sabato 24 febbraio 2024

 

SIMMACO

LA QUESTIONE DELL’ARA

DAVANTI ALLA STATUA DELLA VITTORIA IN SENATO

 

Nel 382 Graziano aveva ordinato di rimuovere l’ara, sul quale veniva bruciato l’incenso in onore della statua della Vittoria nel Senato Romano. L’aristocrazia vide nel provvedimento un grave attentato alle antiche tradizioni dello Stato e alla sua stessa sicurezza. Ne scaturì una contesa, che si protrasse per diversi anni.

Noi possiamo ricostruire questa contesa attraverso tre fonti storiche:

·         la RELATIO III di Simmaco;

·         le LETTERE 17 e 18 di s. Ambrogio;

·         il CONTRA SYMMACUM di Prudenzio.

Il primo momento della contesa si situa nel 382, quando governava Graziano, che ordinò la rimozione dell’ara sita davanti alla statua della Vittoria nel Senato Romano. L’aristocrazia senatoria decise di costituire una delegazione di senatori e di mandarla a Milano per spingere Graziano a un ripensamento. Ambrogio, informato da papa Damaso, precedette le delegazione romana e convinse l’imperatore Graziano a mantenersi irremovibile. E infatti la delegazione romana non fu neppure ricevuta.

Il secondo momento si situa nel periodo 383-384. Si verificarono due gravi avvenimenti:

1.      assassinio dell’imperatore Graziano: il 25 agosto 383, a Lugdunum (Lione);

2.      una grave carestia piombò sull’Occidente.

L’aristocrazia romana vi scorse senz’altro un chiaro castigo degli dei per l’empietà che era stata commessa contro di loro. Quindi tornò di nuovo alla carica: a Milano regnava come imperatore un ragazzo dodicenne, Valentiniano II, che era sotto la tutela della madre Giustina, ariana e nemica di Ambrogio. Si poteva quindi sperare di conseguire un ottimo risultato. Pertanto nel 384 venne a Milano Simmaco, che presentò la sua relazione. La relazione venne letta davanti al consistorio imperiale e suscitò una notevole ammirazione non solo tra i pagani ma anche tra i cristiani presenti. Si noti: Simmaco era cugino di Ambrogio.

Simmaco nella sua relazione si preoccupò prima di tutto di conferire al suo testo il massimo di autorevolezza: richiamò quindi le sue alte qualifiche (quell’anno Simmaco era praefectus urbis  e princeps del Senato) e poi sottolineò che a delegarlo era stato il Senato all’unanimità.

Poi propose la prima fondamentale argomentazione, tutta giocata sul tema della tradizione, del passato: bisognava lasciare ai posteri quanto si era ricevuto, quando si era bambini; era poi legittimo ritenere che la Vittoria come aveva nel passato assistito splendidamente l’Impero romano, sarebbe tornata a favorirlo anche nel futuro, se ancora si fosse tornati ad onorarla con l’ara dell’incenso.

Nella seconda argomentazione che sostenne, Simmaco propose questa considerazione sincretista: era buona cosa che ognuno potesse coltivare il suo culto, dal momento che ogni culto è un tentativo, una strada per giungere al grande segreto. Non si poteva pensare che ci fosse una sola strada.

Quale giudizio dare? Va riconosciuto che la relazione era stilisticamente mirabile, ma  non lo era altrettanto a livello di contenuti concettuali. Si ricorse alla classica tesi degli dei “etnarchi”.

Va detto chiaramente che il ricorso a questa tesi non mirava affatto a dare vita a una prassi di tolleranza religiosa ma a strappare un riconoscimento positivo del paganesimo. In un primo momento questo intento non fu colto, si ritenne invece che il discorso era molto moderato e conciliante: infatti ottenne  prima l’unanime consenso del Senato Romano, in cui sedevano anche parecchi cristiani e poi l’ammirazione del consistorio imperiale.

Ma un’attenta considerazione porta scorgere che non si trattava affatto di una logica di tolleranza. Il tema della tolleranza religiosa ha come fondamento non un giudizio di principio sulle religioni, ma un giudizio sulla persona umana, sulla sua dignità e sulla libertà  della sua coscienza. Simmaco invece sviluppò un discorso, che era affermazione di principio sulle varie religioni, infatti dichiarava che tutte le religioni sono intrinsecamente positive, perché tutte portano al grande segreto. Ne conseguiva che il cristianesimo non è che una di queste vie.

Merita di essere considerato un altro aspetto: la pluralità delle vie religiose non era proposta come dato esperienziale, che rilevava pragmaticamente che gli uomini tendono al grande segreto e vi giungono in maniere diverse. La pluralità delle vie religiose era invece posta come affermazione di principio: tutte le vie portano in sé e per sé al grande segreto, tutte le vie quindi sono intrinsecamente positive e pertanto il cristianesimo non è che una di queste vie.

L’adesione alla tesi di Simmaco  quindi comportava da un lato una relativizzazione del cristianesimo e dall’altro un riconoscimento del valore positivo del paganesimo.

L’imperatore Valentiniano II rispose negativamente alla richiesta di Simmaco, raccogliendo i suggerimenti, che gli furono espressi da sant’Ambrogio in due sue lettere: sant’Ambrogio in quel momento godeva altissima considerazione presso la corte imperiale di Milano, perché in una sua missione diplomatica a Treviri aveva ottenuto che l’usurpatore Eugenio venisse ad accordi con la corte imperiale di Milano.

Nell’Epstola 17 (PL XVI, 1002-1006), chiese a Valentiniano II di poter conoscere la relazione di Simmaco per potere poi elaborare una risposta puntuale, Però con il tono risoluto di chi ritiene di stare agendo in nome dell’Autorità suprema, Ambrogio anticipa il suo pensiero: anche l’imperatore è tenuto ad attenersi al giudizio di Dio più che al giudizio dei suoi consiglieri: e il giudizio di Dio in questa questione, che è religiosa, ha il suo interprete autorevole nel vescovo. E il vescovo dichiara che è un atto sacrilego collocare di nuovo l’ara davanti alla statua della Vittoria. Il vescovo dichiara anche che è un atto ingiusto, perché consentire in Senato una pratica cultuale pagana sarebbe lesivo dei diritti dei senatori cristiani, che si troverebbero costretti ad assistere a riti pagani.

Sant’Ambrogio concludeva la sua lettera con questa minaccia decisa e minacciosa: “Se altrimenti verrà deciso, noi vescovi non potremo sopportarlo a cuor leggero o ignorarlo. Potrai venire alla chiesa, ma lì non troverai il sacerdote, oppure sì lo troverai, ma per impedirti l’accesso” (da questo passo nacque poi la leggenda di Ambrogio che avrebbe bloccato Teodosio sulla porta della chiesa).

Nell’Epistola 18  sant’Ambrogio dette risposta puntuale alla relazione di Simmaco: accenno ai passi salienti:

“Non per dubbi sulla tua fede, ma per previdente cautela e sicuro di un tuo scrupoloso esame, con questo scritto rispondo alle affermazioni della relazione, chiedendo solo che tu faccia attenzione non all’eleganza della forma, ma alla sostanza degli argomenti…”.

Ambrogio poi puntualmente sgretolò i tre grandi argomenti sostenuti da Simmaco nella sua relazione.

1.      Roma invoca i suoi vecchi culti, grazie ai quali respinse Annibale… Ma proprio mentre si proclama la potenza dei riti pagani, se ne rivela la debolezza: infatti, anche Annibale venerava quegli stessi dei, ma quel culto mentre trionfava presso i Romani, veniva schiacciato presso i Cartaginesi. È meglio ritenere quindi che i trofei di vittoria non vengono dalle viscere degli animali, ma dal valore di soldati come Camillo, come Attilio. E non è forse vero che i barbari hanno varcato i confini romani, mentre c’era l’ara davanti alla statua della vittoria? A Roma che arrossirebbe per il suo peccato di empietà per l’abbandono dei culti antichi, Ambrogio risponde che Roma dovrebbe invece dire: “Non arrossisco a quest’età di convertirmi con tutto il mondo, è proprio vero che non è mai troppo tardi per imparare. Arrossisca quella vecchiaia che non sa correggersi. Non la longevità degli anni va apprezzata, ma quella dei costumi”.

2.      A Simmaco poi, che afferma che al segreto non si giunge per una sola strada, ma si giunge anche con i culti pagani, Ambrogio replica che quel che è segreto per i pagani, per i cristiani non lo è, perché i cristiani lo conoscono per Rivelazione.

3.      Si devono concedere ai suoi sacerdoti e alle sue vergini vestali gli emolumenti, che loro spettano, questo sostiene Simmaco. Ambrogio fa notare che i cristiani sono cresciuti tra le ingiustizie, tra le ristrettezze, tra i supplizi, mentre Simmaco sostiene che le cerimonie dei sacerdoti pagani senza redditi non possono resistere. Simmaco sostiene che le vergini vestali devono avere le loro immunità, Ambrogio gli contrappone quel che avviene tra i cristiani. I pagani propongono la virtù, promettendo guadagni e al massimo riescono a procurarsi sette vergini. Tra i cristiani la pratica della verginità è gratuita e c’è una plebe del pudore, c’è un popolo di integrità.

4.      Simmaco infine sostiene che la carestia, che sta affliggendo in quel momento il mondo intero, è il castigo degli dei per l’abbandono delle fede antica e per la negazione degli emolumenti ai sacerdoti e alle vestali. Ambrogio gli obietta che sarebbe davvero strana la giustizia di questi dei, che per castigare la privazione di vitto imposta ai sacerdoti, condannano tutti alla fame! Avremmo una pena che è sproporzionata rispetto alla colpa. E poi, visto che nell’anno in corso la carestia è rientrata, si deve forse pensare che gli dei si sono stancati di castigare?

Il discorso di Ambrogio è certamente meno elegante di quello di Simmaco, ma manifesta di essere scaturito da una mente, che ha saputo liberarsi da una interpretazione mitica e fissista della storia, al punto da sembrare dissacratoria.

L’aristocrazia pagana tornò nuovamente alla carica nel 389 e nel 392: ottenne ascolto da parte dell’usurpatore Eugenio. Ma la vittoria di Teodosio nel 394 segnò la fine definitiva di ogni velleità.

Santo Mazzarino ha sostenuto che nel 402 Simmaco avrebbe compiuto un nuovo tentativo presso Onorio a Milano, ma l’esito ancora una volta fu negativo. E’ in questo contesto che sarebbe nato il Contra Symmacum di Prudenzio.

Concludendo, dobbiamo riconoscere che il paganesimo, pur godendo nel IV secolo di una notevole presenza nella società, ebbe tuttavia scarso peso nella vita politica e debolezza rilevante sul piano religioso. Per i più il paganesimo era ridotto a pratica ritualistica, per una minoranza invece conservava un valore notevole, ma estrinseco, un valore sociale e culturale più che religioso.

 

 

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