LA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO
AL DI FUORI DEL MONDO ELLENISTICO-ROMANO NEL IV SECOLO
Nel
quarto secolo: descriveremo il fenomeno distinguendo due ambiti di
azione missionaria:
1.
La cristianizzazione dei popoli oltre i confini
2.
La cristianizzazione dei “barbari” entro i confini.
1.
La cristianizzazione dei popoli
germanici oltre i confini
2.
II canone del concilio di Costantinopoli del
381 proclama: “Le Chiese di Dio che si trovano nelle nazioni barbare saranno
amministrate secondo gli usi stabiliti dai nostri Padri” (cfr Conciliorum
Oecumenicorum Decreta,
Bologna 31973, 32). Questo ci dice che verso la fine del IV secolo
già si conosceva una irradiazione del cristianesimo oltre i confini
dell’Impero: è di questo fenomeno che ci vogliamo occupare. Come procederemo?
Prima di tutto e soprattutto dedicheremo la nostra attenzione alle modalità di
evangelizzazione e, poi, solo all’interno di questo discorso, faremo rapidi
accenni alla distribuzione geografica.
Partiamo dalla
testimonianza di un’opera anonima, che risale alla metà del V secolo ed è
intitolata: De vocatione omnium
gentium (spesso viene attribuita ad un amico di Agostino, Prospero
Tirone di Aquitania, un laico teologo): “Alcuni figli della Chiesa, catturati
dai nemici, assoggettarono i loro padroni al vangelo di Cristo e quindi
nell’insegnamento della fede si trovarono ad essere superiori di coloro sotto
cui per la sorte bellica dovevano vivere come servi. Anche dei barbari, venuti
a fare gli ausiliari dei Romani, appresero nelle nostre regioni ciò che nella
loro terra di origine non avevano potuto conoscere, poi fecero ritorno alle
loro sedi, portando con sé la formazione cristiana”. Da questa testimonianza,
che abbiamo addotto a titolo esemplificativo, perché trova conferma in altre
fonti, traspare che due sono le vie di penetrazione del cristianesimo nel
contesto non-romano: “barbari” cristianizzati durante il servizio nell’esercito
romano, divenuti poi evangelizzatori una volta tornati in patria e romani-cristiani,
che erano stati fatti prigionieri dai “barbari” o in scontri bellici con
l’Impero o in occasione di loro incursioni all’interno del territorio
imperiale.
Le due vie ebbero una
incidenza diversa. Un “barbaro”, quando tornava a reinserirsi tra la sua gente,
diventava facilmente un isolato, uno sbandato, anche perché da cristiano qual
era diventato si ostinava a non prendere parte alle feste e ai riti della sua
gente: in una situazione come questa la proposta di una fede sconosciuta
difficilmente poteva ottenere attenzione e consenso. Ma poteva invece
verificarsi qualcosa di diverso, quando a fare ritorno in patria era un “barbaro”,
che prima di partire aveva goduto di un certo prestigio tra la sua gente. Un
certo credito poteva anche essere prestato a un “barbaro”, che tornava tra i
suoi facendo sfoggio della sua romanizzazione e soprattutto della sua borsa
piena di monete romane. Ma questo casi furono piuttosto rari, tant’è che mai
nessuno ha sostenuto che vi fu anche un solo popolo germanico importante, che
fu convertito grazie all’azione missionaria di mercenari ritornati in patria.
Intorno a questi si ebbero talora presenze isolate di cristianizzati.
Le fonti storiche invece
mostrano che fu più efficace la presenza dei prigionieri cristiani. Rufino nella
sua Historia ecclesiastica
(I,10) ci narra la vicenda di una schiava cristiana, cui poi la leggenda dette
il nome di Nina, che, ai tempi di Costantino, avrebbe spinto il re della
Georgia, Mirian, a convertirsi e a fare venire da Antiochia dei predicatori
greci per l’evangelizzazione del suo popolo. Questa notizia di Rufino è
ritenuta credibile dalla storiografia.
Anche la conversione dei
Goti è strettamente connessa, almeno ai suoi inizi, con la presenza di
prigionieri cristiani. Nel corso del III secolo si erano formati tra i Goti dei
nuclei cristiani intorno a dei chierici e a dei laici o catturati dai Goti
durante le incursioni nell’Impero o discendenti da prigionieri cristiani. Lo
stesso Ulfila, che nel corso del IV secolo organizzò una Chiesa nazionale dei
Goti di professione ariana, discendeva per via materna da un cappadoce
cristiano prigioniero di guerra. E
Ulfila, proprio per questa sua formazione mista, seppe promuovere la
gotizzazione del cristianesimo: inventò infatti un alfabeto gotico, di cui si
servì per la traduzione della Bibbia in gotico e per redigere i testi liturgici
in gotico.
Anche nella Mesopotamia
appartenente all’impero persiano sassanide nel corso del III secolo si verificò
una discreta penetrazione del cristianesimo, quando il re Sapore I vi deportò
prigionieri romani, al tempo della guerra vittoriosa contro l’imperatore
Valeriano (260). Il IV secolo segnò per questi cristiani grosse difficoltà,
perché già sospettati di essere praticanti di una religione straniera, che
comprometteva l’unità religiosa dello stato, vennero poi considerati quinta
colonna del nemico nazionale, quando il potere imperiale romano si legò al
cristianesimo. Verso la fine del IV secolo lo stato persiano, grazie alla
mediazione del vescovo Maruta, assunse un atteggiamento più tollerante, che
consentì ai cristiani persiani di forgiare una salda organizzazione
ecclesistica.
Perché i prigionieri cristiani ebbero
questa incidenza maggiore? Per un convergere di fattori, che, se stiamo alle
fonti, suscitavano tra i “barbari” un’alta considerazione: Sozomeno nella sua Storia Ecclesiastica mette in
rilievo il prestigio che i prigionieri cristiani si guadagnarono grazie alla
loro maggior perizia in campo sanitario; Girolamo nella biografia piuttosto
leggendaria dedicata al monaco Malco, che sarebbe vissuto nel deserto della
Calcide, legò invece l‘ascendente dei prigionieri cristiani alla coerenza della
loro testimonianza cristiana (Vita degli eremiti Paolo, Malco,
Ilarione).
Paolino, diacono di Milano e biografo di
sant’Ambrogio, ci fa intuire una terza via di irradiazione del cristianesimo
tra i “barbari”: al n. 36 della biografia narra di un italiano che, mentre era
in viaggio presso i Marcomanni, accostò la principessa locale Fritigilda, le
parlò di sant’Ambrogio e di Cristo e la convertì. Il seguito ci è già noto:
Fritigilda chiese istruzioni a sant’Ambrogio, che le rispose con una lettera in
forma di catechismo. Mi pare che da questo episodio si possano trarre due
indicazioni: da una parte l’iniziativa missionaria di una viaggiatore,
probabilmente un mercante, dall’altra un presenza solo di risultanza della
Chiesa ufficiale. Probabilmente non si trattò di un fatto episodico, però non è
possibile ritenere che oltre il confine settentrionale dell’impero potessero
essere frequenti iniziative di questo tipo: infatti, dal momento che in quella
zona l’attività mercantile era di scarsa entità, non dovettero essere molte le
piccole comunità di commercianti romani ivi insediate.
Ancor meno rilevante dovette essere nel
Nord il fenomeno dell’importazione del
cristianesimo da parte di mercanti germanici, che, operando nel territorio
dell’Impero si sarebbero fatti cristiani.
Al confine meridionale invece c’erano
centri di intensa vita commerciale e questo consentì una più facile
evangelizzazione. Fu il caso di Axum, porto fiorente dell’Etiopia, importante
snodo per le vie commerciali dell’Africa e dell’India. Qui si sviluppò l’opera
missionaria di un certo Frumenzio, un cristiano di Tiro della Fenicia: fu fatto
prigioniero dagli indigeni, mentre stava compiendo un viaggio di esplorazione e
fu condotto come schiavo alla corte del re di Etiopia. Divenuto prima
segretario del vecchio re e poi precettore e consigliere del nuovo re,
Frumenzio ottenne una notevole libertà di azione anche in campo religioso: si
mise alla ricerca dei mercanti romani e cristiani della città e stabilì dei
luoghi di riunione, in cui era possibile pregare alla maniera romana. Quando si
recò da Atanasio, vescovo di Alessandria, per informarlo della vita
cristiana nel regno di Aksum, Frumenzio
si trovò nominato vescovo di Aksum. A questo punto soltanto, dopo avere
consolidato la sua posizione tra i commercianti romani e dopo avere ottenuto un
incarico ufficiale, Frumenzio depose l’atteggiamento di indifferenza verso gli
indigeni e si rivolse anche a loro.
Anche nell’Arabia del Sud, attuale
Yemen, furono dei mercanti romani, che frequentavano i porti del Mar Rosso, a
costituire un primo nucleo cristiano nel
corso del IV secolo. Verso gli anni 350 l’imperatore Costanzo mandò presso il
re degli Himyariti una delegazione per ottenere benevolenza nei confronti della
presenza cristiana.
Una quarta via, sempre situata
nell’ambito delle iniziative private, è rintracciabile nella conversione dell’Armenia.
Siamo agli inizi del IV secolo: Gregorio, un uomo di nobili natali e
imparentato con la famiglia reale, mentre era in esilio in Cappadocia, si
convertì al cristianesimo. Tornato in patria, favorì la conversione del re
Tiridate. Dal vertice la conversione si trasmise fino a tutta la base (cosa che
divenne tipica in Occidente tra i popoli germanici). Nacque una Chiesa armena,
che ovviamente faceva riferimento a Cesarea di Cappadocia, ma si strutturò
secondo caratteristiche nazionali: l’ordinamento pagano tradizionale fu infatti
trasformato in ordinamento cristiano, i templi furono trasformati in chiese, i
sacerdoti pagani divennero cristiani, mantenendo l’ereditarietà delle loro
funzioni. Gregorio, che sarà poi detto l’Illuminatore, divenne primo Catholicos
d’Armenia e fondò la dinastia dei primati successivi. La conversione fu molto
rapida e di massa, con la conseguenza che si ebbe in Armenia un cristianesimo
superficiale, spesso disturbato dalle pesanti ingerenze regie. Verso la fine
del secolo il Catholicos Isacco il Grande promosse una rilevante azione di
riforma, che fra l’altro comportò la creazione di un alfabeto armeno, che sarà
la base di una cultura nazionale cristiana.
In conclusione si deve rilevare che
questa irradiazione del cristianesimo oltre la cultura ellenistico-romana fu
senz’altro frutto di sforzi casuali, non organizzati, privati. Infatti, non ci
risulta che la Chiesa cattolica ufficiale abbia mandato qualche vescovo o
qualche prelato inferiore all’estero tra i prigionieri e i mercanti cristiani
per curarne la vita religiosa e tanto meno per occuparsi delle popolazioni
indigene.
Agostino è testimone di questa Chiesa
imperiale chiusa in se stessa sia per esigenze interne sia per via di quella
sua mentalità che sovrapponeva cristianesimo e romanità. Ecco uno stralcio
dalla sua Lettera 199, 46: “Qui da noi, in Africa, ci sono innumerevoli tribù di barbari, ai quali il
Vangelo non è stato ancora predicato, come è facile informarsi dai prigionieri
che arrivano nelle nostre città e vanno ormai ad aumentare il numero degli
schiavi dei Romani. E' pur vero che sono passati pochi anni da quando, in
numero limitato, alcuni di essi, i quali ormai assoggettati fanno parte dei territori
romani sì da non avere più capi supremi propri ma governatori stabiliti su di
essi dall'impero romano, hanno cominciato ad essere Cristiani con gli stessi
loro governatori. Alcuni invece di coloro, che abitano nelle regioni interne e
non sono per nulla sotto il dominio romano, non hanno neppure alcun legame con
la religione Cristiana, senza che per questo si possa dire assolutamente che
essi non appartengono alla promessa di Dio”.
Di fronte alla constatazione della presenza di infedeli Agostino non
arriva a formulare un appello per un immediato impegno missionario, ma si
limita ad affermare che presto o tardi anche per loro si adempirà la promessa
di Dio. E per Agostino la dominazione romana era la strada per giungere
all’adempimento della promessa per gli infedeli.
2.
La
cristianizzazione dei popoli germanici entro i confini
Il problema dei “barbari”, dunque,
finché si prospettava come problema di relazioni con gente, che stava oltre i
confini dell’Impero, non ottenne molta attenzione da parte delle comunità
cristiane ellenistico-romane. Non poté invece essere eluso, quando il fenomeno
della penetrazione di singoli e o gruppi di “barbari” entro i confini
dell’Impero portò il problema in casa.
Noi in genere dedichiamo la nostra
attenzione al grande fenomeno della migrazione dei popoli germanici, che
investì l’Occidente soprattutto nei secoli V e VI, non deve tuttavia sfuggire
che esso aveva un preludio nei secoli precedenti. Fra il III secolo a.C. ed il
I secolo a. C. aveva preso le mosse dallo Jütland una prima grande ondata
germanica, che dilagò in due direzioni: un gruppo si rivolse verso il Sud,
giungendo alle acque del Reno e recando una qualche minaccia al confine romano:
Cesare negli anni 58-51 a.C. impose a questo gruppo il Reno come confine
invalicabile. Un secondo gruppo piegò verso Oriente: la salda organizzazione delle
province romane della Rezia e del Norico impedì l’attraversamento del Danubio
nella zona della Boemia e la barriera montuosa dei Carpazi ostacolò l’accesso
alla pianura ungherese. Pertanto questo secondo gruppo dovette puntare sul Mar
Nero.
Il bilancio di questa prima ondata non
fu un nulla di fatto, perché comportò conseguenze rilevanti per la vita
successiva dell’Impero. Prima conseguenza: l’Impero romano stesso fece spazio
ad una penetrazione pacifica dei “barbari”, ricorrendo ai prigionieri “barbari”
per ripopolare regioni devastate, oppure ricorrendo a gruppi di “barbari”
liberi come coloni-militari, che coltivassero e insieme difendessero certe zone
di confine, oppure ancora servendosi sempre più di persone di origini
germaniche per infoltire i ranghi dell’esercito.
Seconda conseguenza: l’Impero romano
impedendo la diffusione delle orde “barbariche” all’interno dell’Impero, finì
con il favorirne la coagulazione lungo i confini dell’Impero. Alla fine del II
secolo e inizio del III secolo si formarono infatti sia coalizioni di tribù sia
federazioni etniche. Questo passaggio dalla dispersione anarchica al
raggruppamento organizzato offrì alla pressione delle tribù sul limes una
forza, che prima non aveva mai avuto. L’Impero romano se ne avvide molto bene
nel III secolo, quando i popoli, che si erano stanziati sulle rive del Reno e
del Danubio, assaltarono il limes, perché a loro volta si trovarono incalzati
da una pressione di popoli, che altro non era che il contraccolpo di un nuovo
movimento migratorio iniziato nel primo quarto del II secolo sulle coste del
Baltico: gli spazi disponibili oltre il confine divennero troppo stretti e
quindi si tentò l’invasione. Per decenni gran parte del territorio imperiale fu
devastato da scorrerie. Solo ai tempi di Diocleziano le orde barbariche si
ritirarono oltre il confine. Come mai? Nei popoli germanici si ebbe una
rallentamento del ritmo della crescita demografica a causa del salasso
determinato dalle guerre contro i Romani, si ebbe anche una fase di
inaridimento del fenomeno migratorio. A fronte di tutto questo si ebbe un
aumento delle risorse e quindi fu
ristabilito un certo equilibrio tra popolazione e risorse con conseguente
riduzione della necessità di incursioni nell’Impero.
Anche questa seconda ondata non fu senza
conseguenze: una massa di prigionieri “barbari” venne impiegata per rimettere a
cultura le campagne devastate. Perché questa ampia digressione sui prodromi
delle grandi migrazioni del V e del VI secolo? Prima di tutto per mostrare che
già prima delle grandi migrazioni, negli incontri e scontri con l’Impero, i
popoli germanici vennero a contatto anche con il cristianesimo. E’ certo, per
esempio, che nella seconda metà del III secolo si sviluppò una organizzazione episcopale
lungo i confini tra Impero romano e popolo germanici.
Questo contatto non portò però a
fenomeni di conversione, perché ai popoli germanici il cristianesimo appariva
come una tra le tante religioni di quel mondo romano, al quale dovevano
contrapporsi.
Dal nostro discorso sui prodromi delle
grandi migrazioni dovrebbe emergere che già prima del V secolo le Chiese
dell’Impero avrebbero dovuto affrontare in loco il problema dei “barbari” da
cristianizzare. Ma questo non avvenne se non in maniera ridotta e sporadica. Le
poche fonti, infatti, che accennano a questo problema, risalgono ad un arco di
tempo molto breve: poco prima e poco dopo il 400; e ci informano dell’azione
isolata di alcuni ecclesiastici: Niceta di Remesiana, Victricio di Rouen,
Amanzio di Aquileia, che si impegnarono per la cristianizzazione di alcuni
insediamenti germanici. Furono dunque sforzi locali, piuttosto tardivi,
difficilmente riconducibili a una politica generale da parte della Chiesa.
Merita di rilevare che queste conversioni
sporadiche, quando si verificarono, ebbero una importante ricaduta
politico-sociale, perché favorirono l’inquadramento dei “barbari” nel sistema
sociale e culturale romano. Se ne avvidero scrittori dell’epoca, quali Paolino
di Nola e Orosio, ma il governo romano non prestò nessuna attenzione e
considerazione al dato.
Fu dunque in seguito alle migrazioni dei
secoli V e VI che il problema della cristianizzazione dei “barbari” si impose.
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