SIMMACO
LA QUESTIONE DELL’ARA
DAVANTI ALLA STATUA DELLA VITTORIA IN SENATO
Nel 382 Graziano aveva ordinato di
rimuovere l’ara, sul quale veniva bruciato l’incenso in onore della statua
della Vittoria nel Senato Romano. L’aristocrazia vide nel provvedimento un
grave attentato alle antiche tradizioni dello Stato e alla sua stessa
sicurezza. Ne scaturì una contesa, che si protrasse per diversi anni.
Noi possiamo ricostruire questa contesa
attraverso tre fonti storiche:
·
la RELATIO III di Simmaco;
·
le LETTERE 17 e 18 di s. Ambrogio;
·
il CONTRA SYMMACUM di Prudenzio.
Il primo momento della contesa si
situa nel 382, quando governava Graziano, che ordinò la rimozione dell’ara sita
davanti alla statua della Vittoria nel Senato Romano. L’aristocrazia senatoria decise
di costituire una delegazione di senatori e di mandarla a Milano per spingere
Graziano a un ripensamento. Ambrogio, informato da papa Damaso, precedette le
delegazione romana e convinse l’imperatore Graziano a mantenersi irremovibile.
E infatti la delegazione romana non fu neppure ricevuta.
Il secondo momento si situa nel
periodo 383-384. Si verificarono due gravi avvenimenti:
1.
assassinio dell’imperatore Graziano: il 25 agosto 383, a
Lugdunum (Lione);
2.
una grave carestia piombò sull’Occidente.
L’aristocrazia romana vi scorse senz’altro
un chiaro castigo degli dei per l’empietà che era stata commessa contro di
loro. Quindi tornò di nuovo alla carica: a Milano regnava come imperatore un
ragazzo dodicenne, Valentiniano II, che era sotto la tutela della madre
Giustina, ariana e nemica di Ambrogio. Si poteva quindi sperare di conseguire
un ottimo risultato. Pertanto nel 384 venne a Milano Simmaco, che presentò la
sua relazione. La relazione venne letta davanti al consistorio imperiale e
suscitò una notevole ammirazione non solo tra i pagani ma anche tra i cristiani
presenti. Si noti: Simmaco era cugino di Ambrogio.
Simmaco nella sua relazione si preoccupò
prima di tutto di conferire al suo testo il massimo di autorevolezza: richiamò
quindi le sue alte qualifiche (quell’anno Simmaco era praefectus urbis e princeps del Senato) e poi sottolineò che a
delegarlo era stato il Senato all’unanimità.
Poi propose la prima fondamentale
argomentazione, tutta giocata sul tema della tradizione, del passato: bisognava
lasciare ai posteri quanto si era ricevuto, quando si era bambini; era poi
legittimo ritenere che la Vittoria come aveva nel passato assistito
splendidamente l’Impero romano, sarebbe tornata a favorirlo anche nel futuro,
se ancora si fosse tornati ad onorarla con l’ara dell’incenso.
Nella seconda argomentazione che sostenne,
Simmaco propose questa considerazione sincretista: era buona cosa che ognuno
potesse coltivare il suo culto, dal momento che ogni culto è un tentativo, una
strada per giungere al grande segreto. Non si poteva pensare che ci fosse una
sola strada.
Quale giudizio dare? Va riconosciuto che
la relazione era stilisticamente mirabile, ma
non lo era altrettanto a livello di contenuti concettuali. Si ricorse
alla classica tesi degli dei “etnarchi”.
Va detto chiaramente che il ricorso a
questa tesi non mirava affatto a dare vita a una prassi di tolleranza religiosa
ma a strappare un riconoscimento positivo del paganesimo. In un primo momento
questo intento non fu colto, si ritenne invece che il discorso era molto
moderato e conciliante: infatti ottenne
prima l’unanime consenso del Senato Romano, in cui sedevano anche
parecchi cristiani e poi l’ammirazione del consistorio imperiale.
Ma un’attenta considerazione porta
scorgere che non si trattava affatto di una logica di tolleranza. Il tema della
tolleranza religiosa ha come fondamento non un giudizio di principio sulle
religioni, ma un giudizio sulla persona umana, sulla sua dignità e sulla
libertà della sua coscienza. Simmaco
invece sviluppò un discorso, che era affermazione di principio sulle varie
religioni, infatti dichiarava che tutte le religioni sono intrinsecamente
positive, perché tutte portano al grande segreto. Ne conseguiva che il
cristianesimo non è che una di queste vie.
Merita di essere considerato un altro
aspetto: la pluralità delle vie religiose non era proposta come dato
esperienziale, che rilevava pragmaticamente che gli uomini tendono al grande
segreto e vi giungono in maniere diverse. La pluralità delle vie religiose era
invece posta come affermazione di principio: tutte le vie portano in sé e per
sé al grande segreto, tutte le vie quindi sono intrinsecamente positive e
pertanto il cristianesimo non è che una di queste vie.
L’adesione alla tesi di Simmaco quindi comportava da un lato una
relativizzazione del cristianesimo e dall’altro un riconoscimento del valore
positivo del paganesimo.
L’imperatore Valentiniano II rispose
negativamente alla richiesta di Simmaco, raccogliendo i suggerimenti, che gli
furono espressi da sant’Ambrogio in due sue lettere: sant’Ambrogio in quel
momento godeva altissima considerazione presso la corte imperiale di Milano,
perché in una sua missione diplomatica a Treviri aveva ottenuto che
l’usurpatore Eugenio venisse ad accordi con la corte imperiale di Milano.
Nell’Epstola 17 (PL XVI,
1002-1006), chiese a Valentiniano II di poter conoscere la relazione di Simmaco
per potere poi elaborare una risposta puntuale, Però con il tono risoluto di
chi ritiene di stare agendo in nome dell’Autorità suprema, Ambrogio anticipa il
suo pensiero: anche l’imperatore è tenuto ad attenersi al giudizio di Dio più
che al giudizio dei suoi consiglieri: e il giudizio di Dio in questa questione,
che è religiosa, ha il suo interprete autorevole nel vescovo. E il vescovo
dichiara che è un atto sacrilego collocare di nuovo l’ara davanti alla statua
della Vittoria. Il vescovo dichiara anche che è un atto ingiusto, perché
consentire in Senato una pratica cultuale pagana sarebbe lesivo dei diritti dei
senatori cristiani, che si troverebbero costretti ad assistere a riti pagani.
Sant’Ambrogio concludeva la sua lettera
con questa minaccia decisa e minacciosa: “Se altrimenti verrà deciso, noi
vescovi non potremo sopportarlo a cuor leggero o ignorarlo. Potrai venire alla chiesa,
ma lì non troverai il sacerdote, oppure sì lo troverai, ma per impedirti
l’accesso” (da questo passo nacque poi la leggenda di Ambrogio che avrebbe
bloccato Teodosio sulla porta della chiesa).
Nell’Epistola 18 sant’Ambrogio dette risposta puntuale alla
relazione di Simmaco: accenno ai passi salienti:
“Non
per dubbi sulla tua fede, ma per previdente cautela e sicuro di un tuo
scrupoloso esame, con questo scritto rispondo alle affermazioni della
relazione, chiedendo solo che tu faccia attenzione non all’eleganza della
forma, ma alla sostanza degli argomenti…”.
Ambrogio poi puntualmente sgretolò i tre grandi argomenti sostenuti da
Simmaco nella sua relazione.
1. Roma invoca i suoi
vecchi culti, grazie ai quali respinse Annibale… Ma proprio mentre si proclama
la potenza dei riti pagani, se ne rivela la debolezza: infatti, anche Annibale
venerava quegli stessi dei, ma quel culto mentre trionfava presso i Romani,
veniva schiacciato presso i Cartaginesi. È meglio ritenere
quindi che i trofei di vittoria non vengono dalle viscere degli animali, ma dal
valore di soldati come Camillo, come Attilio. E non è forse vero che i barbari
hanno varcato i confini romani, mentre c’era l’ara davanti alla statua della
vittoria? A Roma che arrossirebbe per il suo peccato di empietà per l’abbandono
dei culti antichi, Ambrogio risponde che Roma dovrebbe invece dire: “Non arrossisco a quest’età di
convertirmi con tutto il mondo, è proprio vero che non è mai troppo tardi per
imparare. Arrossisca quella vecchiaia che non sa correggersi. Non la
longevità degli anni va apprezzata, ma quella dei costumi”.
2. A Simmaco poi, che
afferma che al segreto non si giunge per una sola strada, ma si giunge anche
con i culti pagani, Ambrogio replica che quel che è segreto per i pagani, per i
cristiani non lo è, perché i cristiani lo conoscono per Rivelazione.
3. Si devono
concedere ai suoi sacerdoti e alle sue vergini vestali gli emolumenti, che loro
spettano, questo sostiene Simmaco. Ambrogio fa notare che i cristiani sono
cresciuti tra le ingiustizie, tra le ristrettezze, tra i supplizi, mentre
Simmaco sostiene che le cerimonie dei sacerdoti pagani senza redditi non possono
resistere. Simmaco sostiene che le vergini vestali devono avere le loro
immunità, Ambrogio gli contrappone quel che avviene tra i cristiani. I pagani
propongono la virtù, promettendo guadagni e al massimo riescono a procurarsi
sette vergini. Tra i cristiani la pratica della verginità è gratuita e c’è una
plebe del pudore, c’è un popolo di integrità.
4. Simmaco infine
sostiene che la carestia, che sta affliggendo in quel momento il mondo intero,
è il castigo degli dei per l’abbandono delle fede antica e per la negazione
degli emolumenti ai sacerdoti e alle vestali. Ambrogio gli obietta che sarebbe
davvero strana la giustizia di questi dei, che per castigare la privazione di
vitto imposta ai sacerdoti, condannano tutti alla fame! Avremmo una pena che è
sproporzionata rispetto alla colpa. E poi, visto che nell’anno in corso la
carestia è rientrata, si deve forse pensare che gli dei si sono stancati di
castigare?
Il discorso di Ambrogio è certamente meno
elegante di quello di Simmaco, ma manifesta di essere scaturito da una mente,
che ha saputo liberarsi da una interpretazione mitica e fissista della storia,
al punto da sembrare dissacratoria.
L’aristocrazia pagana tornò nuovamente
alla carica nel 389 e nel 392: ottenne ascolto da parte dell’usurpatore
Eugenio. Ma la vittoria di Teodosio nel 394 segnò la fine definitiva di ogni
velleità.
Santo Mazzarino ha sostenuto che nel 402
Simmaco avrebbe compiuto un nuovo tentativo presso Onorio a Milano, ma l’esito
ancora una volta fu negativo. E’ in questo contesto che sarebbe nato il Contra Symmacum di Prudenzio.
Concludendo, dobbiamo riconoscere che il
paganesimo, pur godendo nel IV secolo di una notevole presenza nella società,
ebbe tuttavia scarso peso nella vita politica e debolezza rilevante sul piano
religioso. Per i più il paganesimo era ridotto a pratica ritualistica, per una
minoranza invece conservava un valore notevole, ma estrinseco, un valore
sociale e culturale più che religioso.
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