sabato 24 febbraio 2024

 

L’AZIONE MISSIONARIA DEI CRISTIANI NEL IV SECOLO

 

Gli scrittori dell’epoca non ci hanno tramandato una presentazione specifica dell’attività missionaria del IV secolo. Procederemo quindi sfruttando gli indizi e gli accenni, che affiorano qua e là nella letteratura cristiana.

Questa attività ovviamente è legata al contesto, in cui sviluppa il suo impegno. Nel IV secolo il contesto è caratterizzato da due tipi di aree, a cui rivolgersi per l’azione missionaria: c’è l’area dei pagani e c’è l’area dei cristiani infedeli, o perché appartengono a filoni ereticali o perché appartengono a correnti scismatiche. Queste due diverse aree di azione portano a dare grande rilevanza a due temi missionari: la Chiesa Cattolica come unica arca di salvezza e la cattolicità.

Ce ne danno esempio san Girolamo (Ep. 15 ad Damasum, 2 : ML 22,355) e sant’Agostino (Sermo ad Caesariensis ecclesiae plebem, 6: ML 43, 695).

Vi ai afferma che l’uomo non può trovare salvezza se non nella Chiesa Cattolica: al di fuori della Chiesa Cattolica tutto è possibile, tranne che la salvezza: puoi trovare l’onore, puoi trovare i sacramenti, puoi cantare alleluia e rispondere amen, puoi possedere il vangelo, puoi avere e predicare la fede nel nome di Dio Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, ma in nessun luogo, se non nella Chiesa Cattolica, puoi trovare la salvezza.

Di fronte al pullulare di settarismi scismatici ed eterodossi la Chiesa Cattolica si trova spinta ad affermare la sua cattolicità. Questa cattolicità, nel protendersi missionario sia verso il cristianesimo deviante sia verso il paganesimo, viene interpretata in termini dinamici ed attivi: in tutte le dimensioni ed espressioni del suo esistere la Chiesa si avverte, si pone, si esprime non come congregatio congregata, ma come congregatio congregantesi, non come comunione realizzata, ma realizzantesi, non come convocazione conclusa ma ancora in atto.

Il contesto del IV secolo comportò per i cristiani la grande novità della libertà e del favore del potere imperiale. Ne conseguì che il cristianesimo trasformò la sua diffidenza in una esigenza di acculturazione e inculturazione.

Trovo molto acuto quel che a proposito dell’acculturazione ha scritto W. SHNEEMELCHER, Kirche und Staat im 4. Jahehundert : Bonner Akademische Reden, 37, Bonn 1970, pp 135-136: “La Chiesa di Gesù Cristo è secondo la sua concezione il luogo in cui il Vangelo, cioè l’annunzio di salvezza, viene proclamato e in ragione di questa proclamazione (che consiste non solo in prediche e lezioni, ma anche nella liturgia, nella cura animarum e nell’azione di carità) si riuniscono uomini, che vengono afferrati e scossi dall’annuncio di salvezza. Questi uomini si sforzano di corrispondere alle esigenze del vangelo nella loro vita in questo mondo, in un’alleanza con la Parola non-mondana di Dio; si tratta d’altra parte di uomini, che vivono in questo mondo e conducono questa vita sotto la nuova esigenza e cercano di darle forma sempre più nuova. Il “come” di questa realizzazione, di questo dare forma al Vangelo in questo mondo, è dato dalle forme e possibilità umane preesistenti. Come l’uomo può pensare solo secondo le sue possibilità di pensiero e le sue categorie intellettive,  e come può esprimere i suoi pensieri solo secondo i concetti e la lingua, che gli sono stati dati, così può strutturare forme di vita solo in accostamento e sviluppo di dati modelli, formatisi nel corso della storia e sotto l’influsso di fattori antecedenti. Però la voce della Chiesa non è caratterizzata solo da questo processo di incarnazione nel mondo, di assimilazione del mondo e di assunzione di nozioni precedenti, idee, forme di società, è caratterizzata anche dalla permanente proclamazione dell’annunzio di salvezza, che ha trovato la sua espressione basilare nel Nuovo Testamento.  Con ciò è posto alla Chiesa un limite, che essa non può superare nel suo camminare nel mondo… Il tutto può essere sintetizzato in una frase: la Chiesa dalla sua nascita vive nella tensione tra “secolarizzazione” e “desecolarizzazione””.

La Chiesa di Cappadocia si rivelò in ciò esemplare, volendo attuare il programma, che era stato perseguito nel secolo precedente da un vescovo missionario, Gregorio Taumaturgo, che dal suo maestro Origene aveva appreso questo metodo: tendere alla dottrina cristiana come fine, servendosi come mezzi di quelle cose che la filosofia greca offre come preludio al cristianesimo (PG 11,88  AB).

Il cappadoce Gregorio di Nissa ci ha descritto l’azione missionaria di Gregorio Taumaturgo così: “Ravvivò in tutte le chiese lo zelo religioso, istituendo feste in commemorazione di coloro che avevano combattuto per la fede. In questo poi si mostrò la sua grande sapienza, che volendo egli portare a nuova vita tutti gli uomini del suo tempo e tenerli stretti alle redini della fede, da buon conoscitore della natura umana qual era, sentì la necessità di alleggerire un po’ il giogo della fede, consentendo ai fedeli di ricrearsi con manifestazioni di gioia. Capì che l’attaccamento agli idoli da parte della moltitudine ignorante era per il diletto sensibile che vi trovava, pertanto volendo ottenere l’essenziale, volendo cioè ottenere che gli uomini si staccassero dalla ficta religio e si volgessero a Dio, permise alla gente di far festa in occasione della commemorazione dei santi martiri” (PG 46,754).

E a questo stile si attenne la Chiesa cappadoce nella sua azione missionaria.

Una conseguenza di questa acculturazione della fede fu che si venne a creare una sovrapposizione di cristianesimo e romanità. Ambrogio infatti giunse ad affermare: “La Chiesa è la vera Roma”. Questa sovrapposizione di cristianesimo e romanità non sempre fu utilizzata con equilibrio, spesso infatti – anche lo stesso sant’Ambrogio lo fece – portò a sostenere l’identità eretico-barbaro: il barbaro, in quanto non romano, è senz’altro un  eretico ed un eretico, in quanto non segue la retta fede cristiana, è senz’altro un barbaro, un non romano. Pertanto come nella chiesa primitiva si corse il rischio di rinchiudere il cristianesimo entro il giudaismo, così in questo periodo la tentazione fu di identificare il cristianesimo con la cultura ellenistico-romana.

Ad ogni modo si ebbe un cristianesimo che con serenità crescente mutuava dalla cultura ellenistico-romana il lessico, i costumi, i riti liturgici, i concetti filosofici per l’elaborazione dottrinale della sua fede.

In questa prospettiva è possibile sostenere che la stessa eresia ariana fu un tentativo mal riuscito di inculturazione, perché si compì con il tradimento di un dato irrinunciabile della fede cristiana.

Soggetto dell’attività missionaria era la chiesa locale: questo dato dovrebbe spingere ad accostare l’attività missionaria prima di tutto in modalità analitica e poi solo in un secondo momento in modalità sintetica. Nel IV secolo infatti la vita cristiana si svolgeva in aree geografiche e socio-culturali abbastanza concluse in se stesse, senza molti rapporti fra loro e questo determinò iniziative missionarie molto diversificate da parte delle varie chiese locali.

Il carattere istituzionale e introduttorio del nostro corso ci impedisce di impegnarci nell’analisi delle varie situazioni locali.

Le chiese locali, in generale, a mano a mano che si inoltrarono in questo IV secolo dettero vita a un innegabile mutamento di impostazione rispetto alle chiese locali precostantiniane. Nell’epoca precostantiniana, pur nella innegabile diversità dei ruoli e delle funzioni, le comunità cristiane locali tendevano a vivere i vari aspetti della loro vita come unità, come communio, come soggetto totale, nei tempi successivi alla svolta costantiniana invece le comunità cristiane locali fecero balzare sempre più in primo piano la varia strutturazione interna,la diversità dei ruoli e delle funzioni, la gerarchizzazione delle competenze. Ciò ebbe chiara dimostrazione nel ruolo che il vescovo assunse non solo nell’azione missionaria, ma anche in tutti gli aspetti della vita ecclesiale: il ruolo del vescovo divenne primario, fondamentale, imprescindibile: direzione, coordinamento, controllo dell’evangelizzazione divennero prerogativa del vescovo.

Si comprende quindi come nel IV secolo si ebbe efficace e rilevante espansione cristiana laddove c’erano vescovi dotati di grande personalità e da rilevante capacità di governo pastorale. Infatti, senza san Basilio non si comprenderebbe l’incidenza missionaria della Cappadocia; senza sant’Antonio non avremmo avuto la cristianizzazione dell’Egitto, senza san Martino e Victricio di Rouen la Gallia non avrebbe vissuto una grande stagione di cristianizzazione. Nell’Italia Annonaria furono vescovi come Mirocle, Eustorgio, Ambrogio i grandi artefici della propagazione e dell’organizzazione del cristianesimo.

Al vescovo insieme con il suo clero competeva la cura del momento culminante della conversione: il catecumenato: infatti nel corso del IV secolo si affermò la tendenza a riservare sempre più in esclusiva al clero il ruolo docente.

Nel IV secolo senz’altro il catecumenato raggiunse il sui apogeo.

Il catecumenato si caratterizzava per un complesso di istruzioni e di pratiche, mediante le quali gli adulti non-battezzati venivano ufficialmente introdotti nella vita cristiana. I bambini pertanto fino al VI secolo non furono sottoposti al cammino catecumenale: i bambini ricevevano una primitiva iniziazione cristiana alla fede e alla vita cristiana nella realtà familiare, se cristiana; nel IV secolo i bambini però non concludevano questo cammino domestico con il battesimo, che era di solito riservato all’età adulta.

È vero però che già nel III secolo si praticava talora e da qualche parte soltanto il pedebattesimo, ma fu nel V secolo che questa prassi si impose: nel corso del IV secolo invece fu molto discussa e praticata solo in maniera eccezionale. Sant’Agostino in più opere ebbe un ruolo rilevante e decisivo a proposito del pedebattesimo:

·         Ep. 166, 26 (CSEL 44, 578);

·         De peccato rum meriti set remissione et de baptismo parvuolorum (CSEL 60,3):

·         De libero arbitrio, III libro (CSEL 74, 144):

·         De Baptismo (CSEL 53) IV, 23 e 24:

·         Contra duas epistolas Pelagianorum (CSEL 60) I, 22, 40.

Come si articolava il catecumenato? Possiamo distinguere tre momenti fondamentali.

Primo momento: il momento preparatorio: dapprima si proponeva una istruzione sommaria dei “rudes”, insegnando loro i contenuti e le esigenze della vita cristiana: l’intento era di offrire la possibilità di scegliere con una certa cognizione di causa (cfr Agostino, De catechizandis rudibus liber unus, PL 40). In seguito a ciò, si procedeva all’esame di colui che chiedeva di diventare cristiano: la sua vita morale, la sua professione sociale, le motivazioni della conversione. Nel caso del peccatore pubblico o dell’adultero si esigeva da lui il cambiamento di vita; se praticava un professione, che avesse avuto a che fare con i riti pagani o con i giochi pubblici, gli si imponeva l’abbandono della professione.

Secondo momento: lo stadio dell’ammissione al catecumenato: questa ammissione avveniva in tre riti:

·         Insufflazione accompagnata con formule di esorcismo;

·         Signatio con il segno della croce e imposizione delle mani;

·         Degustazione del sale esorcizzato (solo in Occidente).

A questo punto il catecumeno si trovava inserito nella assemblea cristiana con un suo statuto giuridico particolare e con un suo titolo particolare: il titolo di auditor o audiens. In quanto auditor si distingueva sia dai pagani, sia dai giudei e non doveva abbandonare l’assemblea liturgica dopo le letture e l’omelia, come invece facevano pagani e giudei: per l’uscita degli auditores era previsto un rito di congedo, in cui il vescovo imponeva loro le mani e pregava per loro.

Questo stadio dell’ammissione durava variamente a seconda delle regioni: per la Spagna il concilio di Elvira (305 circa) stabilì la durata di due anni; a Roma e in Oriente la durata era di tre anni. Poi a seconda delle disposizioni del catecumeno si stabiliva diversamente: ad esempio il catecumeno colpevole di adulterio o di aborto rimaneva nello stadio di auditor fino alla morte.

Durante questo periodo il catecumeno era affidato in maniera particolare al catechista, che in genere era un membro del clero (diacono o presbitero): il catechista doveva integrare le istruzioni impartite durante la liturgia della Parola con istruzioni speciali, vigilava sulla condotta del catecumeno, verificandone la conversione e il progresso morale.

Terzo momento: lo stadio della promozione al rango di competentes, in greco φοτζόμενοι (illuminandi). Ciò si verificava in genere alcune settimane prima della Pasqua in vista del Battesimo oramai prossimo. Si imponevano due date per questo momento liturgico: o l’Epifania o la prima domenica di Quaresima. La procedura comprendeva:

·         Un esame sul periodo vissuto come auditor;

·         Imposizione del nome;

·         Iscrizione nei registri della chiesa.

In questo periodo era il vescovo che assumeva la responsabilità diretta dei catecumeni.

a.       Sotto il profilo ascetico-morale si esigeva dai catecumeni una serie di digiuni e di mortificazioni.

b.      Sotto il profilo della formazione dottrinale quotidianamente il vescovo teneva una lectio catechetica, mirante alla spiegazione della Scrittura, del Simbolo della fede e del Pater noster. In patristica troviamo le omelie catechetiche di san Cirillo di Gerusalemme, di sant’Ambrogio, di san Giovanni Crisostomo, di Teodoro di Mopsuestia,

c.       Sotto il profilo liturgico il vescovo praticava quotidianamente degli esorcismi.

d.      La liturgia pre-battesimale prevedeva anche gli scrutinia, celebrazioni liturgiche che miravano a purificare l’anima mediante unzioni, promessa di rinunciare a Satana, esorcismi.

e.      Alla IV o VI domenica di Quaresima si celebrava la Traditio Symboli e la Traditio del Pater noster, alle quali seguiva la redditio, cioè la recita pubblica. In alcune comunità si praticava anche la Traditio Evangeliorum.

Nel corso del III secolo per la celebrazione del Battesimo si erano imposte due date: Pasqua e Pentecoste. Nel corso del IV secolo i papi cercarono di opporsi ad alcuni costumi locali, che ponevano la celebrazione del Battesimo anche in altre date: Natale, Epifania, feste degli Apostoli o dei martiri.

Con il diffondersi del battesimo dei bambini sparì sempre più la celebrazione comunitaria del Battesimo ed i riti del catecumenato divennero parte integrante del rito battesimale.

Il rito battesimale si articolava in questi momenti celebrativi:

¾     Ingresso nel Battistero (come paradiso)

¾     Denudatio vestium (abbandono dell’uomo vecchio)

¾     Unzione per il combattimento spirituale

¾     Immersione (partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo)

¾     Veste bianca (l’uomo nuovo)

¾     Confermazione

¾     Processione verso l’assemblea eucaristica

¾     Presentazione dei doni

¾     Eucaristia.

Durante la settimana successiva i neofiti o neo-illuminati partecipavano a una catechesi mistagogica, cioè un ciclo di istruzioni sui tre sacramenti ricevuti.

Ce ne sono pervenute opere preziose:

¾     San Cirillo di Gerusalemme: 5 catechesi mistagogiche: 2 sul Battesimo, 1 sulla Confermazione e 2 sull’Eucaristia;

¾     Teodoro di Mopsuestia: 5 omelie catechetiche: 3 sul Battesimo e 2 sull’Eucaristia;

¾     Sant’Ambrogio: De Mysteriis e De Sacramentis.

Cirillo di Gerusalemme ci aiuta a capire il perché di queste istruzioni post factum. Adduce prima di tutto una ragione psicologica: una realtà è più afferrabile, quando è divenuta oggetto di esperienza. Suggerisce anche una ragione teologica: solo possedendo i misteri della fede e in forza della trasformazione da essi operata si diventa capaci di percepirne il contenuto. Del resto la “disciplina dell’arcano” spingeva a mantenere i sacramenti avvolti nel mistero soprattutto nei confronti dei non iniziati.

Con la pratica del catecumenato i vescovi si occupavano dei convertiti, come si occupavano invece di coloro che ancora non erano convertiti?

Taluni si dedicarono ad una diretta attività missionaria: si ricordi san Martino, che si aggirava per le campagne, distruggendo i luoghi di culto pagani per dimostrare l’impotenza degli dei.

Altri raggiunsero i pagani con scritti: ad esempio sant’Ambrogio, che indirizzò a Fritigilde, principessa dei Marcomanni, un catechismo in forma epistolare per rispondere a delle domande, che la principessa gli aveva posto.

Per tutti i vescovi il modo abituale per promuovere le conversioni era la predicazione: se ne servirono per smantellare i pregiudizi anticristiani dei pagani e dei giudei, che avevano libero accesso alla liturgia della Parola; se ne servirono per richiamare la comunità cristiana al dovere della vita irreprensibile per coerenza e integrità morale, così che la fede cristiana potesse apparire gradevole e desiderabile ai pagani: il fenomeno dei semicristiani era certamente assai controproducente.

Al di là del dovere della testimonianza della vita, come si espresse l’impegno missionario dei laici? È molto difficile costruire un quadro completo di questo impegno laicale, perché, mancando di un carattere e di una strutturazione ufficiali e realizzandosi secondo la modalità spontaneistica del rapporto da persona a persona, ha lasciato dietro di sé una traccia molto esile, fatta di allusioni fugaci e di labili indizi, più che di esplicite testimonianze.

In questa prospettiva si intuisce l’opera preziosa svolta da esponenti di quel ceto medio inferiore, dal quale il cristianesimo trasse il suo massimo incremento: commercianti, viaggiatori, funzionari, soldati, marinai…

Le omelie di vescovi insigni mostrano di desiderare l’apporto di una categoria particolare, che invece spesso deluse: i latifondisti. A loro spesso fu mosso il rimprovero di impegnare i loro beni per la costruzione di impianti termali lussuosi invece di impegnarli per assicurare ai loro coloni una chiesa ed una istruzione cristiana (san Giovanni Crisostomo).

Per completare il quadro meritano menzione due altre categorie di cristiani. Prima di tutto i “missionari per vocazione”, cioè laici, chierici, monaci che abbandonarono la loro vita abituale  per dedicarsi esclusivamente all’attività missionaria. Questa iniziativa fu fiorente nel IV secolo, ma fu lasciata completamente alla iniziativa privata: non si ebbero né coordinamento né addestramento, non si progettò un piano missionario prestabilito. In secondo luogo ricordo l’attività missionaria dei monaci, che si distingueva da quella dei “missionari per vocazione” per il semplice fatto che per i monaci l’impegno di evangelizzazione non era specifico del loro carisma, ma era piuttosto una risultanza della loro vita di contemplazione e ascesi, che esercitava una forte attrattiva intorno. Questa incidenza missionaria dei monaci fu assai significativa in Egitto, in Siria, dove appunto il monachesimo vide le sue origini e la sua prima espansione. Anche in questo caso tutto avvenne senza programmazione ma in maniera spontaneistica.

Quanto ai risultati bisogna distinguere tra valutazione quantitativa e valutazione qualitativa.

Sotto il profilo quantitativo gli sforzi missionari furono certamente ripagati nel corso del IV secolo.

Sotto il profilo qualitativo invece il giudizio deve essere più cauto: da un lato si hanno segni chiari di profonde conversioni, che poi trovarono espressione nella vivacità liturgica, nella fioritura monastica, nell’attività caritativa e nella produzione letteraria, che caratterizzarono quell’epoca; dall’altro lato non mancarono conversioni di convenienza, che non ebbero un seguito di approfondimento e di crescita, conversioni che mantennero una stretta convivenza con le antiche usanze pagane, con le superstizioni e le pratiche occulte.

Ce ne dà testimonianza per esempio Salviano di Marsiglia, che nel suo De Gubernatione Dei (anno 440 circa), parla di spettacoli scandalosi, ai quali intervenivano tranquillamente in gran numero anche i cristiani, in particolare gli spettacoli circensi “dove il più alto piacere è che vi muoiono degli uomini o, ciò che è più insopportabile e più amaro della morte stessa, che i ventri delle belve si riempiano di carni umane e che degli uomini vengano divorati fra l’allegria dei circostanti e col godimento degli spettatori”. Venivano ancora allevati polli per trarne presagi né più né meno che ai tempi del paganesimo; vi erano ancora dappertutto culti di dei pagani ed i cristiani non si rendevano conto che il parteciparvi, anche senza un’adesione spirituale, costituiva sempre una vera e propria colpa, un sacrilegio.

Interessante è anche quel che ci dice san Massimo (fine del IV secolo) in due sue omelie.

Prima omelia: in occasione di un oscuramento lunare il popolo si era sforzato con clamori e suoni di aiutare la luna. Il vescovo, sorpreso e preoccupato, si sforzò di porre in luce quanto fosse insulso e puerile questo tentativo di aiutare Dio stesso “come se Egli malfermo e debole e senza l’aiuto delle vostre grida non potesse difendere le luci che Egli aveva creato”.  Poi con ironia concludeva che la luna manca quando il vino è andato alla testa e l’aiutare la luna è idea che nasce tra i fumi dell’ebbrezza.

Seconda omelia: dice che nei giorni antecedenti aveva pregato i fedeli di rimuovere dalle loro case e dalle loro proprietà tutto quanto potesse avere attinenza con il mondo pagano. Dovette però constatare amaramente che nulla fu fatto. Contro questa inerzia quindi ricordava: “Chiunque sa che in un bene di sua proprietà si compiono dei sacrilegi e non li proibisce, in un certo qual modo li ordina; tacendo o non rimproverando ha dato il consenso a chi immolava agli dei”. Nelle case si trovavano resti di sacrifici, nei campi altari di legno e statue di pietra. E poi contadini pieni di vino mostravano che erano stati compiuti riti in onore di divinità pagane.

 

 

LA POLITICA DEGLI IMPERATORI NEI CONFRONTI DEL PAGANESIMO

NEL IV SECOLO

 

Prima di considerare in maniera dettagliata l’azione politica dei vari imperatori è senz’altro opportuno richiamare quale peso abbia assunto il potere imperiale nella conduzione politica dell’Impero.

Verso la fine del II secolo, come dicemmo, l’Impero si trovò costretto a fare ricorso a una politica di militarizzazione per far fronte alla difesa dei confini, minacciati dai barbari e dai Persiani. Ne conseguì che accanto alla consueta diarchia di aristocrazia senatoria e potere imperiale si impose una terza forza, l’esercito, compromettendo l’equilibrio del consueto sistema di governo.

Buona parte del III secolo fu dominata dal caos delle migrazioni e dell’anarchia: in questo contesto il potere imperiale prevalse per via di una trasformazione del suo carattere originario: tramontò  definitivamente l’ideale dell’imperatore princeps e si impose l’ideale dell’imperatore dominus. Ciò si compì prima di tutto grazie all’allontanamento dell’aristocrazia senatoria dalla leve del potere militare e politico: artefici di ciò furono soprattutto gli imperatori Gallieno e Diocleziano.

In secondo luogo il potere imperiale si garantì l’appoggio dell’esercito, sia concedendo agevolazioni ai militari, sia aprendo la carriera militare anche ai gradi inferiori.

In terzo luogo il potere imperiale si consolidò, creandosi un nuovo e potente appoggio: dette vita infatti ad un enorme apparato burocratico centralizzato, al quale affidò l’amministrazione dello Stato.

Questa singolare posizione di potere raggiunta dall’imperatore trovò poi una solida fondazione teorica: la classica lex regia di Ulpiano, secondo la quale il popolo romano quale primario e fondamentale possessore del potere imperiale lo delegherebbe al princeps, fu soppiantata da una nuova teoria, che faceva invece derivare il potere imperiale dall’alto, dalla divinità.

Questa mistica imperiale trovò uno sviluppo particolare sotto Diocleziano (284-305), che, poiché si riteneva legato a Giove in maniera singolare, si proponeva come imperatore, che per ispirazione divina era  dotato di qualità sovrumane, quali la clemenza, la giustizia, la pietas, la filantropia. Diocleziano poi a questa mistica imperiale dette un’altisonante espressione esteriore, dando vita ad uno sfarzoso cerimoniale di corte.

Ovviamente  in questa prospettiva l’atteggiamento dei sudditi verso il sovrano venne a rivestire un carattere religioso, si configurò come devotio. Da parte sua il dominus ricambiò questa devotio, assumendo nei  confronti dei sudditi l’atteggiamento della generosità. Come si vede, tra dominus e sudditi, si instaurò una sorta di scambio, che non era tanto di diritto pubblico, ma era piuttosto di ordine morale.

Con la cristianizzazione dell’Impero si mantenne questa concezione sacrale della funzione imperiale, a proposito della quale va rilevato che da un lato codificava un esercizio assolutistico e personalistico del potere imperiale e dall’altro però impediva che se ne desse una interpretazione arbitraria, dal momento che il potere imperiale doveva tenere conto dell’esigenza di rispettare quell’ordine divino, dal quale appunto traeva la sua origine, la sua forza e il suo valore.

A questo punto diventa possibile comprendere la notevole incidenza della politica religiosa degli imperatori.

In generale si può dire che nel corso del IV secolo fino al 408 lo Stato cristiano praticò un reale liberalismo nei confronti delle persone: in certi anni accadeva che quasi tutte le leve del comando fossero nelle mani di alti funzionari pagani, ad esempio nel 384.

Costantino: per valutare rettamente la sua politica religiosa occorre accedere alle fonti letterarie con molta prudenza. Quelle cristiane, a partire da quelle di Eusebio di Cesarea, seguito poi da quelle di Giovanni Crisostomo, di Prudenzio, di Orosio, di Socrate, tendono evidentemente a esagerare l’antipaganesimo ed  il filo-cristianesimo di Costantino. Se ad esse si accosta la produzione letteraria pagana per via diversa e contraria si giunge allo stesso risultato: in nome del risentimento gli autori pagani attribuirono alla svolta costantiniana una radicalità anti-pagana e filo-cristiana.

Prima di tutto invece va messo in evidenza che per Costantino il riconoscimento della legalità del cristianesimo non comportò affatto la proscrizione legale del paganesimo. Costantino, infatti, mantenne il titolo di Pontifex Maximus; alla fondazione di Costantinopoli fece praticare anche i tradizionali riti pagani; in Costantinopoli non solo lasciò sussistere i templi pagani esistenti, ma anche ne fece costruire di nuovi: pertanto non ha fondamento la tesi che vuole che la fondazione di Costantinopoli, quale nuova Roma cristiana,  fu voluta in contrapposizione alla vecchia Roma pagana.

Anche i vari provvedimenti contro l’aruspicina privata, contro il tempio di Afrodite a Ierapoli e contro il tempio di Esculapio ad Ege (Cilicia), non mirarono affatto a distruggere il paganesimo, mirarono invece a purificarlo sia dai disordini morali sia dalla superstitio, che è degenerazione della vera religio.

A proposito dell’avversione del potere imperiale nei confronti della pratiche pagane private e dell’aruspicina  va detto che non era dettata dal fatto che vi si vedeva un’alternativa al culto ufficiale, ma piuttosto dal fatto che il potere imperiale attribuiva un vero potere malefico alle pratiche magiche e pertanto temeva che in tali riunioni segrete private  si congiurasse contro l’autorità costituita, sia preannunciandone o decretandone la fine, sia additando il probabile successore.

Tanti favori che Costantino concesse al Cristianesimo furono dettati da preoccupazioni di tipo giuridico. Le restituzioni miravano a eliminare le precedenti lesioni del diritto. L’affermazione della parità giuridica del cristianesimo rispetto alle altre religioni doveva poi trovare applicazione concreta: da qui l’abolizione delle leggi romane contrarie al cristianesimo: ad es. la proibizione del celibato; da qui l’introduzione di leggi miranti ad assicurare uno spazio effettivo ai cristiani nella vita sociale: ad es. la domenica viene posta alla pari delle festività pagane; anche alle chiese cristiane viene riconosciuto il diritto di ricevere donazioni e lasciti; all’edilizia cristiana vengono concesse agevolazioni imperiali come avveniva per l’edilizia pagana.

Certamente però non si può negare che Costantino, intensificandosi sempre più la sua adesione alla fede cristiana, abbia riservato al cristianesimo un trattamento di predilezione: penso ad esempio al provvedimento che concedeva ai cristiani la facoltà di ricorrere per cause civili ai tribunali episcopali invece che ai tribunali civili; penso anche ai ripetuti interventi nelle controversie ariana e donatista.

Ma si trattò sempre di una predilezione che non comportò affatto una riduzione o un misconoscimento della legittimità del paganesimo. Sul piano della liceità giuridica le due religioni godettero di una situazione di parità.

In questa prospettiva di parità giuridica è senz’altro significativo che Costantino non volle mai sostenere l’attività missionaria cristiana, esercitando sulle coscienze pressioni di tipo militare o politico: pur desiderando che nell’Impero si instaurasse l’unità religiosa, Costantino non forzò mai i tempi, preferì sempre rispettare la libertà delle coscienze e confidare nella forza attrattiva del messaggio cristiano.

I figli di Costantino: nel 337, alla morte di Costantino, dopo alcuni mesi di incertezza, assunsero il titolo imperiale i suoi tre figli.

Costantino II ebbe potere sulla Prefettura Occidentale, che comprendeva Britannia, Gallia Viennese, Spagna, Mauretania Tingitana e stabilì la sua residenza imperiale a Treviri.

Costante, il figlio minore, fu posto a governare sulla Prefettura Centrale, che comprendeva Africa, Italia Settentrionale, Italia Annonaria, Pannonia, Dacia, Macedonia. La residenza imperiale fu situata a Sirmio.

Nel 340 Costante ebbe la meglio sul fratello Costantino II, annettendo al suo potere anche la Prefettura Occidentale e trasferendo la sede imperiale a Milano.

Costanzo, infine, governò sulla Prefettura Orientale, che comprendeva Tracia, Asia, Ponto, Oriente. Antiochia fu la residenza imperiale prevalente.

A partire dal 350 Costanzo rimase unico imperatore, essendo morto il fratello Costante.

Nei tre nuovi imperatori, educati cristianamente, si attenuò notevolmente l’atteggiamento di moderazione e di tolleranza religiosa, che aveva contraddistinto la politica paterna. Infatti cominciarono ad apparire le prime misure antipagane, che manifestavano la volontà imperiale di eliminare il paganesimo dalla vita pubblica per favorire, anche con l’appoggio del potere statale, la cristianizzazione dell’Impero. In genere a dimostrazione di ciò si adduce una legge del 341, dove compare questa affermazione: “Cesset superstitio, sacrificiorum aboletur insania” (Cod. Theod. XVI,X,2).

In realtà nell’interpretazione di questo passo la storiografia è tutt’altro che unanime, in quanto nel linguaggio del IV secolo il termine “superstitio” era suscettibile di diversi significati. I pagani lo usavano per indicare le deviazioni della vera religio, cioè le divinazioni, i sacrifici occulti. I cristiani, invece, applicavano la qualifica di “superstitio” al paganesimo in blocco, perché sarebbe una ficta religio. Come interpretare allora la legge del 341? Alcuni, come F. MATROYE, La répression de la magie et le culte des gentils au IVe siècle : Revue Historique de Droit Français et Étranger  IX (1939), 669 ss e R. RÉMONDON, La crisi dell'Impero romano. Da Marco Aurelio ad Anastasio, Milano 1975, p.128, ritengono che “superstitio” sia stato usato nel senso pagano e pertanto la legge avrebbe di mira le pratiche di divinazione, i sacrifici occulti e quindi la legge del 341 sarebbe perfettamente in linea con la legislazione precedente di Costantino. Ciò sarebbe confermato dalla legislazione successiva di Costanzo, dove comparivano minacce contro coloro che praticavano la magia, i sacrifici notturni, contro gli auguri, gli indovini, gli stregoni ed i loro clienti (23 novembre 353; 25 gennaio 357; luglio 357). Simmaco nella sua Relatio III confermerebbe questa interpretazione, laddove afferma a proposito di Costanzo: “Non tolse nulla ai privilegi delle vergini consacrate. Assunse molti nobili alle funzioni sacerdotali; non rifiutò alcun credito alle cerimonie romane. Durante la visita a Roma (357) Costanzo guardò i templi non senza commozione, ne ammirò l’architettura. Sebbene personalmente seguisse un’altra religione, consentì quella pagana all’Impero” (6-7).

Altri come J. GEFFCKEN, Der Ausgang des griechisch-römischen Heidentums, Heidelberg 1920, p.97 e P. DE LABRIOLLE, Cristianesimo e paganesimo alla metà del IV secolo : Storia della Chiesa  III/1 (Fliche, Martin) Torino 1972, pp 224-225 ritengono che il termine “superstitio” fu usato secondo l’accezione cristiana, per cui la legge avrebbe comportato la proibizione in blocco del paganesimo. Ciò troverebbe conferma in provvedimenti successivi, quali la legge dell'1 dicembre 356, che così si esprimeva: “È nostro volere che in ogni luogo ed in ogni città i templi siano immediatamente chiusi, ne sia interdetto l’accesso a chiunque  e negata ai depravati la facoltà di predicarvi. Noi vogliamo pure che tutti si astengano dai sacrifici. Chiunque avrà commesso una colpa di questo genere sia colpito dalla spada vendicatrice. Il fisco rivendicherà i beni del defunto. I governatori delle province, che trascureranno di punire questi delitti subiranno gli stessi castighi”. Il retore Libanio in una sua opera ci dà testimonianza a favore di questa interpretazione: “Spiegati dunque: che intendi con questa spaventosa tempesta? Intendo alludere al tempo di Costanzo. Il male era venuto da suo padre; ma egli ne propagò la scintilla, l’attizzò, ne suscitò un vasto incendio. Suo padre aveva spogliato gli dei delle loro ricchezze, egli atterrò i templi, abolì tutti i sacri riti…” (oratio 30 – πρός τούς είς τήν παιδείαν αυτϖν αποσϰώψαντας, § 8).

Propongo di non usare le due interpretazioni, contrapponendole, ma accostandole: la politica religiosa dei successori immediati di Costantino si caratterizzerebbe per una progressiva radicalizzazione dell’antipaganesimo: la legge del 341 interpretata come proibizione della magia e dei sacrifici occulti rappresenterebbe il terminus a quo, la legge del 356 invece sarebbe il terminus ad quem e si situerebbe nel tempo in cui il potere è tutto e solo nelle mani di Costanzo, che certamente dei tre fratelli era il meno moderato in materia religiosa. Questa progressiva radicalizzazione antipagana spiegherebbe i saccheggi, le distruzioni perpetrati da esponenti cristiani contro templi pagani: le fonti storiche però ci testimoniano solo 4 casi e tutti ambientati nella parte orientale dell’Impero. Questo dato può portarci a comprendere che la progressiva radicalizzazione operata a livello legislativo non trovò molto seguito a livello pratico. Le sanzioni previste per i governatori inadempienti dalla legge del 356 ne sono una testimonianza eloquente.

Soprattutto in Occidente prevalse la linea della moderazione, perché bisognava tenere conto sia della posizione ancora maggioritaria del paganesimo, sia della fede pagana dell’aristocrazia senatoria, che rappresentava pur sempre una forza non trascurabile. Ciò spiegherebbe la testimonianza di Simmaco e l’atteggiamento tenuto da Costanzo in occasione del suo soggiorno romano del 357.

Alla luce di questa progressiva radicalizzazione antipagana la reazione di Giuliano acquista maggiore chiarezza.

Il ventennio successivo alla breve stagione di Giuliano vede imperatori cristiani propensi a praticare una politica di grande tolleranza nei confronti del paganesimo ufficiale e di avversione nei confronti delle deviazioni superstiziose. Così Gioviano che governò solo 8 mesi (dal 27 giugno 363 al 17 febbraio 364), così Valentiniano I, che governò l’Occidente dal 364 al 375, così Valente, fratello di Valentiniano I, che governò l’Oriente dal 364 al 378.

Con Graziano, che prese nelle sue mani il potere in Occidente dopo la morte di Valentiniano I, finì del tutto la politica della pari legittimità. A partire dal 379, infatti, sotto l’influenza di Ambrogio, Graziano promosse una decisa politica di sganciamento dello Stato dal paganesimo. Lo provano 3 provvedimenti:

1.      379: Graziano decise di non portare più il titolo di Pontifex Maximus;

2.   382: Graziano ordinò che in Senato venisse rimossa l’ara sacrificale, che stava davanti alla statua della Vittoria;

3.     Sempre nel 382: Graziano privò il culto pagano, i templi, i sacerdoti, le vestali sia dei privilegi fiscali e giuridici sia dei sussidi statali.

Secondo la nostra mentalità moderna, potremmo vedere in Graziano l’intenzione di costruire una pace religiosa fondata sulla aconfessionalità dello Stato: così interpreteremmo la rinuncia dell’imperatore ad attribuirsi prerogative di natura religiosa, così interpreteremmo la decisione di abolire pratiche cultuali in Senato, essendo il Senato un organo politico dello Stato; lo Stato in quanto aconfessionale quindi non sosterrebbe più il culto pagano come di fatto non sostiene il culto cristiano. In verità si tratta di una interpretazione anacronistica. Graziano non intese limitarsi a interdire il culto pagano per porre fino al paganesimo di Stato, perché Graziano a mano a mano che allontanava lo Stato dal paganesimo lo avvicinava al cristianesimo, lo cristianizzava: a livello fiscale il clero fruì di esenzioni, a livello giudiziario i vescovi continuarono a godere di una vera e propria giurisdizione anche civile, sempre a livello giudiziario si tollerò il diritto di asilo da parte dei vescovi e si rinsaldò sempre più il privilegium fori per il clero. Ma più significativo ancora fu il provvedimento del 378, in cui Graziano si adeguò ad una decisione del Sinodo romano di quello stesso anno: vi si stabilì che nelle questioni inerenti il privilegium fori e nelle questioni interne della giustizia ecclesiastica gli unici tribunali competenti erano il tribunale episcopale in prima istanza e poi il concilio diocesano, e poi ancora il concilio provinciale e alla fine la Sede Romana come suprema istanza di appello. Si aggiunse poi che lo Stato aveva il dovere di rendere esecutoria la sentenza del competente tribunale ecclesiastico. Come si vede, quindi, Graziano accettò di assumere il ruolo di braccio secolare della Chiesa.

Nel gennaio 379 in Oriente fu proclamato imperatore Teodosio, che dal 392 al 395 poi rimase unico imperatore.

Nella politica religiosa di Teodosio possiamo distinguere due momenti.

Il primo momento si concluse verso il 390 e vide un Teodosio impegnato in una politica religiosa legata alla prospettiva orientale. Chiaro segno di ciò è l’editto “Cunctos populos” emanato a Tessalonica il 27 febbraio 380, insieme con gli altri due imperatori Graziano e Valentiniano II: “Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio perseverino nella religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all''insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Coloro che seguono questa norma verranno chiamati Cristiani cattolici, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste” (Cod. Just. I,1). La sede di emanazione dell’editto, Tessalonica, dice che il peso di Teodosio fu preponderante e che gli altri due imperatori giocarono un ruolo di secondo piano, perciò consideriamo l’editto espressione della prospettiva orientale.

Questo editto è stato variamente valutato: alcuni vi hanno visto una professione di fede personale e privata dell’imperatore Teodosio; altri invece ritengono che si tratti di un manifesto, di un proclama politico. A mio avviso questa seconda posizione è la più attendibile: si deve infatti rilevare che l’editto è stato introdotto sia nel Codex Theodosianus sia nel Codex Iustinianus come documento imperiale di rilevanza giuridica; va inoltre rilevato che il legislatore commina sanzioni per le infrazioni, dandogli quindi un carattere che andava ben oltre la sfera della sua propria fede privata.

Ma passiamo a considerare la politica religiosa, che vi viene espressa.

L’editto “Cunctos populos” va letto nel contesto orientale, dove il cristianesimo era diventato presenza massiccia e di gran lunga maggioritaria. Teodosio volle stabilire con il Cristianesimo un rapporto non solo preferenziale ma addirittura esclusivo. Nacque così la Chiesa di Stato, nella quale dobbiamo scorgere due aspetti.

1.    L’aspetto dell’appoggio reciproco: il Cristianesimo appoggia l’Impero e a sua volta l’Impero appoggia il Cristianesimo. Si noti però che il Cristianesimo in quel momento era diviso in varie sette, che erano in lotta tra loro e quindi non era in grado di offrire allo Stato un appoggio consistente. Per offrire allo Stato una appoggio significativo il Cristianesimo aveva bisogno di trovare unità. Per questa ragione lo Stato decise di dare al Cristianesimo un appoggio, che ne favorisse l’unificazione, aiutandolo a uscire dalle sue dilacerazioni interne, che lo indebolivano. Era condizione necessaria perché il Cristianesimo potesse svolgere un ruolo positivo nello Stato.

2.  L’aspetto dell’intervento del potere imperiale nella vita del Cristianesimo: il Cristianesimo orientale diviso aveva offerto spazio al potere imperiale cristiano per intervenire in funzione di arbitrato. Venne così a formarsi una prassi abituale e indiscutibile di interventi imperiali nella vita della Chiesa. “Cunctos populos” fu appunto l’intervento imperiale che decise tra le varie tendenze, optando per quella cattolico-romana. Conseguentemente il potere imperiale impegnò tutta la sua forza per fare prevalere la posizione cattolico-romana e per fare scomparire le tendenze ariane. L’intervento di Teodosio non si pose su un piano magisteriale, perché non pretese di essere lui a decidere i contenuti della fede cristiana, ma indicò i riferimenti magisteriali ai quali bisognava fare riferimento: san Pietro, Damaso, vescovo di Roma e Pietro, patriarca di Alessandria.

Certamente in prospettiva Teodosio auspicava che il paganesimo addivenisse ad una adesione al cristianesimo cattolico, ma la sua preoccupazione prima fu rivolta al costituirsi di una comunità cristiana solida, sicura e perciò portata ad assumere nei confronti del paganesimo oramai minoritario e insignificante un atteggiamento non più aggressivo ma irenico. Un cristianesimo aggressivo avrebbe comportato turbamento di una vita sociale pacifica. Pertanto fino al 390 Teodosio espresse una politica all’insegna della tolleranza nei confronti del paganesimo.

Il secondo momento: a  partire dal 390 l’atteggiamento di Teodosio subì un cambiamento sostanziale, facilmente comprensibile. Per esigenze politiche dal 388 al 392 Teodosio si trasferì nella parte Occidentale, portandovi sia la sua mentalità orientale di ingerenza ecclesiale sia il suo atteggiamento orientale di irenismo verso un paganesimo oramai in via di estinzione.

Per Teodosio l’impatto con la cristianità occidentale non fu facile, proprio perché qui era maturata una concezione diversa. Poiché in Occidente per buona parte del IV secolo il cristianesimo fu presenza minoritaria, il potere imperiale fino a Graziano non aveva qui sentito la propensione di appoggiarsi alla Chiesa. Si era pertanto sviluppata una mentalità di indipendenza della Chiesa da ingerenze imperiali. Questa indipendenza comportava da un lato la non subordinazione del potere spirituale dei vescovi all’autorità temporale in cose spirituali e dall’altro la subordinazione del potere temporale ai vescovi in questioni spirituali (si ricordi la lettera 17 di sant’Ambrogio a Valentiniano II a proposito della relatio di Simmaco). Teodosio nel 390, dopo l’eccidio di Tessalonica, dovette fare i conti con questa mentalità e sottomettersi per ingiunzione di Ambrogio alla penitenza pubblica.

Dal momento che la questione del paganesimo era questione religiosa, Teodosio in Occidente si trovò costretto a regolarsi secondo le prospettive e le direttive dei vescovi occidentali, soprattutto di sant’Ambrogio.

In Occidente il Cristianesimo, che per buona parte del IV secolo era stato minoritario rispetto al paganesimo e solo ora nello scorcio finale del IV secolo si trovava a vivere una stagione di grande sviluppo, aveva maturato nei confronti del paganesimo un atteggiamento di contrasto, di lotta: il cristianesimo era il grande nemico da debellare.

Da qui la svolta nella politica religiosa di Teodosio:

·          24 febbraio 391: proibizione di ogni cerimonia pagana nella città di Roma (basta sacrifici, basta visite ai templi, basta omaggi agli idoli):

·        16 giugno 391: estensione della stessa disposizione all’Egitto:

·     8 novembre 392: emanazione di un editto che vieta in tutto l’Impero di offrire sacrifici, di onorare i lari con il fuoco, i geni con libagioni, i penati con l’incenso.

Quindi dalla pari legittimità voluta da Costantino si giunse alla soppressione legale del paganesimo e all’assunzione del Cristianesimo cattolico come religione di Stato.

 

 

 

 

SIMMACO

LA QUESTIONE DELL’ARA

DAVANTI ALLA STATUA DELLA VITTORIA IN SENATO

 

Nel 382 Graziano aveva ordinato di rimuovere l’ara, sul quale veniva bruciato l’incenso in onore della statua della Vittoria nel Senato Romano. L’aristocrazia vide nel provvedimento un grave attentato alle antiche tradizioni dello Stato e alla sua stessa sicurezza. Ne scaturì una contesa, che si protrasse per diversi anni.

Noi possiamo ricostruire questa contesa attraverso tre fonti storiche:

·         la RELATIO III di Simmaco;

·         le LETTERE 17 e 18 di s. Ambrogio;

·         il CONTRA SYMMACUM di Prudenzio.

Il primo momento della contesa si situa nel 382, quando governava Graziano, che ordinò la rimozione dell’ara sita davanti alla statua della Vittoria nel Senato Romano. L’aristocrazia senatoria decise di costituire una delegazione di senatori e di mandarla a Milano per spingere Graziano a un ripensamento. Ambrogio, informato da papa Damaso, precedette le delegazione romana e convinse l’imperatore Graziano a mantenersi irremovibile. E infatti la delegazione romana non fu neppure ricevuta.

Il secondo momento si situa nel periodo 383-384. Si verificarono due gravi avvenimenti:

1.      assassinio dell’imperatore Graziano: il 25 agosto 383, a Lugdunum (Lione);

2.      una grave carestia piombò sull’Occidente.

L’aristocrazia romana vi scorse senz’altro un chiaro castigo degli dei per l’empietà che era stata commessa contro di loro. Quindi tornò di nuovo alla carica: a Milano regnava come imperatore un ragazzo dodicenne, Valentiniano II, che era sotto la tutela della madre Giustina, ariana e nemica di Ambrogio. Si poteva quindi sperare di conseguire un ottimo risultato. Pertanto nel 384 venne a Milano Simmaco, che presentò la sua relazione. La relazione venne letta davanti al consistorio imperiale e suscitò una notevole ammirazione non solo tra i pagani ma anche tra i cristiani presenti. Si noti: Simmaco era cugino di Ambrogio.

Simmaco nella sua relazione si preoccupò prima di tutto di conferire al suo testo il massimo di autorevolezza: richiamò quindi le sue alte qualifiche (quell’anno Simmaco era praefectus urbis  e princeps del Senato) e poi sottolineò che a delegarlo era stato il Senato all’unanimità.

Poi propose la prima fondamentale argomentazione, tutta giocata sul tema della tradizione, del passato: bisognava lasciare ai posteri quanto si era ricevuto, quando si era bambini; era poi legittimo ritenere che la Vittoria come aveva nel passato assistito splendidamente l’Impero romano, sarebbe tornata a favorirlo anche nel futuro, se ancora si fosse tornati ad onorarla con l’ara dell’incenso.

Nella seconda argomentazione che sostenne, Simmaco propose questa considerazione sincretista: era buona cosa che ognuno potesse coltivare il suo culto, dal momento che ogni culto è un tentativo, una strada per giungere al grande segreto. Non si poteva pensare che ci fosse una sola strada.

Quale giudizio dare? Va riconosciuto che la relazione era stilisticamente mirabile, ma  non lo era altrettanto a livello di contenuti concettuali. Si ricorse alla classica tesi degli dei “etnarchi”.

Va detto chiaramente che il ricorso a questa tesi non mirava affatto a dare vita a una prassi di tolleranza religiosa ma a strappare un riconoscimento positivo del paganesimo. In un primo momento questo intento non fu colto, si ritenne invece che il discorso era molto moderato e conciliante: infatti ottenne  prima l’unanime consenso del Senato Romano, in cui sedevano anche parecchi cristiani e poi l’ammirazione del consistorio imperiale.

Ma un’attenta considerazione porta scorgere che non si trattava affatto di una logica di tolleranza. Il tema della tolleranza religiosa ha come fondamento non un giudizio di principio sulle religioni, ma un giudizio sulla persona umana, sulla sua dignità e sulla libertà  della sua coscienza. Simmaco invece sviluppò un discorso, che era affermazione di principio sulle varie religioni, infatti dichiarava che tutte le religioni sono intrinsecamente positive, perché tutte portano al grande segreto. Ne conseguiva che il cristianesimo non è che una di queste vie.

Merita di essere considerato un altro aspetto: la pluralità delle vie religiose non era proposta come dato esperienziale, che rilevava pragmaticamente che gli uomini tendono al grande segreto e vi giungono in maniere diverse. La pluralità delle vie religiose era invece posta come affermazione di principio: tutte le vie portano in sé e per sé al grande segreto, tutte le vie quindi sono intrinsecamente positive e pertanto il cristianesimo non è che una di queste vie.

L’adesione alla tesi di Simmaco  quindi comportava da un lato una relativizzazione del cristianesimo e dall’altro un riconoscimento del valore positivo del paganesimo.

L’imperatore Valentiniano II rispose negativamente alla richiesta di Simmaco, raccogliendo i suggerimenti, che gli furono espressi da sant’Ambrogio in due sue lettere: sant’Ambrogio in quel momento godeva altissima considerazione presso la corte imperiale di Milano, perché in una sua missione diplomatica a Treviri aveva ottenuto che l’usurpatore Eugenio venisse ad accordi con la corte imperiale di Milano.

Nell’Epstola 17 (PL XVI, 1002-1006), chiese a Valentiniano II di poter conoscere la relazione di Simmaco per potere poi elaborare una risposta puntuale, Però con il tono risoluto di chi ritiene di stare agendo in nome dell’Autorità suprema, Ambrogio anticipa il suo pensiero: anche l’imperatore è tenuto ad attenersi al giudizio di Dio più che al giudizio dei suoi consiglieri: e il giudizio di Dio in questa questione, che è religiosa, ha il suo interprete autorevole nel vescovo. E il vescovo dichiara che è un atto sacrilego collocare di nuovo l’ara davanti alla statua della Vittoria. Il vescovo dichiara anche che è un atto ingiusto, perché consentire in Senato una pratica cultuale pagana sarebbe lesivo dei diritti dei senatori cristiani, che si troverebbero costretti ad assistere a riti pagani.

Sant’Ambrogio concludeva la sua lettera con questa minaccia decisa e minacciosa: “Se altrimenti verrà deciso, noi vescovi non potremo sopportarlo a cuor leggero o ignorarlo. Potrai venire alla chiesa, ma lì non troverai il sacerdote, oppure sì lo troverai, ma per impedirti l’accesso” (da questo passo nacque poi la leggenda di Ambrogio che avrebbe bloccato Teodosio sulla porta della chiesa).

Nell’Epistola 18  sant’Ambrogio dette risposta puntuale alla relazione di Simmaco: accenno ai passi salienti:

“Non per dubbi sulla tua fede, ma per previdente cautela e sicuro di un tuo scrupoloso esame, con questo scritto rispondo alle affermazioni della relazione, chiedendo solo che tu faccia attenzione non all’eleganza della forma, ma alla sostanza degli argomenti…”.

Ambrogio poi puntualmente sgretolò i tre grandi argomenti sostenuti da Simmaco nella sua relazione.

1.      Roma invoca i suoi vecchi culti, grazie ai quali respinse Annibale… Ma proprio mentre si proclama la potenza dei riti pagani, se ne rivela la debolezza: infatti, anche Annibale venerava quegli stessi dei, ma quel culto mentre trionfava presso i Romani, veniva schiacciato presso i Cartaginesi. È meglio ritenere quindi che i trofei di vittoria non vengono dalle viscere degli animali, ma dal valore di soldati come Camillo, come Attilio. E non è forse vero che i barbari hanno varcato i confini romani, mentre c’era l’ara davanti alla statua della vittoria? A Roma che arrossirebbe per il suo peccato di empietà per l’abbandono dei culti antichi, Ambrogio risponde che Roma dovrebbe invece dire: “Non arrossisco a quest’età di convertirmi con tutto il mondo, è proprio vero che non è mai troppo tardi per imparare. Arrossisca quella vecchiaia che non sa correggersi. Non la longevità degli anni va apprezzata, ma quella dei costumi”.

2.      A Simmaco poi, che afferma che al segreto non si giunge per una sola strada, ma si giunge anche con i culti pagani, Ambrogio replica che quel che è segreto per i pagani, per i cristiani non lo è, perché i cristiani lo conoscono per Rivelazione.

3.      Si devono concedere ai suoi sacerdoti e alle sue vergini vestali gli emolumenti, che loro spettano, questo sostiene Simmaco. Ambrogio fa notare che i cristiani sono cresciuti tra le ingiustizie, tra le ristrettezze, tra i supplizi, mentre Simmaco sostiene che le cerimonie dei sacerdoti pagani senza redditi non possono resistere. Simmaco sostiene che le vergini vestali devono avere le loro immunità, Ambrogio gli contrappone quel che avviene tra i cristiani. I pagani propongono la virtù, promettendo guadagni e al massimo riescono a procurarsi sette vergini. Tra i cristiani la pratica della verginità è gratuita e c’è una plebe del pudore, c’è un popolo di integrità.

4.      Simmaco infine sostiene che la carestia, che sta affliggendo in quel momento il mondo intero, è il castigo degli dei per l’abbandono delle fede antica e per la negazione degli emolumenti ai sacerdoti e alle vestali. Ambrogio gli obietta che sarebbe davvero strana la giustizia di questi dei, che per castigare la privazione di vitto imposta ai sacerdoti, condannano tutti alla fame! Avremmo una pena che è sproporzionata rispetto alla colpa. E poi, visto che nell’anno in corso la carestia è rientrata, si deve forse pensare che gli dei si sono stancati di castigare?

Il discorso di Ambrogio è certamente meno elegante di quello di Simmaco, ma manifesta di essere scaturito da una mente, che ha saputo liberarsi da una interpretazione mitica e fissista della storia, al punto da sembrare dissacratoria.

L’aristocrazia pagana tornò nuovamente alla carica nel 389 e nel 392: ottenne ascolto da parte dell’usurpatore Eugenio. Ma la vittoria di Teodosio nel 394 segnò la fine definitiva di ogni velleità.

Santo Mazzarino ha sostenuto che nel 402 Simmaco avrebbe compiuto un nuovo tentativo presso Onorio a Milano, ma l’esito ancora una volta fu negativo. E’ in questo contesto che sarebbe nato il Contra Symmacum di Prudenzio.

Concludendo, dobbiamo riconoscere che il paganesimo, pur godendo nel IV secolo di una notevole presenza nella società, ebbe tuttavia scarso peso nella vita politica e debolezza rilevante sul piano religioso. Per i più il paganesimo era ridotto a pratica ritualistica, per una minoranza invece conservava un valore notevole, ma estrinseco, un valore sociale e culturale più che religioso.