sabato 24 febbraio 2024

 

L’AZIONE MISSIONARIA DEI CRISTIANI NEL IV SECOLO

 

Gli scrittori dell’epoca non ci hanno tramandato una presentazione specifica dell’attività missionaria del IV secolo. Procederemo quindi sfruttando gli indizi e gli accenni, che affiorano qua e là nella letteratura cristiana.

Questa attività ovviamente è legata al contesto, in cui sviluppa il suo impegno. Nel IV secolo il contesto è caratterizzato da due tipi di aree, a cui rivolgersi per l’azione missionaria: c’è l’area dei pagani e c’è l’area dei cristiani infedeli, o perché appartengono a filoni ereticali o perché appartengono a correnti scismatiche. Queste due diverse aree di azione portano a dare grande rilevanza a due temi missionari: la Chiesa Cattolica come unica arca di salvezza e la cattolicità.

Ce ne danno esempio san Girolamo (Ep. 15 ad Damasum, 2 : ML 22,355) e sant’Agostino (Sermo ad Caesariensis ecclesiae plebem, 6: ML 43, 695).

Vi ai afferma che l’uomo non può trovare salvezza se non nella Chiesa Cattolica: al di fuori della Chiesa Cattolica tutto è possibile, tranne che la salvezza: puoi trovare l’onore, puoi trovare i sacramenti, puoi cantare alleluia e rispondere amen, puoi possedere il vangelo, puoi avere e predicare la fede nel nome di Dio Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, ma in nessun luogo, se non nella Chiesa Cattolica, puoi trovare la salvezza.

Di fronte al pullulare di settarismi scismatici ed eterodossi la Chiesa Cattolica si trova spinta ad affermare la sua cattolicità. Questa cattolicità, nel protendersi missionario sia verso il cristianesimo deviante sia verso il paganesimo, viene interpretata in termini dinamici ed attivi: in tutte le dimensioni ed espressioni del suo esistere la Chiesa si avverte, si pone, si esprime non come congregatio congregata, ma come congregatio congregantesi, non come comunione realizzata, ma realizzantesi, non come convocazione conclusa ma ancora in atto.

Il contesto del IV secolo comportò per i cristiani la grande novità della libertà e del favore del potere imperiale. Ne conseguì che il cristianesimo trasformò la sua diffidenza in una esigenza di acculturazione e inculturazione.

Trovo molto acuto quel che a proposito dell’acculturazione ha scritto W. SHNEEMELCHER, Kirche und Staat im 4. Jahehundert : Bonner Akademische Reden, 37, Bonn 1970, pp 135-136: “La Chiesa di Gesù Cristo è secondo la sua concezione il luogo in cui il Vangelo, cioè l’annunzio di salvezza, viene proclamato e in ragione di questa proclamazione (che consiste non solo in prediche e lezioni, ma anche nella liturgia, nella cura animarum e nell’azione di carità) si riuniscono uomini, che vengono afferrati e scossi dall’annuncio di salvezza. Questi uomini si sforzano di corrispondere alle esigenze del vangelo nella loro vita in questo mondo, in un’alleanza con la Parola non-mondana di Dio; si tratta d’altra parte di uomini, che vivono in questo mondo e conducono questa vita sotto la nuova esigenza e cercano di darle forma sempre più nuova. Il “come” di questa realizzazione, di questo dare forma al Vangelo in questo mondo, è dato dalle forme e possibilità umane preesistenti. Come l’uomo può pensare solo secondo le sue possibilità di pensiero e le sue categorie intellettive,  e come può esprimere i suoi pensieri solo secondo i concetti e la lingua, che gli sono stati dati, così può strutturare forme di vita solo in accostamento e sviluppo di dati modelli, formatisi nel corso della storia e sotto l’influsso di fattori antecedenti. Però la voce della Chiesa non è caratterizzata solo da questo processo di incarnazione nel mondo, di assimilazione del mondo e di assunzione di nozioni precedenti, idee, forme di società, è caratterizzata anche dalla permanente proclamazione dell’annunzio di salvezza, che ha trovato la sua espressione basilare nel Nuovo Testamento.  Con ciò è posto alla Chiesa un limite, che essa non può superare nel suo camminare nel mondo… Il tutto può essere sintetizzato in una frase: la Chiesa dalla sua nascita vive nella tensione tra “secolarizzazione” e “desecolarizzazione””.

La Chiesa di Cappadocia si rivelò in ciò esemplare, volendo attuare il programma, che era stato perseguito nel secolo precedente da un vescovo missionario, Gregorio Taumaturgo, che dal suo maestro Origene aveva appreso questo metodo: tendere alla dottrina cristiana come fine, servendosi come mezzi di quelle cose che la filosofia greca offre come preludio al cristianesimo (PG 11,88  AB).

Il cappadoce Gregorio di Nissa ci ha descritto l’azione missionaria di Gregorio Taumaturgo così: “Ravvivò in tutte le chiese lo zelo religioso, istituendo feste in commemorazione di coloro che avevano combattuto per la fede. In questo poi si mostrò la sua grande sapienza, che volendo egli portare a nuova vita tutti gli uomini del suo tempo e tenerli stretti alle redini della fede, da buon conoscitore della natura umana qual era, sentì la necessità di alleggerire un po’ il giogo della fede, consentendo ai fedeli di ricrearsi con manifestazioni di gioia. Capì che l’attaccamento agli idoli da parte della moltitudine ignorante era per il diletto sensibile che vi trovava, pertanto volendo ottenere l’essenziale, volendo cioè ottenere che gli uomini si staccassero dalla ficta religio e si volgessero a Dio, permise alla gente di far festa in occasione della commemorazione dei santi martiri” (PG 46,754).

E a questo stile si attenne la Chiesa cappadoce nella sua azione missionaria.

Una conseguenza di questa acculturazione della fede fu che si venne a creare una sovrapposizione di cristianesimo e romanità. Ambrogio infatti giunse ad affermare: “La Chiesa è la vera Roma”. Questa sovrapposizione di cristianesimo e romanità non sempre fu utilizzata con equilibrio, spesso infatti – anche lo stesso sant’Ambrogio lo fece – portò a sostenere l’identità eretico-barbaro: il barbaro, in quanto non romano, è senz’altro un  eretico ed un eretico, in quanto non segue la retta fede cristiana, è senz’altro un barbaro, un non romano. Pertanto come nella chiesa primitiva si corse il rischio di rinchiudere il cristianesimo entro il giudaismo, così in questo periodo la tentazione fu di identificare il cristianesimo con la cultura ellenistico-romana.

Ad ogni modo si ebbe un cristianesimo che con serenità crescente mutuava dalla cultura ellenistico-romana il lessico, i costumi, i riti liturgici, i concetti filosofici per l’elaborazione dottrinale della sua fede.

In questa prospettiva è possibile sostenere che la stessa eresia ariana fu un tentativo mal riuscito di inculturazione, perché si compì con il tradimento di un dato irrinunciabile della fede cristiana.

Soggetto dell’attività missionaria era la chiesa locale: questo dato dovrebbe spingere ad accostare l’attività missionaria prima di tutto in modalità analitica e poi solo in un secondo momento in modalità sintetica. Nel IV secolo infatti la vita cristiana si svolgeva in aree geografiche e socio-culturali abbastanza concluse in se stesse, senza molti rapporti fra loro e questo determinò iniziative missionarie molto diversificate da parte delle varie chiese locali.

Il carattere istituzionale e introduttorio del nostro corso ci impedisce di impegnarci nell’analisi delle varie situazioni locali.

Le chiese locali, in generale, a mano a mano che si inoltrarono in questo IV secolo dettero vita a un innegabile mutamento di impostazione rispetto alle chiese locali precostantiniane. Nell’epoca precostantiniana, pur nella innegabile diversità dei ruoli e delle funzioni, le comunità cristiane locali tendevano a vivere i vari aspetti della loro vita come unità, come communio, come soggetto totale, nei tempi successivi alla svolta costantiniana invece le comunità cristiane locali fecero balzare sempre più in primo piano la varia strutturazione interna,la diversità dei ruoli e delle funzioni, la gerarchizzazione delle competenze. Ciò ebbe chiara dimostrazione nel ruolo che il vescovo assunse non solo nell’azione missionaria, ma anche in tutti gli aspetti della vita ecclesiale: il ruolo del vescovo divenne primario, fondamentale, imprescindibile: direzione, coordinamento, controllo dell’evangelizzazione divennero prerogativa del vescovo.

Si comprende quindi come nel IV secolo si ebbe efficace e rilevante espansione cristiana laddove c’erano vescovi dotati di grande personalità e da rilevante capacità di governo pastorale. Infatti, senza san Basilio non si comprenderebbe l’incidenza missionaria della Cappadocia; senza sant’Antonio non avremmo avuto la cristianizzazione dell’Egitto, senza san Martino e Victricio di Rouen la Gallia non avrebbe vissuto una grande stagione di cristianizzazione. Nell’Italia Annonaria furono vescovi come Mirocle, Eustorgio, Ambrogio i grandi artefici della propagazione e dell’organizzazione del cristianesimo.

Al vescovo insieme con il suo clero competeva la cura del momento culminante della conversione: il catecumenato: infatti nel corso del IV secolo si affermò la tendenza a riservare sempre più in esclusiva al clero il ruolo docente.

Nel IV secolo senz’altro il catecumenato raggiunse il sui apogeo.

Il catecumenato si caratterizzava per un complesso di istruzioni e di pratiche, mediante le quali gli adulti non-battezzati venivano ufficialmente introdotti nella vita cristiana. I bambini pertanto fino al VI secolo non furono sottoposti al cammino catecumenale: i bambini ricevevano una primitiva iniziazione cristiana alla fede e alla vita cristiana nella realtà familiare, se cristiana; nel IV secolo i bambini però non concludevano questo cammino domestico con il battesimo, che era di solito riservato all’età adulta.

È vero però che già nel III secolo si praticava talora e da qualche parte soltanto il pedebattesimo, ma fu nel V secolo che questa prassi si impose: nel corso del IV secolo invece fu molto discussa e praticata solo in maniera eccezionale. Sant’Agostino in più opere ebbe un ruolo rilevante e decisivo a proposito del pedebattesimo:

·         Ep. 166, 26 (CSEL 44, 578);

·         De peccato rum meriti set remissione et de baptismo parvuolorum (CSEL 60,3):

·         De libero arbitrio, III libro (CSEL 74, 144):

·         De Baptismo (CSEL 53) IV, 23 e 24:

·         Contra duas epistolas Pelagianorum (CSEL 60) I, 22, 40.

Come si articolava il catecumenato? Possiamo distinguere tre momenti fondamentali.

Primo momento: il momento preparatorio: dapprima si proponeva una istruzione sommaria dei “rudes”, insegnando loro i contenuti e le esigenze della vita cristiana: l’intento era di offrire la possibilità di scegliere con una certa cognizione di causa (cfr Agostino, De catechizandis rudibus liber unus, PL 40). In seguito a ciò, si procedeva all’esame di colui che chiedeva di diventare cristiano: la sua vita morale, la sua professione sociale, le motivazioni della conversione. Nel caso del peccatore pubblico o dell’adultero si esigeva da lui il cambiamento di vita; se praticava un professione, che avesse avuto a che fare con i riti pagani o con i giochi pubblici, gli si imponeva l’abbandono della professione.

Secondo momento: lo stadio dell’ammissione al catecumenato: questa ammissione avveniva in tre riti:

·         Insufflazione accompagnata con formule di esorcismo;

·         Signatio con il segno della croce e imposizione delle mani;

·         Degustazione del sale esorcizzato (solo in Occidente).

A questo punto il catecumeno si trovava inserito nella assemblea cristiana con un suo statuto giuridico particolare e con un suo titolo particolare: il titolo di auditor o audiens. In quanto auditor si distingueva sia dai pagani, sia dai giudei e non doveva abbandonare l’assemblea liturgica dopo le letture e l’omelia, come invece facevano pagani e giudei: per l’uscita degli auditores era previsto un rito di congedo, in cui il vescovo imponeva loro le mani e pregava per loro.

Questo stadio dell’ammissione durava variamente a seconda delle regioni: per la Spagna il concilio di Elvira (305 circa) stabilì la durata di due anni; a Roma e in Oriente la durata era di tre anni. Poi a seconda delle disposizioni del catecumeno si stabiliva diversamente: ad esempio il catecumeno colpevole di adulterio o di aborto rimaneva nello stadio di auditor fino alla morte.

Durante questo periodo il catecumeno era affidato in maniera particolare al catechista, che in genere era un membro del clero (diacono o presbitero): il catechista doveva integrare le istruzioni impartite durante la liturgia della Parola con istruzioni speciali, vigilava sulla condotta del catecumeno, verificandone la conversione e il progresso morale.

Terzo momento: lo stadio della promozione al rango di competentes, in greco φοτζόμενοι (illuminandi). Ciò si verificava in genere alcune settimane prima della Pasqua in vista del Battesimo oramai prossimo. Si imponevano due date per questo momento liturgico: o l’Epifania o la prima domenica di Quaresima. La procedura comprendeva:

·         Un esame sul periodo vissuto come auditor;

·         Imposizione del nome;

·         Iscrizione nei registri della chiesa.

In questo periodo era il vescovo che assumeva la responsabilità diretta dei catecumeni.

a.       Sotto il profilo ascetico-morale si esigeva dai catecumeni una serie di digiuni e di mortificazioni.

b.      Sotto il profilo della formazione dottrinale quotidianamente il vescovo teneva una lectio catechetica, mirante alla spiegazione della Scrittura, del Simbolo della fede e del Pater noster. In patristica troviamo le omelie catechetiche di san Cirillo di Gerusalemme, di sant’Ambrogio, di san Giovanni Crisostomo, di Teodoro di Mopsuestia,

c.       Sotto il profilo liturgico il vescovo praticava quotidianamente degli esorcismi.

d.      La liturgia pre-battesimale prevedeva anche gli scrutinia, celebrazioni liturgiche che miravano a purificare l’anima mediante unzioni, promessa di rinunciare a Satana, esorcismi.

e.      Alla IV o VI domenica di Quaresima si celebrava la Traditio Symboli e la Traditio del Pater noster, alle quali seguiva la redditio, cioè la recita pubblica. In alcune comunità si praticava anche la Traditio Evangeliorum.

Nel corso del III secolo per la celebrazione del Battesimo si erano imposte due date: Pasqua e Pentecoste. Nel corso del IV secolo i papi cercarono di opporsi ad alcuni costumi locali, che ponevano la celebrazione del Battesimo anche in altre date: Natale, Epifania, feste degli Apostoli o dei martiri.

Con il diffondersi del battesimo dei bambini sparì sempre più la celebrazione comunitaria del Battesimo ed i riti del catecumenato divennero parte integrante del rito battesimale.

Il rito battesimale si articolava in questi momenti celebrativi:

¾     Ingresso nel Battistero (come paradiso)

¾     Denudatio vestium (abbandono dell’uomo vecchio)

¾     Unzione per il combattimento spirituale

¾     Immersione (partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo)

¾     Veste bianca (l’uomo nuovo)

¾     Confermazione

¾     Processione verso l’assemblea eucaristica

¾     Presentazione dei doni

¾     Eucaristia.

Durante la settimana successiva i neofiti o neo-illuminati partecipavano a una catechesi mistagogica, cioè un ciclo di istruzioni sui tre sacramenti ricevuti.

Ce ne sono pervenute opere preziose:

¾     San Cirillo di Gerusalemme: 5 catechesi mistagogiche: 2 sul Battesimo, 1 sulla Confermazione e 2 sull’Eucaristia;

¾     Teodoro di Mopsuestia: 5 omelie catechetiche: 3 sul Battesimo e 2 sull’Eucaristia;

¾     Sant’Ambrogio: De Mysteriis e De Sacramentis.

Cirillo di Gerusalemme ci aiuta a capire il perché di queste istruzioni post factum. Adduce prima di tutto una ragione psicologica: una realtà è più afferrabile, quando è divenuta oggetto di esperienza. Suggerisce anche una ragione teologica: solo possedendo i misteri della fede e in forza della trasformazione da essi operata si diventa capaci di percepirne il contenuto. Del resto la “disciplina dell’arcano” spingeva a mantenere i sacramenti avvolti nel mistero soprattutto nei confronti dei non iniziati.

Con la pratica del catecumenato i vescovi si occupavano dei convertiti, come si occupavano invece di coloro che ancora non erano convertiti?

Taluni si dedicarono ad una diretta attività missionaria: si ricordi san Martino, che si aggirava per le campagne, distruggendo i luoghi di culto pagani per dimostrare l’impotenza degli dei.

Altri raggiunsero i pagani con scritti: ad esempio sant’Ambrogio, che indirizzò a Fritigilde, principessa dei Marcomanni, un catechismo in forma epistolare per rispondere a delle domande, che la principessa gli aveva posto.

Per tutti i vescovi il modo abituale per promuovere le conversioni era la predicazione: se ne servirono per smantellare i pregiudizi anticristiani dei pagani e dei giudei, che avevano libero accesso alla liturgia della Parola; se ne servirono per richiamare la comunità cristiana al dovere della vita irreprensibile per coerenza e integrità morale, così che la fede cristiana potesse apparire gradevole e desiderabile ai pagani: il fenomeno dei semicristiani era certamente assai controproducente.

Al di là del dovere della testimonianza della vita, come si espresse l’impegno missionario dei laici? È molto difficile costruire un quadro completo di questo impegno laicale, perché, mancando di un carattere e di una strutturazione ufficiali e realizzandosi secondo la modalità spontaneistica del rapporto da persona a persona, ha lasciato dietro di sé una traccia molto esile, fatta di allusioni fugaci e di labili indizi, più che di esplicite testimonianze.

In questa prospettiva si intuisce l’opera preziosa svolta da esponenti di quel ceto medio inferiore, dal quale il cristianesimo trasse il suo massimo incremento: commercianti, viaggiatori, funzionari, soldati, marinai…

Le omelie di vescovi insigni mostrano di desiderare l’apporto di una categoria particolare, che invece spesso deluse: i latifondisti. A loro spesso fu mosso il rimprovero di impegnare i loro beni per la costruzione di impianti termali lussuosi invece di impegnarli per assicurare ai loro coloni una chiesa ed una istruzione cristiana (san Giovanni Crisostomo).

Per completare il quadro meritano menzione due altre categorie di cristiani. Prima di tutto i “missionari per vocazione”, cioè laici, chierici, monaci che abbandonarono la loro vita abituale  per dedicarsi esclusivamente all’attività missionaria. Questa iniziativa fu fiorente nel IV secolo, ma fu lasciata completamente alla iniziativa privata: non si ebbero né coordinamento né addestramento, non si progettò un piano missionario prestabilito. In secondo luogo ricordo l’attività missionaria dei monaci, che si distingueva da quella dei “missionari per vocazione” per il semplice fatto che per i monaci l’impegno di evangelizzazione non era specifico del loro carisma, ma era piuttosto una risultanza della loro vita di contemplazione e ascesi, che esercitava una forte attrattiva intorno. Questa incidenza missionaria dei monaci fu assai significativa in Egitto, in Siria, dove appunto il monachesimo vide le sue origini e la sua prima espansione. Anche in questo caso tutto avvenne senza programmazione ma in maniera spontaneistica.

Quanto ai risultati bisogna distinguere tra valutazione quantitativa e valutazione qualitativa.

Sotto il profilo quantitativo gli sforzi missionari furono certamente ripagati nel corso del IV secolo.

Sotto il profilo qualitativo invece il giudizio deve essere più cauto: da un lato si hanno segni chiari di profonde conversioni, che poi trovarono espressione nella vivacità liturgica, nella fioritura monastica, nell’attività caritativa e nella produzione letteraria, che caratterizzarono quell’epoca; dall’altro lato non mancarono conversioni di convenienza, che non ebbero un seguito di approfondimento e di crescita, conversioni che mantennero una stretta convivenza con le antiche usanze pagane, con le superstizioni e le pratiche occulte.

Ce ne dà testimonianza per esempio Salviano di Marsiglia, che nel suo De Gubernatione Dei (anno 440 circa), parla di spettacoli scandalosi, ai quali intervenivano tranquillamente in gran numero anche i cristiani, in particolare gli spettacoli circensi “dove il più alto piacere è che vi muoiono degli uomini o, ciò che è più insopportabile e più amaro della morte stessa, che i ventri delle belve si riempiano di carni umane e che degli uomini vengano divorati fra l’allegria dei circostanti e col godimento degli spettatori”. Venivano ancora allevati polli per trarne presagi né più né meno che ai tempi del paganesimo; vi erano ancora dappertutto culti di dei pagani ed i cristiani non si rendevano conto che il parteciparvi, anche senza un’adesione spirituale, costituiva sempre una vera e propria colpa, un sacrilegio.

Interessante è anche quel che ci dice san Massimo (fine del IV secolo) in due sue omelie.

Prima omelia: in occasione di un oscuramento lunare il popolo si era sforzato con clamori e suoni di aiutare la luna. Il vescovo, sorpreso e preoccupato, si sforzò di porre in luce quanto fosse insulso e puerile questo tentativo di aiutare Dio stesso “come se Egli malfermo e debole e senza l’aiuto delle vostre grida non potesse difendere le luci che Egli aveva creato”.  Poi con ironia concludeva che la luna manca quando il vino è andato alla testa e l’aiutare la luna è idea che nasce tra i fumi dell’ebbrezza.

Seconda omelia: dice che nei giorni antecedenti aveva pregato i fedeli di rimuovere dalle loro case e dalle loro proprietà tutto quanto potesse avere attinenza con il mondo pagano. Dovette però constatare amaramente che nulla fu fatto. Contro questa inerzia quindi ricordava: “Chiunque sa che in un bene di sua proprietà si compiono dei sacrilegi e non li proibisce, in un certo qual modo li ordina; tacendo o non rimproverando ha dato il consenso a chi immolava agli dei”. Nelle case si trovavano resti di sacrifici, nei campi altari di legno e statue di pietra. E poi contadini pieni di vino mostravano che erano stati compiuti riti in onore di divinità pagane.

 

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