali, infatti, dove i caratteri romani già erano blandi, si insediarono gruppi germanici molto
compatti sotto il profilo numerico e molto primitivi sotto il profilo della
civilizzazione, ne conseguì che gli elementi romani furono inevitabilmente
assorbiti e barbarizzati.
I gruppi germanici, che invece si
riversarono sulle regioni meridionali, presentavano invece una consistenza
numerica ridotta ed un grado di civilizzazione superiore: si trattava infatti
di gruppi germanici, che per un certo periodo di tempo si erano stanziati
all’interno dell’Impero, nella sua parte orientale, acquistandone tratti della
cultura ed anche della religiosità: ad esempio i Visigoti erano divenuti ariani
e poi avevano propagato l’arianesimo tra i Vandali, gli Svevi e i Burgundi.
Pertanto quell’arianesimo, che poi era stato abbandonato e avversato dall’Impero,
divenne una prerogativa del germanesimo e della sua contrapposizione all’Impero
romano. Nell’Europa meridionale, mediterranea, pertanto non si ebbe una
radicale distruzione della romanità: qui lo stanziamento germanico più modesto
e anche un po’ più progredito assunse nei confronti delle popolazioni
autoctone, anche se numericamente più consistenti, un atteggiamento di
moderazione, disposto anche a recepire per quanto gli riusciva le positività
della società romana.
Questa evidente divaricazione tra
Nord e Sud dell’Europa interessò anche la sfera religiosa: al Sud, in cui si
dava una simultanea presenza di germanici ariani e di indigeni cattolici, si
contrapponeva un Nord, in cui dominava il paganesimo, mentre i cristiani vi
vivevano dispersi.
A partire dal VI secolo però al Nord
prese avvio un importante processo di trasformazione e di sviluppo. Per
comprendere questo fenomeno bisogna ricordare che l’insediamento germanico in
Occidente non era stato comandato da una logica imperialistica, ma
semplicemente dall’esigenza di rinvenire spazi vitali. A questo i popoli
germanici furono spinti dal tipo di agricoltura, che praticavano:
un’agricoltura temporanea, che non conosceva l’uso della concimazione e neppure
il sistema della produzione ciclica. Questo tipo di agricoltura inevitabilmente
offriva una produzione agricola insufficiente, che doveva quindi essere
integrata con il ricorso alle razzie. Inoltre in questo tipo di agricoltura
dopo un certo periodo di sfruttamento i terreni diventavano improduttivi e
quindi si imponeva la necessità di ricercare nuove aree.
Venendosi a stanziare sul territorio
imperiale, i popoli germanici vennero a conoscere dai popoli indigeni sia l’uso
della concimazione, sia la prassi della produzione ciclica e quindi vennero meno gran parte delle ragioni per cui
avevano dovuto vivere in maniera bellicosa e nomade. Si aprì pertanto una fase
di stabilizzazione e di progresso.
Questo è il contesto sociale, in cui
la Chiesa dovette affrontare il problema della cristianizzazione dei popoli
germanici.
5 – Chiesa e “barbari”
A.
Il problema agli inizi:
Il punto di
partenza è senz’altro segnato da un vivo sentimento di angoscia e di ostilità,
che trovò chiarissima ed inequivocabile espressione in Ambrogio, Girolamo,
Prudenzio. In essi non trova nessuna eco il passo di Colossesi 3,11: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro,
Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti”. Predominano invece gli atteggiamenti
anti-barbarici della cultura romana.
Sono tipici due temi. Prima di tutto il
disprezzo del cosiddetto uomo civile nei confronti del cosiddetto “barbaro”,
parola di origine indoeuropea usata originariamente per indicare chi pronuncia
suoni sgradevoli, inarticolati, simili a quelli degli animali. E’ interessante
rilevare che con il predominio culturale e politico del mondo ellenico tale
termine fu usato non solo per chi non
parlava la medesima lingua, ma anche per indicare la diversità culturale, che
un acceso nazionalismo trasformava in ragione di ostilità e disprezzo: si
vedano in proposito le tragedie di Eschilo e di Sofocle ed i vari tentativi in
senso contrario sia di storici come Erodoto, che tentarono di mostrare la
grandezza culturale dei cosiddetti “barbari”, sia di filosofi come i sofisti,
che sviluppavano il tema della identità di natura e della libertà di ogni uomo.
Dai Greci del
tempo ellenistico l’accezione di “barbaro” come “straniero” in senso politico e
“rozzo, incivile” moralmente, passò presso i Romani e così vennero qualificate
tutte le nazioni non educate secondo la civiltà greco-romana.
Allargandosi
l’Impero romano e venendo a contrasti con popoli forestieri, il concetto di
“barbaro” si modificò e fu utilizzato dai Romani per indicare i popoli che
erano al di fuori del confine dell’Impero, che non erano stati vinti dalla
civiltà romana e quindi erano dotati costumi ferini e sanguinari.
Allorché i
“barbari”, penetrati nell’Impero, ne soverchiarono e in parte ne distruzzero le
istituzioni, il termine venne utilizzato particolarmente per indicare lo
“straniero feroce”, che non rispettava le leggi e le istituzioni civili, nemico
della patria e della religione.
E fu questo
l’atteggiamento, che manifestarono per lo più i cristiani.
Ambrogio, nel suo De officiis:
(II, 71): “Si
fanno atti di speciale liberalità, se si riscattano prigionieri, massimamente
da un nemico barbaro, che diventa misericordioso solo per l’avarizia del
riscatto”.
II, 138: “Una
volta noi fummo aspramente criticati, perché spezzammo i vasi sacri per
riscattare i prigionieri, cosa che faceva spiacere agli Ariani. A costoro non tanto
dispiaceva il fatto, quanto piuttosto importava trovare un motivo di biasimo
per noi. Ma chi è così duro, crudele, insensibile da dolersi che un uomo sia
sottratto alla morte, una donna alle libidini barbariche, peggiori della morte,
giovani, fanciulli, bambini dalla corruzione dell'idolatria, dalla quale, per
timore della morte, si lasciavano contaminare?”.
Girolamo, nell’Epistola 78, 8:
“Ora
successe che d’un tratto corsero notizie ovunque che fecero rabbrividire tutto
quanto l’Oriente… masnade di Unni avevano forzato la barriera difensiva…
portando ovunque stragi e panico… Che Gesù tenga lontano d’ora in poi dal
popolo romano simili bestie! … Arrivavano ancora prima che se ne sentisse
parlare e non avevano nessuna pietà per la religione, né per le persone degne
di onore, Né per l’età, né per i vagiti dei bambini”.
Epostola 60,16:
“Freme il mio
cuore, cominciando a narrare i disastri dei nostri tempi. Sono oramai più di 20
anni (396) che tra Costantinopoli e le Alpi Giulie scorre ogni giorno sangue romano….
Quante matrone, quante vergini di Dio, quanti corpi nobili e delicati sono
diventati lo zimbello di queste bestie selvatiche!”.
Prudenzio, Contra Symmacum, II,816-819:
“Tanto distano il
mondo romano e il mondo barbaro quanto il quadrupede dal bipede o il bruto
incapace di parlare da chi è dotato di parola ed ancora quanto coloro seguono
fedelmente i precetti divini distano dai culti assurdi e dai loro errori”.
Un altro tema, che
induceva ad un atteggiamento antibarbarico, era rappresentato dalla tendenza a
congiungere il destino di Roma con quello del cristianesimo. La pax romana e
l’unità dell’Impero avevano contribuito notevolmente al successo della fede
cristiana.
Ambrogio: Enarrationes in psalmos, salmo 45, 21:
“Gli uomini,
vivendo sotto un unico universale Impero, appresero a professare con voce
fedele l’Impero dell’unico Dio onnipotente”.
Orosio: Adversus paganos, V, I, 14:
“In qualunque
luogo io approdi, anche se non vi conosco nessuno, mi sento tranquillo e non
temo violenze; sono un romano fra romani, un cristiano fra cristiani, un uomo
fra uomini. La comunanza di leggi, di credenze, di natura mi protegge.
Dappertutto mi ritrovo in patria”.
Lattanzio: Divinae institutiones, VII, XXV,
5:
all’inizio del IV
secolo aveva raccolto e diffuso tra i cristiani questa credenza:
“Appare evidente
che il mondo è minacciato da prossima rovina; la sola circostanza che possa
annullare il nostro timore è il fatto che la città di Roma sussiste e fiorisce
tuttora. Quando però questa capitale dell’universo sarà atterrata e non sarà
più che un mucchio di rovine (secondo la predizione delle Sibille), non vi sarà
più ragione alcuna di dubitare che sia davvero giunta la fine del mondo. Questa
città da sola conserva e sostiene tutto”.
Girolamo: Lettera 121, 11 (anno 407):
a proposito di
2Tess 2,3 (“Prima infatti verrà l'apostasia e si
rivelerà l'uomo dell'iniquità”) commenta:
“Ma prima – dice – bisogna che venga la
separazione. Tutte le nazioni sottomesse all’Impero gli si devono rivoltare…
Dice questo insomma: il Cristo non verrà se non in seguito alla desolazione
dell’Impero romano… Non vuole dire apertamente che l’Impero romano si sfascerà,
in quanto gli stessi imperatori lo ritengono eterno. Tant’è vero che, secondo
l’Apocalisse di Giovanni, sulla fronte della meretrice vestita di porpora sta
scritta la formula della bestemmia: «Roma eterna» (Apoc 17, 4-5). Ora se lui
avesse detto chiaramente e coraggiosamente che: «L’Anticristo non verrà prima
che si sfasci l’Impero romano», sarebbe potuto sembrare un giusto motivo quello
che si presentava per perseguitare la Chiesa, che stava nascendo allora…
Basterà soltanto che venga meno e che sia tolto di mezzo l’Impero romano, che
attualmente tiene sotto il suo pugno tutti i popoli, e allora l’Anticristo,
sorgente di iniquità, si scatenerà”.
La prima reazione della Chiesa di fronte
ai “barbari” fu dunque comandata dalla carne, in cui incarnava la sua fede, la
cultura imperiale romana e quindi in un primo momento i romano-cristiani
avvertirono soprattutto la tragedia e la nostalgia della loro civitas, che
stava crollando. Tracce di questa nostalgia tragica sono ancora reperibili nel
V secolo inoltrato e nel VI secolo: per esempio Cesario di Arles (470-543) nel suo Sermone III, 12 si
compiace di ricordare il seguente aneddoto: i Goti nel passare dall’Asia
all’Europa vollero disfarsi delle loro donne più brutte. “queste infelici,
errando per le foreste, furono assalite da demoni e da queste unioni furtive
ebbe origine la nazione degli Unni”. Nel V secolo inoltrato Sidonio Apollinare (432-489) nel suo Carme
XII, parlando dei Burgundi, che erano venuti a stanziarsi nelle Gallie, si
sofferma sui loro capelli resi lucidi con il burro rancido e sul loro alito
fetido di aglio.
Analoghi sentimenti sono espressi da
un’opera ariana della metà del V secolo, l’Opus imperfectum in Matthaeum, Homilia
I: l’anonimo autore ariano nel suo attaccamento alla romanità su rivela
assai lontano dallo spirito del goto Ulfila, che diffuse l’arianesimo tra i
Visigoti:
“Le nazioni barbare hanno l’abitudine di
dare ai loro figli nomi, che ricordano la distruzione causata dalle bestie
selvagge o dagli uccelli rapaci, pensando che sia segno di gloria avere questi
nomi bellicosi e sanguinari (per esempio Ulfila significa “piccolo lupo”).
Nell’Homilia XXXV il nostro autore pur ammettendo che Dio è
pronto a chiamare a sé tanto i barbari quanto gli uomini civili, tuttavia
rimprovera i preti che diffondono la Parola di Dio tra le popolazioni incolte,
indisciplinate e barbariche, che non sanno né cercare né ascoltare con giudizio
e che hanno nomi cristiani ma modi pagani.
Da queste citazioni si può pertanto
arguire che nel corso del V secolo venne a stabilirsi tra i due elementi
sociali una contrapposizione radicale, che ovviamente si espresse anche sul
versante religioso: il cattolicesimo divenne la bandiera della romanità contro
l’arianesimo e il paganesimo dei popoli germanici.
C’è anche da aggiungere che a questo
atteggiamento antibarbarico radicale si associava nei cristiani d’Occidente un
atteggiamento antimilitarista. Certi santi erano stati militari (Sebastiano,
Maurizio, Martino), si preferiva però tacere delle loro opere devote connesse
con la loro attività militare e mettere in evidenza che in loro la santità
contrastava con la professione, che avevano svolto. Gli Acta s. Sebastiani narrano che il santo aveva celato il suo
cristianesimo sotto le insegne militari solo per potere segretamente sostenere
la perseveranza dei cristiani durante le persecuzioni. La Passio Acaunensium martyrum, sobria storia di san Maurizio e
la sua legione tebana li elogia solo perché essi, nonostante la loro
professione militare, osarono rifiutarsi di eseguire l’ordine di perseguitare i
cristiani, impartito dall’imperatore.
La celebre Vita Martini di Sulpicio
Severo pone sulla bocca del santo delle parole inequivocabili: “Sono un
soldato di Cristo e non posso combattere”. Perché era convinto che la militia
Christi è inconciliabile con la militia saeculi, Martino volle abbandonare
l’esercito. In realtà dopo il battesimo, ricevuto sui diciotto anni, Martino
era rimasto nell’esercito ancora per 22 anni, ma Sulpicio Severo si affretta a
dire: “Solo nomine militavit”.
Nel VI secolo Ferrando cartaginese,
discepolo e biografo di Fulgenzio di Ruspe, indirizzò una lunga lettera
pastorale al comandante Reginus, dove si fa una trattazione ampia degli impegni
cristiani, ma nulla si dice della guerra e degli impegni del soldato.
Questa
associazione di atteggiamenti antibarbarici e antimilitaristi rese piuttosto
incongruente il comportamento dei cristiani occidentali nella questione dei “barbari”:
da una parte il sentimento antibarbarico spingeva a rifuggire ogni contatto,
ogni arrendevolezza diplomatica, ogni connivenza con il “barbaro”, dall’altra
il sentimento antimilitarista impediva ogni solidarietà con l’esercito, che
doveva ostacolare le violazioni dei confini. Conseguenza di questo massimalismo
incongruente e paralizzante fu di favorire la penetrazione germanica.
Poi di fronte a
questa situazione i due pregiudizi dei cristiani continuarono ad avere gioco e
quindi sui Germani si riversava il disprezzo, che veniva riservato ai “barbari”
e il disprezzo, con cui si guardava alla ferocia dell’animo dei militari.
Questo muro d’odio, che fu eretto intorno ai Germani, impedì la loro
“detribalizzazione”. Pertanto si deve riconoscere che l’intolleranza, con cui
furono accolti i Germani immigrati, portò direttamente alla formazione dei
Regni Germanici: l’essere tacitamente odiati dal 98% dei propri simili non è
certo uno stimolo da poco a conservare la propria identità di classe dirigente
(P. BROWN, Religione e società nell’età
di sant’Agostino, Torino 1975, 41).
Un esempio di
questa contrapposizione radicale si riscontrò nell’Africa Settentrionale. Il
contrasto cattolici e vandali-ariani non è che un aspetto della relazione
globale indigeni e Vandali. Già provati in Spagna dall’assalto visigotico, i
Vandali erano giunti in Africa Settentrionale con prospettive tutt’altro che
rosee: il loro gruppo, che si aggirava sulle 80.000 persone, rappresentava
senz’altro un’infima minoranza, chiamato a misurarsi sia con una popolazione
indigena animata da un irriducibile spirito nazionalistico sia con una presenza
militare, che per una decina di anni tentò di contrastare il passo agli
invasori. In queste condizioni i Vandali non accettarono il regime
dell’hospitalitas, che concedeva loro terre, ma anche li costringeva a disperdersi in mezzo agli indigeni. I Vandali preferirono
operare invece la scelta radicale di imporre per via militare la loro forza
politica, di assicurarsi forza economica ricorrendo a provvedimenti di
esproprio, di imporre un sistema di apartheid, che costringeva la classe
dominante a vivere militarmente non nelle città ma attorno ad esse: per questa
via si volle mantenere lo spirito nazionale e combattivo.
La questione
religiosa fu valutata dai Vandali nella prospettiva dell’unità e della identità
nazionale e quindi videro nel cattolicesimo degli indigeni un fattore di
disgregazione interna, che avrebbe impedito il consolidamento del potere
vandalico e quindi avrebbe alla fine favorito l’Impero romano. E così i cento
anni di presenza vandalica furono, quasi ininterrottamente, cento anni di
persecuzione per gli indigeni cattolici: pressioni fisiche, pressioni morali,
confische di chiese, esilio di vescovi, chierici e laici nel Sahara ed in
Sardegna.
Il narratore più
efficace di questo martirio fu Vittore
di Vita nella sua Historia
persecutionis africanae provinciae tempri bus Genserici et Hunerici regum
Wandalorum (PL 58, 180-216), anche se talora si mostra eccessivamente
enfatico.
Come reagì la
Chiesa Cattolica? Parecchi furono lapsi, anche tra il clero, ma parecchi furono
anche i martiri e i resistenti. La lettera 228 di Agostino rappresenta senz’altro il manifesto di questa resistenza
del clero.
“Non si devono rompere i legami del nostro
ministero, con cui ci ha legati la carità di Cristo, e non abbandonare le
chiese che dobbiamo servire… Se dunque dove siamo noi rimane anche una quanto
si voglia piccola porzione del popolo di Dio, a noi, il cui ministero è tanto
necessario ch'esso non deve rimanerne privo, non resta da far altro che dire al
Signore: Sii tu il nostro Dio protettore e la nostra salvezza … Ma quando
il pericolo è comune per tutti, cioè per vescovi, chierici e laici, quelli che
hanno bisogno degli altri non siano abbandonati da quelli di cui hanno bisogno…
Questa è la prova suprema della carità raccomandata dall'apostolo Giovanni
allorché dice: Come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi
dobbiamo dare la vita per i fratelli … Quando però i fedeli rimangono
e i ministri fuggono e li lasciano privi dell'assistenza spirituale, che cosa
sarà mai ciò se non una biasimevole fuga di mercenari, ai quali non importa
nulla delle pecore?... Ma la carità viene da Dio. Preghiamo dunque perché ci
venga data da colui dal quale ci viene comandata e, inoltre, in virtù di questa
carità, temiamo per le pecore di Cristo, più del ferro che uccide il corpo, la
spada dello spirito del male che colpisce il cuore… Dobbiamo temere la morte
delle membra del corpo di Cristo, private del nutrimento spirituale più che le
torture alle quali potrebbero essere sottoposte le membra del nostro corpo dal
furore dei nemici”.
La resistenza assunse anche i toni vivaci
e dotti della controversia dottrinale. Tra i protagonisti della polemica
antiariana si segnalò soprattutto Fulgenzio di Ruspe, che sia in esilio sia in
patria si rese fedelissimo interprete di Agostino.
Quali furono le conseguenze di questa
contrapposizione radicale? Sotto il profilo politico divenne impossibile
l’amalgama delle varie componenti etniche dell’Africa Settentrionale. Pertanto
qui non poté realizzarsi un saldo regno nazionale vandalo, sul tipo del regno
nazionale dei Visigoti e dei Franchi di cui parleremo, un regno nazionale cioè
capace di scoraggiare progetti imperiali di riconquista. Se ne ebbe
dimostrazione nel 534, quando l’Impero tornò a imporsi in Africa Settentrionale
e i Vandali superstiti furono trasportati e dispersi in Asia.
Sotto il profilo ecclesiastico si deve
prima rilevare che la presenza africana ebbe un riflesso positivo sulle Chiese
non africane. Mi spiego: la Chiesa africana tra quelle occidentali era
senz’altro diventata la più vivace, basti pensare ad alcuni nomi, che
lasciarono dietro di sé un’altissima eredità: Tertulliano, Cipriano, Lattanzio,
Arnobio, Mario Vittorino, Zenone di Verona originario della Mauritania, Ottato
di Milevi, Agostino, Paolo Orosio. Ne conseguì pertanto che i cristiani
africani esuli esportarono un cristianesimo ad alto livello. Tuttavia si deve
anche rilevare che l’allontanamento coatto dei migliori ebbe come contraccolpo
l’impoverimento del cristianesimo rimasto in Africa. Dalle persecuzioni
vandaliche uscì una Chiesa africana dissestata nelle sue strutture, composta da
un popolo cristiano, che, rimasto un po’ abbandonato a se stesso per l’esilio
dei suoi pastori, recava chiari segni di sbandamento e defezione. La ripresa fu
assai difficile e assai lenta, troppo lenta, per cui alla fine del VII secolo
quando si riversò sull’Africa settentrionale l’ondata islamica, la Chiesa
africana non seppe reggere l’urto e finì rapidamente sommersa. A ciò si
aggiunga che dal canto suo il potere imperiale, una volta che si riprese
l’Africa Settentrionale, non contribuì per nulla alla ripresa, perché con la sua
fiscalità esosa, con la sua incapacità di creare una nuova realtà sociale ed
economica contribuì a determinare quel clima di stanchezza e di sfiducia, che
rese la regione docile e pronta alla resa, quando venne il momento della
conquista islamica (R. MANSELLI, L’Europa
medioevale, Torino 1979, 140).
Nelle zone dell’Occidente, in cui si dava
una forte presenza cristiana, le devastazioni provocate dalle migrazioni
germaniche e la insanabile contrapposizione tra indigeni e nuovi arrivati non produssero
un risultato molto rilevante: la strettissima aggregazione degli indigeni
cattolici intorno ai loro vescovi resse al crollo delle strutture e delle
istituzioni imperiali, che avevano sostenuto l’antica civiltà. Il popolo
cristiano quindi a poco a poco si abituò ad appoggiarsi sulla struttura
ecclesiastica e a sopravvivere contando su di lei. D’altra parte la mancanza di
ogni autorità di ordine temporale fece sì che la funzione episcopale, cardine
della Chiesa locale, sconfinasse oltre il campo strettamente religioso ed
esercitasse un ruolo di supplenza in campo temporale.
B.
L’ evoluzione del problema:
Già agli inizi del V secolo Agostino, un
po’ inavvertitamente forse, offrì una indicazione capace di determinare una
evoluzione dell’atteggiamento della Chiesa verso i “barbari”. Il saccheggio di
Roma del 410 aveva chiamato in causa il cristianesimo stesso. Alcuni del mondo
pagano avevano accusato i cristiani di collusione con Alarico; altri, sempre
pagani, videro nel tragico avvenimento un’ulteriore reazione delle divinità
pagane contro l’empietà cristiana. Dal canto loro non erano pochi i cristiani
che diffondevano discorsi di imminente fine del mondo. In questo contesto il
vescovo di Ippona si sentì in dovere di dire una parola chiarificatrice e compose
il De civitate Dei.
Richiamando l’attenzione sulla Città di Dio e sulla sua certa vittoria,
Agostino relativizzò il problema dell’Impero romano e della sua decadenza e
spinse a cercare il senso della storia non affidandosi a una prospettiva
politica contingente, ma adottando la prospettiva soprannaturale, escatologica.
“Nella Città di Dio Agostino tuttavia giudicherà l’Impero, con i suoi pro ed i
suoi contro, come una istituzione puramente umana, lo ridurrà al livello di
qualsiasi altro Stato nell’intento di eliminare gli dei della sua storia;
analizzerà poi il suo contributo alla vita del cristiano in termini così
generici da far pensare che egli ritenesse che un qualsiasi altro Stato avrebbe
potuto assumere la funzione dell’Impero. Non accade di frequente di incontrare
un uomo di sessant’anni che vive sulla soglia di un grande cambiamento, il
quale sia già riuscito a considerare sostituibili, almeno in teoria, una
cultura ed una istituzione politica che non avevano uguali” (P. BROWN, Agostino d’Ippona, Torino 21971,
265.
La lezione fu subito raccolta da Paolo Orosio (discepolo di Agostino),
che nel suo Adversus paganos
avanzò sia la tesi della perfettibilità dei “barbari” sia la tesi
provvidenzialistica secondo la quale le migrazioni sarebbero state l’occasione
scelta da Dio per portare i “barbari” a incontrare la fede.
Sempre nel corso del V secolo questo
indirizzi innovatore fu ripreso da Salviano
di Marsiglia nel suo De
gubernatione Dei. Viene qui tracciato un quadro impressionante delle
condizioni morali della popolazione romano-cattolica nelle Gallie, in Spagna e
in Africa: immoralità domestiche, immoralità pubbliche perpetrate nei teatri,
nei circhi, durezza di cuore verso i miserabili, ingiustizie sociali. Di
contrasto si ha una presentazione piuttosto lusinghiera della moralità dei
pagani: gente onorata, pietosa verso gli indigenti, timorata di Dio, più
fiduciosa in Dio. La conseguenza è ovvia: il decadimento politico dell’Impero
ed il trionfo dei “barbari” sarebbero una giusta sentenza di Dio. Pare di
risentire alcune pagine dell’opera di Tacito,
De origine et situ Germanorum
(Germania), dove si fa l’elogio della moralità dei Germani.
Queste visioni suggerirono agli storici romantici la famosa tesi
secondo la quale l’immissione dei “barbari” rigenerò biologicamente e
moralmente le esauste e decadute popolazioni romane.
In pagine, come quelle Salviano di Marsiglia, prende sopravvento il realismo,
inducendo ad attenuare le note nostalgiche e sprezzanti, per fare posto ad
argomenti, che in qualche modo giustifichino il nuovo ordine di cose e
legittimino un impegno di convivenza. Infatti a mano a mano che si procedeva
nel V secolo, a mano a mano che le possibilità di una ripresa dell’Impero in
Occidente si allontanava, la prospettiva della convivenza si delineava sempre
più come inevitabile. Ad incoraggiare una scelta di questo tipo contribuiva la
stessa politica dei “barbari” dominatori, che in Europa non seguirono affatto
la linea separatista e vessatoria dei Vandali. La questione religiosa delle
conversioni va senz’altro inquadrata in questo contesto socio-politico di
convivenza e da questo contesto deriverà in gran parte le due modalità di
soluzione.
C.
Le conversioni:
1.
I FRANCHI
Cominciamo dalle
conversioni dei Franchi, perché è un fatto gravido di conseguenze storiche di
primaria importanza. Nella seconda metà del V secolo i Franchi Sali avevano
occupato in Gallia Settentrionale il territorio compreso tra il Reno e la
Somme, costituendovi vari regni e principati. Dal momento che in questa area
territoriale la presenza dei Gallo-Romani era molto modesta, divenne facilmente
possibile l’instaurarsi di una convivenza armoniosa tra i due elementi sociali.
I Franchi, infatti, si stabilirono nelle vaste aree senza creare grossi
problemi alle scarse colonie gallo-romane e ai loro pochi proprietari. I
Franchi poi non assunsero posizioni ostili nei confronti della fede cristiana
professata dai Gallo-Romani, perché essendo una presenza di scarsa entità, non
costituiva nessuna minaccia per il potere franco.
Tra i vari re
franchi verso il 470 assunse una particolare importanza Childerico, re di
Tournai, che tenne nei confronti dei Gallo-Romani una posizione tanto benevola
da recare il suo aiuto al piccolo regno gallo-romano, che si era costituito
nell’Île de France, che era minacciato dalle incursioni
degli Unni, dei Visigoti e dei pirati sassoni. A loro volta sia i proprietari
gallo-romani sia i loro vescovi instaurarono buoni rapporti con la dinastia di
Childerico. Questi buoni rapporti continuarono anche quando nel 482 a Childerico
successe il figlio Clodoveo, che godette dell’amicizia di Remigio, vescovo di
Reims.
Nella politica di
Clodoveo il problema della forza esterna e della forza interna sono
strettamente connesse.
Nel 486 si
assicurò un’espansione territoriale, conquistando il regno gallo-romano dell’Île de France, sconfiggendone a Soissons il suo capo politico, Siagrio. Da
parte dei Gallo-Romani non gli venne sottratta la stima, sia perché Clodoveo
dette alla sua azione il carattere di una semplice sostituzione del governo
romano inetto, sia perché senza recare grave disturbo all’assetto gallo-romano,
assicurava più di Siagrio forza contro gli Unni, i Visigoti e i pirati sassoni.
Contemporaneamente
a partire dallo stesso anno 486 dette via ad un’azione per consolidare il suo
potere tra i Franchi, unificando sotto il suo potere i vari regni dei Franchi
Sali.
Nel 497 Clodoveo
agì per rafforzare ulteriormente sia la sua forza esterna sia la sua forza
interna. Sulla linea del Reno infatti
contrastò il passo agli Alemanni e poi ne approfittò per conquistare parte del
loro territorio oltre il Reno. A Sud inoltre sconfisse i Visigoti,
impossessandosi di Tours.
Negli anni
successivi, 498 o 499, Clodoveo consolidò la sua forza interna convertendosi al
cattolicesimo e divenendo così il solo capo di stato cattolico in tutto
l’Occidente. Ovviamente Clodoveo si guadagnò la stima di tutti i cattolici
d’Occidente, una stima che aveva anche una forte ricaduta di tipo politico. I
vescovi sia del suo territorio franco sia del territorio della vecchia Gallia
romana, gli assicurarono il loro appoggio, che non era certo cosa da poco,
visto che nel crollo delle strutture politiche e amministrative dell’Impero
romano, i vescovi subentrarono, divenendo riferimento non solo morale ma anche
amministrativo. L’appoggio dei vescovi ovviamente comportò anche l’appoggio di
tutta la vecchia popolazione gallo-romana. Sotto questo profilo si deve dire
che la conversione al cattolicesimo offrì a Clodoveo una base importante per la
sua successiva espansione nella Gallia dei Burgundi e dei Visigoti: negli anni
507-508 Clodoveo conquistò la maggior parte del Regno Visigotico al Sud della
Francia; i suoi figli nel 531 imposero il loro potere al Nord in Turingia e nel
534 annessero al Regno dei Franchi anche il Regno di Borgogna.
[Merita
considerazione la valutazione politica, che Clodoveo fece negli anni precedenti
alla sua conversione al Cattolicesimo. Ebbe un avvicinamento a Teodorico, re
degli Ostrogoti, che si era instaurato in Italia, concedendogli in sposa una
sua sorella. Si apriva così la prospettiva che Clodoveo aderisse al progetto di
un blocco gotico-ariano, che Teodorico intendeva costituire per contrapporlo al
blocco imperiale. Ovviamente l’adesione a questo blocco avrebbe spinto Clodoveo
ad una conversione all’arianesimo. Ma Clodoveo ritenne che il progetto
gotico-ariano comportava dei grossi limiti: avrebbe compromesso l’unità interna
tra Franchi e Gallo-Romani; lui nell’alleanza gotico-ariana avrebbe avuto un
ruolo di secondo piano rispetto a Teodorico; i Franchi nell’alleanza
gotico-ariana sarebbero stati una presenza eterogenea e infine avrebbe dovuto
rinunciare ad ogni progetto di conquista del Sud della Gallia, perché i
Visigoti, che qui regnavano, sarebbero divenuti suoi alleati. La conversione al
cattolicesimo invece fu ritenuta da Clodoveo più vantaggiosa, sia perché gli
avrebbe favorito la unificazione interna e insieme gli avrebbe offerto una
piattaforma per espandersi in occidente, guadagnandovi una posizione egemonica]. Questo non deve
portare a concludere che la scelta di Clodoveo di farsi cattolico fu dettata
solo da ragioni di convenienza politica: infatti in quel tempo si aveva una
mentalità mitico-sacrale, che non poteva fare spazio a un uso meramente
strumentale della fede religiosa. C’è una fonte storica che può aiutare a
comprendere il processo religioso, che portò Clodoveo alla scelta del
Cattolicesimo: GREGORIO DI TOURS, Historia
Francorum (in MGH, Scriptores rerum Mervingicarum).
Clodoveo appare
dotato di una religiosità piuttosto elementare, che lo vedeva incline a
scorgere la potenza divina negli accadimenti storici. Un esempio: i primi due
figli, che gli nacquero dalla cattolica Clotilde, ricevettero il Battesimo
cattolico, ma subito dopo sopraggiunsero guai enormi: uno dei due figli morì e
l’altro cadde gravissimamente malato. Clodoveo allora si convinse che si
trattava del castigo degli antichi dei per essere stati accantonati.
Sempre Gregorio di
Tours ci informa che Clodoveo nel 497, mentre si accingeva a sferrare la
battaglia contro gli Alemanni, avrebbe pregato così: “O Gesù Cristo, tu che come dice Clotilde sei il figlio
del Dio vivente, tu che soccorri coloro che sono in pericolo e dai la vittoria
a quelli che sperano in Te, io cerco la gloria della devozione con il tuo
aiuto: se mi darai la vittoria su questi nemici, e se proverò i miracoli che le
persone impegnate nel tuo nome dicono di aver avuto, io crederò in te e sarò
battezzato nel tuo nome. Gli dei che adoro non sono riusciti ad aiutarmi, il
che mi fa credere che non siano dotati di alcun potere e che non vengano in
aiuto di quelli che li venerano. È per te che piango ora, voglio credere in te
se solo io possa essere salvato dalle azioni dei miei avversari” (GREGORIO DI TOURS,
Historia Francorum, II,30).
Immediatamente si intuisce che qui Gregorio di Tours non vuole narrarci i fatti
della conversione di Clodoveo, ma invece vuole proporcene l’interpretazione.
Per Gregorio di Tours Clodoveo sarebbe il nuovo Costantino, che restaurerebbe
il cattolicesimo costituendo un grande regno cattolico. Tuttavia la notizia di
Gregorio di Tours ci consente anche di intuire qualcosa del processo intimo,
che avrebbe fatto maturare la decisione di Clodoveo di farsi cattolico. Secondo
l’elementare concezione mitico-sacrale germanica la guerra costituiva
un’ordalia, un giudizio di Dio. Da tempo Clodoveo era spinto dalla moglie
Clotilde cattolica, dai suoi amici Gallo-Romani cattolici a rilevare la
rozzezza ed i limiti del paganesimo naturalistico del mondo germanico. Ma Clodoveo
per decidersi, per fare il salto voleva una prova, un segno della potenza del
Dio dei cattolici, secondo la mentalità elementare, popolare e superstiziosa
dell’epoca, che tendeva a fondare la fede sul miracolo. Scelse come ordalia,
come giudizio di Dio la guerra contro gli Alemanni: la sua vittoria sarebbe
stata segno del prevalere del Dio dei cattolici sulle divinità germaniche. La
fede elementare di Clodoveo avrebbe avuto ulteriore apporto in quello stesso
anno durante la conquista di Tours, che sarebbe stata costellata di miracoli
operati da san Martino, patrono della città e lì sepolto. A quel punto Clodoveo
dette avvio alle pratiche per farsi battezzare nella fede cattolica e inviò una
comunicazione ufficiale ai vescovi cattolici.
Il battesimo fu
celebrato la notte di Natale del 498 o 499 a Reims dal vescovo san Remigio, che
con ogni probabilità avrebbe esclamato: “Mitis depone colla, Sigamber (cioè
germanico della popolazione stanziata tra la Sieg e la Ruhr), adora quod
incendisti, incende quod adorasti”.
La figura di san
Remigio ci segnala un altro genere di influssi, che contribuirono a far
maturare in Clodoveo una conversione, che non fosse soltanto una faccenda di
convenienza politica, alludo alla trama delle relazioni personali di Clodoveo,
in cui non mancarono presenze cattoliche significative, a partire da Clotilde,
sua moglie, i suoi figli, i numerosi amici cattolici, anche i vescovi.
Del resto che si
sia trattato di una conversione dettata da motivazioni più varie della sola
ragione politica, è provato dal fatto che Clodoveo espresse una religiosità
contrassegnata sia da posizioni antiariane sia da ripetute prove di venerazione
nei confronti di Pietro, ostiario e clavigero del cielo e sia da frequenti
segni di una interpretazione etica del suo compito regale.
Sempre secondo la
testimonianza di Gregorio di Tours quella notte di Natale con Clodoveo si
sarebbero fatti battezzare altri 3.000 franchi.
Si apre qui il
discorso delle conseguenze religiose della conversione di Clodoveo. Venne messa
in crisi la mentalità, che voleva che un re germanico dovesse essere o pagano o
ariano, infatti subito dopo, agli inizi del VI secolo, Sigismondo, principe dei
Burgundi abbandonò la fede ariana e passò al cattolicesimo. Quando nel 515 successe
al padre Gundobad, Sigismondo divenne il secondo re cattolico d’Occidente.
All’interno del
regno franco la conversione di Clodoveo non determinò certamente la conversione
totale del popolo franco, tuttavia si deve riconoscere che da lì prese avvio il
processo della conversione totale. che avvenne nel secondo e terzo decennio del
VII secolo, quando oramai nelle liste episcopali compaiono solo nomi germanici.
Si
potrebbe obiettare che questa affermazione applica la logica del “post hoc
propter hoc”, che in sede storica è inaccettabile. No, ci si rifà ad un dato
caratteristico della organizzazione sociale e politica del mondo germanico:
alla base della aggregazione socio-politica germanica non c’era una
elaborazione razionale dello stato, inteso come ente di diritto pubblico, tra i
Germani l’aggregazione si compiva in base al criterio del sangue e al criterio
della forza. Ne risultava quindi un’organizzazione caratterizzata da una trama
intricatissima di relazioni private di dipendenza da persona a persona. In
questo contesto chiunque disponesse di qualche forza militare, economica,
militare si trovava perciò stesso a capo di una aggregazione di persone, che ,
sia pure in forme varie, da lui dipendevano sia sotto il profilo politico, sia
sotto il profilo giudiziario, sia sotto il profilo amministrativo. In una
società come quella germanica, che praticamente ignorava una e vera propria attività
commerciale, la forza economia e la forza militare coincidevano con la
proprietà terriera. Si dava pertanto un circolo vizioso: il militare con le
armi conquistava la terra e poi per via della proprietà terriera consolidava la
sua forza militare.
Per
via della concentrazione di forza economica, militare e politica questi grandi
godevano di una posizione stabile, tradizionale, che veniva abbastanza
normalmente tramandata da una generazione all’altra. Si formarono quindi delle
vere e proprie dinastie con una tradizione, che si sperdeva in tempi così
remoti da potere talora ipotizzare addirittura di discendere da qualche
divinità.
Quando
uno di questi grandi per la sua maggiore forza economica e militare si imponeva
sugli altri, dava origine ad un regno, che consisteva semplicemente in un rapporto
privato di dipendenza personale, che veniva a stabilirsi tra i grandi ed il re.
Tuttavia il potere del re sugli altri grandi non era istituzionalmente
assoluto, ma dipendeva dalle circostanze. I grandi, dal momento che erano
proprietari terrieri che disponevano di una loro forza militare, conservavano
comunque un potere politico e il re riusciva a controllare il loro potere
politico solo nella misura, in cui disponeva di una schiacciante forza
patrimoniale e militare, che costringeva i grandi a dipendere dal re, a
condividere le scelte del re, ad assicurarsene il favore. L’inimicizia del re
sarebbe stata loro fatale. E poi a scala: il consenso dei grandi si trascinava
dietro il consenso dei loro dipendenti. Dunque sulla base delle relazioni
personali di dipendenza si stabiliva un’unità politica, che si manteneva finché
si mantenevano le condizioni storiche contingenti, che avevano determinato tali
relazioni personali di dipendenza.
Questa
organizzazione della società germanica spiega quindi anche le conversioni, che
fecero seguito alla conversione di Clodoveo, di Sigismondo.
Clodoveo
era senz’altro dotato di grande forza: era subentrato nella titolarità dei
terreni, delle miniere, delle cave del fisco romano; riceveva le esazioni delle
tasse e dei dazi. Perciò godette dell’obbedienza del suo popolo. Ma anche era
re, che vantava una tradizione familiare antichissima: lo si riconosceva
discendente di Meroveo, dinastia di origini divine: in questo contesto
l’obbedienza assumeva anche connotazioni sacrali. Situata in questo contesto di
cose, la conversione di Colodveo assunse un valore decisivo: tra i 3.000 che si fecero battezzare
con lui, dobbiamo scorgere non solo i suoi dipendenti diretti, i membri del suo
entourage patrimoniale e militare, ma anche parecchi grandi del regno, per i
quali era vantaggioso, se non immediatamente necessario, condividere le scelte
del re: poi si ebbe una reazione a catena attraverso la trama delle relazioni
personali di dipendenza.
A
fronte di questo ordine di cose, si può senz’altro sostenere che la conversione
di Clodoveo comportò la rapida cristianizzazione di tutto il regno.
Il
re, divenuto cristiano, si venne a trovare nel suo agire sottoposto
all’esigenza di rispettare l’ordine voluto da Dio, che veniva autorevolmente
interpretato dalla Chiesa, potere meraviglioso.
In
questo orizzonte divenne necessaria la revisione della credenza, che voleva il
re discendente da stirpe divina. Questa revisione non prese la strada della
soppressione, ma della cristianizzazione: si cominciò a parlare del re come di
un personaggio dotato per via dinastica di una missione provvidenziale e di
particolari carismi. La convinzione certo più pagana che cristiana, secondo cui
ciò avveniva per via dinastica, rendeva superfluo ogni rito esteriore di
consacrazione regia da parte della Chiesa, perché la sacralità era trasmessa
dal sangue e veniva esteriormente significata dai capelli lunghi, per cui i
membri della dinastia franca si distinguevano da tutti gli altri uomini liberi
del regno, che quando raggiungevano l’età adulta dovevano portare i capelli
corti.
Questi
capelli mai recisi dei re originariamente furono concepiti come la sede stessa
del potere meraviglioso riconosciuto ai figli della razza eletta: i reges
criniti erano altrettanto dei Sansoni.
Insieme
con la sacralità dinastica si sviluppò l’esigenza di una interpretazione etica
della missione regale: iustitia, pietas, protezione prestata alla Chiesa e ai
deboli, tutela della pace, divennero per i re un imperativo morale,
continuamente declamato, ma raramente osservato.
In
questo sistema politico totalmente contrassegnato dalle relazioni di dipendenza
si operò inevitabilmente la sottomissione della Chiesa al forte potere regio,
così che in Francia venne a costituirsi una chiesa nazionale.
Di
ciò si ebbe una prima emblematica dimostrazione nel 511, quando Clodoveo
convocò di sua autorità un concilio della Chiesa franca, imponendogli un suo
ordine del giorno e poi determinandone praticamente le decisioni. Questo
concilio fu il primo di una serie di concili nazionali o del regno, che altro
non erano che la fusione di due istituti precedenti: i concili ecclesiastici e
le diete dei grandi. Questo rilevo ci aiuta a capire sia come mai a tale concili
furono presenti non solo i vescovi ma anche i grandi del regno sia come mai
tali concili abbiano trattato non solo questioni ecclesiastiche ma anche
questioni politiche. Le ingerenze del re nella vita ecclesiale si espressero
anche in altri settori, ad esempio nella nomina dei vescovi.
Per
questa simbiosi tra Chiesa e Regno l’organizzazione e la regolamentazione
interna del regno furono anche organizzazione e regolamentazione della vita
ecclesiastica e l’espansione del Regno Franco comportò anche l’espansione della
Chiesa Franca.
Il
bilancio piuttosto deludente di questo tipo di cristianizzazione ci viene
delineato da Gregorio di Tours nella
sua Historia Francorum,
scritta nella seconda metà del VI secolo e dal Liber Historiae Francorum, attribuito a Fredegario.
Ci informano che i crimini, gli orrori, i vizi dei principi merovingi
superarono ogni limite. Per essi, e per buona parte della nobiltà, crudeltà,
tradimento, assassinio, adulterio, incesto, alcolismo, facevano parte della
vita di ogni giorno. Il popolo a sua volta si era convertito al cristianesimo
non grazie ad una convincente opera missionaria cristiana, bensì seguendo
semplicemente l’esempio del suo re e attratto dalla magnificenza esteriore del
culto cristiano. Si dette pertanto del cristianesimo un’interpretazione
prevalentemente formale, cultuale, ritualista, che coinvolgeva l’ethos solo in
maniera superficiale: si pensi, per esempio, che un re, un nobile, disposti a
perdonare tutto in nome del padrinato battesimale, in altre circostanze diventavano
implacabilmente sanguinari.
Eppure
va riconosciuta l’importanza storica di questa conversione dei Franchi al
cattolicesimo. Infatti, sul comune terreno della fede cattolico-romana si
produssero due fenomeni decisivi per il futuro.
Primo
fenomeno: sul terreno della comune fede cattolica si operò un incontro profondo
tra l’elemento romano e l’elemento germanico, un incontro, che determinerà la
nascita di una nuova civiltà: la civiltà medievale.
Secondo
fenomeno: Gallo-Romani e Franchi, incontrandosi sul terreno della fede
cattolica, dettero vita ad un forte regno nazionale franco, capace di imporsi
oltre i propri confini nazionali per creare una assai più vasta unità politica,
che per certi aspetti richiamerà la potenza dell’Impero romano: era l’annuncio
dell’Impero carolingio.
2 – I VISIGOTI
Anche
nel caso dei Visigoti questione religiosa e questione socio-politica sono
strettamente connesse e però fin dall’inizio la connessione si compie e si
esprime in maniera diversa da quanto abbiamo visto verificarsi tra i Franchi.
L’inizio
del Regno Visigotico si colloca ai primi decenni del V secolo, quando l’Impero
romano non era ancora entrato nella fase decisiva del suo tracollo: e questa
certamente è una prima importante variante rispetto al caso franco.
I
Visigoti si insediarono inizialmente nei territori intorno a Bordeaux e Tolosa,
dove si dava un tasso altissimo di romanizzazione e cristianizzazione
cattolica. In quel territorio pertanto i Visigoti furono una minoranza sia sul
piano etnico, rappresentando soltanto il 2% della popolazione sia sul piano
religioso, essendo ariani. In questo contesto si deve rilevare che la relazione
tra Gallo-Romani e nuovi arrivati si pose in maniera diversa da quanto vedemmo verificarsi
per il Regno Franco.
I
Franchi si stanziarono in aree scarsamente popolate dai Gallo-Romani, la Gallia
Settentrionale e così evitarono la dispersione, costituendo nel Nord una
presenza compatta, omogenea, che offriva una base sicura del potere politico,
che avrebbero allargato in altre zone della Gallia. Su questa base di coesione
interna, che diventava forza politica, i Franchi poterono interpretare senza
molti timori una politica di avvicinamento sociale e religioso ai Galli-Romani e in breve tempo
questa politica sfociò in una entità unitaria.
I
Visigoti, invece, trovandosi stanziati in una zona, che vedeva una presenza
altamente maggioritaria di Gallo-Romani e avendo a che fare con un Impero
romano non ancora in completo tracollo, ebbero da subito la consapevolezza di
non disporre di un potere invincibile e quindi accettarono di diventare
federati dell’Impero. Inoltre i Visigoti, ancor prima di mirare alla creazione
di una unità nazionale, si sentirono in necessità di evitare la propria
dispersione: conferirono perciò al loro regno una struttura dualistica, che da
una parte vedeva il conquistatore in veste di esercito e dall’altra vedeva la
popolazione Gallo-Romana, che a sua volta contribuiva al mantenimento del
sistema dualistico, sia perché il diritto romano proibiva i matrimoni misti,
sia perché il diritto ecclesiastico vietava il matrimonio nel caso di disparità
di culto (cattolici con ariani).
Questa
situazione politica da una parte impedì la conversione al cattolicesimo dei
Visigoti e dall’altra assicurò alla Chiesa cattolica una relativa tranquillità,
infatti i Visigoti, quali federati, si trovarono nella impossibilità giuridica
di intervenire contro la Chiesa cattolica, che, essendo istituzione imperiale,
doveva essere rispettata e lasciata alla competenza dell’imperatore.
La
situazione mutò radicalmente nella seconda metà del V secolo, quando il re Enrico,
approfittando della gravissima crisi dell’Impero romano occidentale, allargò le
frontiere del suo regno in Gallia fino alla Loira, alla Saône e al Rodano e in Spagna, dove sfuggì al
dominio visigotico solo il regno svevo della Galizia.
A
questo punto il Regno Visigotico smise di essere federato dell’Impero e acquisì
piena sovranità e indipendenza. Ma Enrico non si comportò come Clodoveo, che
alle sue espansioni territoriali dava solo il carattere politico di
sottomissione al suo potere, Enrico promosse un’espansione che fu anche
espansione della popolazione visigotica. Gli fu d’obbligo mantenere la
struttura dualistica del regno, per evitare la dispersione e la scomparsa della
popolazione visigotica minoritaria. Tipico di questo ordine di cose, fu quanto
ordinò re Enrico verso 475: riunire tutte le tradizioni visigotiche nella
cosiddetta Lex Visigothorum, che però aveva vigore solo per i Visigoti.
Ovviamente
nel contesto immediato di conquista, la segregazione assunse spesso il
carattere di contrapposizione tra i due elementi etnici. E ancora una volta si
ebbe come conseguenza immediata che non fu certo facilitata la conversione dei
Visigoti al cattolicesimo, però una qualche ricaduta comunque si ebbe sulla
vita della Chiesa cattolica, perché fu sganciata dalla struttura imperiale e da
Roma. E così la Chiesa cattolica divenne una istituzione nazionale del Regno
visigotico, nella quale il re, anche se ariano, assunse il ruolo, che
l’imperatore romano esercitava nella Chiesa imperiale.
Questa
evoluzione trovò codificazione verso il 506 sotto Alarico II nella Lex
Romana Visigothorum (detta anche Breviarium Alaricianum), che aveva vigore
sia per i Visigoti sia per i Gallo-Romani. Prima espressione di questa nuova
realtà fu il sinodo di Agde nel 507, che merita di essere menzionato, perché è
il primo concilio nazionale, che sia stato celebrato in Occidente.
L’opera
di nazionalizzazione della Chiesa cattolica subì una pausa di arresto negli
anni che vanno dal 507 al 567 per via di gravi problemi politici esterni e
interni, che costrinsero a distogliere l’attenzione dalla questione religiosa.
·
PRIMO PROBLEMA: la
pressione franca aveva praticamente costretto i Visigoti a spostare il proprio
centro di gravitazione da Tolosa a Toledo e ad accettare per diversi anni una
specie di protettorato dell’ostrogoto Teodorico,
·
SECONDO PROBLEMA: La
mancanza di una monarchia ereditaria spingeva continuamente i Visigoti
insoddisfatti a compiere rivoluzioni di palazzo. Gli insoddisfatti in genere
erano i cattolici e la forte nobiltà gotica, così che a poco a poco tra questi
due elementi venne a crearsi una certa convergenza. Tra i nobili si sviluppò la
tendenza a farsi cattolici e i cattolici spesso elevavano all’episcopato questi
nobili convertiti. E’ un segno del superamento della segregazione: dopo un
secolo di convivenza, sia pure dualistica, gli argini tendevano a crollare,
soprattutto tra quei Goti, che durante il soggiorno in Oriente avevano goduto
di una qualche forma di romanizzazione.
·
TERZO PROBLEMA: la
mancanza di continuità territoriale determinava gravi problemi: i pochi
territori rimasti oltre i Pirenei si trovarono esposti all’influenza franca;
nella zona Nord-Occidentale continuava a sussistere il Regno Svevo della
Galizia; nel Sud dalla metà del VI secolo si erano resi di nuovo presenti i
Bizantini, offrendo ai cattolici di Spagna una copertura, che si associava a
quella che ricevevano dai Franchi al Nord.
·
QUARTO PROBLEMA:
verso il 560 gli Svevi passarono al cattolicesimo in seguito alla conversione
del loro re (Teodemiro o Ariamiro o Cararico) e anche grazie all’attività
missionaria di Martino di Braga. Poco prima la guerra gotica aveva eliminato
anche dall’Italia l’arianesimo degli Ostrogoti. E così i Visigoti si trovarono
ad essere l’unica presenza ariana in Occidente.
A questo punto il
Regno dei Visigoti si trovò a dovere fare i conti con tre nemici esterni
(Bizantini, Franchi e Svevi), che erano cattolici e solidarizzavano con gli
iberici cattolici e quindi la conversione al cattolicesimo gli si impose come
via di sopravvivenza, anche perché avrebbe portato un consolidamento alla forza
regale. Vediamo la strada percorsa per arrivare a questa scelta.
Nel 568 si impose
come re Leovigildo, che compì alcune scelte, che rafforzarono la sua posizione
anche nella questione religiosa. Infatti, respinse i Bizantini dal territorio
iberico, all’interno piegò la nobiltà ribelle; distrusse il Regno Svevo; rese ereditaria
la dignità regale; emise un Codex revisus, che, secondo le
interpretazioni più recenti, ebbe un valore non più personale, ma territoriale,
e quindi collocò i due gruppi etnici su un unico e identico piano giuridico.
In materia
religiosa Leovigildo volle interpretare un arianesimo tollerante per ottenere
la riconciliazione dei cattolici del suo regno. Segno di questa tolleranza fu
la scelta di dare come sposa a suo figlio Ermenegildo Ingunda, una franca
cattolica. Fu proprio questo Ermenegildo che nel 579, divenuto correggente con
residenza a Siviglia, passò al cattolicesimo sia per l’influsso della moglie,
sia per il maggior prestigio culturale del clero cattolico, sia per l’azione
diretta di Leandro, vescovo di Siviglia.
Ermenegildo poi
fece scattare una rivoluzione nei confronti di suo padre Leovigildo, alleandosi
con tutti i nemici del regno; fu perciò dichiarato alto traditore e finì
ucciso. A questo punto Leovigildo vide il cattolicesimo in blocco come sospetto
e intraprese una politica religiosa, che mirava a garantire alla Chiesa di
stato ariana il predominio esclusivo. Diversi vescovi furono esiliati; un
concilio ariano a Toledo cercò di incoraggiare il passaggio all’arianesimo,
facilitandone le condizioni: per esempio si stabilì che si dovessero
ribattezzare i cattolici convertiti.
Leovigildo, ultimo
re visigoto secondo il vecchio stile ariano-germanico, lasciò al suo
secondogenito e successore Reccaredo (586-601) una posizione così sicura, che
egli poté senza catastrofi inaugurare la nuova era cottolico-romana della
Spagna. Poco dopo l’assunzione del potere Reccaredo si convertì al
cattolicesimo, sia accogliendo i suggerimenti di Leandro di Siviglia, sia
rifacendosi alla vicenda del fratello Ermenegildo, sia avvedendosi che questo
era il modo più sicuro per scongiurare gli assalti dei nemici esterni e per
ottenere coesione interna. La sua posizione di vertice della Chiesa ariana gli
facilitò il rapido passaggio della maggioranza dei vescovi ariani al
cattolicesimo. Il grande concilio di Toledo del 589 concluse l’epoca della
conversione e pose le basi della nuova Chiesa cattolico-visigota.
Quale costituzione
si dette questa Chiesa cattolico-visigota?
Il re vi giocava
un ruolo di primo piano non a partire dalla concezione germanica dell’aggregazione
socio-politica come era tra i Franchi, ma a partire dalla visione teocratica
del Codice Teodosiano, codificata dal Breviarium Alaricianum. Il re come
l’imperatore romano detiene nelle sue mani la legislazione ecclesiastica,
quindi a lui spetta la convocazione del concilio del Regno, a lui spetta di
inaugurarlo e di dare vigore alle sue decisioni. Anche i concili nazionali
visigoti come quelli franchi furono misti quanto a partecipazione e quanto a
temi affrontati. Il re ha potere anche di compiere interventi legislativi per risolvere
questioni meramente ecclesiastiche. Il re ha diritti importantissimi anche
nell’amministrazione della Chiesa: stabilisce i confini delle province
ecclesiastiche, conferma le elezioni episcopali. Il re è anche suprema istanza
giudiziaria e quindi spetta a lui di intervenire nei conflitti tra due
metropoliti.
Questa connessione
corona-Chiesa ovviamente comportò un certo allontanamento da Roma. Del
resto la Chiesa spagnola possedeva una
grande forza interna: godeva del monopolio culturale, teneva una posizione di
guida al vertice del sistema organizzativo della popolazione romana, ai vescovi
infatti spettava la nomina degli amministratori, la Chiesa disponeva poi di una
colossale proprietà fondiaria in continua espansione, la Chiesa richiamandosi a
certe interpretazioni clericali del diritto romano aveva preteso ed ottenuto
immunità in campo fiscale e giudiziario, la Chiesa infine disponeva di una
crescente forza di intervento nelle faccende del Regno soprattutto in materia
di giustizia (i tribunali episcopali erano competenti anche in questioni di
crimine). Questa relazione tra corona e Chiesa, che annullava tutti i confini
tra ambito statale e ambito ecclesiastico, poteva portare, come in Oriente, al
cesaro-papismo. In realtà avvenne il contrario: la debolezza congenita della
monarchia elettiva e l’assoluto predominio dell’organizzazione ecclesiastica
nel sistema gotico svilupparono nel corso del VII secolo una signoria
sacerdotale. Da Sisenando (633 c.) in poi i vescovi divennero i custodi del
trono, i garanti della fedeltà nazionale, i difensori dei confini e gli
assertori dei diritti regali, perché così si assicuravano i loro stessi poteri.
Per quanto
concerne la vita interna della Chiesa si deve rilevare che inizialmente fu molto
accesa l’esigenza di conseguire l’uniformità della fede. Questa esigenza di
uniformità raggiunse anche i toni della intolleranza fanatica, soprattutto
contro gli Ebrei, che furono posti di fronte all’alternativa o Battesimo o
esilio. Isidoro di Siviglia nella
sua Storia dei Goti ci offre
questa considerazione: “Il re s’è lasciato prendere da uno zelo poco illuminato
a costringere gli Ebrei alla conversione. Non con la forza, infatti, ma col
ragionamento sulla Legge sarebbe stato opportuno condurli al cristianesimo… Ma
come dice la Scrittura bisogna che il Cristo sia annunciato o per mezzo di
cattivi procedimenti o per la retta via”.
In questa azione
per promuovere l’uniformità di fede si inscrive l’introduzione del Simbolo
Niceno- Costantinopolitano nella Messa.
In connessione con
la conversione al cattolicesimo si operò una grande fioritura culturale, che
ebbe la sua massima espressione in Isidoro di Siviglia, fratello, discepolo e
successore di Leandro. Isidoro si occupò di tutti i settori del sapere: teologia,
storia, esegesi, filosofia, grammatica, scienze naturali, apologetica,
ascetica. Questa sua erudizione enciclopedica confluì nelle sue Etymologiae (o Origines) in 20
libri, che rappresentano la prima enciclopedia cristiana e che meritano
altissima considerazione per due ragioni: da una parte raccolgono ampiamente
l’eredità dell’Antichità classica e cristiana e dall’altra costituiscono la
base del sapere medievale. Più teologica è la sua opera Sententiae, che è una silloge di citazioni soprattutto di Agostino
e Gregorio Magno e alla quale attinse ampiamente la teologia medievale. Sotto
questo profilo Isidoro si rivela non come uno che celebra l’inutile funerale di
un mondo finito, ma uno che porge la mano a costruire un futuro (R. MANSELLI, L’Europa medioevale, Torino 1979, 228).
3 – ITALIA
Odoacre (476-493)
governò senza determinare un cambiamento del quadro politico. Non aveva portato
con sé popoli da sistemare e si servì del suo potere militare solo per
garantire continuità al sistema romano, perciò la vita, anche quella della
Chiesa, continuò senza particolari problemi.
L’irruzione di
Teodorico con i suoi Ostrogoti (489) sollevò invece un problema di relazione
con una nuova popolazione, dotata di una sua particolare struttura politica e
di una sua fede religiosa: gli Ostrogoti erano ariani.
Tuttavia Teodorico
non intraprese una politica di gotizzazione dell’Italia per via della sua
storia personale di grossa contiguità con il mondo imperiale romano. Infatti
per 12 anni Teodorico era stato ostaggio a Costantinopoli e maturò in quegli
anni una grande ammirazione per la grandezza romana. Poi venne in Italia non
solo come capo degli Ostrogoti, ma anche come patrizio romano, magister
utriusquae militiae e vice-imperatore per le regioni italiane.
Perciò Teodorico
non pensò affatto di gotizzare, introdusse invece una formula dualistica, come
del resto aveva già fatto Odoacre: per esempio non disperse i Goti su tutto il
territorio italiano, ma li stanziò in alcuni punti come presenze militari di
controllo (pianura padana, zona di Ravenna, qualche nucleo in Dalmazia, in
Italia centrale e in Campania). In certe città, come Ravenna, sorsero veri e
propri quartieri gotici, compatti intorno ad una cattedrale ariana e ai margini
dell’antica città romana.
Il sistema dualistico
prevedeva che Goti e Romani fossero sottomessi a sistemi di diritto,
amministrazioni e burocrazie paralleli e separati; gli unici legami erano la
persona del re e alcuni ufficiali.
Secondo la
tradizione del “buon principe” antico, Teodorico protesse gli scrittori e i
poeti latini, ma nello stesso tempo si sforzò di far nascere una cultura gotica
autoctona. Finché fu applicato questo sistema dualistico, per la porzione
romana sopravvissero in qualche modo Roma ed il suo Impero. Anche la Chiesa
cattolica poté godere della saggezza e della tolleranza dell’ariano Teodorico,
I contrasti teologici tra la Chiesa romana e quella bizantina furono per
Teodorico una sorta di garanzia politica, poiché davano la certezza che la
Chiesa cattolica romana non avrebbe mai invocato l’intervento dei bizantini contro
il potere ostrogoto. E da parte sua la Chiesa cattolica romana trovò forza per
contrapporsi alle visioni teologiche bizantine, perché in un certo senso si
sentiva protetta dall’autonomia politica, che Teodorico garantiva all’Italia.
Ma quando venne a
ristabilirsi la comunione ecclesiale tra Roma e Costantinopoli, le cose
mutarono, perché elementi della popolazione romana cominciarono a sganciarsi da
Teodorico e a lavorare per un ritorno sotto il diretto governo imperiale. E’
pure probabile che Teodorico, oramai divenuto vecchio, perse la sua apprezzata
serenità di giudizio e quindi dette un peso politico eccessivo alla ritrovata
comunione tra le due Chiese, sospettando che dai Romani fosse ordita una
qualche opposizione interna. Ad aggravare il giudizio intervenne anche la
situazione estera che si stava profilando, in cui sembrava prospettarsi una
coalizione tra Franchi, Burgundi, Eruli e Bizantini.
Perciò Teodorico
negli ultimi anni del suo governo fece uccidere il consigliere Severino Boezio,
lasciò morire in carcere papa Giovanni I, al quale venne mossa l’accusa di non
aver ottenuto dall’imperatore bizantino clemenza verso gli ariani. Questa
ostilità però non assunse i contorni di una persecuzione generale.
Sotto il regime di
Teodorico le conversioni al cattolicesimo furono praticamente inesistenti,
perché ne era preclusa la praticabilità dal sistema, che mirava a garantire
convivenza mediante la netta separazione: il passaggio di Ostrogoti al
cattolicesimo era visto come un inaccettabile prevalere della romanità
sull’elemento gotico.
Nel 526 Teodorico
morì, lasciando un regno molto debole nel suo interno, sia per il precario
equilibrio della gestione dualistica, sia per le tensioni e contrapposizioni,
che si determinarono tra gli stessi Ostrogoti, parte dei quali propendeva ad
una parziale apertura ai Romani e parte invece preferiva una linea di
intransigenza gotica. Questa debolezza fu accentuata anche dalla successione
problematica: Teodorico aveva designato come suo successore il nipote
Atalarico, che era poco più che decenne. Assunse la reggenza sua mamma
Amalasunta, figlia di Teodorico. Nella mentalità gotica era inaccettabile che
il potere fosse nelle mani di una donna e quindi si formò una opposizione nei
confronti di Amalasunta, che per tenersi a galla da un lato cercò appoggio
presso Giustiniano e dall’altro fece la scelta di sposare il cugino Teodato,
sperando che le facesse da copertura. Ma Teodato con un colpo di mano tolse di
mezzo la moglie, la relegò su un’isoletta del lago di Bolsena e poi la uccise
(535).
Nonostante ciò, i
Bizantini riuscirono a imporsi a fatica, dopo una guerra ventennale e
dissanguante (535-553), segno della grande forza militare, di cui gli Ostrogoti
continuarono a disporre.
Nel 568 i
Longobardi volsero il loro interesse verso l’Italia e in pochi anni occuparono
buona parte del suo territorio. Formarono degli insediamenti molto compatti
nella Pianura Padana (che diventerà Lombardia), nel Friuli, in Toscana (il
ducato di Spoleto), in Campania (il ducato di Benevento). Ai Bizantini rimasero
Genova fino al 640 circa, Ravenna fino al 752, Venezia, Puglie, Calabria,
Napoli, ducato romano.
Quanto a
religione, i Longobardi per ragioni politiche avevano scelto di professare un
cristianesimo vicino alla forme bizantine, ma al tempo dell’invasione
dell’Italia sempre per ragioni politiche scelsero di passare all’arianesimo,
sia in opposizione ai Bizantini che dominavano l’Italia che dovevano
conquistare, sia in opposizione ai Franchi, che a loro volta ambivano ad
espandersi in Italia settentrionale, sia per distinguersi dalla popolazione e
sia per stabilire una coesione ideale con i vari elementi germanici, che erano
presenti sul territorio o che si erano infiltrati anche tra gli stessi
Longobardi. Fu una scelta ufficiale e politica di vertice, che non coinvolse
totalmente e profondamente la base, dove molti rimasero
fedeli al tradizionale paganesimo.
Questi accenni ci fanno capire che l’insediamento dei Longobardi fu
senz’altro un problema per la Chiesa cattolica italiana: lo vogliamo
considerare distinguendo alcuni momenti tipici.
Momento dell’invasione e dell’anarchia (568-584): riferimento
fondamentale è PAOLO DIACONO, Hostoria
Langobardorum II,10: “In questo stesso tempo
reggeva la chiesa di Roma il santissimo papa Benedetto. A capo della città e
del popolo di Aquileia era il beato patriarca Paolo (in realtà il suo nome era
Paolino). Questi, temendo la barbarie dei Longobardi, fuggi da Aquileia
nell'isola di Grado e portò con sé tutto il tesoro della sua chiesa (similmente
anche gli abitanti dell’interno del Veneto fuggirono nelle isole poco
accessibili delle lagune costiere: siamo all’origine di Venezia).”
Alboino
entrò a Milano il 3 settembre 569, quando era arcivescovo Onorato, che lasciò
Milano e si rifugiò a Genova. Le conquiste di Alboino raggiunsero un momento
molto significativo nel 572, quando dopo tre anni di assedio, capitolò Ticinum
(Pavia): “La città di Ticino, che sopportava
l’assedio da tre anni e alcuni mesi, alla fine si arrese ad Alboino e ai
Longobardi che l’assediavano. Mentre Alboino entrava in città dalla parte
orientale, attraverso la porta che è detta di San Giovanni, il suo cavallo
cadde proprio al passaggio della porta e, per quanto spronato, per quanto
colpito di qua e di là con le lance, non si riusciva a farlo rialzare. Allora
uno degli stessi Longobardi si rivolse al re e disse: “Ricordati, o mio re, del
voto che hai pronunciato. Rompi un voto così duro ed entrerai nella città:
perché questo popolo è veramente cristiano”. Alboino aveva infatti giurato che
avrebbe passato a fil di spada tutta la popolazione, perché non aveva voluto
piegarsi. Ma quando, rompendo questo voto, promise indulgenza ai cittadini,
subito il cavallo si rialzò ed egli, entrato nella città, mantenne fede alla
sua promessa non recando offesa ad alcuno. Allora tutto il popolo, accorrendo a
lui nel palazzo che il re Teodorico aveva un tempo costruito, cominciò dopo
tante miserie a risollevare l’animo, già fiducioso in un futuro migliore.
Ma il re, dopo aver regnato
in Italia per tre anni e sei mesi, fu ucciso per il tradimento della moglie…”
(II,27 e 28).
Ad Alboino successe Clefi, che regnò per un anno e sei mesi e poi finì sgozzato dalla spada di
uno schiavo, che stava al suo servizio (II,31).
Dal 574 al 584 si ebbe un decennio di anarchia, in cui il potere venne
esercitato localmente dai duchi delle varie città. Paolo Diacono ne parla in
questi termini: “In questo periodo molto nobili romani furono fatti uccidere
per soddisfare l’avidità dei vari capi longobardi… Così nei 7 anni dopo
l’arrivo di Alboino e di tutto il popolo questi duchi longobardi conquistarono
e sottomisero buona parte dell’Italia oltre a quella che era già stata
conquistata da Alboino, saccheggiano le chiese, uccidendo i preti, distruggendo
le città e stremando gli abitanti” (II,32).
In questo primo periodo quindi la popolazione
romana fu socialmente decapitata: scomparve la sua classe senatoria e quasi
ovunque anche scomparvero i vescovi o perché spostarono la loro residenza in
terre dominate dai Bizantini o perché le sedi furono lasciate vacanti o perché,
come a Pavia e a Siena, furono insediati vescovi ariani.
Secondo momento (584-626): minacciati dall’esterno da Franchi e Bizantini, i Longobardi nel 584
pensarono di organizzarsi nel loro interno in forma abbastanza unitaria attorno
ad una monarchia, eleggendo come re Autari, figlio di Clefi. In questo periodo
la continuità di governo fu assicurata da una donna: la bavara e cattolica
Teodolinda. Del governo di Autari Paolo Diacono dice: “Non si aveva nessuna
forma di violenza, non si tramavano insidie, nessuno si metteva ad angariare
ingiustamente chicchessia, nessuno commetteva saccheggi, non si verificavano
furti e ciascuno poteva andare tranquillamente e senza timore dove preferiva”
(III,16). Nel 590 Autari finì avvelenato e si ebbe questo seguito secondo le
parole di Paolo Diacono: “I Longobardi, che si erano affezionati alla regina
Teodolinda, non solo le permisero di conservare la dignità regale, ma la
invitarono anche a scegliersi come marito l’uomo più indicato per fare il re.
Teodolinda si consigliò con i saggi di corte e scelse Agilulfo” (III,35). Nel
616 al padre Agilulfo successe il figlio Adaloaldo, ancora tredicenne e quindi
Teodolina rimase in primo piano come reggente.
Caratteristico di questo secondo momento è una certa disponibilità a
lasciarsi influenzare dall’ambiente italiano, avvicinandosi ai quadri romani
sopravissuti. Anche la Chiesa cattolica ne
risentì positivamente, infatti diversi vescovi poterono fare ritorno alle loro
sedi. In questo contesto si operò un primo passaggio di Longobardi al
cattolicesimo. Siccome il fenomeno era di una certa rilevanza, re Autari proibì
ai Longobardi il battesimo cattolico. Il successore Agilulfo nel processo di
avvicinamento alla gente romana lasciò cadere le remore di natura religiosa,
giungendo al punto di lasciare battezzare cattolicamente suo figlio Adaloaldo.
Non deve sfuggire che queste conversioni dei Longobardi al cattolicesimo
avvennero in un’Italia Settentrionale, dove prevalevano i sostenitori di
Teodoreto di Ciro, di Teodoro di Mopsuestia, e di Iba di Edessa, i cosiddetti
“Tre Capitoli”, che Giustiniano aveva invece condannato prima con dei suoi
editti (543 o 544; e 551) e poi mediante il Concilio Costantinopolitano del
553. Anche la Chiesa romana, dopo alcune resistenze, aderì alla posizione di
Giustiniano. Le diocesi settentrionali dell’Italia, che si opposero a Roma e a
Bisanzio per sostenere i “Tre Capitoli”, trovarono nella
presenza longobarda un argine di protezione nei confronti di interventi
punitivi imperiali, Questo ebbe una ricaduta politica su queste chiese del Nord
Italia: svilupparono un atteggiamento antibizantino e filo longobardo. La corte
longobarda dal canto suo da un lato rimosse ogni ostacolo alle conversioni al
cattolicesimo, perché oramai si situavano in un contesto ecclesiale
antibizantino e dall’altro appoggiò le strutture ecclesiali, schierate a favore
dei “Tre Capitoli”.
In una situazione come questa
si svilupparono le relazioni di papa Gregorio Magno (590-604) con i Longobardi.
La prima mossa fu di appoggiarsi a Teodolinda
per favorire il passaggio dei Longobardi alla fede cattolica. Anche
questa volta papa Gregorio Magno dette mostra di grande sagacia pastorale, la
dote che lo fa grande e che rappresenta la sua più alta qualità. Papa Gregorio
sapeva di avere a che fare con gente, legata ad una religiosità pagana molto
elementare, che dava un peso decisivo ai segni e
ai miracoli e quindi sclse di adattarsi a questo tipo di
uditorio, inviando alla regina Teodolina una sua opera, “I dialoghi”, dove da
una parte all’altra si respira un aura di miracoloso, atta a dimostrare la
veridicità della confessione cattolica. In secondo luogo Gregorio Magno dette
avvio presso i Longobardi ad un’attività missionaria, che anticipava la grande
iniziativa di evangelizzazione che di lì a poco avrebbe fatto intraprendere in
Inghilterra. In terzo luogo papa Gregorio sentì molto impellente la
preoccupazione di ricondurre le conversioni dei Longobardi entro l’alveo
dell’unità, ma non ottenne nulla di consistente. Bisognerà aspettare il regno
del cattolico Adaloaldo, perché si cominci a considerare il problema dello
scisma tricapitolino secondo una
prospettiva diversa.
Ci si avvide che lo scisma si era trasferito anche all’interno del regno
longobardo: coloro che diventavano cattolici nei ducati di Spoleto e di
Benevento, accettavano la posizione romana. Si dette poi il caso dei monaci di
san Colombano, che con l’appoggio di Agilulfo si erano insediati a Bobbio:
l’efficace azione missionaria, che svolgevano tra i Longobardi, era in senso
romano. Infine l’entourage di Adaloaldo comprese che la posizione
tricapitolina, sostenuta oramai solo dalle Chiese dell’Italia settentrionale,
condannava il regno longobardo ad un isolamento in politica estera. Adaloaldo
tentò pertanto un avvicinamento al papato, ma il partito longobardo
intransigente vi vide una eccessiva concessione al fronte bizantino e sbalzò
Adaloaldo dal trono.
Terzo momento (626-671): c’è un intreccio di ariani e
cattolici sul trono longobardo: Arioaldo, ariano (626-636) con moglie
cattolica, Gundeperga, figlia di Teodolinda; Rotari, ariano (636-652) con
moglie la cattolica Gundeperga, vedova del predecessore Arioaldo ; Rodoaldo ,
ariano (652-653), figlio di Rotari; Ariperto, cattolico (653), nipote di
Teodolinda; nel 661-662 i due figli cattolici di Ariperto, Pertarito e
Godeperto; Grimoaldo, ariano (662-671), che sposò la sorella cattolica dei suoi
predecessori.
Il trionfo della corrente
intransigente su Adoaldo segnò un
orientamento politico globale orientato alla netta affermazione del carattere
longobardo. Si scelse pertanto di introdurre un’organizzazione dualistica della società, che trovò espressione anche in campo religioso. Paolo
Diacono, infatti, così si esprime a proposito del regno di Rotari: “Ai suoi
tempi quasi in tutte le città del regno c’erano due vescovi: uno cattolico e
l’altro ariano” (IV,42). Tuttavia i cattolici non subirono particolari restrizioni o difficoltà. Significativo di ciò è l’editto di Rotari del
643, che tutelava la pace e il diritto d’asilo delle Chiese, senza distinguere
tra quella cattoliche e quelle ariane.
[Rotari si era accorto che oramai si
tendeva a dimenticare le leggi tradizionali e quindi decise di passare dalla
tradizione orale alla codificazione scritta. Utilizzò il latino e non la lingua
tradizionale della popolazione longobarda, anche perché con ogni probabilità
per la redazione fece ricorso ad un chierico, che aveva una buona conoscenza
del latino, del diritto romano e della terminologia ecclesiastica. Si
introdusse un ammorbidimento delle tradizioni più rigidamente germaniche: la
faida per esempio fu sostituita dal guidrigildo, che prevedeva una sanzione
pecuniaria, che doveva essere stabilita sia tenendo conto dell’entità del danno
sia considerando la condizione sociale del danneggiato (R. MANSELLI, L’Europa medioevale, Torino 1979, 188)].
Il nuovo orientamento politico indusse
parecchi Longobardi, che erano passati al cattolicesimo unitario romano, a fare
ritorno alla forma scismatica tricapitolina.
Tuttavia anche in questo periodo fu molto incisiva
l’attività missionaria cattolico-romana portata avanti da due soggetti diversi:
i soliti monaci di Bobbio, che non furono mai ostacolati, e anche parecchi
ecclesiastici orientali, che in quei tempi vennero a rifugiarsi in Occidente
sia per sfuggire alla invasione araba sia per sottrarsi alle vessazioni, che il
potere imperiale riservava a coloro, che non accedevano alla posizione del
monotelismo (che attribuiva a Gesù Cristo il possesso della sola volontà divina
ad esclusione di quella umana).
IV momento (dal 671 in poi): con l’ascesa al trono del cattolico Bertarido (671) iniziò
una nuova era, caratterizzata sotto il profilo religioso da una grande attività
missionaria guidata dal papato stesso e sostenuta anche dagli ecclesiastici
orientali. In questo periodo a Milano si ebbe l’orientalizzazione della
liturgia sia per l’apporto di missionari orientali sia per l’influsso
bizantino, che il clero milanese aveva subito ai tempi del suo esilio a Genova
e che trapiantò a Milano, quando vi fece ritorno.
Un’altra traccia di questa presenza
orientale si trova a Castelseprio nella chiesa di santa Maria.
[L’esame comparato degli elementi ha permesso di stabilire che non si è qui
di fronte ad un prodotto locale e nemmeno a un riflesso dell’arte ravennate del
pieno o tardo secolo VI, ma ad un lavoro ispirato integralmente e direttamente
a modelli orientali, sia nelle strutture architettoniche sia nei modelli
pittorici ed iconografici. Si tratta dal punto di vista architettonico di una
basilica tricora, che simbolicamente affermava il dogma trinitario in
prospettiva antiariana. Alcuni nomi, che compaiono nelle iscrizioni
didascaliche sono chiaramente una trascrizione latina di termini greci: Zumeon
invece di Simeon, per esempio.
L’iconografia poi si ispira
chiaramente ai moduli iconografici orientali].
Risultato di questa azione missionaria fu la conversione
totale dei Longobardi al cattolicesimo unitario romano e quindi il ricupero
dell’Italia Settentrionale all’unità ecclesiale. Questo ricupero fu celebrato
in un solenne sinodo, che si tenne a Pavia nel 699. Sulla base dell’unica fede
poi si raggiunse all’interno del Regno Longobardo la parificazione tra Italici
e Longobardi sia in campo giuridico sia in campo civile.
4 – IRLANDA
Ci rivolgiamo ora
a una terra, che non ha conosciuto né una penetrazione romana né una
penetrazione germanica, una terra dotata quindi di un carattere del tutto
particolare quanto a popolazione, che è di ceppo celtico, quanto a
organizzazione sociale, che è a struttura clanica e non cittadina. È chiaro che il cristianesimo, impiantandosi in tale contesto, assunse
forme ed espressioni del tutto originali, celtiche appunto.
Gli inizi della
penetrazione cristiana sono immersi nell’oscurità: infatti, la prima notizia di
cui disponiamo accenna ad una presenza cristiana, alla quale finalmente fu
inviato un vescovo per conferire saldezza alla sua struttura e ulteriore
impulso di espansione. La fonte è Prospero
Tirone di Aquitania, Cronica
(MG Auct. ant. IX, 472 ss): “Palladio, ordinato vescovo da papa Celestino,
viene inviato come primo vescovo agli Scotti, che credono in Cristo”. Siamo
verso l’anno 431.
A chi va ascritta
allora la primitiva penetrazione cristiana in Irlanda? Si ipotizza che si sia
avuto un qualche influsso sia delle comunità cristiane presenti nella vicina
provincia romana della Britannia sia di qualche monaco legato al movimento
evangelizzatore di san Martino di Tours.
Il primo vescovo
Palladio avrebbe lavorato nell’Irlanda Meridionale per un anno circa, essendo
morto probabilmente nel 432. Poiché non si sa gran che di questo Palladio,
spesso si è voluto farlo coincidere con Patrizio, ma oramai la storiografia
tende a distinguere le due figure.
Il grande apostolo
dell’Irlanda è invece san Patrizio, però conosciamo molto poco della sua vita.
Se ci rifacciamo alla Confessio,
un’autobiografia degli anni giovanili redatta da Patrizio, quando oramai era
alla fine della sua esistenza, riusciamo solo a ricostruire gli antecedenti
della sua missione irlandese. Se ci affidiamo alle leggende dei secoli VII e
VIII, ci diventa molto difficile discernere gli elementi veramente storici.
Patrizio sarebbe
nato nel 390 in Inghilterra da una famiglia bretone, romano-cristiana: il padre
era diacono e il nonno presbitero. All’età di 16 anni Patrizio fu rapito da dei
pirati irlandesi, che lo portarono come schiavo in Irlanda. Dopo sei anni, in
cui ebbe modo di apprendere la lingua locale, Patrizio riuscì a fuggire e a
tornare in patria. A questo punto abbiamo un vuoto nella vita di Patrizio, che
viene colmata dagli storici con varie ipotesi.
Storici inglesi,
come R.P.C. HANSON, tendono ad ambientare questi anni in Britannia, dove
Patrizio sarebbe divenuto monaco e avrebbe ricevuto dalla Chiesa della
Britannia l’incarico di tornare in Irlanda per evangelizzarla, visto che ne
conosceva la lingua.
Altri storici,
sfruttando leggende e dati storici del VII e VIII secolo, sostengono una
presenza di Patrizio sul continente europeo, in particolare in Francia, dove
venne a contatto con il monachesimo mediterraneo provenzale.
Verso il 432
Patrizio ritornò in Irlanda come missionario e svolse la sua attività
soprattutto nelle regioni centrale e settentrionale, avendo come centro Armagh.
Morì nel 461 circa.
Il cristianesimo
qui in Irlanda assunse una forma del tutto particolare. Mentre nell’Impero il
cristianesimo si era adeguato alla struttura sociale cittadina dell’Impero,
organizzandosi intorno alla figura del vescovo delle città, in Irlanda, dove la
società aveva un’organizzazione non cittadina ma tribale, si instaurò un
sistema organizzativo fondato sul monastero. I monasteri, infatti, avevano un
forte legame con la società tribale, dal momento che l’usanza prevalente, se
non addirittura esclusiva, era di scegliere l’abate nel clan, a cui apparteneva
il fondatore. L’abate quindi era il dirigente della diocesi, talora ne era
vescovo, spesso però faceva ordinare vescovo un suo monaco, che svolgeva
soltanto le funzioni inerenti al potere di Ordine, mentre la funzione
giurisdizionale era esercitata dall’abate. Ancor più straordinario è il fatto
che questa specie di giurisdizione quasi episcopale a volte fu esercitata da
donne: ad esempio la sede episcopale di Kildare era una dipendenza del grande
monastero di santa Brigida e veniva retta in tandem dal vescovo e dalla badessa
(C. DAWSON, La nascita dell’Europa,
Torino 1959, 231).
Questo dominio
monastico ebbe poi un riflesso originale a livello di vita cristiana, spingendo
la Chiesa irlandese ad interpretare un cristianesimo ascetico-penitenziale:
digiuno due giorni la settimana (mercoledì e venerdì), tre quaresime all’anno,
mortificazioni severe (immersione in acque gelate).
In questo contesto
di pratiche penitenziali ispirate dal monachesimo si colloca la diffusione
della penitenza sacramentale frequente e privata. Il monachesimo irlandese
infatti associò la pratica monastica dell’apertura di coscienza e il sacramento
della penitenza. Per dare ai confessori una regola di condotta nell’impartire
la penitenza vennero redatti in Irlanda dei libri penitenziali, in cui venivano
fissate le tariffe penitenziali adeguati, tenendo conto sia dell’entità della
colpa, sia della qualità del peccatore (chierico o laico), sia del grado di
volontarietà.
Un’altra
particolarità irlandese fu l’introduzione nel monachesimo dell’ideale della
peregrinatio pro Christo o pro amore Dei. La Cronaca anglosassone , che risale all’anno 891 circa,
ricorda il caso di tre monaci “che partirono dall’Irlanda sopra una barca priva
di remi, perché volevano vivere in stato di pellegrinaggio per l’amore di Dio,
senza curarsi dove”. Un modo molto incisivo, quindi, per affermare che qui non
abbiamo stabile dimora, ma siamo in cerca di quella futura (Ebr 13, 14).
Influì su questo
ideale della peregrinatio anche l’idea del martirio, che era particolarmente
viva nel monachesimo irlandese. Si distinguevano tre tipi di martirio: il
martirio bianco, che consisteva nel vivere la vita monastica dentro le mura del
monastero; il martirio verde, che si compiva nella peregrinatio per amore di
Cristo e comportava l’abbandono della propria patria, della propria lingua,
della propria attività spirituale e culturale, per andare in terre lontane a
predicarvi la fede nel Cristo, specialmente tra gli infedeli e gli eretici; e
infine il martirio rosso, quello di chi versava il suo sangue e sacrificava la
sua vita durante il suo esilio e la sua opera missionaria (R. MANSELLI, L’Europa medioevale, Torino 1979, 255-256).
Questo movimento monastico di peregrinatio
dette un impulso davvero rilevante all’azione missionaria: san Colombano il Vecchio
svolse un ruolo di primo piano nella conversione della Scozia e del Regno di
Northumbria. San Colombano il Giovane con la sua celeberrima fondazione di
Luxeuil portò un contributo significativo nell’opera di conversione dei residui
elementi pagani del Regno Franco. Sempre san Colombano il Giovane con la sua
fondazione di Bobbio contribuì alla conversione dei Longobardi in Italia.
L’originalità
celtica trovò espressione anche a livello liturgico, praticando un suo modo
diverso di tonsurare (cranio rasato e cerchiato solo da una stretta corona di
capelli); riti particolari per le ordinazioni di vescovi e presbiteri; data
particolare della Pasqua fissata secondo il vecchio uso romano, che si fondava
su un ciclo di 84 anni (nel 525 Roma invece secondo le indicazioni di Dionigi
il Piccolo aveva aderito all’uso alessandrino, che si fondava su un ciclo di 19
anni).
5 – BRITANNIA E ANGLOSASSONI
Già in epoca
romana esisteva in Britannia un’organizzazione ecclesiastica. I vescovi di
York, Londra e Lincoln furono presenti al concilio di Arles (314). Ma nel 407,
quando le legioni romane furono richiamate dalla Britannia, questa terra rimase
aperta alle invasioni. Dal Nord, attraversando il Vallum, penetrarono nella
Britannia romana i Pitti; dal mare poi vennero gli Angli, i Sassoni, gli Iuti,
che vi si stabilirono, fondando sette regni: tre sono quelli degli Angli:
Mercia, Anglia Orientale, Northumbria; tre sono quelli Sassoni: Essex, Sussex,
Wessex; uno quello degli Iuti: Kent.
La popolazione
bretone cristiana o passò la Manica, stabilendosi nell’Armorica (Bretagna
francese) oppure si rifugiò nella parte occidentale (il Galles). In Britannia
quindi il cristianesimo scomparve totalmente.
L’evangelizzazione
della Britannia (596-633) fu una iniziativa di papa Gregorio Magno, che in tal
modo affermò chiaramente di disporre di una giurisdizione, che non si riduceva
alla sola area romana. Ovviamente da questa iniziativa nacquero comunità
profondamente legate a Roma.
Perché questa
iniziativa partì da Roma?
Prima di tutto
perché le comunità cristiane più vicine o non potevano o non volevano
occuparsene: per esempio le comunità cristiane della Gallia preferirono
orientare la loro espansione missionaria verso le terre renane. Le comunità
cristiane del Galles o dell’Armorica non avevano ancora assorbito il trauma dell’invasione e quindi si rifiutavano di
stabilire contatti con gli Anglo Sassoni, nemici invasori. Le comunità
cristiane irlandesi a loro volta rivolsero la loro attenzione alla Scozia dei
Pitti, con i quali avevano affinità etniche, ma si trattò di un’opera che passò
completamente inosservata, perché era portata avanti dall’isolata cristianità
celtica e si rivolgeva a un mondo, che non apparteneva all’Impero.
In secondo luogo
l’iniziativa missionaria di Roma va ascritta a un interesse personale di
Gregorio Magno per il mondo anglo-sassone, come viene ricordato in maniera
piuttosto leggendaria da Beda, Historia ecclesiastica gentis Anglorum
II,1: (“Chiese come si chiamassero, gli risposero che Angli era il loro nome. E
lui di rimando: «Bene, infatti hanno un aspetto
angelico ed è bene che siano coeredi degli angeli in cielo. Che nome danno alla
provincia da cui sono stati presi?». Risposero che gli abitanti di quella
provincia si chiamavano Deiri. E lui di rimando: «Bene: Deiri: dall’ira
strappati e alla misericordia di
Cristo chiamati. Come si chiama il re di quella provincia?». Risposero che il suo nome era Aello. E lui, alludendo al nome, concluse:
«Alleluia; bisognerà che in quelle terre si cantino
lodi al Dio Creatore»”).
Paolo diacono nella sua Historia Langobardorum, III/25 ha un rapido accenno alla
missione voluta da papa Gregorio.
Dati storicamente
più attendibili ci vengono dalle lettere dello stesso Gregorio (Epistolarum libri quartuordecim , PL LXXVII) e da una informazione di Gregorio di Tours (Historia Francorum, IV,26; IX,26).
Ingeberga, vedova del re di Parigi
Cariberto, aveva una figlia sposata al figlio di un certo re di Kent. Secondo Beda (Historia ecclesiastica, I, 25-26) la sposa si chiamava Berta
e lo sposo si chiamava Etelberto e sempre secondo Beda a Berta era stato
concesso di continuare a professare la sua fede cattolica, utilizzando
un’antica chiesa cristiana bretone, la chiesa di san Martino presso Canterbury.
Dalla Gallia venne apposta il vescovo Liutardo per assicurare le celebrazioni
liturgiche. Si sa che Gregorio Magno aveva contatti frequenti con le Gallie e
quindi probabilmente venne a conoscenza di questa situazione, scorgendovi una
possibile base per una missione in Inghilterra. E infatti è qui che sbarcò il
primo gruppo di missionari romani.
In un primo momento Gregorio Magno avrebbe
pensato di realizzare la missione con degli indigeni: infatti nel 595 fece
acquistare a Marsiglia degli schiavi inglesi, che avevano sui diciassette e
diciotto anni. Presto però Gregorio si avvide che le cose sarebbero andate per
le lunghe, per via dei tempi necessari per formare e preparare i giovani
inglesi. Ripiegò allora su un gruppo di monaci del suo monastero di sant’Andrea
sul Celio, guidati dal prevosto Agostino. La partenza avvenne nella primavera
del 596 e lo sbarco si effettuò nella primavera del 597 nel regno di Kent. Una lettera di
Gregorio del 598 parla già di grandi successi: nel 601 venne battezzato il re
Etelberto. Allora Etelberto era anche bretwalda, cioè capo dell’eptarchia
anglosassone, la sua conversione quindi ebbe riflessi anche oltre il regno di
Kent: nell’Essex dove si trova Londra e nell’Anglia Orientale.
Agostino morì tra
il 604 e il 609. Sede metropolitana divenne non Londra ma Canterbury, che in
quanto città del bretwalda Etelberto prevaleva su Londra.
La missione romana
negli anni 625-626 raggiunse anche la Northumbria, dove la conversione avvenne
per via di un intreccio di ragioni familiari e di ragioni politiche: il re
Edvino, infatti, prese come moglie una figlia di Etelberto, che era cattolica e
non solo le consentì di vivere cristianamente nel suo regno ma addirittura lui
stesso in seguito ad una vittoria sui Sassoni Occidentali si fece battezzare.
Venne così a costituirsi la seconda provincia ecclesiastica inglese, la
provincia di York. Tutto ciò però non ebbe grande durata, perché re Edvino morì
in battaglia, sconfitto dal re pagano di Mercia e il cristianesimo non ebbe più
possibilità di continuare.
Intorno a quegli
stessi anni anche il Regno di Wessex si accostò al cristianesimo, riconoscendo
il primato della provincia di Canterbury.
Il metodo
missionario, che fu seguito da questi missionari romani, presenta due
caratteristiche di spicco. Prima di tutto: si ebbe una preoccupazione forte di
evitare le conversioni coatte. E’ vero che anche in Inghilterra in genere il
movimento di conversione partiva dai re, ma in Inghilterra non si consentì che
poi fossero gli stessi re a gestire tale movimento. Questa scelta pastorale
ebbe due conseguenze: non ebbero molto spazio le conversioni di massa e non poterono
formarsi chiese nazionali. In secondo luogo: fu praticato uno stile di grande
moderazione secondo i suggerimenti di quel grande maestro di pastorale, che era
Gregorio Magno. Abbiamo espressione di questo in una lettera, che Gregorio
indirizzò ad Agostino, arcivescovo di Canterbury e a Mellito, vescovo di
Londra: li invitava a non distruggere i bei templi pagani ma ad adattarli al
culto cristiano; li invitava a cristianizzare le feste ed i riti locali, in cui
venivano uccisi dei buoi in onore dei loro idoli, trasformandoli in banchetti
da celebrare nelle feste del Signore e dei martiri: “Se si consentono agli
uomini le gioie esterne, essi troveranno ancor più facilmente quelle interne.
Non si può togliere tutto a dei cuori che non sono ancora aperti. Chi infatti
vuole scalare un alto monte, non lo fa a salti, bensì passo dopo passo e
lentamente” (MGH Ep II, 331).
Nella Northumbria
si impiantò il cristianesimo alla maniera celtica. Dopo la morte del re Edvino
si successero nel governo della Northumbria i suoi due figli: prima Osvaldo per
otto anni e poi Osviu per quasi trent’anni. Questi due re si erano fatti
cristiani durante il loro esilio in Caledonia tra gli Iri e i Pitti, che
praticavano un cristianesimo di tipo celtico. Questo spiega come i due re
fecero evangelizzare il loro regno da monaci irlandesi, provenienti dall’isola
di Jona. L’influsso irlandese raggiunse anche i Regni di Mercia e di Essex,
perché vennero a dipendere da quello della Northumbria.
La presenza di due
sistemi di organizzazione e di vita ecclesiastica molto diversi, inasprita
anche dall’ostilità che correva tra Anglosassoni e Bretoni, in un primo momento
fu fonte di tensioni e di contrasti, ad esempio sulla data della Pasqua.
Tuttavia molto presto ci si avvide che gli usi romani non potevano essere
completamente disattesi e quindi si addivenne a una politica di dialogo e di
reciproche concessioni, che determinarono un arricchimento globale della vita
ecclesiale. In quest’opera di mediazione si distinse Teodoro di Tarso,
arcivescovo di Canterbury dal 668 al 690, che fu riconosciuto e seguito da tutta
la Chiesa inglese: uomo di grande dottrina, acquisita ad Atene, Teodoro si
rivelò dotato anche da eccellenti doti organizzative.
L’unione tra la
pietà irlandese e lo spirito romano dette presto i suoi frutti preziosi. Da una
parte il severo ascetismo e la disciplina penitenziale irlandese dettero un
incremento qualitativo e quantitativo alla presenza monastica in Inghilterra e
questa presenza monastica mantenne indiscutibilmente il monopolio della cultura
e della vita spirituale: si pensi che trentatre re e regine anglosassoni
terminarono la loro vita in un chiostro; 23 re e 60 regine sono venerati come
santi.
Dall’altra parte
lo spirito romano conferì alla Chiesa inglese un carattere singolare: san
Pietro divenne il santo nazionale; dall’Inghilterra partì un pellegrinaggio
incessante ad limina sancti Petri; in Inghilterra si formò una cultura
cristiano-anglosassone di fondazione romana, i cui capisaldi erano rappresentati
dalla Collectio canonica di Dionigi il Piccolo, dalla regola di san
Benedetto, dall’Ordo romanus.
Intorno agli anni
680 con la conversione del Sussex l’Inghilterra concludeva il suo cammino di
conversione e subito dava avvio ad una importante azione missionaria sul
continente tra i popoli germanici, che stavano nelle terre situate ad oriente
del Reno. Protagonisti ne furono soprattutto due monaci anglosassoni,
Villibrordo e Vinfrido, che avevano ereditato dagli irlandesi anche l’ardente
desiderio della peregrinatio pro Christo.
6 – FRISI E GERMANI
Villibrordo negli
anni 690-732 si dedicò alla evangelizzazione dei Frisi e Vinfrido-Bonifacio
negli anni 718-754 si dedicò soprattutto alla evangelizzazione della Germania.
Ispirandosi alla
azione missionaria, che era stata condotta nelle loro terre di provenienza a
partire da Agostino di Canterbury, vollero agire da inviati del papa.
Villibrordo infatti si fece dare il mandato da papa Sergio I, che poi lo
consacrò arcivescovo dei Frisi con sede ad Utrecht (695). Vinfrido dal canto
suo si fece dare da papa Gregorio II (718) il mandato di evangelizzare i
Germani, assumendo il nome di Bonifacio. Per mano dello stesso Gregorio II
Bonifacio fu consacrato vescovo nel 722, prestando al papa il giuramento di obbedienza,
come erano soliti fare i vescovi suffraganei di Roma al papa loro metropolita.
Nel 732 Bonifacio ottenne da papa Gregorio III il titolo di arcivescovo ed il
pallio, infine nel 738 fu nominato delegato papale nelle Germanie.
Questo legame
molto stretto con Roma significò il costituirsi di comunità ecclesiali
germaniche e cattolico-romane.
Concludendo,
possiamo dire che con l’evangelizzazione dell’Inghilterra, dei Frisi e dei
Germani, si è venuta a creare in Occidente una base notevole di unità ideale,
sulla quale si trovavano associati nella comune fede cattolico-romana sia i
diversi popoli germanici sia i vecchi gruppi indigeni. In questo contesto il
papato romano acquisì una posizione assai favorevole per sviluppare la sua
azione primaziale e per assumere sempre più il ruolo di polo dell’universalismo
medievale.
A dire il vero,
sia la chiesa visigotica di Spagna sia la chiesa franca in Gallia, per il loro
orientamento nazionalistico, stavano piuttosto ai margini di questa base
unitaria cattolico-romana dell’Occidente. Ma presto la situazione mutò
enormemente. Con la conquista araba del 711 la chiesa visigotica, pur non
scomparendo totalmente, si trovò di fatto isolata dalla storia occidentale.
Quando vi rientrerà, presenterà anch’essa una forte tinta cattolico-romana.
Anche la chiesa franca conoscerà uno sviluppo in senso cattolico-romano sotto
il dominio di Pipino il Medio e dei suoi discendenti. Pipino il Medio, infatti,
si trovò a dovere appoggiare l’opera missionaria di Villibrordo, Carlo Martello
estese l’appoggio anche a Bonifacio; tale legame non fu senza effetti sulla
vita ecclesiale franca, La dimostrazione di ciò si ebbe sotto Carlomanno e
Pipino il Breve, che negli anni 743-747 celebrarono diversi concili generali
per la riforma della Chiesa franca e ne affidarono la direzione a Bonifacio: per
questa via anche la chiesa franca si saldò alla chiesa romana con legami più
stretti.
A questo punto
l’Occidente è pronto per l’esperienza carolingia: accanto al papato, quale polo
potenziale dell’universalismo medievale, si staglia sempre più l’altro polo
potenziale dell’universalismo medievale: una potenza capace di imporsi oltre i
propri confini nazionali e creare una assai più vasta unità politica, che per
certi aspetti richiamerà la potenza dell’Impero romano. Certamente la comune
base cattolico-romana contribuì a fare sì che questi due poli potenziali si
affermassero non contrapponendosi, ma incontrandosi in stretta collaborazione.
Resta ora di
spiegare come mai questa potenza si trovi nella parte settentrionale invece che nelle regioni mediterranee, che
invece nel V secolo vantavano una superiorità notevole nella compagine
occidentale. La risposta sta nelle vicende che interessarono queste regioni nel
corso del VI e del VII secolo.
Sinteticamente
ricordiamo le tappe del declino dell’area mediterranea.
Per quanto
riguarda l’Italia: la ventennale guerra gotica (535-553), condotta dalle
truppe imperiali per la riconquista della penisola, provocò il tracollo
dell’economia italiana, L’invasione longobarda del 568 non solo pregiudicò ogni
possibilità di ripresa, ma anche comportò il crollo di tutto l’apparato
socio-politico, che invece era stato mantenuto da Odoacre e dal regno visigoto
di Teodorico.
Per quanto
riguarda le regioni Sud-Occidentali, in particolare l’Italia mediterranea, la
Spagna e l’Africa, che Giustiniano aveva riconquistato: le invasioni arabe
della fine del VII secolo e dell’inizio dell’VIII sottrassero tali regioni alla
civiltà occidentale.
Ridimensionato e
decadente nella sua parte meridionale, l’Occidente trovò il suo nuovo centro di
gravità in quelle aree settentrionali, che proprio allora stavano vivendo un
momento di sviluppo (L GENICOT, Profilo
della civiltà medievale, Milano 1968, 33-40).
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