L’AZIONE MISSIONARIA DEI CRISTIANI
NEL IV SECOLO
Gli scrittori dell’epoca non ci hanno
tramandato una presentazione specifica dell’attività missionaria del IV secolo.
Procederemo quindi sfruttando gli indizi e gli accenni, che affiorano qua e là
nella letteratura cristiana.
Questa attività ovviamente è legata al
contesto, in cui sviluppa il suo impegno. Nel IV secolo il contesto è
caratterizzato da due tipi di aree, a cui rivolgersi per l’azione missionaria:
c’è l’area dei pagani e c’è l’area dei cristiani infedeli, o perché
appartengono a filoni ereticali o perché appartengono a correnti scismatiche.
Queste due diverse aree di azione portano a dare grande rilevanza a due temi
missionari: la Chiesa Cattolica come unica arca di salvezza e la cattolicità.
Ce ne danno esempio san Girolamo (Ep. 15
ad Damasum, 2 : ML 22,355) e sant’Agostino (Sermo ad Caesariensis ecclesiae
plebem, 6: ML 43, 695).
Vi ai afferma che l’uomo non può trovare
salvezza se non nella Chiesa Cattolica: al di fuori della Chiesa Cattolica
tutto è possibile, tranne che la salvezza: puoi trovare l’onore, puoi trovare i
sacramenti, puoi cantare alleluia e rispondere amen, puoi possedere il vangelo,
puoi avere e predicare la fede nel nome di Dio Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo, ma in nessun luogo, se non nella Chiesa Cattolica, puoi trovare
la salvezza.
Di fronte al pullulare di settarismi
scismatici ed eterodossi la Chiesa Cattolica si trova spinta ad affermare la
sua cattolicità. Questa cattolicità, nel protendersi missionario sia verso il
cristianesimo deviante sia verso il paganesimo, viene interpretata in termini
dinamici ed attivi: in tutte le dimensioni ed espressioni del suo esistere la
Chiesa si avverte, si pone, si esprime non come congregatio congregata, ma come
congregatio congregantesi, non come comunione realizzata, ma realizzantesi, non
come convocazione conclusa ma ancora in atto.
Il contesto del IV secolo comportò per i
cristiani la grande novità della libertà e del favore del potere imperiale. Ne
conseguì che il cristianesimo trasformò la sua diffidenza in una esigenza di
acculturazione e inculturazione.
Trovo molto acuto quel che a proposito
dell’acculturazione ha scritto W. SHNEEMELCHER, Kirche und Staat im 4. Jahehundert : Bonner Akademische Reden,
37, Bonn 1970, pp 135-136: “La Chiesa di Gesù Cristo è secondo la sua
concezione il luogo in cui il Vangelo, cioè l’annunzio di salvezza, viene
proclamato e in ragione di questa proclamazione (che consiste non solo in
prediche e lezioni, ma anche nella liturgia, nella cura animarum e nell’azione
di carità) si riuniscono uomini, che vengono afferrati e scossi dall’annuncio
di salvezza. Questi uomini si sforzano di corrispondere alle esigenze del
vangelo nella loro vita in questo mondo, in un’alleanza con la Parola
non-mondana di Dio; si tratta d’altra parte di uomini, che vivono in questo
mondo e conducono questa vita sotto la nuova esigenza e cercano di darle forma
sempre più nuova. Il “come” di questa realizzazione, di questo dare forma al
Vangelo in questo mondo, è dato dalle forme e possibilità umane preesistenti.
Come l’uomo può pensare solo secondo le sue possibilità di pensiero e le sue
categorie intellettive, e come può
esprimere i suoi pensieri solo secondo i concetti e la lingua, che gli sono
stati dati, così può strutturare forme di vita solo in accostamento e sviluppo
di dati modelli, formatisi nel corso della storia e sotto l’influsso di fattori
antecedenti. Però la voce della Chiesa non è caratterizzata solo da questo
processo di incarnazione nel mondo, di assimilazione del mondo e di assunzione
di nozioni precedenti, idee, forme di società, è caratterizzata anche dalla
permanente proclamazione dell’annunzio di salvezza, che ha trovato la sua
espressione basilare nel Nuovo Testamento.
Con ciò è posto alla Chiesa un limite, che essa non può superare nel suo
camminare nel mondo… Il tutto può essere sintetizzato in una frase: la Chiesa
dalla sua nascita vive nella tensione tra “secolarizzazione” e
“desecolarizzazione””.
La Chiesa di Cappadocia si rivelò in ciò
esemplare, volendo attuare il programma, che era stato perseguito nel secolo
precedente da un vescovo missionario, Gregorio Taumaturgo, che dal suo maestro
Origene aveva appreso questo metodo: tendere alla dottrina cristiana come fine,
servendosi come mezzi di quelle cose che la filosofia greca offre come preludio
al cristianesimo (PG 11,88 AB).
Il cappadoce Gregorio di Nissa ci ha
descritto l’azione missionaria di Gregorio Taumaturgo così: “Ravvivò in tutte
le chiese lo zelo religioso, istituendo feste in commemorazione di coloro che
avevano combattuto per la fede. In questo poi si mostrò la sua grande sapienza,
che volendo egli portare a nuova vita tutti gli uomini del suo tempo e tenerli
stretti alle redini della fede, da buon conoscitore della natura umana qual
era, sentì la necessità di alleggerire un po’ il giogo della fede, consentendo
ai fedeli di ricrearsi con manifestazioni di gioia. Capì che l’attaccamento
agli idoli da parte della moltitudine ignorante era per il diletto sensibile
che vi trovava, pertanto volendo ottenere l’essenziale, volendo cioè ottenere
che gli uomini si staccassero dalla ficta religio e si volgessero a Dio,
permise alla gente di far festa in occasione della commemorazione dei santi
martiri” (PG 46,754).
E a questo stile si attenne la Chiesa
cappadoce nella sua azione missionaria.
Una conseguenza di questa acculturazione della
fede fu che si venne a creare una sovrapposizione di cristianesimo e romanità.
Ambrogio infatti giunse ad affermare: “La Chiesa è la vera Roma”. Questa
sovrapposizione di cristianesimo e romanità non sempre fu utilizzata con
equilibrio, spesso infatti – anche lo stesso sant’Ambrogio lo fece – portò a
sostenere l’identità eretico-barbaro: il barbaro, in quanto non romano, è
senz’altro un eretico ed un eretico, in
quanto non segue la retta fede cristiana, è senz’altro un barbaro, un non
romano. Pertanto come nella chiesa primitiva si corse il rischio di rinchiudere
il cristianesimo entro il giudaismo, così in questo periodo la tentazione fu di
identificare il cristianesimo con la cultura ellenistico-romana.
Ad ogni modo si ebbe un cristianesimo che
con serenità crescente mutuava dalla cultura ellenistico-romana il lessico, i
costumi, i riti liturgici, i concetti filosofici per l’elaborazione dottrinale
della sua fede.
In questa prospettiva è possibile
sostenere che la stessa eresia ariana fu un tentativo mal riuscito di
inculturazione, perché si compì con il tradimento di un dato irrinunciabile
della fede cristiana.
Soggetto dell’attività missionaria era la
chiesa locale: questo dato dovrebbe spingere ad accostare l’attività
missionaria prima di tutto in modalità analitica e poi solo in un secondo
momento in modalità sintetica. Nel IV secolo infatti la vita cristiana si
svolgeva in aree geografiche e socio-culturali abbastanza concluse in se
stesse, senza molti rapporti fra loro e questo determinò iniziative missionarie
molto diversificate da parte delle varie chiese locali.
Il carattere istituzionale e introduttorio
del nostro corso ci impedisce di impegnarci nell’analisi delle varie situazioni
locali.
Le chiese locali, in generale, a mano a
mano che si inoltrarono in questo IV secolo dettero vita a un innegabile mutamento
di impostazione rispetto alle chiese locali precostantiniane. Nell’epoca
precostantiniana, pur nella innegabile diversità dei ruoli e delle funzioni, le
comunità cristiane locali tendevano a vivere i vari aspetti della loro vita
come unità, come communio, come soggetto totale, nei tempi successivi alla
svolta costantiniana invece le comunità cristiane locali fecero balzare sempre
più in primo piano la varia strutturazione interna,la diversità dei ruoli e
delle funzioni, la gerarchizzazione delle competenze. Ciò ebbe chiara
dimostrazione nel ruolo che il vescovo assunse non solo nell’azione
missionaria, ma anche in tutti gli aspetti della vita ecclesiale: il ruolo del
vescovo divenne primario, fondamentale, imprescindibile: direzione,
coordinamento, controllo dell’evangelizzazione divennero prerogativa del
vescovo.
Si comprende quindi come nel IV secolo si
ebbe efficace e rilevante espansione cristiana laddove c’erano vescovi dotati
di grande personalità e da rilevante capacità di governo pastorale. Infatti,
senza san Basilio non si comprenderebbe l’incidenza missionaria della
Cappadocia; senza sant’Antonio non avremmo avuto la cristianizzazione
dell’Egitto, senza san Martino e Victricio di Rouen la Gallia non avrebbe
vissuto una grande stagione di cristianizzazione. Nell’Italia Annonaria furono
vescovi come Mirocle, Eustorgio, Ambrogio i grandi artefici della propagazione
e dell’organizzazione del cristianesimo.
Al vescovo insieme con il suo clero
competeva la cura del momento culminante della conversione: il catecumenato:
infatti nel corso del IV secolo si affermò la tendenza a riservare sempre più
in esclusiva al clero il ruolo docente.
Nel IV secolo senz’altro il catecumenato
raggiunse il sui apogeo.
Il catecumenato si caratterizzava per un
complesso di istruzioni e di pratiche, mediante le quali gli adulti
non-battezzati venivano ufficialmente introdotti nella vita cristiana. I
bambini pertanto fino al VI secolo non furono sottoposti al cammino
catecumenale: i bambini ricevevano una primitiva iniziazione cristiana alla
fede e alla vita cristiana nella realtà familiare, se cristiana; nel IV secolo
i bambini però non concludevano questo cammino domestico con il battesimo, che era
di solito riservato all’età adulta.
È vero però che già
nel III secolo si praticava talora e da qualche parte soltanto il
pedebattesimo, ma fu nel V secolo che questa prassi si impose: nel corso del IV
secolo invece fu molto discussa e praticata solo in maniera eccezionale.
Sant’Agostino in più opere ebbe un ruolo rilevante e decisivo a proposito del
pedebattesimo:
·
Ep. 166, 26 (CSEL 44, 578);
·
De peccato rum meriti set remissione et de baptismo
parvuolorum (CSEL 60,3):
·
De libero arbitrio, III libro (CSEL 74, 144):
·
De Baptismo (CSEL 53) IV, 23 e 24:
·
Contra duas epistolas Pelagianorum (CSEL 60) I, 22, 40.
Come si articolava il catecumenato? Possiamo
distinguere tre momenti fondamentali.
Primo
momento: il momento preparatorio: dapprima si proponeva una
istruzione sommaria dei “rudes”, insegnando loro i contenuti e le esigenze
della vita cristiana: l’intento era di offrire la possibilità di scegliere con
una certa cognizione di causa (cfr Agostino, De catechizandis rudibus liber unus, PL 40). In seguito a
ciò, si procedeva all’esame di colui che chiedeva di diventare cristiano: la
sua vita morale, la sua professione sociale, le motivazioni della conversione.
Nel caso del peccatore pubblico o dell’adultero si esigeva da lui il
cambiamento di vita; se praticava un professione, che avesse avuto a che fare
con i riti pagani o con i giochi pubblici, gli si imponeva l’abbandono della
professione.
Secondo
momento: lo stadio dell’ammissione al catecumenato: questa
ammissione avveniva in tre riti:
·
Insufflazione accompagnata con formule di esorcismo;
·
Signatio con il segno della croce e imposizione delle mani;
·
Degustazione del sale esorcizzato (solo in Occidente).
A questo punto il catecumeno si trovava
inserito nella assemblea cristiana con un suo statuto giuridico particolare e
con un suo titolo particolare: il titolo di auditor o audiens.
In quanto auditor si distingueva sia dai pagani, sia dai giudei e non doveva
abbandonare l’assemblea liturgica dopo le letture e l’omelia, come invece
facevano pagani e giudei: per l’uscita degli auditores era previsto un rito di
congedo, in cui il vescovo imponeva loro le mani e pregava per loro.
Questo stadio dell’ammissione durava
variamente a seconda delle regioni: per la Spagna il concilio di Elvira (305
circa) stabilì la durata di due anni; a Roma e in Oriente la durata era di tre
anni. Poi a seconda delle disposizioni del catecumeno si stabiliva
diversamente: ad esempio il catecumeno colpevole di adulterio o di aborto
rimaneva nello stadio di auditor fino alla morte.
Durante questo periodo il catecumeno era
affidato in maniera particolare al catechista, che in genere era un membro del
clero (diacono o presbitero): il catechista doveva integrare le istruzioni
impartite durante la liturgia della Parola con istruzioni speciali, vigilava
sulla condotta del catecumeno, verificandone la conversione e il progresso
morale.
Terzo
momento: lo stadio della promozione al rango di competentes,
in greco φοτζόμενοι (illuminandi). Ciò si verificava in genere
alcune settimane prima della Pasqua in vista del Battesimo oramai prossimo. Si
imponevano due date per questo momento liturgico: o l’Epifania o la prima
domenica di Quaresima. La procedura comprendeva:
·
Un esame sul periodo vissuto come auditor;
·
Imposizione del nome;
·
Iscrizione nei registri della chiesa.
In questo periodo era il vescovo che
assumeva la responsabilità diretta dei catecumeni.
a.
Sotto il profilo ascetico-morale si esigeva dai catecumeni
una serie di digiuni e di mortificazioni.
b.
Sotto il profilo della formazione dottrinale
quotidianamente il vescovo teneva una lectio catechetica, mirante alla spiegazione
della Scrittura, del Simbolo della fede e del Pater noster. In patristica
troviamo le omelie catechetiche di san Cirillo di Gerusalemme, di
sant’Ambrogio, di san Giovanni Crisostomo, di Teodoro di Mopsuestia,
c.
Sotto il profilo liturgico il vescovo praticava
quotidianamente degli esorcismi.
d.
La liturgia pre-battesimale prevedeva anche gli scrutinia,
celebrazioni liturgiche che miravano a purificare l’anima mediante unzioni, promessa
di rinunciare a Satana, esorcismi.
e.
Alla IV o VI domenica di Quaresima si celebrava la Traditio
Symboli e la Traditio del Pater noster, alle quali seguiva la redditio, cioè la
recita pubblica. In alcune comunità si praticava anche la Traditio
Evangeliorum.
Nel corso del III secolo per la
celebrazione del Battesimo si erano imposte due date: Pasqua e Pentecoste. Nel
corso del IV secolo i papi cercarono di opporsi ad alcuni costumi locali, che
ponevano la celebrazione del Battesimo anche in altre date: Natale, Epifania,
feste degli Apostoli o dei martiri.
Con il diffondersi del battesimo dei
bambini sparì sempre più la celebrazione comunitaria del Battesimo ed i riti
del catecumenato divennero parte integrante del rito battesimale.
Il rito battesimale si articolava in
questi momenti celebrativi:
¾ Ingresso nel
Battistero (come paradiso)
¾ Denudatio vestium
(abbandono dell’uomo vecchio)
¾ Unzione per il
combattimento spirituale
¾ Immersione
(partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo)
¾ Veste bianca
(l’uomo nuovo)
¾ Confermazione
¾ Processione verso
l’assemblea eucaristica
¾ Presentazione dei
doni
¾ Eucaristia.
Durante la settimana successiva i neofiti
o neo-illuminati partecipavano a una catechesi mistagogica, cioè un ciclo di
istruzioni sui tre sacramenti ricevuti.
Ce ne sono pervenute opere preziose:
¾ San Cirillo di
Gerusalemme: 5 catechesi mistagogiche: 2 sul Battesimo, 1 sulla Confermazione e
2 sull’Eucaristia;
¾ Teodoro di
Mopsuestia: 5 omelie catechetiche: 3 sul Battesimo e 2 sull’Eucaristia;
¾ Sant’Ambrogio: De
Mysteriis e De Sacramentis.
Cirillo di Gerusalemme ci aiuta a capire
il perché di queste istruzioni post factum. Adduce prima di tutto una ragione
psicologica: una realtà è più afferrabile, quando è divenuta oggetto di
esperienza. Suggerisce anche una ragione teologica: solo possedendo i misteri
della fede e in forza della trasformazione da essi operata si diventa capaci di
percepirne il contenuto. Del resto la “disciplina dell’arcano” spingeva a
mantenere i sacramenti avvolti nel mistero soprattutto nei confronti dei non
iniziati.
Con la pratica del catecumenato i vescovi
si occupavano dei convertiti, come si occupavano invece di coloro che ancora
non erano convertiti?
Taluni si dedicarono ad una diretta
attività missionaria: si ricordi san Martino, che si aggirava per le campagne,
distruggendo i luoghi di culto pagani per dimostrare l’impotenza degli dei.
Altri raggiunsero i pagani con scritti: ad
esempio sant’Ambrogio, che indirizzò a Fritigilde, principessa dei Marcomanni, un
catechismo in forma epistolare per rispondere a delle domande, che la
principessa gli aveva posto.
Per tutti i vescovi il modo abituale per
promuovere le conversioni era la predicazione: se ne servirono per smantellare
i pregiudizi anticristiani dei pagani e dei giudei, che avevano libero accesso
alla liturgia della Parola; se ne servirono per richiamare la comunità
cristiana al dovere della vita irreprensibile per coerenza e integrità morale,
così che la fede cristiana potesse apparire gradevole e desiderabile ai pagani:
il fenomeno dei semicristiani era certamente assai controproducente.
Al di là del dovere della testimonianza
della vita, come si espresse l’impegno missionario dei laici? È molto difficile costruire un quadro completo di questo impegno laicale,
perché, mancando di un carattere e di una strutturazione ufficiali e
realizzandosi secondo la modalità spontaneistica del rapporto da persona a
persona, ha lasciato dietro di sé una traccia molto esile, fatta di allusioni
fugaci e di labili indizi, più che di esplicite testimonianze.
In questa
prospettiva si intuisce l’opera preziosa svolta da esponenti di quel ceto medio
inferiore, dal quale il cristianesimo trasse il suo massimo incremento:
commercianti, viaggiatori, funzionari, soldati, marinai…
Le omelie di
vescovi insigni mostrano di desiderare l’apporto di una categoria particolare,
che invece spesso deluse: i latifondisti. A loro spesso fu mosso il rimprovero
di impegnare i loro beni per la costruzione di impianti termali lussuosi invece
di impegnarli per assicurare ai loro coloni una chiesa ed una istruzione
cristiana (san Giovanni Crisostomo).
Per completare
il quadro meritano menzione due altre categorie di cristiani. Prima di tutto i
“missionari per vocazione”, cioè laici, chierici, monaci che abbandonarono la
loro vita abituale per dedicarsi
esclusivamente all’attività missionaria. Questa iniziativa fu fiorente nel IV
secolo, ma fu lasciata completamente alla iniziativa privata: non si ebbero né
coordinamento né addestramento, non si progettò un piano missionario
prestabilito. In secondo luogo ricordo l’attività missionaria dei monaci, che
si distingueva da quella dei “missionari per vocazione” per il semplice fatto
che per i monaci l’impegno di evangelizzazione non era specifico del loro carisma,
ma era piuttosto una risultanza della loro vita di contemplazione e ascesi, che
esercitava una forte attrattiva intorno. Questa incidenza missionaria dei
monaci fu assai significativa in Egitto, in Siria, dove appunto il monachesimo
vide le sue origini e la sua prima espansione. Anche in questo caso tutto
avvenne senza programmazione ma in maniera spontaneistica.
Quanto ai
risultati bisogna distinguere tra valutazione quantitativa e valutazione
qualitativa.
Sotto il
profilo quantitativo gli sforzi missionari furono certamente ripagati nel corso
del IV secolo.
Sotto il
profilo qualitativo invece il giudizio deve essere più cauto: da un lato si
hanno segni chiari di profonde conversioni, che poi trovarono espressione nella
vivacità liturgica, nella fioritura monastica, nell’attività caritativa e nella
produzione letteraria, che caratterizzarono quell’epoca; dall’altro lato non
mancarono conversioni di convenienza, che non ebbero un seguito di
approfondimento e di crescita, conversioni che mantennero una stretta
convivenza con le antiche usanze pagane, con le superstizioni e le pratiche
occulte.
Ce ne dà
testimonianza per esempio Salviano di Marsiglia, che nel suo De Gubernatione
Dei (anno 440 circa), parla di spettacoli scandalosi, ai quali intervenivano
tranquillamente in gran numero anche i cristiani, in particolare gli spettacoli
circensi “dove il più alto piacere è che vi muoiono degli uomini o, ciò che è
più insopportabile e più amaro della morte stessa, che i ventri delle belve si
riempiano di carni umane e che degli uomini vengano divorati fra l’allegria dei
circostanti e col godimento degli spettatori”. Venivano ancora allevati polli
per trarne presagi né più né meno che ai tempi del paganesimo; vi erano ancora
dappertutto culti di dei pagani ed i cristiani non si rendevano conto che il
parteciparvi, anche senza un’adesione spirituale, costituiva sempre una vera e
propria colpa, un sacrilegio.
Interessante è
anche quel che ci dice san Massimo (fine del IV secolo) in due sue omelie.
Prima omelia:
in occasione di un oscuramento lunare il popolo si era sforzato con clamori e
suoni di aiutare la luna. Il vescovo, sorpreso e preoccupato, si sforzò di
porre in luce quanto fosse insulso e puerile questo tentativo di aiutare Dio
stesso “come se Egli malfermo e debole e senza l’aiuto delle vostre grida non
potesse difendere le luci che Egli aveva creato”. Poi con ironia concludeva che la luna manca
quando il vino è andato alla testa e l’aiutare la luna è idea che nasce tra i
fumi dell’ebbrezza.
Seconda omelia:
dice che nei giorni antecedenti aveva pregato i fedeli di rimuovere dalle loro
case e dalle loro proprietà tutto quanto potesse avere attinenza con il mondo
pagano. Dovette però constatare amaramente che nulla fu fatto. Contro questa
inerzia quindi ricordava: “Chiunque sa che in un bene di sua proprietà si
compiono dei sacrilegi e non li proibisce, in un certo qual modo li ordina;
tacendo o non rimproverando ha dato il consenso a chi immolava agli dei”. Nelle
case si trovavano resti di sacrifici, nei campi altari di legno e statue di
pietra. E poi contadini pieni di vino mostravano che erano stati compiuti riti
in onore di divinità pagane.
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