IV
secolo: la grande diffusione del cristianesimo all’interno dell’Impero
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Descrizione del
fenomeno
·
Spiegazione del
fenomeno
1 – descrizione del fenomeno
Tutti gli storici sono concordi
nell’affermare che nel corso del IV secolo il cristianesimo ha compiuto un
notevole balzo in avanti nella sua azione di conquista dell’Impero Romano. Le
difficoltà e le divergenze nascono, quando si tenta di dare a quanto prima
affermato un contenuto più preciso in termini numerici e statistici: la cosa
non deve sorprendere, perché si sa che l’Antichità non solo non conosceva la
scienza della statistica, ma addirittura si serviva dei numeri o in maniera
enfatica o in maniera allegorica.
Tuttavia gli storici abbastanza
concordemente osano proporre una valutazione di tipo proporzionale: i cristiani
all’inizio del IV secolo avrebbero rappresentato la decima parte della
popolazione dell’Impero e alla fine dello stesso secolo invece la maggioranza
sarebbe stata cristiana.
Alcuni storici poi ritengono di potersi
spingere più oltre, trasformando la proporzione in dati numerici:
L. v. HERTLING, Der Zahl der Christen zu Beginn des 4. Jahrhunderts: Zeischrift für katholische Theologie 58(1934), pp 243-253:
ritiene che i cristiani all’inizio del IV secolo fossero 6 milioni, mentre alle
fine del secolo sarebbero diventati 25 milioni.
J. GAUDEMET, L’eglise dans l’empire romain (IV et V siècles (= Histoire
du Droit et des Institutions de l’Église
en Occident 3), Paris 1958, p. 88: traduce l’1/10 in 17 milioni, però in questo
modo la popolazione dell’Impero salirebbe ad un numero inaccettabile.
Ma è
più utile considerare la diffusione geografica del cristianesimo all’inizio del
IV secolo e poi alla fine dello stesso secolo.
Inizio
del IV secolo: mi riferisco
fondamentalmente a A. v. HARNACK, Mission
und Ausbreitung des Christentums in den
ersten drei Jahrhunderten, Leipzig 21906, pp 70-262:
-
Si contano circa 1500 sedi episcopali, di cui 800-900 nella
parte orientale, mentre 600-700 nella parte occidentale;
- abbiamo delle aree in cui i cristiani rappresentano circa
la metà della popolazione: Asia Minore, Armenia, Macedonia, Edessa, isola di
Cipro, sud della Tracia (tra Salonnico e Bisanzio);
- in altre province i cristiani, pur non costituendo il 50 %
degli abitanti, sono un gruppo numericamente consistente e socialmente
influente: Alessandria con l’Egitto e la Tebaide, Roma con l’Italia
meridionale, l’Africa proconsolare e la Numidia, le regioni meridionali della
Spagna, la Gallia meridionale, Antiochia con la Siria;
- ci sono poi province meno segnate dalla presenza cristiana:
Macedonia, Acaia, Tessalia, Italia centrale e settentrionale, Mauritania,
Palestina, Spagna centro-settentrionale.
- Ci sono infine province, in cui i cristiani erano presenti
in numero molto esiguo: Gallia centrale e settentrionale, Britannia, in genere
le regioni montuose.
In generale si può rilevare che
l’Occidente appare meno cristianizzato dell’Oriente: mi pare che una
soddisfacente spiegazione di questa discrepanza sia offerta da A.H.M. JONES, Lo sfondo sociale della lotta tra
paganesimo e cristianesimo: Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel
secolo IV, a cura di A. Momigliano, Torino 1975, 23-24. Jones fa
rilevare che il cristianesimo, nascendo in Oriente, si trova strettamente
legato al mondo orientale: si tratta di un legame culturale, che si esprime
anche a livello linguistico: il cristianesimo degli inizi scrive e parla in
greco e ciò evidentemente perché si rivolge prima di tutto a gente dell’area
culturale ellenistica. Da ciò consegue prima di tutto che l’Oriente ha
rappresentato l’area primaria e privilegiata della primitiva diffusione
cristiana. Da ciò consegue in secondo luogo che l’Occidente è stato raggiunto
dall’evangelizzazione soprattutto in quanto vi risiedevano comunità
ellenistiche e tra queste colonie il cristianesimo occidentale reclutò
probabilmente gran parte dei suoi adepti (è significativo che la chiesa romana
usi il greco fono al III secolo; è pure significativo che la lettera, con cui i
cristiani di Vienne e di Lione raccontano la persecuzione del 177 sia
indirizzata ai fratelli d’Asia e di Frigia; è significativo che verso la fine
del II secolo ad Autun vi sia una comunità cristiana di lingua greca e che di
lì a poco la scomparsa dell’elemento greco significhi anche la scomparsa della
comunità cristiana).
Il cristianesimo si trova legato al mondo
orientale non solo a livello culturale
ma anche a livello sociale: in un Oriente fortemente urbanizzato il
cristianesimo primitivo elabora un metodo di diffusione cittadino, che dà buoni
risultati appunto in Oriente e risultati invece piuttosto modesti in Occidente,
dove gli agglomerati urbani erano meno numerosi e disseminati in vaste regioni
agricole. Del resto qui nelle campagna i contadini, ignoranti com’erano del
greco e legati com’erano alle antiche tradizioni, scoraggiavano i tentativi
di penetrazione del cristianesimo.
Da quanto abbiamo detto traspare che anche
la primitiva cristianizzazione dell’Occidente può benissimo essere considerata
un aspetto di quel fenomeno generale, che fu l’ascesa dell’Oriente ad un ruolo
egemonico in seno alla compagine imperiale.
Evoluzione nel corso dei primi decenni del
V secolo
Disponiamo di parecchie opere, che
affrontano il problema a livello locale, ma ancora manca l’opera che raccolga
questi dati per elaborare una sintesi. La tappa finale potrebbe essere
rappresentata dalla metà del V secolo, quando oramai l’Impero romano è
diventato quasi totalmente cristiano. Ma vediamo come si è compiuto questo
processo di diffusione: distinguiamo tra parte occidentale e parte orientale.
Parte occidentale: il fenomeno di
cristianizzazione diventa qui rilevante soprattutto nella seconda metà del IV
secolo e raggiunge la dimensione di fenomeno di massa all’epoca dell’imperatore
Teodosio (imperatore dal 379 al 395). Il segno più evidente di tale diffusione è costituito dall’infittirsi
delle sedi episcopali.
Spagna:
il sinodo di Elvira dell’inizio secolo (306 o 312) offre l’immagine di una
Chiesa abbastanza solida soltanto nel sud, invece i sinodi di Saragozza e di
Toledo, che furono celebrati a fine secolo (380) danno l’impressione che oramai
il paganesimo sia divenuto un problema ed una presenza di scarso interesse.
Gallia: verso il 325 vi
si contavano 25 sedi episcopali, nel 375 invece se ne contano 54, alla metà del
V secolo i vescovi saranno 117. L’evangelizzazione dapprima si svolge nelle
città: alla metà del IV secolo la maggioranza della popolazione delle città è
ancora pagana, alla fine del IV secolo la grande maggioranza è diventata
cristiana. Con Martino di Tours (+387) e Victricio di Rouen (+417) negli ultimi
decenni del IV secolo l’evangelizzazione si rivolge anche alle campagne.
Italia: per ovvie ragioni alla diffusione
del cristianesimo in Italia diamo un’attenzione particolare. Rimane
fondamentale l’opera di F. LANZONI, Le
diocesi d’Italia (= Studi e Testi 35), 2 voll, Faenza 1927. La
ripartizione politico-territoriale del territorio imperiale in Italia
prevedeva in Italia la presenza di due diocesi: al Nord l’Italia Annonaria, al
Centro e al Sud l’Italia Suburbicaria. Le due diocesi all’inizio del IV secolo
presentano un grado notevolmente diverso di cristianizzazione: al Nord i cristiani
rappresentano ancora una minoranza molto esigua; le sedi episcopali certe sono
soltanto 5: Milano, Ravenna, Aquileia (fondate verso la fine del II secolo), ad
esse verso la fine del III secolo si aggiunsero Verona e Brescia. I martiri
ricordati dal martirologio geronimiano (denominazione falsa, infatti la
redazione più antica risale alla metà del V secolo e quella attualmente in uso
alla fine del V secolo) sono soltanto 30.
Nell’Italia
Suburbicaria all’inizio del IV secolo la presenza cristiana sembra più
rilevante, anche se minoritaria rispetto al paganesimo: vi si contano infatti
16 sedi episcopali: in Lazio e Campania accanto a Roma brilla per antichità
Napoli, fondata verso la fine del I secolo; in Toscana abbiamo Chiusi; in
Sicilia: Taormina, Siracusa, Catania. Anche il numero dei martiri è maggiore:
175.
Complessivamente si può rilevare che
il cristianesimo si è stabilito nei principali centri politici, commerciali,
culturali e militari. In particolare, costruendo l’antica carta geografica
religiosa italiana si può osservare che le diocesi ecclesiastiche, di cui è
documentata l’esistenza nei primi cinque secoli, si trovano sulle grandi vie
consolari. Si può quindi legittimamente avanzare l’ipotesi che i primi
destinatari del messaggio cristiano in questi centri commerciali e militari
furono i membri delle colonie greche e delle colonie ebraiche ivi insediate.
Nel corso del IV secolo vennero
create in Italia altre 87 sedi episcopali: 27 nell’Italia Annonaria (Rimini,
Faenza, Imola, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Piacenza, Forlì, Tortona,
Genova, Padova, Trento, Bergamo, Como, Pavia, Lodi, Novara, Vercelli, Torino,
Ivrea, Aosta…); 60 nell’Italia Suburbicaria (Firenze, Pisa, Lucca, Perugia,
Siena, Arezzo, Terni, Todi, Pesaro, Spoleto, Gubbio, Ancona, Civitavecchia,
Agrigento, Marsala…).
Il momento di massimo incremento del
cristianesimo si ebbe nella seconda metà del IV secolo, quando la maggioranza
della popolazione italiana aderì alla nuova fede. Tuttavia rimane una forte
presenza pagana nelle valli alpine e nella stessa città di Roma, che per buona
parte del IV secolo rimase prevalentemente pagana. Per tutto il IV secolo
l’Italia annonaria fu dominata da Milano, che era l’unica sede metropolitana.
Milano infatti era capitale imperiale, centro commerciale di massima importanza
e godeva dell’azione pastorale di vescovi prestigiosi: Mirocle, Eustorgio,
Dionigi, Ambrogio.
All’inizio del V secolo il potere
ecclesiastico di Milano venne ridimensionato sia dalle prerogative
metropolitane del patriarca di Aquileia, che controllava le Venezie e l’Istria
e sia dalla sede di Ravenna, divenuta nel frattempo capitale della parte
occidentale dell’Impero.
Nell’Italia Suburbicaria invece
dominava incontrastata la sede romana, dalla quale dipendeva direttamente un
numero grandissimo di vescovi: sotto questo profilo la sede metropolitana
romana era paragonabile alla sede di Alessandria d’Egitto.
Al nord della linea tracciata dal corso della Loira e delle
Alpi: la
cristianizzazione rimase notevolmente modesta e legata soprattutto ai centri
urbani, che l’attività commerciale e militare vi istituì: Xanten, Bonn,
Colonia, Magonza, Augusta, Worms, Spira, Treviri, York, Londra, Lincoln. Si
comprende così come mai la tenue presenza cristiana sarà completamente
fagocitata e cancellata dagli insediamenti germanici pagani.
Parte orientale dell’Impero: qui l’avanzata del cristianesimo si
compì in termini rilevanti già a partire dal 324, cioè dalla vittoria di
Costantino su Licinio. Vi furono coinvolte primariamente le città, ma molto
presto l’attività missionaria si rivolse anche alle campagne. L’Asia Minore,
dove emergevano per la loro vitalità ecclesiastica la Cappadocia, la Siria (che
aveva come suo centro ecclesiastico un’Antiochia che nel 390 circa appariva una
città cristiana), la Palestina (in cui si imponevano come città cristiane
Gerusalemme e Cesarea), l’Egitto (che nel 325 con le sue 90 sedi episcopali
aveva già raggiunto la sua base organizzativa definitiva e che agli inizi del
400 era già quasi totalmente cristiano).
2) spiegazione del fenomeno
Si tratta ora di comprendere come mai si produsse un fenomeno
simile. Ogni convertito come san Paolo avrebbe potuto affermare: “Per grazia di
Dio sono quel che sono e la sua grazia non è stata vana in me” (1Cor 15,10): ma
è chiaro che la presenza e l’azione della grazia per via della loro natura
soprannaturale sfuggono ai nostri metodi di rilevazione e valutazione storica.
D’altra parte sappiamo come credenti che l’azione della grazia non è mai
totalmente disgiunta dalla sfera di quegli accadimenti, che costituiscono la
materia dell’indagine storica.
In questa prospettiva mi pare che possano venirci utili
indicazioni dalla considerazione di 3 elementi:
A. La
situazione del paganesimo nel IV secolo;
B.
la
politica degli imperatori del IV secolo nei confronti del paganesimo;
C.
l’attività
missionaria dei cristiani.
A – La situazione
del paganesimo nel IV secolo
Facciamo prima di tutto una precisazione terminologica: il
termine “pagano” nella sua accezione religiosa compare nei testi giuridici nel
370 circa, è usato come sinonimo di gentilis. Per capire questo dato
terminologico diversi specialisti rimandano alla lingua latina. Primo uso:
paganus da pagus: villaggio: pertanto tale termine era usato per designare i
“contadini”: la preponderanza dell’elemento urbano nel cristianesimo primitivo
avrebbe portato a identificare i pagani-contadini con i pagani-noncristiani.
Secondo uso: nel linguaggio militare pagani erano i civili, i
non milites, da ciò secondo alcuni studiosi conseguirebbe che i non cristiani
furono chiamati pagani, perché non prendevano parte alla milita Christi (cfr J.
GAUDEMET, L’Église dans l’Empire
Romain IVe- Ve s., Paris 1958, p. 633).
Circa la situazione e la vitaltà del cristianesimo nel IV
secolo si è spesso sostenuta la tesi che si trattava di una paganesimo in
decadenza. A conferma di ciò si adducevano diversi passi di autori
ecclesiastici, in cui si parlava di templi deserti, di statue di divinità
pagane mal ridotte o abbattute. In realtà, se si integrano le testimonianze
letterarie degli autori ecclesiastici con le testimonianze letterarie d’altro
tipo con i dati dell’archeologia e dell’epigrafia, si ricava un’impressione ben
diversa: il paganesimo appare ancora molto praticato ed in certe circostanze
anche molto attivo ed aggressivo.
La vera crisi del paganesimo classico si era prodotta nel
periodo che va dal 170 al 270 d.C., allorché le sia le pressioni persiane e barbare ai
confini sia la crisi economico-sociale e l’anarchia politica degli anni
235-268, sia la peste, imposero una revisione della mentalità e della prassi
religiosa (questa prassi portava a spese ingenti per mantenere i templi, i collegi
sacerdotali, i sacrifici, i giochi olimpici). La mentalità che entrò in crisi
fu quella, molto diffusa, secondo la quale i popoli dell’Impero romano si
sarebbero assicurati la “providentia deorum” con la semplice celebrazione
esteriore dei riti pagani e quindi si sarebbero trovati a vivere nel migliore
dei mondi possibili: dal 170 in poi questa convinzione fu radicalmente scossa
per via dei problemi, che sono stati accennati prima. Ma il crollo dell’armonia
del mondo esteriore provocò per esempio il ricupero dell’interiorità con la
conseguente esigenza di sostituire al formalismo rituale del paganesimo
tradizionale un rapporto personale con la divinità. Le difficoltà sociali e
politiche resero poi attuale il problema del male e della salvezza. Ma per il
paganesimo non fu la fine, perché recependo nel suo quadro istituzionale le
religioni misteriche orientali, impedì che le nuove problematiche
determinassero abbandoni o contrapposizioni. A questo salvataggio del
paganesimo partecipò anche il neoplatonismo che, dopo Plotino, abbandonò sempre
più i sentieri della speculazione filosofica per trasformarsi in una mistagogia
(alle dottrine del maestro furono unite le speculazioni dei sofisti e dei
moralisti e la simbolica dei misteri orientali). Il neoplatonismo in questa sua
nuova versione mistagogica da una parte contribuì a conferire al paganesimo
quello spessore dottrinale, che fino a quel momento gli era mancato e dall’altra impedì che gli intellettuali
divorziassero dal paganesimo. Inoltre il neoplatonismo in versione devota,
offrendo agli spiriti più esigenti la possibilità di interpretare
allegoricamente la mitologia pagana, concorse efficacemente al superamento del
politeismo nella sua accezione più rozza ed elementare. Ovviamente questo contesto, che spinse il paganesimo ad
evolversi come detto, fu terreno favorevole anche per la diffusione del
cristianesimo. Fu pure terreno
favorevole per il successo delle filosofie etiche, fautrici della pace
interiore e dell’atarassia.
Che il paganesimo abbia superato felicemente la crisi è
dimostrato dal fatto che fu assunto come fattore di ricostruzione e coesione da
Aureliano e da Diocleziano. Quest’ultimo addirittura, legando il paganesimo
alla sua politica di romanizzazione dell’Impero, ne fece un baluardo del
conservatorismo romano.
L’improvvisa, sorprendente e per molti aspetti inspegabile
svolta costantiniana provocò nella Chiesa un’ondata di euforia trionfalistica,
che si trasformò nella prima metà del IV secolo in atteggiamento aggressivo:
questo spiega il ruolo piuttosto diverso e disorientato che il paganesimo si
trovò a dovere interpretare in tale periodo soprattutto in Oriente. Ma il
quadro mutò nella seconda metà del IV secolo: la pietà pagana, soprattutto
nelle classi elevate, si esaltò, divenne più ardente, più mistica e la presenza
pubblica divenne più decisa.
Per offrire un’immagine più precisa della vitalità pagana
soffermiamoci su tre aspetti: la ripartizione sociale del paganesimo, il
tentativo di restaurazione compiuto da Giuliano l’Apostata, Simmaco e la
questione dell’ara davanti alla statua della Vittoria nel senato romano.
1. La ripartizione sociale del
paganesimo: il
paganesimo conta principalmente quattro gruppi di adepti, socialmente molto
diversi, ma ugualmente rilevanti: la popolazione rurale, l’aristocrazia, gli
intellettuali, l’esercito.
La popolazione rurale: l’evangelizzazione del IV secolo, soprattutto in
Occidente, aveva raggiunto le campagne in maniera piuttosto ridotta. Si ebbe un
progresso nel V secolo, che. sempre in Occidente, fu presto ostacolato e in
parte compromesso dalle invasioni. Il successo, forse più superficiale che
profondo, si ebbe pienamente solo nel VI secolo. I contadini, che erano rimasti
estranei al fenomeno prevalentemente urbano della fioritura della cultura
antica, praticavano un paganesimo che si alimentava essenzialmente a un antico
sottofondo di credenze ancestrali: si trattava ancora di una religione
naturalistica, dedita al culto delle forze naturali per scongiurare che la
cattiva sorte avesse a infierire sul raccolto. Con il passare del tempo si era
prodotta una certa adeguazione al politeismo ufficiale, ma si trattò di un
fenomeno piuttosto superficiale, infatti sotto i nomi delle divinità dal
pantheon continuò a sopravvivere l’antica religiosità ed i tempietti du
Artemide e Cibele disseminati nelle campagne non fecero altro che sostituire i
sassi sacri, gli alberi e le sorgenti sacre, a cui in passato veniva affidata
la tutela della vita agricola.
L’aristocrazia: durante il lungo periodo della pax romana aveva goduto di
una posizione di completo predominio nella politica e nella vita culturale. Ma
con il sorgere della potenza della Persia nel 224, con il fenomeno della
confederazione gotica nel bacino danubiano dopo il 248 e con il pullulare di
bande guerresche lungo il Reno dopo il 260, l’Impero dovette trasformarsi da
struttura di pace in struttura di guerra. Questa evoluzione evidentemente finì
con il privilegiare la classe militare e con il ridurre gli spazi dell’aristocrazia:
il comando militare non fu più affidato ad aristocratici in base a criteri
ereditari e di casta, si preferì lasciare il posto all’efficienza dei militari
di carriera. Le esigenze belliche inoltre portarono all’aumento delle
dimensioni dell’esercito e al conseguente incremento sia delle tasse sia della
classe dei burocrati, che dovevano curare la fiscalità. Così l’aristocrazia da
un lato si trovò emarginata dalla vita militare e politica in seguito
all’ascesa dei militari e dei burocrati e dall’altro si trovò notevolmente
appesantita nel suo ruolo di contribuente: questo può bastare per fare intuire
come nell’evoluzione dell’Impero l’aristocrazia abbia assunto una funzione di
conservazione ed opposizione. L’opposizione al nuovo, a tutto il nuoco che
l’evoluzione in corso comportava, divenne anche opposizione alla
cristianizzazione dell’Impero. La conservazione tenace e nostalgica del passato
divenne pertanto anche conservazione di quel paganesimo, che tanta parte aveva
avuto nel mos maiorum. Vale però la pena di notare che questa aristocrazia del
sangue era costituita dalle grandi famiglie patrizie romane, che ovviamente
risiedevano per lo più nella parte occidentale dell’Impero; in Oriente, che era
di recente conquista, si formò invece un altro tipo di aristocrazia, fondata
non già sul grande passato romano, ma sul prestigio recente, conseguito per meriti militari e
burocratici o per favore imperiale. In Oriente pertanto l’aristocrazia non fu
elemento di conservazione e opposizione, ma anzi si trovò pienamente legata al
nuovo corso politico, militare e religioso. Va poi aggiunto che il principale
artefice del nuovo corso fu il potere imperiale, che eliminò il carrierismo
ereditario e automatico della aristocrazia tradizionale, mentre dal canto suo
dette vita al carrierismo del merito o del privilegio, che creò la nuova
aristocrazia orientale. Ovviamente questa aristocrazia orientale fu decisamente
filo-imperiale, consenziente e succube su tutti i fronti, anche su quello
religioso. L’aristocrazia occidentale, invece, fu sempre ostile agli imperatori
della novità e cercò sempre di appoggiare gli imperatori che facevano un
qualche discorso di restaurazione, quali Giuliano l’Apostata e l’usurpatore
Eugenio.
Dal canto loro gli imperatori
cristiani ritennero opportuno di non dovere ricambiare l’opposizione degli
aristocratici occidentali con lo scontro frontale, per il fatto che questa
aristocrazia d’Occidente per via della sua potenza patrimoniale rappresentava
una forza di rilievo e di grande utilità fiscale. Pertanto gli imperatori
cristiani, pur non rinunciando alla loro politica, in Occidente preferirono
procedere con moderazione, che non esasperasse l’opposizione al punto di
trasformarla in una forza positiva di ribellione: in questa prospettiva la loro
politica religiosa in Occidente fu più libertaria, accettarono pure di affidare
ruoli militari e amministrativi anche a qualche esponente dell’aristocrazia
tradizionale.
Concludendo: la nuova aristocrazia
orientale dipendeva a tal punto dal potere imperiale da diventarne uno
strumento fedelissimo: ariana con imperatori ariani, pagana con Giuliano
l’Apostata, cristiana ortodossa con imperatori cristiani ortodossi. La nuova
aristocrazia orientale pertanto assicurò forte sostegno al potere imperiale, che
veniva esercitato sempre più monarchicamente e autocraticamente. L’aristocrazia
tradizionale d’Occidente invece rappresentò una forza autonoma, che le consentì
di condizionare il potere imperiale, senza però condizionarlo a tal punto da
costringerlo a un cambiamento di rotta. Il potere imperiale infatti con la sua
politica meritocratica e clientelare si guadagnò la fedeltà dell’esercito e
dell’apparato burocratico e così si garantì una forza capace di mantenere le
potenze conservatrici dell’opposizione entro limiti, che non recassero
disturbo. Comunque è interessante sapere che l’aristocrazia tradizionale,
quando l’Impero cadde nella parte occidentale, rappresentava nel senato romano
ancora una minoranza con notevole influenza.
Gli intellettuali: anche in essi l’attaccamento al paganesimo era connesso con
un atteggiamento globale di conservazione e di opposizione al nuovo corso.
Potremmo definire questo atteggiamento degli intellettuali come aristocratico
per varie ragioni. Prima di tutto per una certa coincidenza tra ceto
intellettuale e ceto aristocratico. Erano certamente gli aristocratici che
potevano concedersi l’otium dello studio. Ma nell’opposizione al nuovo corso
furono impegnati non solo gli intellettuali provenienti dalla aristocrazia
tradizionale occidentale, ma anche quelli provenienti dalla nuova aristocrazia
orientale; anzi proprio questa espresse la sua opposizione in maniera più
virulenta. Questo ci porta a ritenere che lì opposizione degli intellettuali
era connessa non solo con le ragioni di provenienza sociale, ma anche con
ragioni propriamente intellettuali. Il nuovo corso pose gli intellettuali di
fronte a questo dato: il divorzio tra cultura e classe dirigente. Come mai? Gli
intellettuali si impegnarono sempre più a percorrere la via della retorica
secondo i modi della letteratura classica pagana, divenendo sempre più i
cultori del bel dire e sempre meno esperti del giusto fare. Gli intellettuali
si dedicarono sempre più ad una certa etica e mistagogia, divenendo sempre più
cultori dei grandi problemi del mondo interiore e sempre più lontani dalla vita
del mondo esterno delle scienze naturali, delle scienze con sbocchi operativi.
Il nuovo corso politico, pressato com’era dai problemi militari, sociali,
economici, ovviamente privilegiò quei settori, che gli potevano assicurare
quella efficacia operativa, che invece era sempre più disertata dagli
intellettuali. L’amara esperienza di emarginazione portò gli intellettuali a
praticare sempre più una concezione aristocratica della cultura, riservando uno
sguardo sprezzante ai piccoli uomini del nuovo corso. La nostalgia di tutto
quel passato, che animava il loro mondo ideale, li pose contro a tutto il
nuovo, anche al cristianesimo: e così gli intellettuali si trovarono al fianco
dell’aristocrazia, dando espressione efficace alle sue opinioni.
Mi soffermo un po’ sugli argomenti,
che gli intellettuali del IV secolo utilizzarono nella loro polemica
anti-cristiana.
·
In
nome della sermonis elegantia coltivata dagli studia liberalia nutrivano viva ripulsione
nei confronti dei testi cristiani, disgustosi per la loro rozzezza: soprattutto
la Vecchia Vulgata nel suo latino scorretto, nella sua narrazione di eventi
estranei alle narrazioni della classicità, nel suo mondo concettuale assai
differente dalle concezioni filosofiche classiche. Anche per Agostino il primo
impatto con la Bibbia fu assai deludente. Il famoso scambio epistolare tra
Seneca e san Paolo fu appunto un falso dettato dall’intento di contrastare le
eccessive ripugnanze dei letterati pagani nei confronti della forma poco
letteraria dei primi scritti cristiani. Se Seneca, nonostante lo stile talora
zoppicante di Paolo, ne apprezzò le lettere, perché gli intellettuali del IV
secolo non dovrebbero fare altrettanto, dando anch’essi più peso alla sostanza
che alla forma?
L’autore cristiano della
falsificazione fece un’operazione brillante: tentò di valorizzare gli scritti
cristiani senza denigrare la cultura pagana, anzi stabilendo un dialogo con
essa. A diversi intellettuali pagani la cosa dovette apparire come una prova
simpatica e accattivante di moderazione. Non mancarono però autori cristiani,
che opposero alla polemica pagana posizioni radicali, quali il rifiuto in
blocco della retorica come maestra di errori o l’esaltazione del qualunquismo
espressivo: non importano molto i barbarismi ed i solecismi, l’importante è
farsi capire e comunicare contenuti di alto valore!
·
In
nome della catena ininterrotta di pratiche devote, di massime sagge, che hanno
origini che si perdono nella notte dei tempi, denunciano la “novitas” del
cristianesimo, nato sotto l'imperatore Tiberio. Mentre il Giudaismo per la sua
vetustà rispettabile veniva contrastato perché molto diverso, il cristianesimo
venne contrastato perché “novus”. A fondamento di questo rifiuto del novus, c’è
una concezione etnica del fenomeno religioso: ogni popolo ha alle sue origini
remote un suo dio, che ne fissa gli usi ed i costumi ed ogni popolo che si
attiene a questi usi e costumi antichi merita rispetto, perché gode senz’altro
della protezione del suo dio. I cristiani, invece, non sono un popolo, ma una
congerie di genti, che provengono da popoli diversi e che hanno tradito gli usi
antichi, commettendo il crimine di irreligiosità, di ateismo. Non mancarono
autori cristiani, che entrarono nella polemica mettendo in campo affermazioni
radicali. Lattanzio, per esempio, nelle sue “Divinae institutiones, 2 II,8 ironizza su alcuni versi delle
“Elegiae romanae”, (IV, I,11
s.) di Properzio, nei quali con fierezza si rimanda alla volontà dei grandi
senatori della Roma primitiva. Lattanzio si domanda se è proprio il caso di
subordinarsi in tutto a ciò che avevano pensato quei cento vecchi in pelli
ferine (“centum pelliti senes”). Lattanzio invece afferma che quando si tratta
di una cosa tanto importante come la condotta di una vita, è a se stessi che
bisogna affidarsi, è con l’aiuto del proprio giudizio che bisogna cercare e
conquistare il vero. È meglio usare la piccola particella di saggezza concessa a ciascuno che
accettare a occhi chiusi gli “inventa maiorum”. Anche il poeta laico cristiano
Prudenzio nel suo Contra Symmacum
(II,277 ss), in maniera radicale afferma irridendo che il mos maiorum è
radicalmente ostile al progresso umano, anzi favorisce un deleterio regresso ad
un passato del tutto superato,
Altri autori cristiani, più
opportunamente, assunsero un tono più conciliante, tentando appunto di
conciliare il cristianesimo con il culto del passato degli intellettuali
pagani, mostrarono pertanto che il cristianesimo aveva il suo passato nel
Giudaismo, di cui era continuazione e compimento, elaborarono quindi delle
cronologie, dalle quali risultava che la religione giudaica era la più antica
di tutte le altre, perché risaliva addirittura alla creazione del mondo. Questa
questione dell’antichità ebbe una ricaduta molto significativa all’interno
dello stesso mondo cristiano: portò infatti alla formazione del concetto della
tradizione apostolica: la Chiesa cioè si gloria sempre più di fare risalire la
sua dottrina, la sua disciplina, la sua gerarchia agli Apostoli e, tramite
loro, direttamente al Cristo.
L’esercito: per tutto il IV secolo l’esercito rimase in gran parte
pagano, soprattutto perché reclutava sempre più i soldati tra i barbari e nelle
campagne, contesti ancora dominati dal paganesimo. Si trattava pertanto di un
paganesimo di abitudine, superficiale, naturalistico.
Alla fine di questa analisi della composizione sociale del
paganesimo si impone senz’altro questo interrogativo: come mai un fenomeno di
così grande estensione sociale e di grande rilevanza numerica nel corso del IV
secolo divenne perdente, nonostante la sua vitalità?
Rifacendomi al saggio citato di A.H.M. JONES (Lo sfondo sociale
della lotta tra paganesimo e cristianesimo: Il conflitto tra paganesimo e
cristianesimo nel secolo IV), vado a cercare la ragione proprio nel
peso sociale delle classi, che aderivano al paganesimo.
La popolazione rurale: il suo peso
nella vita economica dell’Impero era rilevante, infatti si ritiene che da lì
provenisse più del 90% del gettito fiscale. Tuttavia, nonostante la loro
preponderanza numerica, nonostante la rilevanza economica della loro attività,
le opinioni delle classi contadine non contavano quasi nulla. Infatti, il loro
peso si riduceva enormemente: in uno stato, che tendeva a passare dal dominio di
una oligarchia aristocratica al dominio autocratico dell’imperatore, erano le
opinioni dell’esercito e della burocrazia a diventare rilevanti. Ad impedire ai
contadini di assumere un ruolo sociale autonomo e decisivo contribuì anche il
sistema del patronato, che si accentuò notevolmente nel IV secolo: nella loro religiosità
i contadini dipenderanno da quella dei patroni.
Dal
canto loro contadini non vissero questa condizione marginale, servendosi del
paganesimo come mezzo di opposizione e conservazione, infatti non avevano un
passato aureo da difendere. Per i contadini l’essere pagani fu piuttosto un
mezzo per ottenere la benevolenza dei patroni pagani.
Si
capisce allora perché l’azione missionaria cristiana si indirizzò in primo
luogo verso i proprietari terrieri.
Esercito: come dicemmo,
nel IV secolo era in maggioranza pagano, perché reclutava soprattutto tra i
contadini e i barbari. Ma il suo paganesimo fu sostanzialmente passivo: era un
conformarsi alla religione prevalente nello stato, qualunque essa fosse.
Ovviamente nell’esercito le convinzioni religiose passavano in secondo piano
rispetto alla disciplina militare e all’obbedienza richiesta. Questa
propensione fu poi accentuata dal nuovo corso, che fondava la carriera non più
su considerazioni di casta aristocratica, ma di efficienza militare e lealismo.
Influiva anche sulla religiosità dei contadini e dei barbari, che entravano
nell’esercito, lo sradicamento dalle abitudini e dalle credenze delle loro
comunità di provenienza. Questa esperienza di sradicamento comportava da un lato un inevitabile
disorientamento e dall’altro una tendenza all’adattamento al nuovo ambiente. Il
tono al nuovo ambiente era dato dai militari di carriera, dai figli dei soldati
e dei veterani, che in ragione del lealismo, che garantiva la scalata ai gradi,
abbracciavano senz’altro la fede religiosa degli Imperatori.
L’aristocrazia tradizionale: benché detenesse
una ricchezza immensa e conservasse un altro prestigio sociale, nel corso del
III secolo perse gran parte della sua importanza politica: Gallieno l’aveva
esclusa dalle cariche militari, Diocleaziano l’aveva relegata in funzioni
amministrative del tutto secondarie. Con la svolta costantiniana soprattutto in
Occidente gli imperatori scelsero di affidare cariche amministrative e militari
ad esponenti della ricca aristocrazia senatoria, però nel contempo ne
neutralizzarono l’influenza e il peso politico, immettendo nell’ordine
senatorio un numero notevole di persone provenienti dalle classi più basse.
A
fronte di questo potere imperiale autocratico sia l’aristocrazia tradizionale
sia quella nuova si trovarono costrette a praticare un lealismo opportunistico
nei confronti degli imperatori cristiani. Perciò l’aristocrazia tradizionale
occidentale interpretò il suo orientamento religioso pagano con moderazione: la
sua difesa del paganesimo non assunse i toni aspri della lotta contro il
cristianesimo, ma si accontentò di esprimersi come tentativo di giustificare e
legittimare la propria scelta di non essere cristiani.
Gli intellettuali: per via della
divaricazione tra cultura e classe dirigente, non rappresentavano più una forza
politica seria; la loro opposizione fu accademica: accademica sia perché
trovava espressione solo nei professori, sia perché trovava espressione solo in
discorsi e opuscoli.
Concludendo,
dobbiamo dire che il paganesimo si alimentava presso classi sociali, che non
avevano di fatto grande capacità di incidere in maniera determinante nella
conduzione del mondo tardo-antico. Il cristianesimo invece raggiunse proprio
quei ceti medi, da cui gli imperatori della ricostruzione trassero la loro
classe dirigente. Sia chiaro, non si
deve perciò concludere che la grande diffusione del cristianesimo nel IV secolo
fu soprattutto una faccenda di opportunismo; si deve invece concludere che questa
situazione favorì un’attenzione benevola nei confronti della religione
cristiana.
A questo punto mi
pare opportuno richiamare le altre ragioni, che vengono addotte per spiegare il
successo del cristianesimo.
Le 5 ragioni di
GIBBON:
- zelo dei cristiani
- dottrina cristiana circa la vita
futura
- i miracoli
- la moralità severa e schietta
- la forza crescente
dell’organizzazione ecclesistica.
Le 3 ragioni di GERHART LADNER, The
impact of Christianity (1966):
- il rapporto originale che il
cristianesimo pone tra morale e religione; nella tradizione antica la morale si
connetteva con la filosofia e quindi la religione aveva una funzione rituale;
- il rapporto con la verità: il
cristianesimo lo rivendica in maniera esclusiva, il paganesimo invece aveva
un’impostazione pluralista;
- la concezione cristiana del tempo:
non ciclica e fatalista come nel mondo pagano, ma lineare, che consente l’idea
del progresso e della libertà dell’uomo.
Le 6 ragioni di E.R.DODDS, Pagani e
cristiani in un’epoca di angoscia, Firenze 1970, pp 101-136.
- debolezza del paganesimo
- esempio dei martiri
- proposta totalitaria in un mondo
disorientato e desideroso di sicurezze
- apertura verso tutte le classi
- maggiore incisività della dottrina
cristiana dell’aldilà («insieme bastone più grande e carota più saporita»
- notevole forza di coesione della
comunità cristiana in un contesto di disgregazione delle comunità tradizionali.
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