domenica 16 giugno 2024

 

LA RIFORMA GREGORIANA

 

Presento qui le lezioni, che tenni negli anni 1975-1982, pertanto la bibliografia è molto datata.

Ovviamente feci riferimento a tutti i manuali di Storia della Chiesa allora disponibili.

Inoltre:

A.   FLICHE, La reforme gregorienne, 3 volumi, Louvain-Paris 1924/1937

 

H. - X. ARQUILLIERE, Saint Grcroire VII. Essai sur sa conception du pouvoir pontifical, Paris 1931

 

G. TELLENBACH, Libertas. Kirche und Weltordnung im Zeitalter des Investiturstreites, Stuttgart 1936

 

R. MORGHEN, Gregorio VII, Torino 1942

 

G. MICCOLI, Pietro Igneo. Studi sull’età gregoriana, Roma 1960

 

G. MICCOLI, Chiesa gregoriana. Ricerche sulla riforma del secolo XI, Firenze 1966

 

Ricordo infine che su Gregorio VII e sui problemi della sua epoca abbiamo una monumentale raccolta di studi iniziata nel 1947 ad opera di G.B. Borino:

Studi gregoriani per la storia di Gregorio VII e della riforma gregoriana, 7 volumi, Roma 1947-1961.

 

E’ aperta una discussione tra gli storici a proposito del carattere innovativo o tradizional-conservatore della riforma gregoriana:

 

A. FLICHE, op. cit.: attribuisce alla riforma gregoriana una impronta tradizionalista, in quanto non farebbe altro che situarsi in continuità con la linea della politica papale, che risale ai primi secoli della Chiesa.

 

E. CASPAR, Gregor VII in seinen Briefen : Historische Zeitschrift 130 (1924), 1-30: sostiene invece che Gregorio VII fu un innovatore.

 

N. F. CANTOR, Church, Kingship, and Lay Investiture in England 1089-1135 , Princeton 1958, 6-9: ritiene che la riforma del secolo XI debba essere considerata una delle quattro grandi rivoluzioni mondiali.

 

B. TIERNEY, The Crisis of Church and State, 1050-1300, Prentice-Hall 1964, 47-48: sostiene che alla base della riforma c’è un atteggiamento conservatore, che si rifà alla tradizione antica della Chiesa, tuttavia l’applicazione di questa visione – anche se non del tutto compresa – ad un’epoca diversa ebbe implicazioni rivoluzionarie per quei tempi.

 

Il fenomeno di riforma, che segna il trapasso dalla fase della coesione alla fase di diastasi, viene convenzionalmente qualificato co­me “riforma gregoriana''. E’ evidente che si fa riferimento a papa Gregorio VII, ma con ciò non si vuole affatto affermare che l'azione riformatrice si è espressa esclusivamente durante questo pontificato e in virtù dell'opera di questo papa soltanto: è certo che i primi passi di tale trasformazione furono compiuti parecchio tempo prima che Gregorio VII salisse sulla cattedra di Pietro ed è altrettanto certo che la conclusione fu raggiunta qualche decennio dopo la morte di Gregorio VII. Si deve pertanto concludere che questa riforma è “gregoriana'' perché ha in Gregorio VII il suo emblema.

 

1 - I primi passi della riforma gregoriana nel secolo X

 

La storiografia ha assegnato al secolo X l'etichetta di secolo di ferro: a nostro avviso si tratta di un giudizio piuttosto sommario e riduttivo. Non c’è dubbio che la società cristiana occidentale si presentò all'inizio del nuovo millennio in situazione di grave decadenza. Non c’è dubbio che la vita ecclesiale era gravemente compromessa dalla ingerenza padronale della nobiltà, che aveva in­trodotto usanze e mentalità difformi dalla regula canonica della Chiesa primitiva: il nicolaismo e la simonia del clero ne erano la prova più evidente! Tuttavia si deve senz'altro riconoscere che non si può ridurre tutto a questo denominatore comune di decadenza: un po' in tutti i settori cominciavano ad apparire chiari segni di ripresa (si pensi alla renovatio imperii, ai fenomeni di rinnovamento monastico, canonicale e laicale). Proprio questo rilievo ci consente di dire che nel secolo X si ebbe non solo il decompor­si di un certo ordine di cose, ma anche il primo timido configurar­si di quella riforma, che caratterizzerà il secolo successivo: e ancora una volta si può notare che nella storia non si dà mai una cesura radicale tra un'epoca e l'altra.

I primi cenni di riforma, che riscontriamo nel corso del secolo X presentano un carattere piuttosto settoriale e morale.

La settorialità consiste prima di tutto nel fatto che i vari tentativi di riforma non si spinsero oltre l'ambito particolare, in cui si produssero (i monaci pensarono solo alla riforma della vita monastica, i canonici si preoccuparono solo della riabilitazione della vita canonicale); in secondo luogo la settorialità è da­ta dal fatto che i vari fenomeni di riforma interessarono solo al­cune aree geografiche e non tutta la realtà occidentale; infine la settorialità sta nel fatto che mancò un'autorità che dirigesse e coordinasse tutta l'azione riformatrice.

Si deve poi rilevare che la riforma del secolo X non fu istituzio­nale, ma soltanto morale, in quanto la volontà di una maggiore purezza di vita portò a combattere i vizi, ma ancora non si impegnò nella ricerca degli elementi strutturali, che di tali vizi erano la causa.

Non deve sfuggire che tra i circoli riformatori del se­colo X ve n'era uno che, timidamente, mostrava dì spingere verso il superamento della riforma meramente settoriale e morale: si trat­tava di Cluny. Certo, Cluny non si preoccupò che della riforma monastica, ma ciò fece mettendo in circolazione intuizioni nuove.

Per esempio Cluny perseguì la libertas monasterii, ricorrendo alla donazione del fondo terriero a San Pietro, in quanto per tale via si impediva agli elementi extra-monastici di intervenire nella vita monastica a titolo di proprietà: ebbene, questa trovata non giungeva affatto a mettere in discussione la globale relazione feudale, però era già qualcosa che andava oltre la semplice riforma morale.

Altro esempio: Cluny perseguì la libertas monasterii, introducen­do nella vita monastica la pratica dell'esenzione e della centralizzazione, fondate su un legame diretto con il Papa: anche qui si trattava di una iniziativa che rimaneva nell'ambito monastico, però già esprimeva un'esigenza di coordinamento sotto l'autorità della Sede Apostolica.

 

2 - L'azione di riforma nella prima metà del secolo XI

 

Le intuizioni cluniacensi non trovarono applicazione più vasta nei primi decenni del secolo XI, in quanto il papato, asservito agli interessi prima della famiglia dei Crescenzi e poi dei Tuscolani, non poté coltivare più ampi interessi di riforma.

Una certa azione di riforma fu invece promossa dall'imperatore En­rico II (1002-1024). Grazie ad Enrico II la Riforma trovò modo di superare la settorialità e frammentarietà del secolo X: tuttavia rimase riforma soltanto morale, in quanto un sovrano tedesco, che fondava il suo potere politico soprattutto sul legame feudale degli ecclesiastici, non poteva certo promuovere una riforma strutturale. Espressione significativa di questa attività riformatrice di Enrico II fu il sinodo di Pavia del 1022: l'imperatore insieme con il papa Benedetto VIII si scagliò contro la piaga del nicolaismo, disponendo la deposizione degli ecclesiastici che osavano passare al matrimonio. Nel valutare questo provvedimento si tenga presente che esso non fu primariamente suggerito da preoccupazioni di carattere spirituale, ma piuttosto dall'esigenza di impedire che il patrimonio ecclesiastico cadesse nelle mani dei figli dei preti.

Enrico II morì senza lasciare figli e pertanto il nuovo re tedesco fu scelto non più tra i membri della dinastia sassone, ma tra quelli della dinastia di Franconia o Salica.

Il nuovo imperatore Corrado II sotto il profilo politico fu un sovrano di notevole valore, ma sotto il profilo ecclesiastico fu assai meno apprezzato del suo predecessore: preso dall’esigenza di consolidare sempre più il potere politico, Corrado II non esitò a subordinarvi l’aspetto ecclesiastico, giungendo per esempio ad imporre agli ecclesiastici un forte relevium in occasione dell’investitura. Di per sé questo modo di procedere non si configurava come una vera e propria pratica simoniaca, poiché il relevium non era in relazione con l’ufficio spirituale in quanto tale, ma con le regalie e il dovere di servitium, tuttavia in quel tempo lo spirito di riforma era così acceso da non sopportare in nessun modo l’uso di denaro in connessione con l’elevazione ad un ufficio ecclesiastico e perciò gli ambienti riformatori considerarono Corrado II un avversario, un simoniaco. In verità anche questa esperienza negativa non fu del tutto superflua, infatti fece maturare la convinzione che il coordinamento della riforma, se affidato al solo potere imperiale, non aveva sufficienti garanzie di continuità e di durata.

Fu sotto Enrico III (1039-1056) che trovò attuazione l’esigenza di superare la settorialità  mediante un coordinamento, che non si  limitasse al solo potere imperiale. Enrico III sentiva profondamente la sublimità della monarchia sacrale e perciò non si limitò
soltanto a procurare saldezza al potere politico, ma anche si dedicò ad un'opera di rinnovamento morale: introdusse nel governo dell’impero l’idea della pace di Dio; nella elezione dei vescovi intervenne non solo per assicurarsi un fedele subalterno, ma anche per garantire la scelta di una persona moralmente degna; a parecchi monasteri garantì la libertas dalle ingerenze della nobiltà locale, sottomettendoli alla protezione regia; infine abolì il relevium richiesto da suo padre in occasione dell’investitura di benefici ecclesiastici.

Questo spirito di riforma morale, con cui interpretava il carattere sacrale della sua missione regale, portò Enrico III ad interessarsi della decadenza del papato e, per questa via, giunse ad associare il papato nell’azione di riforma.

 

 

3 - Gli avvenimenti dell'anno 1046

 

Nel 1012, alla morte di Giovanni III Crescenzio, in Roma il potere era passato nelle mani della famiglia dei Tuscolani, capeggiata dal conte Alberico di Tuscolo. A questo puntò il papato divenne praticamente un bene di famiglia: nel 1012 Alberico fece eleggere come papa il fratello Teofilatto, che assunse il nome di Benedet­to VIII; nel 1024 assicurò il papato ad un secondo fratello di nome Romano, che divenne papa Giovanni XIX; infine nel 1032 Alberico portò sulla sede romana il figlio Teofilatto, che assunse il nome di Benedetto IX e che si è iscritto nella storia, del papato come una delle figure peggiori.

Parecchie fonti ci fanno sapere che Benedetto IX divenne papa in giovane età: Rodolfo Glabro affer­ma che Benedetto IX doveva avere allora circa dodici anni (RODOLFO GLABRO, Historiarum sui temporis libri quinque IV, 5; V, 5 : PL  CXLII coll. 611-98; MGH SS VII, pp. 51-72).

Storici più recenti (L. POOLE, Benedict IX and Gregory VI : Proceding of the British Academy 1917-18, pp. 199-235 e S. MESSINA, Benedetto IX Pontefice Romano, Catania 1922) a partire dai delitti che furono ascritti al giovane Teofilatto, preferiscono attribuire al nuova papa un’età di trenta anni circa, in quanto un bambino non avrebbe potuto osare tanto! Il potere di Benedetto IX divenne precario verso il 1044, quando il giovanissimo e debolissimo papa tuscolano, rimasto senza l’appoggio politico-militare del padre Alberico, morto in quel frattempo, si trovò a fronteggiare una ribellione, che fu dettata non da motivazioni morali, cioè  dal disgusto ­per la sua vita perversa (tesi di Bilmeyer-Tuecle), ma da ragioni di natura politica in quanto fu provocata da alcuni movimenti di opposizione, che facevano capo ad una linea laterale dei Crescenzi (gli Ottaviani), che aveva la sua roccaforte in Sabina e voleva sbarazzarsi dei Tuscolani. Non per nulla nel settembre 1044 quando Benedetto IX fu costretto ad abbandonare Roma, venne eletto come nuovo papa un vescovo della Sabina, Giovanni, che assunse il nome di Silvestro III. Ma dopo poco più di un mese Benedetto IX riuscì a riprendere il potere. Silvestro III se ne tornò in Sabina e pare che non abbia mai più  avanzato pretese in ordine al papato. Benedetto IX dal canto suo cominciò a convincersi che in quelle condizioni l'ufficio papale era piuttosto un peso e pertanto giunse a maturare l'intenzione di dimettersi, ponendo una sola condizione: chiedeva che gli venissero versati mille talenti d'oro a titolo di compenso per le spese che la sua famiglia aveva dovuto affrontare nel 1032 per finanziare la sua elezione.

Il desiderio di accantonare un papa così indegno spinse subito alcune persone a trattare con Benedetto IX e a versargli la somma richiesta: faceva parte del gruppo un certo Graziano, pio arciprete della Chiesa di S. Giovanni di Porta Lata e padrino di battesimo di Teofilatto stesso.  Questo Graziano, appunto, fu poi scelto come nuovo papa col nome di Gregorio VI (1045). Per due anni circa Gregorio VI poté godere del riconoscimento sia degli ambienti riformatori, sia della stessa corte imperiale: ciò che si conosce­va del papa, la sua integrità morale, entusiasmava: ciò che invece poteva suscitare una qualche perplessità, la questione dei mille talenti d'oro, per molto tempo rimase nel segreto. Però verso l’autunno del 1046 una qualche voce cominciò a trapelare e sia gli ambienti riformatori italiani, sia lo stesso Enrico III, che si trovava allora in Italia per recarsi a Roma a cingere la coro­na imperiale, iniziarono a diffidare di Gregorio VI e a pensare che forse era il caso di sbarazzarsi completamente della situazione carica di ambiguità, che si era creata a Roma negli anni dal 1044 al 1046, per dare avvio ad un nuovo corso moralmente indiscutibile.

Enrico III passò all'attuazione di queste intenzioni: il 20 dicembre riunì a Sutri un sinodo per giudicare la questione del papato.

In genere si dice che allora vi erano tre papi, in realtà questa affermazione non ha nessun fondamento storico, in quanto Silvestro III si era ritirato completamente dalla scena ed anche Benedet­to IX, una volta rassegnate le dimissioni, non aveva recato disturbi a Gregorio VI, che pertanto nel 1046 era il solo papa effettivamente in carica.

Il sinodo di Sutri decise di deporre papa Silvestro III e papa Gregorio VI; tre giorni dopo un nuovo sinodo procedette alla deposizione di Benedetto IX e passò alla elezione del nuovo papa. Su suggerimento di Enrico III venne eletto Suigero, vescovo di Bamberga, che assunse il nome di Clemen­te Il. Il nuovo papa ricevette la consacrazione il giorno di Natale e poi compì l'incoronazione imperiale di  Enrico III. Gli avvenimenti che abbiamo sinteticamente presentato pongono alla critica storica varie e assai dibattute questioni.

La prima riguarda l'accusa di simonia mossa a Gregorio VI, che fu la ragione della sua deposizione. Diversi storici, per dimostrare che la deposizione fu ingiusta, si sono messi ad indagare se Gegorio VI sia veramente incorso nel crimine formale di simonia. Alla fine sono giunti a queste conclusioni: Gregorio VI non sarebbe incorso nel crimine forma­le di simonia, prima di tutto perché non avrebbe preso parte personalmente alla transazione pecuniaria (ma bisognerebbe anche dimostrare che non ne era al corrente) ed in secondo luogo perché la stessa transazione pecuniaria non sarebbe configurabile come simonia, come vera compra-vendíta del pontificato: fu solo un rimborso spese. A noi pare che un tale modo di procedere sia del tutto anacronistico: non si deve cercare se Gregorio VI sia incorso nel crimine di simonia formalmente considerato, secondo una valutazione oggettiva, tecnica, che prescinda dal contesto storico particolare in cui la questione fu giudicata. Si tratta piuttosto di vedere che cosa allora, dalla mentalità dominante in quel momento fosse considera­to simonia: e noi sappiamo che in quei tempi lo spirito di riforma era così acceso da considerare simoniaca ogni operazione finanziaria, che avvenisse in connessione con un'elevazione. Lo stesso Enrico III partecipava a questo clima, infatti si ricordi che lui pure considerò simoniaco il relevium richiesto da suo padre Corrado II e lo abolì. Ebbene, secondo questa mentalità Gregorio VI era un simoniaco: su questo punto le fonti di quell'epoca sono concordi.

Una seconda questione: diversi storici ritengono che la deposizione di Gregorio VI sia da considerarsi illegittima ex defectu compe­tentiae. Questa tesi aveva trovato sostenitori già ai tempi del Sinodo di Sutri. Ad esempio il vescovo Vazone di Liegi dichiarò che il Sinodo era incompetente, in quanto, secondo un principio delle decretali dello pseudo-Simmaco, “papa a nemine iudicatur” (MGH SS VII, Gesta episc. Leod. c. 66 § 230). Anche l'autore, forse francese, del trattato "De ordinando ponti­fice" (MGH Lib. del Iite, p.14) sostenne l'incompetenza di Enrico III, che praticamente a Sutri aveva imposto la            sua volontà.

Un prete anonimo della Bassa Lotaringia riteneva che Clemente II non doveva essere ritenuto papa, perché scorretta fu la procedura della sua scelta. Fondandosi sulle decretali dello Pseudo-Isidoro, argomentava che nessun laico ha il diritto di intromettersi nelle questioni ecclesiastiche. Inoltre rimproverava a Enrico III di essersi mosso in base a motivi suoi personali: sapendo che Gregorio VI non avrebbe riconosciuto il suo matrimonio canonico irregolare, decise di scegliere un papa disposto a piegarsi alla sua volontà (cfr Forschungen zur Detschen Geschichte, XX, p. 570).

Noi riteniamo che non sia esatto accantonare l'obiezione, adducendo il fatto che Gregorio VI avrebbe riconosciuto la sua colpa e si sarebbe spontaneamente dimesso. Anche se testimoniata dalle fonti, questa spontaneità non può non apparire sospetta, poiché è certo che Enrico III non lasciò molti margini di libertà alla volontà di Gregorio VI. A noi pare che l'obiezione di incompetenza del giudice possa essere rimossa per altra via. Si deve ricordare che la tradizione recava non solo il principio “papa a nemine iudicatur” ma anche il ricordo di vari interventi contro papi indegni. Non per nulla di li a un secolo Graziano nel suo Decretum, il testo fondamentale della canonistica, non si limitò solo a ricordare il principio “papa a nemine iudicatur”, ma anche richiamò l'eccezione “nisi a fide devius deprehendatur”. Gregorio VI, papa simoniaco e quindi in errore circa la dottrina dello Spirito Santo, rientrava in questa situazione d'eccezione, che poneva sotto giudizio un papa.

Rimangono i problemi del come ci si dovesse comportare nei confronti del papa indegno, del chi avesse la competenza per intervenire e del valore di un tale intervento, ma non possiamo pretendere che nel 1046 su questi punti ci fosse una prassi definita, se ancora ai tempi di Graziano non ci sarà chiarezza.

Già nel 799, quando si era posto il problema del papa Leone III, vedemmo che accanto ad una forte corrente, che si atteneva al principio “papa a nemine iudicatur”, c'era un'altra corrente, che auspicava l'intervento di Carlo Magno: ebbene nel 1046 la situa­zione dovette essere analoga. Solo che nell'800 a Leone III, per mancanza di accusatori formali, riuscì di sottrarsi al giudizio con un giuramento purificatorio; a Gregorio VI invece nel 1046 non fu possibile fare ricorso a qualcosa di simile, data l'inequivocabilità dell'accusa. Una terza questione riguarda la mentalità, che avrebbe sorretto Enrico III in tale intervento. E' certo che Enrico III avvertiva vivamente il carattere sacrale, quasi sacerdotale, del suo potere imperiale: tale convinzione spingeva Enrico III a sentirsi respon­sabile della riforma morale di tutta la cristianità. Enrico III, poi, fedele alla visione ecclesiologica altomedioevale, riteneva che tale opera potesse compiersi solo attraverso la col­laborazione tra potere regale e potere sacerdotale. Ecco allora che, per garantirsi la collaborazione di un papato riformatore, l'imperatore ritenne di dovere liberare il papato dal dominio del­la nobiltà romana e di dover fare in modo che i papi fossero per­sone disponibili alla collaborazione con l'imperatore.

In questa prospettiva il monarca tedesco dapprima si liberò dei papi ambigui creati dalla nobiltà romana poi con la persona del vescovo di Bamberga impose un candidato aperto sia alle istanze di riforma, sia alle istanze di collaborazione; infine per assicurar­si che ciò potesse accadere anche in futuro, si fece attribuire quel titolo di patrizio che aveva consentito ai Crescenzi e ai Tuscolani di controllare le elezioni papali: Enrico III di conseguenza stabilì che prima di procedere alla elezione di un nuovo papa i Romani si rivolgessero al patrizio-imperatore tedesco per ottenere il consensus a procedere e la designazione del candidato.

Enrico III poté adire a tale prassi quattro volte: con Clemente II, con Damaso II, con Leone IX e con Vittore II e sempre si trattò di vescovi tedeschi.

Questo modo di agire ha portato alcuni storici a ritenere che Enrico III abbia voluto trattare il vescovo di Roma alla stregua di qualsiasi altro vescovo dell'impero tedesco, che, quale membro della Chiesa statale germanica, dipendeva dalla signoria del monarca tedesco (P. Kehr). Con G. TELLENBACH (Libertas. Kirche und Weltordnung im Zeitalter des Investiturstreits, Stuttgart, 1936) riteniamo che la tesi va un po’ ridimensionata, perché l'Enrico III, che controllava così pesantemente l'elezione del papa, sapeva anche non interferire nello svolgi­mento dell’ufficio papale, una volta che l'elezione era avvenuta e ciò per la convinzione che il vescovo di Roma non era riducibile alla relazione feudale, che invece legava gli altri vescovi tedeschi all'imperatore. Pertanto riterremmo che l’intervento nell'elezione del papa, pur riproducendo la forma della scelta di vescovi tedeschi, non deb­ba essere ascritta anch’essa alla visione di Chiesa imperiale, ma semplicemente vada considerata un dato della contingenza storica: allora quello era l'unico modo per eliminare il dominio della nobiltà romana e per garan­tirsi dei papi disposti a collaborare con l’imperatore nell'azio­ne di riforma morale.

 

4 – LA RIFOMA SOTTO I PAPI TEDESCHI (1046 - 1057)

 

Possiamo fare subito due rilievi generali.

Primo rilievo: con i papi tedeschi il papato venne ad assumere un ruolo di primo piano nella conduzione della riforma, ruolo che però fu condivi­so con l'imperatore.

Secondo rilievo: data la mentalità di coe­sione, la riforma perseguita durante questa fase fu ancora esclu­sivamente morale: la si pensò come un ritorno alla purezza della Chiesa romana dei grandi papi: da qui i nomi assunti dai papi tedeschi: Clemente II, Damaso II, Leone IX, Vittore          II. Fu prima di tutto riforma del clero, a partire dalla convinzione che la vita religiosa di tutta la società cristiana dipende fondamentalmente dalla vita del clero.

Veniamo ora ad alcuni accenni sul singoli papi.

 

CLEMENTE Il

Resse la Chiesa dal 25 dicembre 1046 al 2 ottobre 1047. Evidentemente in nove mesi non poté svolgere una effi­cace azione di riforma; ebbe il tempo solo per enunciare propositi di riforma: ciò fece in un sinodo tenuto a Roma il 5 gennaio 1047, cui prese parte anche Enrico III. In tale circostanza fu pronunciato l'anatema contro gli ecclesiastici simoniaci, ma secondo un orientamento moderato: infatti venne stabilito che gli ecclesiastici, che consapevolmente si erano fatti ordinare da un simoniaco, potevano essere reintegrati nel loro ufficio dopo quaranta giorni di penitenza.

Alla morte di Clemente II fece ritorno sulla scena il deposto Benedetto IX, che continuò vanamente ad avanzare pretese fino alla morte (1055).

 

DAMASO II

Nel Natale del 1047 Enrico III rese nota la sua designazione: si trattava del tedesco Poppone, vescovo di Bressanone, che assunse il nome di Damaso II: fu intronizzato nel luglio 1048, ma dopo ventitre giorni di pontificato era già morto!

 

LEONE IX

Più importante fu il pontificato del terzo papa tedesco. Bruno, allorché fu designato a succedere a Damaso II, aveva quarantasei anni e reggeva da oltre venti anni la diocesi lotaringia di Toul. Come sappiamo, la Lotaringia era terra di riforma e Bruno ne aveva assorbito lo spirito. Lo dimostrò fin dall'inizio del suo pontificato: accettò la designazione imperiale, ma a condizione che vi facesse seguito l'elezione canonica da parte del clero e del popolo romano. Infatti il 12 febbraio Bruno si presentò a Roma, indossando non le insegne pontificie, ma l'abito dimesso dei pellegrini. Fu acclamato come papa Leone IX. Con Leone IX finalmente il papato passò dai propositi di riforma alla attività di riforma. Nella sua opera riformatrice Leone IX fece ricorso in particolare a quattro strumenti.

Prima di tutto raccolse intorno a sé un gruppo di collaboratori, provenienti da varie regioni dell’Europa ed animati da autentico spirito di riforma.

Vi si distinguono: Umberto, del monastero lorenese di Moyenmoutier, nominato da Leone IX cardinale vescovo di Silva Candida. Fede­rico, figlio del duca di Lorena, arcidiacono della Chiesa di Liegi e nel periodo che va dal 1051 al 1055 cancelliere della Chiesa Romana;  diventerà poi papa Stefano IX; Ugo Candido del monastero lorenese di Remiremont e poi il cardinale presbitero Ildebrando, romano, che aveva accompagnato in esilio il deposto Gregorio VI: Leone IX lo ordinò suddiacono e gli affidò l’amministrazione del monastero di s. Paolo: sarà poi papa Grego­rio VII. Raccogliendo intorno a sé questi collaboratori, Leone IX assicurò alla sua azione riformatrice la possibilità di continuare arche dopo la sua morte. Inserendo alcuni di questi collaboratori nel gruppo dei cardinali, Leone IX attribuì a questo collegio un nuovo compito: non doveva più svolgere solo funzio­ni liturgiche nelle basiliche romane maggiori, ma d'ora in poi doveva anche essere un organo, che affiancava il papato nell'amministrazione della Chiesa. Infine la presenza, accanto al papa, di un gruppo internazionale spinse sempre più la Sede Apostolica verso una mentalità e verso un'azione, che andavano ben oltre le beghe delle casate romane.

Secondo strumento di riforma approntato da Leone IX: i Sinodi romani quaresimali di riforma. Con questo papa tali concili cominciarono ad essere celebrati con frequenza annuale. Vi parte­cipavano non solo i vescovi della provincia ecclesiastica di Ro­ma, ma anche altri vescovi dell'Occidente invitati dal papa, oppure presenti a Roma durante la riunione conciliare. La presen­za di questi vescovi attorno al papa non      è da leggersi come una affermazione della collegialità episcopale, responsabile della cura omnium ecclesiarum, va letta piuttosto come un'espressione della dipendenza dalla supremazia del papato, che in maniera mo­narchica rispondeva alle esigenze di tutta la Chiesa, disponendo misure di riforma e comunicandole ai vescovi, perché le avessero ad attuare nelle rispettive diocesi. I concili generali medievali, in quanto non saranno altro che un allargamento di questi concili romani quaresimali, esprimeranno questo singolare ruolo papale e perciò sono qualificati dagli studiosi come concili papali. 

Terzo strumento: i viaggi. Quello di Leone IX fu un pontificato itinerante: per tre volte il papa si portò oltre le Alpi, annual­mente si recò nell'Italia Meridionale. Spesso questi viaggi consen­tono al papa di rendere presenti anche fuori Roma le decisioni prese nei Sinodi romani di Quaresima: ciò avvenne nel 1049 con i Sinodi di Pavia, Reims e Magonza, nel 1050 con i Sinodi di Sipon­to ( Puglie) e Vercelli, nel 1053 con il Sinodo di Mantova.

Questi viaggi ebbero un notevole valore per l'autorità pontificia. L'idea che il papa fosse il capo di tutta la Chiesa trovava concreta affermazione; il fatto poi che tanta gente potesse vedere con i propri occhi un papa di indiscutibile virtù si traduceva in attaccamento al suo ufficio. In connessione con questi viaggi si determinò una evoluzione importante nella Curia papale. Prima di Leone IX per la stesura dei documenti la Sede Apostolica non dispo­neva di un suo proprio gruppo di tabellioni, ma si serviva dei tabellioni romani, ora Leone IX, dovendosi spostare da un luogo ad un altro, si trovò nella necessità di istituire un gruppo di ta­bellioní al servizio esclusivo della Sede Apostolica ed in grado di seguire la peregrinatio papale: abbiamo qui i primi accenni di una vera e propria cancelleria papale.

Quarto strumento: le collezioni canoniche. Le pratiche nefaste erano riuscite a corrompere la vita ma non erano riuscite ad alte­rare i testi canonici. Così il diritto cominciò ad apparire come l'immutabile guardiano della tradizione (A. Fliche), a cui occorreva fare riferimento, se si voleva ridare alla Chiesa la sua antica purezza. Del resto Leo­ne IX nella sua lotta contro la simonia e il nicolaismo dovette compiere vari interventi e quindi si trovò nella necessità di mostrare il fondamento giuridico della sua azione. Nella stessa di­rezione fu spinto anche dalla polemica con l'oriente circa il pri­mato, polemica che sotto il pontificato di Leone lX divenne particolarmente aspra. Ed ecco che sotto questo papa, appunto, per ri­spondere a queste esigenze, fece la sua apparizione la prima col­lezione canonica legata alla riforma gregoriana: la collezione “in 74 titoli” o “Diversorum Sententiae patrum”, talora attribuita a Umberto di Silva Candida.

Vediamo ora i contenuti della riforma promossa da Leone IX. L'attenzione rimaneva rivolta al clero, la cui vita doveva essere liberata dalle due piaghe del nicolaismo e della simonia. Tuttavia Leone IX introdusse in tale azione due novità. Prima di tutto durante questo pontificato la Sede Apostolica venne ad assumere nella riforma un ruolo deciso di conduzione: l’imperatore continuava ad essere considerato un necessario collaboratore ma di fatto il suo ruolo divenne sempre meno rilevante. In secondo luogo con Leone lX la Sede Apostolica avvertì quali erano le possibilità effettive di azione e pertanto giunse a precisare una strategia         di riforma: comprese infatti che il fronte su cui il papato doveva impegnar­si non poteva essere quello del nicolaismo, in quanto questa piaga era diffusa soprattutto tra il basso clero e qui la Sede Apostolica non poteva agire direttamente, ma doveva piuttosto fare affidamento sull’intervento capillare del vescovo locale. Da qui derivava che prima preoccupazione del papato doveva essere la riforma dell’epi­scopato, che era corrotto soprattutto dal vizio della simonia. A questo punto siamo in grado di capire come mai durante il pontificato di Leone IX gli interventi contro il nicolaismo furono rari, di portata locale (praticamente contro i nicolaiti della diocesi di Roma e della provincia ro­mana): vi si stabiliva che i fedeli dovessero disertare le celebra­zioni presiedute da preti nicolaiti e che le donne di tali preti dovessero essere ridotte al rango di schiave del palazzo lateranen­se. Contro la simonia invece l'azione divenne notevolmente decisa e a vasto raggio.

La lotta contro tale vizio partiva da una preoccupazione di carattere dottrinale: nella simonia si vedeva non solo una degenerazione morale, ma anche un attentato diretto o indiretto contro la Fede.

Leone IX su questo punto, simonia come attentato diretto contro la fede, quindi come eresia,  faceva propria quella posizione radica­le, che trovò espressione nei primi due libri dello “Adversus Simoniacos'' di Umberto di Silva Candida (PL 143, cc 1004-1212; MGH Lib de lite 1, 95-253).

Umberto di Silva Candida prima di tutto assumeva un concetto molto ampio di simonia: in continuità con s.  Gregorio Magno (Homilia  IV in Evangelia: PL 76, cc 1091-1092), Umberto di Silva Candida per simonia intendeva non solo il traffico di cose sacre attraver­so prestazioni economiche, ma ogni tipo di prestazione umana che mirasse a ottenere come ricompensa un bene spirituale. Perciò Umberto, come Gregorio Magno, parlava di MUNUS A MANU (= dono in denaro o qualche altro vantaggio temporale), MUNUS AB OBSEQUI0 (= prestazioni servili: quella che un servo rende al suo signore), MUNUS AB ORE o A LINGUA (= adulazioni, lusinghe).

In secondo luogo Umberto di Silva Candida conferiva alla simonia il carattere di diretto attentato contro la fede. Secondo Umberto la simonia è una negazione chiara della gratuità (grazia implica il concetto di gratuità) dei Sacramenti e quindi una negazione della assoluta libertà dello Spirito, che agisce nei Sacramenti: negare l'assoluta libertà dello Spirito è come negarne la divinità, pertanto la simonia era una evidente eresia antitrinitaria.

Infine Umberto dal carattere ereticale della simonia traeva l'af­fermazione della nullità dei Sacramenti conferiti dai simoniaci. Il simoniaco, così argomentava Umberto, quale eretico non appar­tiene più al Corpus Christi, ma al Corpus Diaboli e pertanto non possiede lo Spiritus Christi, che produce gesti di salvezza, ma possiede lo Spiritus Diaboli, che genera dannazione. Da ciò in pri­mo luogo consegue che le celebrazioni sacramentali compiute da simoniaci sono solo sacramentum (= segno, rito, gesto esteriore), privo della virtus Sacramenti e pertanto inefficace; in secondo luo­go consegue che bisogna rifiutarsi di prendere parte a queste celebrazioni, in quanto non solo non sono salvifiche, non solo non aggregano al Corpus Christi, ma addirittura aggregano al Corpus Diaboli, sono fonte di dannazione. Come si vede per Umber­to di Silva Candida l'astensione dai sacramenti celebrati da si­moniaci non era una semplice misura disciplinare, mirante a suscitare ravvedimento (come appunto si faceva coi nicolaiti): era invece la conseguenza necessaria di una certa visione dottrinale, che in tali sacramenti celebrati da eretici riconosceva dei gesti in­capaci di salvare e capaci invece di contaminare.

Ebbene nel Sinodo romano quaresimale del 1049 Leone IX, a partire da una visione del genere, tentò di affermare la nullità dei sacra­menti celebrati da simoniaci e più tardi, per ragioni di sicurez­za, fece riordinare vescovi consacrati simoniacamente. E’ chiaro che una siffatta visione dottrinale, connessa con un concetto mol­to ampio di eresia, aveva pesantissimi riflessi a livello pratico: il numero dei vescovi e dei sacerdoti validamente ordinati subiva una pesante riduzione e quindi per moltissimi fedeli diventava praticamente impossibile accedere ai sacramenti.

Per questa ragione già al Sinodo del 1049 si espresse una tenace opposizione nei confronti del proposito di Leone IX e questi do­vette venire a più mite posizione: sanzioni disciplinari sì, fino alla deposizione, se necessario, ma pronunciamenti così radicali no!

L'opposizione alle tesi della nullità dei sacramenti amministrati da simoniaci trovò espressione dottrinale in un'opera di Pier Damiani: il “LIBER GRATISSIMUS” (PL 145, col. 99-156; MGH lib. de lite I, p. 15-75).

S. Pier Damiani fonda la tesi della validità delle ordinazioni simoniache su due tipi di considerazioni. Prima di tutto s. Pier Damiani ritiene che la simonia non possa essere considerata una vera e propria eresia, in quanto essa è degenerazione pratica che
non si spinge direttamente contro verità di fede, ma le coinvolge solo indirettamente. Pertanto, non essendo il simoniaco un eretico, non c'è ragione di negare la validità dei suoi sacramenti, come di fatto non si nega la validità dei sacramenti conferiti da nico­laiti.

In secondo luogo s., Pier Damiani ricorre al carattere ministeriale del potere d’Ordine: il ministro del sacramento non è altro che un canale, che trasmette la grazia di Cristo: colui che veramente opera nei sacramenti è Cristo stesso.

(Per inciso: l' “Adversus simoniacos, benché da noi citato prima dell'opera di Pier Damiani, è stato scritto in risposta al Liber Gatissimus: noi l'abbiamo anteposto per una ragione logica: l'Ad­versus simoniacos esprime la stessa posizione dottrinale che Leo­ne IX aveva tentato di imporre al Sinodo romano del 1049 e che aveva suscitato la reazione di Pier Damiani).

La presenza delle due tesi contrapposte ci mostra chiaramente il carattere ancora fluido della teologia sacramentaria del tempo: tale fluidità era dovuta al fatto che la cultura di questo periodo era in gran parte ripetitiva delle sententiae patrum, che su questo punto non erano affatto univoche.

Si ricordi per esempio la controversia battesimale tra Cipriano e papa Stefano, dove Cipriano sosteneva la tesi della invalidità dei sacramenti conferiti da eretici e quindi le necessità del ribattesimo, che invece da papa Stefano veniva negata. Si ricordi come Agostino nella controversia Donatista avesse sostenuto la tesi del­la validità del sacramento conferito da eretici. Si ricordi come, ancora nella seconda metà del sec. IX, questo duplice e contrastan­te orientamento teologico si fosse espresso a proposito delle ordinazioni conferite da papa Formoso. Dunque nel sec. XI soprav­viveva ancora questa esitazione.

Solo nel corso del secolo XIII  si giungerà ad una chiarificazione, grazie alla elaborazione di nuovi concetti come il carattere, la distinzione tra potere di Ordine e potere e giurisdizione, la distinzione tra validità e liceità: allora la tesi della validità sarà vincente.

cfr. E. AMANN, s.v. Réordinations : D TH C XIII/2 col 2385-2431;

      L. SALTET, Les réordinations. Etude sur le sacrement de l’Ordre, Paris 1907.

Leone IX, mentre a livello dottrinale fu costretto alla prudenza, ebbe invece la possibilità di far sentire la sua durezza a livello disciplinare sia in Francia sia in Italia, dove promosse varie in­chieste, che portarono a colpire parecchi simoniaci con pene di vario genere ed in diversi casi giunsero anche alla deposizione. In Germania Leone IX esercitò un'azione più blanda, in quanto in tale zona preferì lasciare libero campo all'imperatore Enrico III, di cui conosceva lo zelo riformatore.

Decisamente sfortunata fu invece l'azione di Leone IX contro i Normanni del sud-Italia.

Diversi soldati normanni erano venuti nel meridione per prestare la proprio opera a signori locali; nel corso del secolo XI vennero così a formarsi in questa area della penisola degli insediamenti normanni con notevole autonomia politica: il normanno Rainul­fo si trovò praticamente a governare il ducato di Aversa; mentre il normanno Guglielmo Braccio di Ferro divenne il signore delle Pugile.

Di per sé il papato avrebbe potuto prendere un atteggiamento filo-normanno e servirsi di questi alleati per strappare il sud alla dominazione bizantina ed araba e quindi riportare queste terre sot­to la giurisdizione patriarcale romana. Ma le lamentele, che la popolazione indigena levava contro le scorrerie e le devastazioni normanne, spinsero il papato ad anteporre ai propri interessi di potere un vivo senso di umanità. Pertanto Leone IX maturò il progetto di muovere militarmente contro i Normanni.

Per questa ragione nell'estate del 1052 Leone IX si recò in Germania da Enrico III al fine di ottenere un appoggio militare, ma non ottenne che un appoggio morale. Tuttavia non si scoraggiò: in Germania raccolse alcune truppe, che furono accresciute da milizie italiane e poi raggiunse un intesa con i bizantini, che avrebbero assicurato di intervenire accanto al papa contro i Normanni

Nel maggio del 1053 Leone IX si decise a guidare personalmente il suo esercito nella lotta: si diresse verso Melfi, dove avreb­be dovuto congiungersi con i bizantini, ma non vi riuscì perché presso Civita (in Calabria) subì una irreparabile sconfitta: era il 18 giugno. Il papa stesso fu portato come prigioniero a Benevento.

Alla base di questa discutibile impresa militare di Leone IX sta una convinzione religiosa: il papa ha il dovere di imporre sia ai chierici sia ai laici il rispetto della legge morale e quindi il rispetto della giustizia e della pace. Leone IX ritenne di dover raggiungere questa meta cristiana facendo ricorso al mezzo della guerra che, data la finalità che si proponeva, appariva al papa come una guerra santa. Questa mentalità, tuttavia, allora non trovò il consenso di tutti: un Pier Damiani avverti chiara­mente che il mezzo della guerra era disdicevole all'apostolico, anche se il ricorso a questo mezzo era suggerito da una finalità religiosa (PL 144, IV, epist. IX, 313-316).

Ci resterebbe da considerare un secondo fallimento di Leone IX: la sua relazione con la Chiesa d'Oriente. I contenuti di tale contrasto saranno da noi esaminati nel corso della tesi dedica­ta alla trattazione di questo tema specifico: per ora limitiamo­ci a ricordare che la delegazione papale inviata a Costantinopoli, concluse i lavori con la rottura che si protrae tuttora (16 luglio 1054, Bolla di scomunica). Il fatto che questo epilogo sia stato raggiunto alcune settimane dopo la morte di Leone IX (19 aprile 1054) ha portato recentemente a mettere in discussio­ne la legittimità di quella bolla di scomunica. Ma è - a nostro avviso - significativo che il problema sia stato sollevato piut­tosto recentemente a partire da preoccupazioni ecumeniche: allo­ra, invece, l'operato della delegazione papale non suscitò perplessità; anzi Umberto da Silva. Candida e Federico di Lorena, membri di tale  delegazione, continuarono a svolgere un ruolo di primo piano.

Nel marzo del 1055, per designazione di Enrico III, Leone IX ebbe un successore nella persona di Gebardo, vescovo di Eichstätt, cancelliere imperiale: assunse il nome di Vittore II.

 

Vittore II: sotto il profilo ecclesiastico continuò l'opera di riforma del predecessore, continuando a servirsi dei suoi più stretti collaboratori, in particolare di Umberto di Silva Candida. Questa azione ebbe la sua espressione più significativa nel concilio celebrato a
Firenze nel 1055, che rinnovò le condanne della simonia e del nicolaismo.

Quale ex cancelliere di Enrico III, Vittore II svolse anche da papa una rilevante azione politica, soprattutto al fine di por­tare pace tra l'imperatore e Goffredo il Barbuto. Questi, già duca della Lotaringia, si era poi unito in matrimonio con Beatri­ce di Toscana (vedova del marchese di Toscana, Bonifacio) e per questa via aveva raggiunto una singolare posizione di potere, che gli consentiva di agire piuttosto liberamente nei confronti della politica imperiale.

Per riportare la pace tra i due, Vittore II nel 1056 si recò in Germania: riuscì nel suo intento, ma di lì a qualche settimana dovette assistere alla morte di Enrico III (5 ottobre). A questo punto papa Vittore II si sentì investito di nuovo del ruolo di cancelliere imperiale e pertanto rimase in Germania per rego­lare la questione della successione: fece eleggere quale nuovo re di Germania Enrico IV, figlio dell'imperatore defunto. Essen­do il nuovo re un bambino di sei anni, la reggenza fu affidata alla madre Agnese. Vittore II potò infine riprendere la via del ritorno in Italia, dove praticamente giunse per chiudere i suoi giorni: il 28 luglio 1057 infatti. Vittore II morì ad Arezzo.

 

5 - La riforma sotto i papi lotaringio-toscani (1057-1073)

 

Stefano IX

L'elezione fu celebrata nella forma canonica il 2 agosto 1057, pochissimi giorni dopo la morte di Vittore II (28 luglio). Evi­dentemente non si fece ricorso alla corte tedesca per ottenere il consenso a procedere e la designazione dell'eletto. A fatti compiuti, invece, fu inviata in Germania una delegazione, ca­peggiata da Ildebrando, che doveva informare la corona tedesca ed ottenerne l'adesione. Quale significato si deve attribuire a tale gesto? Su questo punto gli storici divergono: chi (F. KEMPF) non vuole esagerare la portata dell'evento e pertanto lo considera una misura di emergenza, imposta dalle particolari circostanze storiche del momento, altri (A. FLICHE), invece, vi vedono un autentico colpo di mano, dettato dalla precisa volontà di liberare il papato dall'ingerenze imperiali. Prima di espri­mere un parere forse è il caso di passare ad un'analisi sia delle circostanze storiche, sia delle idee che circolavano allora negli ambienti riformatori romani.

Una prima circostanza storica, che poteva suggerire di procedere prescindendo dalla designazione della corte tedesca era rappre­sentata dalla situazione romana: le varie casate romane da tempo aspettavano l'occasione propizia per rimettere le mani sul papato. Nel passato il potere di Enrico III si era rivelato sufficientemente forte da poter sventare i progetti delle baronie romane. Ma nel 1057 il potere tedesco si trovava nelle mani di un bambino ,che difficilmente avrebbe potuto far fronte alla nobiltà romana: da qui l'esigenza di battere in velocità una probabile elezione dominata dalla nobiltà romana, rinunciando di ricorrere alla corte tedesca, in quanto ciò avrebbe imposto una lunga attesa.

Una seconda circostanza da valutare era rappresentata dalla si­tuazione della corte germanica: qui vigeva prima di tutto una situazione di debolezza. Il re bambino era rimpiazzato da una reggenza (la madre Agnese) totalmente succube di alcuni consiglieri, che erano in continua lotta tra di loro per guidare la politica tedesca.

La nobiltà feudale laica dal canto suo sfruttava la debolezza della monarchia per sviluppare le proprie pretese di ereditarie­tà e di autonomia.

Alla corte germanica in secondo luogo vigeva una situazione di incertezza circa la riforma: abbandonata sempre più dalla nobiltà feudale laica, la monarchia tedesca si trovava costretta a dipendere sempre più dalla feudalità ecclesiastica, chiaramente avversa ad ogni discorso di riforma.

Ebbene, questa situazione della corona tedesca dovette impensierire gli ambien­ti riformatori romani. Era infatti lecito ritenere che una designazione del papa, fatta da quella corte tedesca dominata dalla feudalità ecclesiastica, avrebbe potuto esprimere un candidato ostile alla riforma. Dunque, se si voleva garantire un papato riformatore, occorreva in quel frangente trasferire il diritto di designazione dalla corte tedesca agli ambienti riformatori romani, che erano senz’altro più idonei a garantire un futuro alle istanze riformatrici del defunto Enrico III. D'altra parte la stessa debolezza politica della corte tedesca di quel momen­to spingeva a cercare un appoggio per la riforma contro la no­biltà romana nel vicino e potente Goffredo Barbuto, duca di Lotaringia e marchese di Toscana. Da qui l'elezione fatta, pre­scindendo dalla corte tedesca, da qui l'elezione di Stefano IX e cioè del cardinale Federico, fratello di Goffredo Barbuto.

Ma accanto alle circostanze storiche è necessario considerare la mentalità delle persone, che vi si trovarono ad agire.

Sotto Enrico III, come dicemmo, prevaleva una mentalità di colla­borazione tra i poteri. Nel corso degli anni cinquanta però si verificò negli ambienti riformatori romani questa soluzione: soprattutto durante il pontificato di Leone IX, sia per sostenere l'azione di riforma a raggio internazionale, sia per le esigen­ze di polemica con la Chiesa orientale, il tema del primato ro­mano aveva conosciuto un momento di notevole riflessione e di affermazione dottrinale.

In tale contesto evidentemente si giun­se anche a ripensare la relazione papato e impero. Proprio su questo tema nell'ambito degli ambienti riformatori romani si formarono due tendenze. La prima faceva capo ad Umberto di Silva Candida, che anche sotto Stefano IX fu uno dei personaggi più influenti della curia romana: la formulazione teorica di questo indirizzo si ebbe nel terzo libro del trattato “Adversus Simo­niacos” ( PL vol. CXLIII coll. 1007-212; MGH Lib. De lite I pp. 100-253 ), che fu pubblicato durante le ultime settimane del pontificato di Stefano IX, oppure durante i primi giorni del ponti­ficato di Niccolò II. In questo libro Umberto poneva sul tappeto il problema delle investiture. In seguito ad un'analisi del tempo carolingio-ottoniano, il nostro autore giungeva ad attaccare tale sistema su due punti in particolare: riguardo all'elezione dei vescovi si faceva rilevare che non era più opera del clero e non avveniva più sotto il controllo della gerarchia ec­clesiastica provinciale; per riportarla a piena libertà si auspicava un ritorno alla prassi della chiesa primitiva, che con­cedeva la prima vox al clero e non al re; riguardo all'investitura degli ecclesiastici dichiarava apertamente che non era conciliabile con il diritto ecclesiastico, in quanto con l'in­vestitura veniva conferito non solo il possedimento temporale, legato all'episcopato, ma anche si attribuiva l'ufficio eccle­siastico, cosa che stava ben al di là delle capacità di un laico!

Come si vede la posizione di Umberto di Silva Candida, enuncian­do per la prima volta  l’esigenza di un riforma strutturale, minacciava una radicale distruzione del sistema imperiale tedesco.

C'era però una seconda tendenza, che faceva capo a Pier Damiani, l’eremita che Stefano IX  chiamò a far parte dei riformatori ro­mani, creandolo cardinale vescovo di Ostia. Orbene Pier Damiani nella sua “Disceptatio Synodalis” (PL 145, col.86; MGH lib.de lite I, pp. 76-79) riaffermò la vecchia linea di collaborazione armonica tra i due poteri. A tale tendenza si trovava le­gato anche Ildebrando, che divenne appunto l'addetto alle rela­zioni con la corte tedesca.

A questo punto ci pare di poter esprimere il nostro giudizio sulla elezione del 1057: tra i riformatori romani dovette esserci convergenza assoluta sulla necessità di procedere all'elezione, prescindendo dalla corte tedesca, ma non dovette esserci convergenza circa le motivazioni, che raccomandavano un tale modo di procedere: la tendenza di Pier Damiani favorevole alla collaborazione tra i due poteri, dovette fondare tale scelta unicamente sulle circostanze storiche particolari; la tendenza di Umberto di Silva Candida invece a ciò fu spinta non solo dal­le circostanze storiche, ma anche da ragioni ideologiche.

Il nuovo papa Stefano IX probabilmente cercò di barcamenarsi tra le due tendenze: del resto di più non poté fare, in quanto il suo pontificato non durò che otto mesi (+ 29 marzo 1058).

Pri­ma di morire, Stefano IX fece giurare ai cardinali ed al popolo romano, che non avrebbero eletto un nuovo papa prima del ritor­no di Ildebrando dalla Germania, dove si era recato per rendere ragione dell'elezione del 1057 e ottenerne l’adesione.

 

Niccolò II

Alla morte di Stefano IX i riformatori si attennero al giura­mento prestato e stettero ad aspettare il ritorno di Ildebrando dalla Germania. La nobiltà romana invece sfruttò la situazione e passò velocemente all'elezione di un suo papa nella persona di Giovanni Mincius, vescovo di Velletri, che prese il nome di Benedetto X, chiara dimostrazione di dipendenza dalla casa tuscolana, la casa di Benedetto VIII e di Benedetto IX.

Evidentemente i riformatori si guardarono bene dal piegarsi di fronte all'accaduto. Benedetto X, per farsi intronizzare, non poté godere del tradizionale intervento del cardinale-vescovo di Ostia, che allora era Pier Damiani!

Al ritorno di Ildebrando, i riformatori passarono all'elezione canonica del nuovo papa: la scelta cadde su Gerardo vescovo di Firenze, oriundo della Borgogna francese, che assunse il nome di Niccolò II. Trattandosi di un vescovo della Toscana si poteva ancora una volta contare sull’appoggio del marchese Goffredo Barbuto.

Essendo un’elezione controllata da Ildebrando, non poté mancare il consenso della corte tedesca (le fonti non ci consentono di stabilire se il consenso fu anteriore o successivo all'elezione). Forte di questi appoggi politici, Niccolò II poté facilmente imporsi, su Benedetto X.

Del pontificato di Niccolò II ricordiamo  tre aspetti

1.           il decreto di elezione del 1059,

2.           i decreti di riforma

3.           la politica nei confronti dei Normanni.

 

1)  Il decreto di elezione del papa del 1059

Il nuovo papa dovette subito affrontare due problemi: regolarizzare la procedura eccezionale, con cui si era giunti alla sua elezione: infatti Niccolò II non fu eletto a Roma, ma a Siena, e non fu eletto dal clero e dal popolo romano, ma da cinque car­dinali-vescovi, con la partecipazione di alcuni laici vicini al­la riforma; secondo problema: impedire per il futuro colpi di mano da parte della nobiltà romana.

La soluzione dei due problemi si ebbe nel decreto “In nomine Domini” per la elezio­ne del papa, promulgato dal sinodo romano quaresimale del 1059 (MGH Constit. imperat. l, 539).  

Vediamo prima di tutto il contenuto di questo decreto. L’elezione di un papa deve compiersi i tre momenti: il primo momento si chiama “tractatio” ed è riservato ai soli cardinali-vescovi, che prenderanno tutti i provvedimenti del caso, cioè praticamente sceglieranno il candidato. Il secondo momento si chiama “accessus”: gli altri cardinali, con­vocati dai cardinali-vescovi, accederanno al candidato prescelto dai cardinali-vescovi. Il terzo momento è rappresentato dall'acclamazione dell'eletto fatta dal clero e dal popolo romano.

Il decreto inoltre prevede delle misure eccezionali, da seguirsi allorché diventi impossibile procedere ad una regolare elezione in Roma: i cardinali-vescovi si raduneranno altrove, con alcuni rappresentanti  del clero e del popolo romano, e lì procederanno all'elezione.

L'eletto, anche se non potrà essere immediatamente intronizzato, eserciterà la sua giurisdizione fin dall'elezione.

Riguardo alla persona da eleggere il decreto raccomanda che sia scelta tra il clero romano, ma se tra il clero romano mancasse una persona capace, si concede la possibilità di cercare il can­didato altrove.

Circa il ruolo dell'imperatore tedesco nell'elezione papale abbiamo una clausola molto concisa: "restano però salvi l'onore e la riverenza dovuti al nostro diletto figlio Enrico, attualmen­te re, ma presto speriamo imperatore per grazia di Dio e ai suoi successori, che personalmente avranno ottenuto particolari poteri dalla Sede apostolica".

Tentiamo ora una valutazione del decreto.

Ciò che subito viene da rilevare è che tale decreto consacra la prassi eccezionale seguita per eleggere Niccolò II. Si tratta ora di vedere se il decreto dopo e la procedura elettorale applicata prima, siano da ascriversi esclusivamente a ragioni di mera oppor­tunità pratica, oppure traducano una certa concezione teorica. A noi pare di poter affermare che sia nell'eleggere Niccolò II, sia poi nello stendere il decreto, i riformatori si ispirarono alle idee espresse da Umberto di Silva Candida nel suo III libro del trattato "Adversus simoniacos” (probabilmente fu proprio Umberto a comporre il decreto, di cui ci stiamo occupando). Citiamo un passo dell' “Adversus simoniacos: "Ora invece tutto si compie in modo contrario: i primi sono gli ultimi, e gli ultimi i primi. Il potere secolare é il primo nella elezione e conferma; vengono poi, per amore o per forza, il consenso del clero e del popolo ed infine, a concludere, la decisione del metropolita (MGH Lib. de lite III, 6).

Dal testo citato traspare che la prima vox nell'elezione di un vescovo dovrebbe spettare al metropolita: in questa prospettiva si dovrebbe ritenere che il decreto sull'elezione del papa intendeva assegnare la prima vox ai cardinali-vescovi, che svolgerebbero il ruolo di quasi metropoliti della Chiesa romana. Qui verrebbe alla luce una particolare visione ecclesiologica: la Chiesa romana sarebbe una realtà strutturata gerarchicamente secondo il pote­re d'Ordine: quando il papa è in vita, nel papa avremmo il livello massimo della strutturazione gerarchica secondo il potere d'Ordine. Durante la vacanza della Sede Apostolica il livello più alto della strutturazione gerarchica secondo il potere d'Ordine starebbe nei cardinali-vescovi e pertanto a loro viene riconosciuta la prima vox, cui gli altri devono aderire con l'accessus e l'acclamazione.

Si rilevi poi come in questo decreto abbiamo il primo passo verso la riserva dell'elezione papale al solo collegio cardinalizio. Circa il ruolo dell'imperatore nella elezione papale abbiamo già fatto rilevare la concisione dell'accenno: questa concisione non va intesa come volontà di ridurre a vaghezza lo spazio imperiale, ma va intesa come un rapido accenno ad  un diritto che viene dato come già noto. Pare abbastanza probabile che tale diritto dovesse con­sistere nel riconoscere al re tedesco la facoltà dell'assenso: as­senso nei confronti del candidato prescelto dai cardinali-vescovi, prima che si concludesse il processo elettivo, oppure assenso nei confronti del papa eletto? Il problema non è rilevante: ciò che importa è che si affermi il principio che un'elezione papale non possa prescindere dal parere del sovrano tedesco: a questo punto possiamo senz'altro concludere che il decreto circa l'elezione papale, anche se non fu - come sostiene il A. MICHEL, Papstwahl und Königsrecht oder das Papstwahl-Konkordat von 1059, München 1936  - frutto di un ac­cordo con la corte tedesca, senz'altro nelle intenzioni degli am­bienti romani non voleva significare una rottura della collabora­zione: se si vollero ridurre dei margini di intervento, non fu nel­la direzione della corte tedesca, ma nella direzione della nobiltà romana. Ancora una volta l'esigenza di salvaguardare la libertà della Chiesa e di affermare la priorità del potere spirituale nel­le elezioni canoniche viene interpretata secondo lo spirito di ar­monica collaborazione. C'è insomma la convinzione che le tesi di Umberto di Silva Candida debbano essere accolte e portate avanti solo nella misura in cui non determinano una tensione con la corte tedesca. Del decreto circa l'elezione papale esiste anche un'al­tra versione (MGH Const. Imperat. 1,543). Vi si rilevano due carat­teristiche particolari: prima di tutto manca ogni accenno al ruolo di primo piano riservato ai cardinali-vescovi: sia la tractatio, sia l'elezione fuori Roma in caso di emergenza vengono genericamen­te ascritte a tutti i cardinali; in secondo luogo il ruolo dell'im­peratore non è più appena accennato, ma viene invece precisato det­tagliatamente nei termini seguenti: “i cardinali procederanno alla nuova elezione e, affinché il veleno della simonia non si infiltri sotto speciosi pretesti, l'elezione sarà fatta prima dal clero d'ac­cordo col nostro figlio Enrico e poi dagli altri”.

La critica storica è ormai d'accordo nel qualificare questa versio­ne come “versione imperiale”, si tratterebbe cioè di una manipolazione operata dagli ambienti imperiali negli anni 1080-1084, per legit­timare l'elezione dell'antipapa Clemente III, che vide il concorso di Enrico IV, ma non ebbe il conforto della presenza di nessun cardinale-vescovo.

 

2)    I provvedimenti di riforma

Contro il nicolaismo nel sinodo del 1059 si ebbe una riedizione del divieto di partecipare ai sacramenti conferiti da preti nicolaiti, divieto già pronunciato da Leone IX nel 1049. A questa pars destruens venne aggiunta una pars construens: si raccomandò ai chierici, che prestavano servizio presso una stessa Chiesa, di condurre vita comune e apostolica (cioè alla maniera della comunità apostolica, che viveva con un cuor solo ed un'anima sola).

Contro i simoniaci il sinodo del 1060 stabilì la deposizione di coloro che si erano fatti ordinare simoniacamente o da simoniaci o anche da non simoniaci; per ragioni di opportunità pastorale vennero invece tollerati nel loro incarico coloro che erano stati ordinati da simoniaci, ma senza commettere a loro volta peccato di simonia.

Contro le investiture il sinodo del 1059 stabilì che i chierici e i sacerdoti non dovevano più ricevere chiese dalle mani dei laici, anche se ciò avveniva gratuitamente. Si rilevi che questo provvedimento contro le investiture fu una mera enunciazione di principio, in quanto non vi furono connesse sanzioni disciplinari, né si conosce una successiva azione di Niccolò II per metterlo in atto.

 

3)     La politica papale nei confronti dei Normanni

Nell'estate del 1059, durante un viaggio nel Sud Italia, Niccoló II accolse il vassallaggio di Riccardo di Aversa e Capua, e di Roberto Guiscardo, duca della Puglie e della Calabria ed in cambio li investì delle terre, su cui già si trovavano a dominare. L' intesa implicava la promessa da parte dei due normanni di prestare il loro aiuto in caso di elezione papale controversa, appoggiando “i cardinali migliori”, cioè i cardinali-vescovi: dunque Niccolò II era riuscito a trasformare l'alleanza con i Normanni in un appoggio politico per l'attuazione del decreto di elezione papale, promulgato a Roma qualche settimana prima.

In sede di critica storica ci si domanda in base a quale diritto il papa abbia investito i due normanni delle terre del Sud I­talia. Il Bihlmeyer Tuechle ritiene che Niccolò II si sia fondato sulla falsa donazione di Costantino, che riconosceva nel papa il signore del­le terre d'Occidente. Però in proposito va rilevato che le fonti non dicono nulla e che il riferimento alla donazione di Costantino non si impone neppure per ragioni di necessità interne. Si deve piuttosto ritenere che Niccolò II si sia fondato non su un diritto pontifico concernente le terre del Sud Italia, ma su una spontanea decisione dei Normanni di assumere nei confronti della santa Sede un atteggiamento vassallatico: ciò che premeva insomma alla santa Sede non era l'affermazione di un suo diritto territoria­le, ma era la trasformazione della ostilità normanna in alleanza ed appoggio militare.

Questa iniziativa della santa Sede non fu per nulla gradita alla Corte tedesca che, per il suo carattere imperiale, avanzava prete­se di signoria su quelle terre, che erano appartenute all'impe­ro romano. Si venne a produrre così una rottura tra Germania e Ro­ma: un sinodo di corte cassò tutte le decisioni prese dal papato durante il pontificato di Niccolò II: la reggente Agnese si rifiutò di ricevere il cardinale Stefano, inviato dal papa in Germania per chiarire la situazione.

Questa tensione peserà gravemente quando, alla morte di Niccolò II (20 luglio 1061) si tratterà di passare all'elezione del nuovo papa.

 

Alessandro II

Da una parte la nobiltà romana tentò di vanificare il decreto sul­la elezione del papa, che appunto contro di lei era stato pensato: perciò mandò in tutta fretta una delegazione presso la corte tedesca, per chiedere la designazione di un nuovo papa: e nell'otto­bre del 1061 la corte fece eleggere papa il vescovo di Parma, Cadalo, che assunse il nome di Onorio II.

Dall'altra parte i riformatori romani nel frattempo erano passati all'attuazione del decreto del 1059, eleggendo il 30 settembre 1061 come papa Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca, che prese il nome di Alessandro II.

L'elezione di Alessandro II era dovuta all’azione di Ildebrando, che con la morte di Umberto di Silva Candida, era divenuto il personaggio più influente tra i riformatori.

L'elezione di Onorio II invece era dovuta fra l’altro all'azione dei vescovi di Piacenza e di Vercelli, che erano notoriamente nicolaiti: ciò avrebbe fatto esclamare a Pier Damiani: “Speriamo che essi nella scelta del supremo pontefice abbiano portato quella sicu­rezza di gusto, di cui danno prova quando si tratta di giudicare la bellezza delle donne” (cito da R. MORGHEN, Medioevo-cristiano, Bari 1972 p. 101).

Del pontificato di Alessandro II ricordiamo:

1) il superamento dello scisma

2) l'azione riformatrice

3) la pataria milanese

 

1) Il supermento dello scisma

Per alcuni mesi i due pretendenti si affrontarono in vari scontri armati, che non ebbero esito alcuno. Intervenne poi a svolgere azione di mediazione il marchese Goffredo Barbuto, che ingiun­se ai due contendenti di ritirarsi nelle rispettive diocesi in attesa della decisione del re tedesco. Intanto nella politica te­desca si operò un importante mutamento di indirizzo: una rivoluzione di palazzo accantonò la reggente Agnese e sottopose il minorenne Enrico IV alla tutela di Annone, Arcivescovo di Colonia, favorevole alla riforma. In conseguenza di ciò la corte tedesca passò dall’appoggio incondizionato ad Onorio II ad un at­teggiamento ai neutralità, che faceva ben sperare al partito dei riformatori romani.

Nell'ottobre del 1062 si riunì un sinodo ad Augsburg, che decise di procedere ad una inchiesta: il risultato fu favorevole ad Ales­sandro II, che agli, inizi del 1063 poté rientrare a Roma. La deci­sione di Augsburg fu definitivamente ratificata nella Pentecoste del 1064 da un concilio riunito a Mantova, che pronunciò anche l’anatema contro Cadalo, che tuttavia continuò a ritenersi papa legittimo fino alla morte, avvenuta nel 1072.

 

2) L’azione riformatrice

Alessandro II, che già si era distinto come riformatore a Milano ed a Lucca, non concedendo tregua ai nicolaiti e ai simoniaci, divenuto papa, continuò nella stessa  linea, che poi era quella già tracciata dai suoi immediati predecessori. La caratteristica originale dell'opera di riforma condotta durante questo pontifi­cato è rappresentata dalla crescente centralizzazione, ottenuta mediante interventi in tutto l'Occidente, operati dal papa stes­so direttamente o attraverso delegati papali.

In Francia: a partire dal 1063 il papato esercitò un azione continua, servendosi di delegati, che celebrarono parecchi sinodi e processi contro vescovi indegni.

In Germania: allorché Enrico IV incominciò a fare ricorso alle pratiche simoniache, Alessandro II non mancò di intervenire con durezza nei confronti dei vescovi imperiali. Lo stesso Enrico IV nella questione del suo matrimonio dovette piegarsi di fronte alla volontà di Pier Damiani, legato papale: il re fu costretto a tenere con sé la moglie Berta di Torino, recedendo dal proposito di ripudiarla.

In Inghilterra: il papa intervenne nella questione della successione al re Edoardo il Confessore (1066). Vi erano due pretendenti al trono: da una parte Aroldo, conte di Wessex, dall'altra Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia e parente del re defunto.

Non sappiamo se ci fu una richiesta di intervento da parte di Guglielmo il Conquistatore, comunque sia, sta il fatto che Ales­sandro II si pronunciò in favore del normanno, cui inviò un capello di  s. Pietro ed il vessillo di s. Pietro. Come mai Aroldo fu accantonato dal papa? Guglielmo il Conquistatore aveva accusato il rivale di spergiuro, in quanto nel 1065 Aroldo aveva prestato a Guglielmo un giuramento di fedeltà. Il papa però non si fondò su questa complessa questione giuridica, ma considerò piuttosto l'attitudine morale di Aroldo: questi negli anni precedenti aveva dato il suo appoggio ad un arcivescovo di Canterbury, che dalla Santa Sede era considerato un usurpatore, in tal modo il conte di Wessex aveva dimostrato di essere tutt'altro che incline alle i­dee riformatrici della curia romana. In sede storiografica si tenta anche di chiarire il significato della consegna del vessillo di s. Pietro. Nel sistema feudale la consegna del vessillo significava la sottomissione feudale di un miles al titolare del vessillo. In questo caso avremmo una pretesa pontificia di ridurre Gugliel­mo il Conquistatore a vassallo della Sede Apostolica? E' una ipotesi da escludere, in quanto la Sede Apostolica non vantava nessun diritto di signoria sull'Inghilterra. Si volle piuttosto esprimere una specie di legame spirituale: la sede apo­stolica con il vessillo di s. Pietro assicurava a Guglielmo il Conquistatore l'assistenza del cielo, il normanno a sua volta si impegnava a portare guerra ad un avversario di s. Pietro: in questa prospettiva la lotta di Guglielmo il Conquistatore contro Aroldo non fu più soltanto una guerra politica, ma fu anche guer­ra santa. Il 14 ottobre 1066 Aroldo fu sconfitto ed ucciso nella battaglia di Hastings.

 

3) Alessandro II e la pataria milanese

C. VIOLANTE, La pataria milanese e la riforma ecclesiastica. Le premesse 1045-1057, I vol., Roma 1955

G. MICCOLI, Per la storia della pataria milanese : Bollettino  dell'Istituto Storico Italiano per il Medio Evo e Archivio Muratoriano, 70 (1958), 43-123; (lo stesso studio era apparso in Studi Gregoriani 5 (1956), 33-81.

Alessandro II, quand'era ancora Anselmo da Baggio, aveva tenuto legami strettissimi con il popolare movimento di riforma, al pun­to che alcuni lo ritengono uno dei fondatori. Spesso si sostiene che proprio per questo suo legame, nel 1056, l'arcivescovo di Milano Guido da Velate pensò bene di liberarsi del presbitero Anselmo, facendolo eleggere vescovo di Lucca: promoveatur ut amoveatur.

Però storici molto accreditati (Cinzio Violante, per esempio) ritengono che la nomina di Anselmo a vescovo di Lucca sia stata voluta dall’imperatore stesso, che riteneva la famiglia da Baggio molto affidabile:  la nomina di Anselmo a vescovo di Lucca quindi fu piuttosto un atto di fiducia da parte di un sovrano, il quale intendeva ricoprire con una persona fidata e di sicuri intenti riformatori la più importante diocesi del marchesato di Toscana, dominato dal troppo potente duca Goffredo di Lorena.

Ma è opportuno accennare brevemente alla nascita della pataria.

All'origine abbiano l'iniziativa riformatrice di tre esponenti del clero ambrosiano.

Anselmo da Baggio, che aveva studiato prima a Milano, alla Scuola del Duomo, e poi in Normandia, a Bec, alla scuola di Lanfranco di Pavia: ritornato a Milano aveva iniziato a sostenere idee di riforma.

Un diacono di nome Arialdo, nato a Cucciago, presso Cantù, pure aveva completato i suoi studi di arti liberali in Francia e, ritornato in diocesi di Milano, si era messo a diffondere idee di riforma prima nella zona di Varese, poi a                              a Milano; poiché il clero non prestava ascolto, Arialdo presto ritenne di dovere rivolgersi anche ai laici.

Terzo esponente era un chierico minore milanese, notaio della Chiesa ambrosiana, di nome Landolfo Cotta, parlatore abile e affascinante, pure sostenitore di idee di riforma.

Verso la, fine del 1055 o agli inizi del 1056 i tre decisero di associarsi e giurarono di portare avanti insieme l'azione di rifor­ma: in questo giuramento, emesso clandestinamente nel cuore della notte, potremmo vedere l'inizio della pataria. Qual è il signifi­cato di questo termine? E' una questione ancora irrisolta: alcuni vi vedono una corruzione del termine catharos (pataro da cataro); altri lo fanno derivare dal termine dialettale milanese patée,
con cui si indicava colui che vende e compera stracci: la pataria sarebbe dunque un movimento di cenciosi; altri ancora fanno deri­vare pataria dall'espressione dialettale milanese patèl, cioè cencio, che sarebbe il nome, con cui gli avversari indicavano lo stendardo del movimento; altri ritengono che pataria derivi dal fatto che o gran parte dei patarini proveniva dalla via Pattari o in tale via il movimento aveva il suo centro;  E. Werner infine, interpretando la pataria milanese come una derivazione dalle sette orientali, pone all'origine del termine la città di PATARA, situata in Lidia (E.
WERNER, Pauperes Christi. Studien zu sozial-religiösen Bewegungen im Zeitalter des Reformpapsttums., Leipzig 1956).

Come si vede , quasi tutte  le ipotesi sottoli­neano il carattere pauperistico del movimento: non si deve però concludere che la pataria fu un movimento di classe, movimento di plebei. La composizione sociale del movimento era molto varia (Anselmo, Landolfo Cotta, Arialdo erano non solo esponenti del clero, ma anche membri della piccola e grande nobiltà feudale). L'accento pauperistico va letto in prospettiva spirituale: rivi­vrebbe qui lo stesso atteggiamento, che animava il movimento ere­mitico, cioè il desiderio di una Chiesa dedita in maniera sempre più assoluta alle istanze spirituali. Evidentemente su questo fondamento religioso si svilupparono anche altri temi di carattere socio-politico: esigenza di promuovere una prassi di maggiore partecipazione civica, riducendo il peso politico dell'arcivesco­vo; la speranza che dalla lotta di riforma morale contro le classi dominanti derivasse anche una maggiore prosperità economica. Il movimento venne decisamente alla ribalta il 10 maggio 1057, quando promosse una rivolta e per alcuni giorni controllò la cit­tà di Milano. In un'assemblea, dominata da Arialdo, venne fissato un “pytacium de castitate servanda”, che raccoglieva i canoni concernenti la vita del clero, in particolare vi si faceva riferimento al dovere del celibato e alla condanna della simonia. Tutti gli ecclesiastici, a partire dall'arcivescovo Guido, avrebbero dovuto sottoscrivere il pytacium. Ecco appunto che i pata­rini inscenarono una vera e propria caccia al prete: soprattutto se nicolaita o simoniaco, lo strappavano dall'altare, presso cui stava celebrando, e lo costringevano ad apporre la firma. Come si vede, la situazione a Milano era diventata estremamente tesa e problematica, per cui ad un certo punto ambedue le parti sen­tirono l'esigenza di raggiungere una chiarificazione decisiva. L'arcivescovo Guido, in nome della tradizione ambrosiana, che non voleva essere seconda a nessuna altra Chiesa ed aveva tinte di autocefalia, pensò di dover risolvere la questione in maniera autonoma, riunendo un sinodo provinciale a Fontaneto presso Nova­ra, nel novembre 1057. Arialdo e Landolfo Cotta sarebbero dovuti comparire davanti al sinodo, ma se ne guardarono bene sia per­ché sapevano che l'arcivescovo, loro avversario, controllava vescovi suffraganei, piuttosto scialbi, sia perché non ricono­scevano agli ecclesiastici, ivi riuniti, alcuna autorità , data la loro notoria degenerazione morale. Arialdo e Landolfo furono pertanto scomunicati dal sinodo per contumacia. I due patarini invece, per chiarire la situazione milanese, preferirono rivol­gersi al papa Stefano IX,  recandosi a Roma. Il papa, da un lato liberò i due patarini dalla scomunica di Fontaneto, dall'altro, non volendo limitarsi all'ascolto dei soli patarini, si astenne dal prendere immediatamente posizione nei confronti dell'altra parte. Proprio in quei giorni Ildebrando e Anselmo da Baggio si apprestavano a recarsi in Germania per ottenere il consenso cir­ca l'elezione papale del 2 agosto: il papa li pregò di sostare alcuni giorni a Milano per raccogliere informazioni. Non fu Stefano IX, ma il suo successore Niccolò Il a trarre le conclusioni dalle in­formazioni dei due legati; nel sinodo romano quaresimale del 1059 il papa in fondo approvò i metodi patarini, affermando il dovere di astenersi dai sacramenti celebrati dai nícolaiti e raccomandando ai chierici la vita comune, che era appunto praticata da Arialdo nella cosiddetta “Canonica". In seguito Niccolò II mandò a Milano una delegazione, formata da Pier Damiani e da Anselmo da Baggio, per regolare in loco la situazione.

La delegazione operò in tre direzioni: prima direzione: affermare il primato universale di Roma di fronte alle tendenze autocefale di Milano: in questa prospettiva Roma rivendicò il suo ruolo di guida della riforma; seconda direzione: affermare le istanze riformatrici, sostenute dalla pataria, imponendo ai chierici di abbandonare le pratiche nicolaite e simoniache; terza direzione: affermare la costituzione gerarchica della Chiesa, per impedire che la pata­ria trasformasse la propria opposizione al clero degenere di quel momento in un globale anticlericalismo o in una concezione di Chiesa fondata esclusivamente sul merito, cadendo nella frequen­te tentazione di costruire la Chiesa dei puri, dei santi: in que­sta prospettiva Pier Damiani non volle colpire la gerarchia mila­nese con sanzioni pesanti e deposizioni, ma preferì agire con moderazione, imponendo pene miti. 

Ma di lì a poco a Milano le cose tornarono come prima: da una parte il clero con le sue vecchie piaghe morali, dall'altra la pa­taria più vigorosa che mai sotto la guida di Erlembaldo Cotta, fratello di Landolfo. La situazione nel 1066 precipitò: Arialdo finì martirizzato nei pressi del Lago Maggiore, l'azione dei patarini divenne più radicale e trovò consensi anche al di fuori di Milano: a Cremona, a Piacenza. Ogni tentativo di pacificazio­ne aveva scarsa durata.

L'arcivescovo Guido cominciò a capire che per lui le cose si met­tevano male: nello scisma tra Onorio II e Alessandro II aveva giocato tutte le sue carte sul papa imperiale, ma nel 1064 lo stesso Enrico IV si era schierato definitivamente dalla parte d' Alessandro II, che, come nel passato era stato molto vicino ai patarini, ora da papa continuava ad appoggiare tale movimento, giungendo addirittura a concedere il vessillo di s. Pietro ad Erlembaldo. A questo punto l'arcivescovo decise di rassegnare le dimissioni: restituì al re pastorale ed anello e suggerì come suo successore il prete Goffredo dei Castiglioni, una famiglia nobi­le provinciale, che aveva il suo centro in Castiglione Olona. Enrico IV aderì alla richiesta, ma Goffredo non riuscì a prendere possesso della sua sede per via della tenace opposizione dei ri­formatori, che il 6 gennaio 1072 elessero quale arcivescovo il prete Attone.

Lo scisma milanese divenne causa di conflitto tra Alessandro II ed Enrico IV.

Nel sinodo romano quaresimale del 1072 il papa si pronunciò in favore di Attone, Enrico IV invece continuò a sostenere Goffredo. La risposta di Alessandro II si ebbe nel sinodo quaresimale dell'anno seguente, quando a cinque consiglieri del re fu comminata la scomunica. Il 21 aprile 1073 Alessandro II moriva, lasciando al suo successore questa situazione molto tesa, dovuta al fatto che la parte imperiale nell'elezione dei vescovi continuava ad ignorare la procedura canonica, che invece per il papa era dive­nuta conditio sine qua non. A questo punto i termini del proble­ma-riforma sono ormai chiari: da una parte il sistema germanico dell'investitura, dall'altra il sistema ecclesiastico romano-antico della elezione canonica. Si tratta ora di vedere se la so­luzione va cercata nella direzione del contrasto radicale, dell’l'aut aut, oppure restano ancora margini per una conciliazione, per una collaborazione.

Tentando di tirare le somme ci pare di potere senz'altro rile­vare che nel corso del periodo dei papi lotaringio-toscani la riforma presentò due grosse novità.

Prima novità: la sede apostolica si trova a portare avanti l’a­zione di riforma non più in collaborazione con l'imperatore tedesco, ma da sola e secondo un respiro più ampio. Ciò va ascritto prima di tutto ad una situazione di debolezza della corona germanica, che spinge i riformatori a farsi carico esclusivo della riforma ed a cercare un appoggio politico in signori temporali più vicini (Goffredo il Barbuto e i Normanni del Sud).

Seconda novità: la posizione singolare della Sede Apostolica co­mincia però ad essere intesa non solo come frutto di occasionalità storica, ma anche come conseguenza di una certa visione di Chie­sa, che trova la sua identità non più nella tradizione germanica, dominata dal realismo, ma nella vecchia tradizione romana, che fa­ceva unità intorno al primato dello spirituale. Si deve tuttavia rilevare che nel periodo dei papi lotaringio-toscani questa esigenza ideale non è ancora interpretata come scontro frontale con il sistema germanico: la riforma strutturale rimane una mera in­tuizione teorica: sul piano pratico l'azione di riforma rimane sostanzialmente morale. Ciò è spiegato dal fatto che l'intuizione teorica del primato spirituale era utilizzata solo in fun­zione negativa, per limitare un potere laico eccessivo, affermando ciò che il laicato non doveva essere nella  Chiesa.

Evidentemente il fatto che l'antagonista fosse un potere laico tutt'altro che debole, costrinse i riformatori romani ad interpretare continuamente l'intuizione teorica del primato spirituale, tenendo conto della situazione reale. Si capisce pertanto come mai nel periodo dei papi lotaringio-toscani non si sono forzati i tempi; si       capisce anche come mai nel periodo immediatamente successivo non si è giunti ad assolutizzare l'intuizione teorica del primato spirituale ed a ridurre il potere laico al ruolo di instrumentum sacerdotii.

 

6 – La riforma sotto Gregorio VII

 

a.  La vita di Gregorio VII prima dell’elezione papale

Nell'esporre gli avvenimenti, che si sono verificati dopo il Sino­do di Sutri del 1046, ci siamo varie volte imbattuti nella figura di Ildebrando: prima accanto a Gregorio VI, poi accanto a Leone IX ed ai suoi successori. Sono invece rimasti in ombra gli episodi, che precedono questo periodo. Si deve senz'altro dire che i primi anni della vita di Ildebrando sono destinati a rima­nere immersi in una nebulosa vaghezza, poiché è praticamente impossibile discernere tra le varie notizie, che le fonti ci hanno tramandato, quelle che non sono troppo segnate dalla parzialità del narratore. Circa il luogo di nascita, pare probabile la notizia che fa Ildebrando originario della Tuscia romana e più precisamente della non identificabile località di Raovaco.

Quanto alla località di Soana, si nutrono Invece notevoli incer­tezze, poiché viene accennata da una sola fonte: il cardinale Bosone (Vitae dei papi o Gesta pontificum romanorum). 

Circa la data di nascita si può dire ancora di meno. Qualcosa si è tentato di arguire a   partire dalla data della sua ordinazione suddiaconale, che si collocherebbe nel 1049.  Siccome allora non si poteva diventare suddiaconi prima del ventunesimo anno di età, si congettura che Ildebrando dovrebbe essere nato non dopo il 1028.

Circa la sua famiglia si sa soltanto che suo padre si chiamava Bonizone; le notizie sul carattere o plebeo o nobiliare di tale famiglia sono sospette, poiché probabilmente sono dettate o dalla volontà di denigrare il famigerato Gregorio VII, o dalla intenzione opposta di attribuirgli le connotazioni tipiche celle vite dei santi medievali [nella mentalità medievale, che poneva ogni valore nell’antichità, l’appartenenza ad un casato nobile appariva come una garanzia di onorabilità, perciò si tese a dare la qualifica di nobili ai santi, anche se in realtà nobili non erano].

Circa la sua educazione si può ritenere con certezza che si compi a Roma sin dalla più tenera età: prima probabilmente ad opera di uno zio materno abate di Santa Maria sull'Aventino e dopo tra le mura del palazzo lateranense. Qui il giovane Ildebrando, che sentiva una viva propensione per la vita monastica, per obbedienza al Papa si trovò indirizzato alla carriera ecclesiastica.

Come chierico della cappella pontificia segui poi Gregorio VI nell’esilio in Germania (Colonia).

Alla morte del “suo Papa” Ildebrando pensò di coronare la vocazione monastica, entrando nel monastero di Cluny o in un altro monastero clunicense. [L. M. SMITH, Cluny e Gregorio VII : Cluny (=Wege der Forschung CCXLI), Darmstadt 1975, 37-38: mostra in maniera documentata che un passaggio di Ildebrando nel monastero di Cluny è notizia data soltanto da BONIZIONE DI SUTRI, Liber ad amicum, che non gode di nessuna attendibilità storica. PAOLO von BERNRIED, Vita Gregorii VII papae, dice genericamente che Ildebrando soggiornò in Francia. Ottone di Frisinga poi incorse in un fatale scambio di persona: ai tempi di Odilone un certo Ildebrando viene ricordato come praepositus. Ottone di Frisinga, rifacendosi alla notizia inattendibile di Bozone di Sutri, ritenne che potesse trattarsi del nostro Ildebrando. L’editore della Bibliotheca Cluniacensis si spinse ben oltre, trasformando l’ipotesi di Ottone di Frisinga in dato certo: a Cluny sarebbe morto Gregorio VI e Ildebrando vi sarebbe rimasto, diventando “monachus et prior cluniacensis”. I bollandisti poi si sarebbero accodati. Da questa persuasione infondata sarebbe poi scaturita l’idea che Gregorio VII sarebbe stato discepolo di Odilone e da lui avrebbe preso ispirazione per la sua riforma].

Ma di lì a qualche mese l'obbedienza al Papa Leone IX (questo, dell'obbedienza al Papa come obbedienza a Dio, è un tema che sottende tutta l'esistenza di Ildebrando e diverrà il cardine del suo sistema) lo riportò a Roma, dove poté continuare a seguire la vocazione mo­nastica in  s. Paolo fuori le mura, svolgendo però insieme il ruolo di collaboratore del papato riformatore. Verso la fine del ponti­ficato di Leone IX Ildebrando cominciò a diventare una personalità di forte rilievo, finché sotto Niccolò II ed Alessandro II divenne la figura di primo piano.

 

b.  L'elezione

Il 22 aprile, mentre in s. Giovanni in Laterano si stavano svolgendo i funerali di Alessandro II, il popolo si mise ad acclamare Ildebrando come papa. Qualche ora dopo i Cardinali-Vescovi si riunirono in s. Pietro in Vincoli insieme con gli altri Cardinali e gli altri rappresentanti del clero e del popolo romano qui si procedette alla regolare elezione. Ildebrando assunse il nome di Gregorio VII. Poiché era ancora diacono, fu ordinato sacerdote nelle vicine tempora di      maggio. La consacrazione episcopale fu celebrata non il sabato 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, ma il giorno successivo, in quan­to allora I vescovi venivano consacrati di domenica.

A prima vista si direbbe che Gregorio VII sia stato eletto secondo una modalità, che non rispettava il decreto del 1059, infatti sembrerebbe che non furono i cardinali vescovi, ma il popolo romano ad avere la prima vox. Nel valutare questi fatti occorre procedere con molta attenzione e con discernimento. Il moto di popolo non deve essere considerato come il primo momento del processo elet­tivo: esso fu un'iniziativa spontanea, che non mirava ad eleggere e ad imporre il nuovo Papa, ma tendeva semplicemente a fare conoscere un desiderio. Si ha poi la chiara impressione che il collegio cardinalizio, nel procedere all'elezione di Ildebrando, non agì affatto sotto pressione morale, ma liberamente espresse un orientamento, che coincideva con le speranze popolari. Pertanto si deve considerare come elezione di Gregorio VII solo il convegno, che si tenne in s. Pietro  in Vincoli: e qui si rispettò senz'altro il decreto del 1059.

E’ significativo il fatto che gli antigregoriani, quando accusarono Gregorio VII di essere stato eletto irregolarmente, non addussero come motivazione la prima vox popolare, ma la mancanza dell’intervento del re tedesco, che invece era previsto dal decreto del 1059. Contrariamente a quanto affermato  da K. BIHLMEYER - H. TÜCHLE vol. II, p.I74, con ogni probabilità Gregorio VII non comunicò la sua elezione alla corte tedesca. In ciò non si dove vedere una contestazione di quell'onore e di quella riverenza, che il decreto del 1059 ancora rico­nosceva alla corte tedesca. Alla base di tale astensione c'era solo un fatto contingente: Alessandro II nel Sinodo Romano del 1073 aveva scomunicato cinque consiglieri di Enrico IV, che erano accusati di appoggiare per la sede di Milano quel Goffredo, che la Sede apostolica considerava un usurpatore. La scomunica comportava la totale rottura di rapporti con gli  scomunicati: se uno violava l'interdizione, veniva a sua volta coinvolto nella scomunica. Ebbene, Enrico IV aveva continuato a  collaborare con i cinque scomunicati e pertanto si era a sua volta esclu­so dalla comunione ecclesiale. Gregorio VII non dovette fare altro che prendere atto di tale situazione e astenersi dalle relazioni con il re tedesco scomunicato (cfr G.B. BORINO, Studi Gregoriani, V (1956), 313-347).

 

c.   Gli orientamenti del nuovo papa: il Dictatus Papae

Per raggiungere una certa comprensione degli orientamenti di Gregorio VII occorre prestare attenzione in maniera particolare a due aspetti della sua vita, che confluiscono in una esaltazio­ne della autorità del papato.

Il primo aspetto è rappresentato dalla sua esperienza di riformatore in stretta collaborazione con il papato. Qui maturò la convinzione che la soluzione dei diversi problemi teologici-disciplinari posti alla riforma e la sollecita attuazione di essa, passavano attraverso la riscoperta e la ri­valutazione di tutte le funzioni connesse con il primato romano (G. MICCOLI, s.v. Gregorio VII   : Bibliotheca Sanctorum, vol VII, Roma 1966, col. 307).

Importante in questo senso fu senz’altro la polemica con la Chiesa bizantina; ulteriore stimolo dovette venire dalla poli­tica di centralizzazione seguita dalla Santa Sede a partire da Leone IX, infine decisivo dovette essere il dibattito, che venne a prodursi tra i riformatori romani intorno agli anni '60: problemi, che si ponevano con estrema urgenza di soluzione, si arenavano in lunghe e insolubili discussioni teologiche (cfr il problema delle validità delle ordinazioni simoniache, il problema della vita comune del clero secondo povertà personale o no, il problema del ruolo da riconoscere al laicato nell'azione di rifor­ma del clero, il problema del ruolo da riconoscere al potere temporale nelle elezioni canoniche...).

Di fronte all'urgenza delle soluzioni da una parte e alla inestri­cabilità delle discussioni teologiche dall'altra, Ildebrando dovette maturare la convinzione che ci volesse una autorità, che per forza e decisione proprie intervenisse e desse disposizioni chiare.

Del resto Ildebrando non doveva possedere una particolare inclinazione per la questioni teologico-dottrinali, infatti nei dibattiti del suo tempo il suo contributo non fu rilevante come quello di un Umberto di Silva Candida o come quello di un Pier Damiani. La sua preferenza andava senz’altro al campo della vita vissuta: da qui I’insofferenza per i ritardi, da qui la tendenza a fondare l’azione di riforma non tanto sulle chiarificazioni
teologiche, ma piuttosto sul discorso di autorità, da qui la preferenza accordata alle soluzioni giuridico-organizzative, da qui infine il rischio di inquadrare e mortificare in un sistema troppo rigido le molteplici istanze, che la riforma esprimeva. Vedremo poi come questa fretta di istituzionalizzare, sacri­ficando la comprensione della complessità della situazione, porterà ad esasperare la tensione tra spirito ed istituzione: tale tensio­ne infatti talora non riuscirà ad essere compresa in termini di reciproca correlazione e pertanto si esprimerà in termini di insanabile contrapposizione.

Il secondo aspetto invece è rappresentato da una visione profondamente mistica.

Punto di partenza è la coscienza di Dio come unico Signore dell’universo. Da ciò consegue che le singole esistenze e la totalità della realtà si trovano impegnate o nel riconoscere la signo­ria di Dio, obbedendo al suo volere e accettando di iscriversi nell'ordine divino, oppure nel ribellarsi a tale Signoria, iscrivendosi nell'ordo diaboli.

Il riformatore Gregorio VII sentiva l'esigenza di rendere l’ecclesia universalis conforme all'ordine divino, procedendo per via d'autorità. Nel termine auctoritas dobbiamo scorgere due implicazioni:

auctoritas = Scrittura e Tradizione ecclesistica: secondo il carattere compilatorio della cultura altomedievale, Gregorio VII riteneva che l'ordine divino fosse rep­eribile solo attraverso un fedele accostamento delle sententiae auctoritatum. Da qui il suo con­tinuo limitarsi alla fonte biblica, che è testimoniato dalle innumerevoli citazioni scritturistiche, che compaiono nei suoi scritti. La sua conoscenza patristica è invece piuttosto limitata: che Gregorio VII dipenda da Agostino è uno dei tanti luoghi comuni senza fondamento: Agostino è citato una volta soltanto negli scritti di Gregorio VII. E' invece chiara la sua dipendenza dalla tradizione romana ed in particolare da Grego­rio Magno.

Auctoritas = primato romano: dalla tradizione romana, cui attingeva, Gregorio VII fu spinto a interpretare l'ordine espresso dalle sententiae auctoritatum secondo un orientamento petrino-monarchico: da qui la vigorosa accentuazione di Mt 16, 18-19, letto non come inizio del collegio episcopale, ma come istituzione del potere monarchico e totale di legare sciogliere, che risiede in Pietro e nei suoi successori. In questa prospettiva si deve dire che cir­ca l'ordine divino le sententiae auctoritatum danno una indicazione primaria e fondamentale: il primato di Pietro e dei suoi successori nella se­de di Roma; tutte le altre indicazioni devono poi essere assunte in coerente riferimento a questa prima e fondamentale indicazione. 

A questo punto traspare chiaramente che per Gregorio VII la con­formità all'ordine divino tende a coincidere coni la sottomissione al papa, con la dipendenza dal capo. Ciò Gregorio VII avvertì fortemente nella sua vita personale, quando si trovò continuamente costretto ad accantonare l'inclinazione monastica (si ricordi che Ildebrando continuò a vestire l'abito monastico anche dopo l'elezione papale) per servire il papato: era convinto che nell'ordine divino il papato stava al di sopra di ogni altro valore e lo au­tenticava: anche la vita monastica, che secondo la mentalità del tempo era il massimo della perfezione cristiana, cessava di essere tale, se veniva abbracciata e vissuta contro il volere del papa. Gregorio VII inoltre applicò questo modo di vedere a tutta la Chiesa: abbiamo una chiara dimostrazione di ciò nel “DICTATUS PAPAE”, una raccolta non sistematica di 27 preposizioni concernenti le prerogative e i privilegi della Chiesa romana e del papato (MGH Ep. Sel. II, 2, 201-208). Il documento fu redatto nei primi mesi del 1075 e, secondo la tesi ormai generalmente accolta, mirava a presentare un indice-canovaccio di temi, sui quali si sarebbe dovuta raccogliere nell'ambito della tradizio­ne ecclesiastica una seria documentazione; alla fine si sarebbe ottenuta una specie di collezione sulle prerogative e sui privilegi primaziali di Roma, collezione a cui in futuro si sarebbe do­vuto attingere, nel caso si fosse presentata la necessità di giustificare tali prerogative di fronte ad eventuali obiezioni. Ma vediamo il contenuto.

Abbiamo prima di tutto l'affermazione delle prerogative fondamen­tali della Chiesa di Roma e del papa:

n.1: La Chiesa romana è stata fondata soltanto dal Signore: tale affermazione pone la Chiesa romana al di sopra delle Chiese più insigni, che vantano invece una fondazione apostolica;

n.23: il pontefice romano, se è stato ordinato canonicamente, diventa indubbiamente santo per i meriti di s. Pietro, secondo la testimonianza di s. Ennodio, vescovo di Pavia, d'accordo in ciò con numerosi Padri, come si può vedere nel decreto del beato pa­pa Simmaco.

n.22: La Chiesa romana non ha mai errato e, come attesta la Scrittura, non potrà mai errare. Da ciò consegne in negativo:

n.26: chi non concorda con la Chiesa romana non è considerato cattolico;

n.20: nessuno può condannare una decisione della Sede apostolica;

n.19:  il Papa non può essere giudicato da nessuno;

n.18: la sentenza del papa non può essere riformata da nessu­no ed egli solo può riformare quelle di tutti;

n.17: nessuna scrittura, nessun testo possono essere ritenuti canonici senza la sua autorità.

In positivo invece consegue:

n.2: solo il pontefice romano ha il diritto di essere chiamato Universale (affermazione fatta evidentemente contro il patriarca di Costantinopoli);

n.11: il suo nome è unico nel mondo;

n.10: egli è il solo, il cui nome deve essere pronunciato in tutte le Chiese;

n.8: solo il papa può usare le insegne imperiali [questa disposizione non va messa in relazione con l’imperatore, quasi volesse negargli il diritto ad usare le insegne imperiali; va invece letta nell’ambito della gerarchia ecclesiastica, che tendeva ad attribuirsi prerogative imperiali. L’arcivescovo di Benevento per esempio si attribuì l’uso del “regno sive thiara ad modum Summi pontificis, quod hic camaurum vocatur”, uso che si protrasse fino al XVI secolo. L’esclusiva papale per l’uso delle insegne imperiali affermava il principatus della sede romana nell’intera Chiesa, conferendo a questo principatus anche riflessi temporali: cfr W. KÒLMEL, Rom und der Kirchenstaat im 10. und 11. Jahrhundert bis in die Anfänge der ReformBerlinGrunewald 1935, pp. 162-163)].

A questo carattere unico e universale del pontefice romano si connette una potestà universale. Potestà sui concili;

n.6: nessun sinodo può essere chiamato generale senza suo ordine;

n.4: nei concili il suo legato presiede a tutti i vescovi, anche se é di grado inferiore ed egli soltanto può pronunciare contro di loro sentenza di deposizione.

Potestà sulle chiese locali:

n.21: le cause maggiori di ogni chiesa devono essere demandate al papa;

n.7: solo il papa può stabilire, secondo le circostanze, nuove leggi, fondare nuove diocesi, trasformare una collegiata in abbazia, dividere un vescovado ricco ed unire quelli che sono poveri;

n.13: per ragioni di necessità è consentito al papa di trasferi­re un vescovo da una sede ad un’altra;

n.3: il papa soltanto può deporre o assolvere i vescovi;

n.25: il papa può deporre ed assolvere i vescovi anche senza concilio;

n.5: il papa può deporre gli assenti;

n.14: il papa può, se crede, ordinare una ecclesiastico di qualsia­si Chiesa;

n.15: chi è stato ordinato dal papa può governare un’altra Chiesa, ma non servire né ricevere da un altro vescovo un ordine superiore.

La potestà del papa si estende anche ai singoli fedeli, principi e imperatori compresi:

n.9: il papa è l'unica persona a cui tutti I principi baciano i piedi;

n.24: per ordine del papa e con l’autorizzazione del papa è con­sentito ai sudditi di accusare i loro superiori;

n.27: il papa può sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà agli indegni;

n.12: al papa è consentito di deporre gli imperatori; 

n.6: non è permesso tra l'altro accompagnarsi con coloro che sono stati scomunicati dal papa, né coabitare con loro.

Come si vede, il “Dictatus papae” assegna al papato un inequivocabile ruolo monarchico all’interno dell’Ecclesia univer­salis e sotto questo profilo non rappresenta una novità assoluta, in quanto non fa altro che riaffermare i principi tipici della tradizione ecclesiastica romana. La novità sta nel fatto che Gregario VII trae da tali principi conseguenze giuridiche

di notevole ampiezza, che nessuno mai prima di lui aveva espres­so in tali termini. Ne risulta una Chiesa gerarchicamente ordinata in assoluta dipendenza dal papato, secondo chiari criteri giuridici. E’ chiaro che riconoscendo al papato una serie di diritti supremi e insindacabili all'interno della chiesa il    “Dictatus papae” finisce con il creare un ambito di diritto proprio ed esclusivo del papato, in cui il potere regale non può vantare nessun margine di competenza: e questa è senz’altro una novità rilevante rispetto alla situazione altomedioevale, che tra i due poteri non riconosceva distinzione di ambiti ma poneva solo una distin­zione di tipo funzionale. Questa serie di diritti esclusivi e supremi sottrae al potere regale delle realtà che sono tipicamen­te spirituali come i concili, la legislazione canonica, l'episcopato, le strutture ecclesiastiche locali e pone tali realtà tipicamente spirituali in assoluta dipendenza dal papa.

Sotto questo profilo si deve riconoscere che Gregorio VII sot­trae al potere regale ogni connotazione sacerdotale-sacrale: il re viene collocato tra i laici.

Ma si è pure notato che questa serie di diritti esclusivi e supre­mi dei papato giunge a coinvolgere o sottomettere il potere regale stesso. Per capire la cosa si deve prima di tutto rilevare che Gregorio VII concepisce la Ecclesia universalis ancora come unità della sfera religioso-spirituale e della sfera politico-temporale nel perseguire l'unico fine religioso-politico.

Tuttavia Gregorio VII, diversamente da quanto avveniva nell’Alto Medioevo, interpreta questa  unità non più come compenetrazione indistinta, ma come copresenza di due sfere distinte: l'esigenza di contrastare l’ingerenza laicale lo spinge ad affermare l'ambito delle cose spirituali come specifico ed esclusivo del potere sacerdotale. Poi, secondo la tradizione spiritualista dell’agostinismo medioevale, Gregorio VII concepisce questa copresen­za di due sfere distinte, non come un accostarsi, un giustapporsi alla pari, ma come uno strutturarsi gerarchicamente, dove il ruo­lo primario e paradigmatico spetta alla realtà spirituale e quindi al potere sacerdotale. In proposito Gregorio VII si riferisce frequentemente a Gregorio Magno, che affermava la superiorità morale del potere sacerdotale, fondandosi sul dato biblico, secondo cui il potere sacerdotale fu di diretta istituzione divina, men­tre quello regale fu una invenzione umana, cui Dio dette il suo consenso.

Secondo Gregorio VII questo ruolo primario del potere sacerdotal­e all'interno dell'unità dell'Ecclesia universalis trova espressione in colui che è il capo dei sacerdoti, il papa, che diventa appunto il criterio di ordine per tutto ciò che appartiene alla Ecclesia universalis, realtà temporale-politica compresa.

Per questa ragione un imperatore che non armonizzi con tale criterio di ordine, fondato sul papa, viene a trovarsi estraneo all'unità dell'Ecclesia universalís e pertanto viene dal papa dichiarato scomunicato e quindi non può più essere seguito dai suoi sudditi cristiani, che vengono sciolti dal giuramento di fedeltà e alla fine viene deposto dal papa.

Questa posizione di Gregorio VII viene spesso qualificata come posizione ierocratica, in quanto – si dice – vi sarebbe un tota­le asservimento del potere regale alla volontà del potere sa­cerdotale. A nostro avviso questa interpretazione è affrettata e superficiale. Pretendere da parte del papa di essere assunto dal potere regale come criterio di ordine e di appartenenza all'Ecclesia universalis non vuol dire perciò stesso pretendere di essere il principio direttivo di tutti gli aspetti della vita ed in particolare della vita temporale in quanto tale.

Gregorio VII, esige prima di tutto che il potere regale non si consideri nella Ecclesia universalis come il potere supremo, che sottomette a sé l'ambito spirituale; in secondo luogo, trattandosi di re cristiani, Gregorio VII esige che il potere regale nell'ambito spirituale stia sottomesso al potere sacerdotale ed in particolare al papa: sotto questo profilo il re è come ogni altro fedele; infine, secondo la mentalità spiritualista dell'agostinismo medievale, Gregorio VII esige che il potere regale nel suo agire rispetti la superiorità morale del potere sacerdotale e pertanto non pretenda di occupare nella Ecclesia universalis una posizione paritetica o contrapposta. A proposito dì quest'ultimo aspetto si deve dire che Gregorio VII si attenne alla concezione di quel momento storico, che considerava il potere regale come funzione intra-ecclesiale, agente in ordine ad un fine, che non era temporale-politico, ma era religioso-politico. E' chiaro che, data la natura religioso-politica di tale fine, toccava al papato valutare la rispondenza dei mezzi e delle scelte regali a tale fine. Ma giudicare se il potere regale rispetta il fine religioso-politico, non è affatto pretendere di determinare il potere regale, imponendogli positivamente una condotta precisa.

Il potere regale, che nel corso dell'Alto Medioevo aveva quasi sempre tenuto un primato di conduzione, non poteva accettare di buon grado tale giudizio pontificio sul suo operato e perciò si trovò spinto da tale situazione a rivedere il proprio carattere intra-ecclesiale, la propria subordinazione all'unico fine religioso-politico: iniziò così per il potere regale un processo di desacralizzazione, di ricerca di una nuova base politica extra ecclesiale, di ricerca di un fine politico, che non fosse religioso; alla fine di tale processo - grazie all'apporto del diritto imperiale romano e della filosofia aristotelica - comparirà l'idea di stato moderno, fondato sulla natura sociale dell'uomo e orientato verso un fine temporale-politico: il bene comune della società terrena.

Si deve riconoscere che Gregorio VII nel determinare le conseguenze di un giudizio morale negativo ha camminato troppo; non si è limitato a sanzioni spirituali, quali la scomunica e lo scioglimento del giuramento di fedeltà, ma è giunto ad affermare un proprio diritto di deporre l’imperatore, spingendosi dal terreno della dipendenza morale sul terreno della dipen­denza giurisdizionale. In ciò Gregorio VII si trovò isolato: an­che un suo stretto collaboratore come Anselmo di Lucca (nipote di di Anselmo da Baggio – Alessandro II) nel compilare una collezione canonica non giungerà ad affermare un diritto-papale di depor­re sovrani indegni: ma non va ritenuto significativo il fatto che Gregorio VII parli di deposizione dell’imperatore e non di deposizione dei re? Non si deve forse pensare che il carattere particolarmente sacro dell'imperatore, quale defensor Romanae Ecclesiae, ha spinto il papa ad affermare nei suoi confronti un potere di deposizione, che invece non era previsto per gli altri re?

 

d. Verso la lotta per le investiture

Divenuto papa, Gregorio VII, rivolse la sua attenzione a tre pro­blemi particolari:

·         guadagnare alla riforma i vescovi e i sovrani. Per ottenere ciò, nel suo primo anno di pontificato Gregorio VII pensò di non radicalizzare l’azione di riforma, evitando di spingersi fino all'aspetto strutturale. Ciò è dimostrato dal primo sinodo quaresimale, tenuto da Gregorio VII nel 1074. Circa la simonia ed il nicolaismo non fece altro che riaffermare le disposizioni del 1059; non troviamo nessun accenno alle investiture. Il nuovo papa mise in campo invece una intensa azione di avvicinamento dell’episcopato e dei sovrani, sia attraverso corrispondenza epistolare sia attraverso l'intervento di delegati pontifici. Nei confronti dei sovrani Gregorio VII espresse la tesi della collaborazione armonica, evitando lo scontro frontale. Tale atteggiamento trovò rispondenza in Guglielmo il Conquista­tore, che dai 1066 non aveva mai cessato di dimostrare un lodevo­le zelo per la riforma, evitando ogni genere di simonia nel nominare i vescovi ed agendo con rigore nei confronti dei preti fornicatori. Buon esito, ma solo momentaneo, Gregorio VII ebbe anche presso Filippo I di Francia, che parve per un attimo ravve­dersi delle sue pratiche simoniache e dei suoi abusi in campo ecclesiastico; ma la cosa non durò molto! Più fortunata fu la relazione, che venne ad instaurarsi con Enrico IV di Germania:  questi, avendo collaborato con i cinque consiglieri scomunicati da Alessan­dro II, si era trovato a sua volta coinvolto nella scomunica e per questa ragione non aveva ricevuto la comunicazione della ele­zione di Gregorio VII. Il nuovo papa volle tuttavia lavorare per superare la tensione, facendo conoscere al re tedesco la sua disponibilità a concedere l’assoluzione dalla scomunica nel caso si fosse ravveduto sulla questione milanese (i due arcivescovi, Goffredo e Attone). Enrico IV in quel momento venne  a trovarsi in serie difficoltà per via di una ribellione dei Sassoni, che chiedevano maggiore autonomia e perciò dovette ritenere che una riconciliazione con la Sede Apostolica gli avrebbe giovato sul piano politico. Infatti tra il 24 e il 27 settembre 1073 il papa ricevette una lettera, in cui Enrico esprimeva il suo pentimento, prometteva di dare soddisfazione al papa circa la questione milanese e chiedeva con insistenza l'assoluzione dalla scomunica. Commosso, Gregorio VII intervenne presso i Sassoni, pregando vescovi e grandi di cessare ogni ostilità nei confronti di Enrico fino all'arrivo in Germania di delegati  papali. Questi partirono da Roma subito dopo il sinodo quaresimale del 1074, trovarono ottima accoglienza presso Enrico IV, che fece ammenda delle sue colpe ed ottenne l'assoluzione dalla scomunica. L'azione presso l’episcopato ebbe invece risultati tutt'altro che lusinghieri: già per se stessi poco inclini alla riforma, furono ulteriormente spinti a prendere le distanze nei confronti del papato da parecchi mo­ti di ribellione da parte del basso clero, che non voleva in nes­sun modo rinunciare alla donna: così in Francia, così in Germania, così in Lombardia, così nello stesso regno anglo-normanno. Da parte del clero dunque l’autorità  romana non riusciva ad  otte­nere rispetto.

·         Problema: il progetto orientale.

In Oriente il Papa voleva raggiungere una riconciliazione con la Chiesa bizantina ed insieme eliminare la presenza islamica. A questo progetto lo spingeva anche il fatto che l'imperatore bizantino Michele VII gli aveva fatto pervenire una lettera assai deferente nei confronti della Chiesa romana. Gregorio VII cominciò a lavorare perché in Occidente si costituisse un esercito, che muovesse contro gli Arabi nelle terre orientali; ma non  ottenne un'ade­sione rilevante. Dunque anche su questo punto Gregorio dovette registrare un fallimento.

·         Problema: la riconqiusta cristiana in Spagna:

Appena divenuto pepa Gregorio VII ritenne di dovere continuare ad appoggiare l’organizzazione della spedizione armata in Spagna, che aveva ottenuto il consenso del suo predecessore. Ma presto sulla questione piombò una fitta cortina di silenzio.

Alla fine del 1074 Gregorio VII tirò le somme della sua azione nel primo anno di pontificato: dovette rinunciare ai progetti orien­tali e di riconquista spagnola e insieme dovette concentrare la sua attenzione sulla riforma: l'opposizione del clero da una par­te affermava l'urgenza di tale azione, dall'altra dimostrava la necessità di cambiare metodo, poiché il papato non poteva attendersi la riforma dalla collaborazione del clero che c'era, bisognava puntare sulla collaborazione del clero futuro ed in questa prospettiva si imponeva la necessità di garantire un migliore reclutamento del clero, bloccando in radice le pratiche simoniache: ecco il decreto sull'investitura laica del sinodo quaresimale ro­mano del 1075. Non ci è pervenuto il testo del decreto promulgato in questo sinodo: ci è tuttavia possibile ricostruirlo attraverso accenni successivi: doveva comportare fondamentalmente due affermazioni:

+     proibizione ai vescovi  di ricevere l’ufficio dalle mani di un laico;

+     proibizione ai metropoliti di consacrare coloro che avessero ricevuto il loro ufficio episcopale dalle mani di un laico.

Gregorio VII dunque riprese il decreto contro le investiture del 1059, precisandolo meglio. Tuttavia si deve rilevare senz'altro che non si ebbero determinazioni particolari sulla applicazione, sulle sanzioni disciplinari da comminare. E ciò rispondeva ad una preoccupazione particolare di quel momento: Gregorio VII av­vertiva il carattere rivoluzionario di questo decreto e pertanto preferì in un primo momento conferirgli il carattere di una nuova affermazione di principio, da determinare nei risvolti pratici lentamente con estrema prudenza, senza pregiudicare le buone relazioni, che si erano instaurate coi sovrani.

Per esempio Gregorio VII non ritenne di dover insistere per una diffusione e applicazione di questo decreto nell’Inghilterra di Guglielmo il Conquistatore, dove il sovrano praticava il sistema dell'investitura, ma con una preoccupazione religiosa.

O ancora: Gregorio VII farà applicare il decreto in Francia solo a partire dal 1077 e con una  particolare moderazione: spesso si limitò a colpire solo le elezioni sospette di simonia, chiudendo un occhio di fronte alle elezioni avvenute gratuitamente, sia pure con la pratica dell’investitura.

Interessante infine rilevare che alla fine del sinodo quaresi­male del 1075 Gregorio VII  si premurò di informare Enrico IV che sul punto dell'investitura c'era a Roma la disponibilità a trat­tare con la corte germanica per una azione moderata e concorde. Insomma nel sinodo quaresimale del 1075 Gregorio VII dovette con­siderare la proibizione delle investiture non come una condizione sine qua non, ma semplicemente come un mezzo, non assoluto ma tra tanti altri, non prioritario, ma solo estremo, a cui cioè ricorrere solo nel caso in cui non si fosse ottenuto nulla per altra via.

 

e. inizio della lotta per l’investitura

Credo che sia il caso di mettere in luce prima di tutto le motiva­zioni profonde di questo conflitto. Il decreto contro le investiture del 1075 a due categorie dovette apparire come una grave minaccia. La prima categoria era rappresentata dai vescovi imperiali: vi vedevano un chiaro attentato alla loro posizione di prestigio nel­l’apparato statale tedesco: Roma nell’imporre al vescovi tedeschi la sua autorità in fondo era disposta a sacrificare il ruolo tempo­rale, che il legame con l'autorità del re tedesco assicurava all'e­piscopato tedesco.

La seconda categoria era rappresentata dalla corte tedesca: questa usciva dalla fase della reggenza notevolmente indebolita, soprattutto per le spinte autonomistiche della feudalità laica e pertanto mirava a ricuperare forza sia appoggiandosi ancor più saldamente alla feudalità ecclesiastica, ed in questo senso l’investitura ecclesiastica era un mezzo necessario, sia limitando - a favore degli ec­clesiastici - le prerogative della feudalità laica.

Stante questa situazione, è chiaro che, per la comunanza di inte­ressi, da una parte avremo l'associarsi del re tedesco e dei vesco­vi imperiali in un fronte antipapale e dall'altra avremo l'avvici­narsi del papato alla feudalità laica in un fronte antienricia­no. Finché non fu sopita la ribellione sassone, Enrico IV preferì agire con estrema prudenza nei confronti del papato. Ma dopo la vittoria sui Sassoni (9 giugno 1075) il re tedesco ritenne giunto il momento di dare avvio con decisione al suo piano di rafforzamen­to della corona germanica. La prova chiara di questo orientamento si ebbe allorché in quell'autunno Enrico IV, contro la promessa fatta nel 1073, fece nominare ed investire quale arcivescovo di Milano il suddiacono Tedaldo; di lì a poco conferì l'investitura anche ai vescovi di Fermo e Spoleto.

Gregorio VII vide in questo modo di agire un grave affronto, non per­ché veniva calpestato il decreto del 1075 (su questo punto il papa era disposto a trattare), ma perché ancora una volta da parte te­desca veniva ignorata e conculcata l'autorità del papa in quanto tale: si ricordi che la Sede Apostolica si era già pronunciata in favore di Attone per Milano; pertanto Enrico IV con la nomina di Tedaldo chiaramente accantonava la presa di posizione papale; anco­ra si ricordi che le diocesi di Fermo e di Spoleto facevano parte della provincia ecclesiastica romana; pertanto, disponendo unila­teralmente di tali episcopati, Enrico IV chiaramente passava sopra i diritti metropolitani del Vescovo di Roma.

Per tutte queste ragioni Gregorio VII inviò ad Enrico IV una lettera minatoria, in cui gli rimproverava di non aver mantenuto le promesse; di aver apertamente violato l'ordinamento canonico, ma insieme si dichiarava pronto a negoziare. I latori della lettera dovevano avvertire a voce il re tedesco che, se si fosse ostinato nella sua posizione, sarebbe incorso nella scomunica e nella deposizione: qui si vede che Gregorio VII voleva trasferire una proposizione del “Dictatus papae" dal campo delle ricerche canonistiche sul terreno dei fatti giuridici.

Enrico IV credette di poter opporre al papa un atteggiamento di dura intransigenza: il 24 gennaio 1076 riunì a Worms un'assemblea dell'episcopato tedesco, che dichiarò Gregorio VII deposto. I vesco­vi indirizzarono a Gregorio VII una lettera, in cui venivano for­mulate le seguenti accuse: distruzione della pace, lesione dei di­ritti dei vescovi, spergiuro (secondo i vescovi tedeschi alcuni anni prima il monaco Ildebrando avrebbe giurato davanti alla corte tedesca che non avrebbe mai accettato di diventare papa); elezione irregolare per violazione del decreto del 1059, che prescriveva la partecipazione del re tedesco e pertanto concludevano: “Io... vescovo di ... notifico ad Ildebrando che da questo momen­to gli ricuso obbedienza e sottomissione, che non lo riconoscerò come papa, né più gli darò questo titolo”,

A sua volta Enrico IV inviò a Gregorio VII una lettera, in cui gli rimproverava di aver macchinato contro i suoi diritti alla corona imperiale e al governo in Italia poi, prendendo atto della senten­za di deposizione pronunciata dal vescovi, Enrico IV, quale patri­zio di Roma, ingiungeva al papa di abbandonare la sede romana, che occupava abusivamente.

Enrico IV inviò una seconda lettera a Roma; destinatari ne erano i cittadini romani: il re li invitava a scacciare Ildebrando dalla Sede Apostolica e ad eleggere un nuovo papa (i tre scrit­ti sono reperibili in MGH Const I, 106-111).

L'assemblea di Worms ebbe uno strascico anche in Italia: infatti a Piacenza si tenne una riunione dei vescovi lombardi, che aderi­rono pienamente alla decisione dei colleghi tedeschi.

Come mai Enrico IV osò tanto? Per il fatto che sopravvalutò la de­bolezza di Gregorio VII ed insieme sopravvalutò la propria forza. La notte di Natale del 1075 Gregorio VII era stato fatto oggetto di un attentato, mentre stava celebrando la messa nella basilica di santa Maria Maggiore: la cosa non ebbe gravi conseguenze, perché il papa fu prontamente difeso dalla popolazione romana. Enrico IV dovette ravvisare in tale episodio un segno dell'isolamento di Gregorio VII, quando invece si era trattato soltanto di un gesto sconsiderato, dovuto al risentimento personale di un nobile romano (Cencio, figlio del prefetto della città).

Quanto alla sua forza, Enrico IV dovette annettere peso eccessivo all'appoggio dei vescovi, senza preoccuparsi di considerare quale atteggiamento avrebbe assunto la feudalità laica e come questa avrebbe influito anche sugli stessi vescovi. Per queste ragioni di lì a un anno Enrico IV si troverà a Canossa.

Gregorio VII dal canto suo non si perse d'animo: nel sinodo quare­simale del 1076 si espresse in questi termini: “Beato Pietro, principe degli apostoli, ve ne supplico, porgetemi benevolo ascolto: state a sentire questo vostro servo, che voi ave­te nutrito fin dall'infanzia, che voi fino ad oggi avete sottratto dalle mani degli empi, che lo hanno odiato ed ancora lo odiano per la sua fedeltà verso di voi. Siatemi testimone voi con la mia regina, la Madre di Dio e il beato Paolo, vostro fratello fra i santi: la vostra santa Chiesa Romana mi ha costretto, mio malgra­do, a governarla: io sono salito sulla vostra cattedra con mezzi onesti. Avrei certamente preferito finire i miei giorni in abito monastico, anziché occupare il vostro posto per la brama della glo­ria mondana secondo lo spirito di questo secolo. Perciò ritengo che sia per grazia vostra e non per i miei meriti che il popolo cristiano, che mi è stato particolarmente affidato mi obbedisce, perché il potere di legare e sciogliere in cielo e sulla terra mi è stato rimesso da Dio, su vostra richiesta, e lo eserciti in vece vostra. Forte della vostra fiducia, per l'onore e la difesa della Chiesa, in nome di Dio onnipotente, Padre, Figlio, e Spirito Santo, con il vostro potere e per vostra autorità

-        interdico al re Enrico, figlio dell'imperatore Enrico, che con orgoglio insensato si è eretto contro la vostra Chiesa, di go­vernare il regno di Germania e d'Italia,

-        prosciolgo tutti i cristiani dal giuramento prestatogli

-        e proibisco a chiunque di riconoscerlo re.

E' giusto infatti che colui il quale intende menomare l'onore del­la vostra Chiesa, perda ciò che sembra possedere. E perché come cristiano si è rifiutato di obbedire, non è ritornato al Signore, che ha abbandonato, avendo rapporti con gli scomunicati, accumulan­do le iniquità, disprezzando gli ammonimenti, che gli ho rivolti per la sua salvezza – e voi ne siete testimone - separandosi dal la vostra Chiesa e tentando di smembrarla, in nome vostro

-        io lo colpisco di scomunica,

perché tutti i popoli della terra sappiano che su questa pietra il figlio del Dio Vivente ha edifi­cato la sua Chiesa e che le porte dell'inferno non prevarranno con­tro di essa” (REG. III, 10 a).

In Germania da più parti si contestò a Gregorio VII il potere di giudicare il re; ciò indusse il papa a precisare il senso del suo intervento in una lettera indirizzata a Ermanno, vescovo di Metz (Reg. IV, 3). In tale lettera Gregorio VII fa ricorso a tre argo­menti:

+   argomento storico: richiama alcuni precedenti storici, in cui il potere sacerdotale compare come giudice del potere regale: l'esempio di papa Zacca­ria, che giudicò il merovingio Childerico III come non idoneo a regnare, l'esempio di Sant’Ambrogio, che giudicò l'imperatore Teodosio;

+   argomento dogmatico-teologico: fondandosi su Mt 16,18-19 e su Gv 21,7, Gregorio VII sostiene che a Pietro è stato dato un potere di legare e scioglie­re, che ha estensione universale e comprende anche i re;

“Si è preteso che Dio, affidando la Chiesa a Pietro con le parole: - Pasci le mie pecore - (Gv 21,17), abbia voluto escludere i re. Perché non sostenere, o piuttosto non confessare arrossendo, che Dio, il quale ha rimesso a Pietro in particolare il potere di legare e di sciogliere in cielo e sulla terra, non ha fatto eccezione per nessuno? Chi afferma di non potere essere vincolato dalla Chiesa, deve dichiarare pure di non potere essere assolto da essa; ma co­sì egli si separa da Cristo";

+          altro argomento dogmatico-teologico: Gregorio VII richiama la superio­rità del potere sacerdotale quanto ad origine: il potere sacerdo­tale è di istituzione divina, mentre quello regale é invenzio­ne umana; quanto ad oggetto: il potere sacerdotale si esercita sulle cose spirituali, mentre quello regale sulle realtà materiali: "Che se la S. Sede, in virtù del potere conferitole da Dio, può giudicare le cose spirituali, perché non dovrebbe poterlo fare anche per quelle temporali? La vostra carità non può farvi chiudere gli occhi sulle iniquità di quei re e principi,che antepongono la propria gloria e i propri interessi alla giustizia di Dio, che disprezzano l'onore di Dio e ricercano il loro proprio bene. Mentre quelli che antepongono Dio a sé stessi e obbediscono alle sue leggi anziché a quelle degli uomini, sono membri di Cristo, quelli di cui abbiamo detto più sopra sono membri dell'Anticristo. Se in caso di colpa vengono giudicati gli ecclesiastici, perché non dovrebbero essere ripresi delle loro cattive azioni anche i laici?”.

Si noti come il giudizio si mantenga sempre su un terreno morale e non politico.

 

f. Canossa:

La decisione di Enrico IV di presentarsi a Canossa in atteggiamento penitenziale per ottenere dal papa l'assoluzione fu sollecitata da una serie di circostanze politiche.

I circostanza: l'atteggiamento dei vescovi: tornati nelle loro se­di dopo l'assemblea di Worms, meno condizionati dal potere del re, molti vescovi cominciarono a prendere le distanze da Enrico IV. A ciò furono indotti anche dall'atteggiamento, che stavano assumendo i principi laici.

II circostanza: i principi laici non avevano mai nutrito molte sim­patie per questo re, che voleva annullare le posi­zioni vantaggiose guadagnate dalla feudalità laica durante il periodo della reggenza. Il conflitto tra Enrico IV e Gregorio VII parve a questi principi l’occasione propizia per contrapporsi alla politica centralizzatrice di Enrico IV: anziché assicurare al sovrano il loro appoggio, si vollero erigere a giu­dici della monarchia germanica.

Infatti nell'ottobre del 1076 si riunirono a Tribur, presso Magonza, alla presenza di un legato papale. Tra i principi si manifestarono due tendenze: una radicale, che mirava all'elezione di un nuovo re tedesco; una tendenza più moderata, che invece vole­va offrire a Enrico IV una possibilità di riabilitazione. Ad avere la meglio, anche grazie all'appoggio del legato papale, fu la corrente moderata, pertanto a Tribur i principi posero a Enrico IV le seguenti condizioni:

l - il re e i suoi collaboratori scomunicati avrebbero dovuto promettere al papa e ai principi di fare ammenda;

Il - il re si sarebbe dovuto sottomettere circa il destino del suo regno alle deliberazioni di un'as­semblea del regno, presieduta dal papa, che si sa­rebbe dovuta tenere il 2 febbraio del 1077 ad Augsburg;

III - il re sarebbe comunque stato deposto, se allo scadere del primo anno dalla data della scomunica non avesse ancora ottenuto l'assoluzione pontifi­cia.

Enrico IV accettò le condizioni poste dai principi, ma insieme co­minciò a lavorare per vanificare l'assemblea del regno prevista per il 2 febbraio. Alla notizia che Gregorio VII aveva, tra il novembre e il dicembre, iniziato il suo viaggio verso la Germania, Enrico IV con una scorta armata passò il Moncenisio e si presentò sul suolo italiano. A quel punto Gregorio VII dovette interrompere il suo viaggio e rinchiudersi nel castello della contessa Matilde, situa­to a Canossa, a sudovest di Reggio Emilia.

Il 25 gennaio, mercoledì, festa della conversione di San Paolo, Enrico si presentò davanti al castello di Canossa non in atteggia­mento regale, ma in atteggiamento da penitente: abito penitenziale, piedi scalzi; Gregario VII lo lasciò attendere per tre giorni fuo­ri dal castello; infine, sia cedendo alle pressioni della contessa Matilde e di Ugo, abate di Cluny e padrino di Enrico IV, sia ce­dendo alla propria compassione e commozione, Gregorio VII sabato il 28 gennaio riaccolse Enrico IV nella comunione, chiedendogli come assicurazione un giuramento:

-       “prometto di fare giustizia secondo la sentenza del papa e di sottostare al suo parere, purché non ci sia impedimento certo  per me o per lui”: si noti che qui si allude alla sentenza, che si sarebbe dovuta pronunciare il 2 febbraio alla dieta di Augsburg: ebbene su questo punto Enrico IV esprime una sottomissio­ne condizionata;

-     "Se lo stesso papa Gregorio intende venire oltre i monti o altrove, avrà ogni sicurezza per quel che mi riguarda e per quel che riguarda colore, a cui posso imporla... Per parte mia, egli non avrà nulla da temere che sia contrario al suo onore e, se altri
lo attaccheranno, io gli porgerò aiuti con tutta la buona volontà secondo le mie forze”.

Si noti come Enrico promette al papa una specie di salvacondotto per il suo viaggio in Germania, anche se questo viaggio è presentato come eventuale soltanto, il papa potrebbe decidere anche altrove. Si noti ancora come Enrico IV non dà nessuna assicurazione circa la sua presenza alla dieta di Augsburg: dunque abbastanza chiaramente appare la volontà di vanificarla. Infine si noti come non si accenni ad altre questioni, che sono tuttora aperte:

 

·      la rottura della collaborazione con i consiglieri scomunicati;

·      questione delle investiture;

·      la questione di Milano;

·      l'atteggiamento futuro nei confronti del potere papale.

Dal giuramento dunque traspare che Gregorio VII ha giudicato il caso di Enrico IV non secondo criteri politici, ma secondo crite­ri spirituali: al penitente Enrico IV per l'assoluzione non ha chiesto garanzie politiche, ma penitenza e pentimento. A Canossa abbiamo dunque la sottomissione del potere regale al papa, non in quanto sarebbe superiore giurisdizionalmente sul terreno propriamente politico, ma in quanto sarebbe superiore moralmente nell'am­bito spirituale. Sotto questo profilo Canossa dice la fine della relazione sacerdozio-regno del periodo Alto Medievale; dice la vittoria della concezione gregoriana: notate che la concezione gregoriana si fonda non su equilibri di forza politica, ma sulla buona volontà dei cristiani: in fondo Gregorio VII sa di potere contrapporre alla forza militare di Enrico IV solo la volontà di adesione dei fedeli alle tesi del papa qualora tale adesione venisse meno, il papa non avrebbe altro che la sua parola di condanna di fronte alla forte spada del re (cfr l'esilio di Salerno).

 

f. Le conseguenze politiche di Canossa:

Quanto ad Enrico: quali sono le conseguenze giuridico-politiche del gesto spirituale di Canossa? E' chiaro che Gregorio VII pensa ancora che la definizione della questione del regno tedesco si compirà solo nella dieta di Augsburg. Ma, nell'intervallo di tempo, che intercorre tra Canossa e Augsburg, Enrico deve essere considerato re o no? Sotto quali panni Enrico si presenterà di fronte alla dieta di Augsburg?

Per trovare su questo interrogativo una risposta precisa di Gregorio VII si deve risalire all’allocuzione da lui pronunciata nel sinodo quaresimale romano del 1080 in occasione della seconda condanna di Enrico IV: “Vedendolo così umiliato e, dopo aver ricevuto molte promesse di cambiamento di vita, io l'ho riammesso nella comunione, ma non l'ho ristabilito nel regno, da cui l'avevo deposto nel sinodo di Roma, e non ho obbligato quelli che gli avevano prestato e che gli avrebbero prestato giuramento di mantener­gli la fedeltà da cui li avevo sciolti nello stesso sinodo'' (Reg. VII, 14a).

Prima di questa dichiarazione Gregorio VII aveva sempre attribuito ad Enrico IV il titolo di re: lo stesso giuramento prestato da Enrico IV a Canossa si apriva con questa espressione “Io, Enrico, Re”.

Del resto è certo che Gregorio VII non intese la deposizione di Enrico IV come un atto irrevocabile, che dovesse dare avvio im­mediato alla elezione del nuovo re tedesco: Gregorio VII considerò invece questa deposizione come una misura provvisoria, che sarebbe rientrata, qualora Enrico IV avesse dato segni di ravvedimento, Come districarci di fronte a questi dati contrastanti?

Per prima cosa credo che si debba escludere che la posizione espressa da Gregorio VII nel 1080 fosse già presente nella sua convinzione ai tempi di Canossa. In secondo luogo mi pare che si possa escludere anche la posizione opposta: cioè che Gregorio VII a Canossa abbia inteso senz'altro l'assoluzione come reintegrazione nelle funzioni regali: nel qual caso la dieta di Augsburg avrebbe perso ogni valore: è certo invece che il papa le annetteva importanza proprio in ordine alla                                                                      soluzione della questione del regno tedesco. Probabilmente  nel 1077 su questo punto il papa doveva nutrire una grande incertezza: da una parte avvertiva che con l’assoluzione veniva a cadere gran parte delle riserve nei confronti del potere regale di Enrico IV, dall’altra riteneva di non potere con la sua propria assoluzione annullare i diritti dei principi. In fondo Gregorio VII con l’assoluzione riconobbe, la bona voluntas di Enrico IV e questa era condizione di idoneità al regno. Rimaneva aperto il problema della vera potestas, altra condizione necessaria di idoneità. Ora a Canossa Gregorio VII aveva davanti un Enrico piuttosto isolato debole, carente di “vera potestas”, carente quindi  di una condizione necessaria per essere re legittimo: la parola decisiva su questo aspetto doveva essere pronunciata dalla dieta di Augsburg, dove si sarebbe dimostrato se il rifiuto dei principi di appoggia­re Enrico veniva meno o continuava a sussistere.

Come vedete su questo punto non concordo con Bihlmeyer-Tuechle, che fa pro­pria la tesi di H. X. Arquillier e di L. Tondelli (assoluzione dalla scomunica, ma non riassunzione del regno), mi avvicino invece alla posizione di G. Miccoli: ritengo che a Canossa Gregorio VII era convinto che la soluzione del problema non dipendeva esclusivamente  dalla sua volontà, in quanto non si trattava soltanto di verifica­re la “bona voluntas”' del re, ma bisognava anche valutare la “vera potestas”, e qui si dovevano attendere gli avvenimenti successivi.

 

I principi interpretarono il viaggio di Enrico IV in Italia come un'aperta sconfessione della premessa di sottomissione al giudizio della dieta di Augsburg: cominciarono anche a temere che Gregorio VII avesse già deciso di appoggiare la causa di Enrico IV davanti alla dieta, opponendosi ai principi antienricani. Ritennero perciò di dovere cassare la dieta di Augsburg.

Il 13 marzo 1077 si riunirono a Forchhaim, dichiararono Enrico IV deposto ed elessero un nuovo re nella persona di Rodolfo di Rheinfelden, duca, di Svevia e cognato di Enrico IV.

A proposito di questa elezione si noti che per la prima volta abbiamo un re, che fonda la sua elevazione non tanto sul principio dinastico, ma piuttosto sul principio elettivo: chiaro segno della debolezza della dinastia regnante e del peso politico acquisito dai principi elettori.

A questo punto il problema della “vera potestas” va deciso in relazione a due re. La soluzione poteva essere raggiunta per due vie: o attraverso una dieta generale del regno, in cui il re legittimo sarebbe uscito con il riconoscimento di tutte le parti o attraverso azioni militari. Gregorio VII manifestò chiaramente la sua propensione per la prima via e, in attesa della dieta, assun­se una posizione neutrale, riconoscendo ad ambedue i contendenti la possibilità del regno. Tra i principi tedeschi invece la via della dieta trovò scarso consenso: da una parte gli antienriciani temevano che in seguito alla soluzione di Canossa era venuto a costituirsi un forte partito enriciano, dotato dell'appoggio com­patto dei vescovi e magari anche dell'appoggio del papa: dall'al­tra gli enriciani ritenevano che, aderendo alla convocazione di una dieta per decidere tra i due re, facevano inaccettabili conces­sioni all'altra parte: accettare una siffatta dieta voleva dire ac­cettare di mettere in discussione la legittimità di Enrico IV, voleva dire accettare di discutere sulla legittimità di Rodolfo e quindi ammettere la tesi della monarchia soltanto elettiva. Le due parti contendenti preferirono pertanto fare ricorso alle armi: gli enriciani, pur prevalendo, non riuscirono a debellare la parte avversa.

In questa situazione, mentre Gregorio VII da una parte faceva di tutto per imporre la tesi dell'assemblea, Enrico IV dall'altra fa­ceva di tutto per consolidare la sua prevalenza militare: in tal modo infatti sarebbe riuscito a controllare, se non addirittura a vanificare, l'operato dell'assemblea.

Nei primi mesi del 1080 Enrico IV ritenne di avere la situazione militare in pugno e pertanto di poter essere lui a dettare le condizioni risolutive della questione tedesca: mandò una delegazio­ne a Roma per costringere il papa in termini drastici a passare dalla parte enriciana (Bonizone di Sutri racconta che la delegazio­ne avrebbe ingiunto al papa di scomunicare Rodolfo, altrimenti En­rico sarebbe passato alla elezione di un antipapa).

A questo punto per Gregorio VII mutarono i termini del problema, cioè non si trattava più di valutare da che parte stava la “vera potestas”, ma si trattava solamente di prendere atto che Enrico IV aveva assunto un atteggiamento, che dimostrava l'assenza di “bona voluntas”. Nel sinodo romano del marzo 1080 Gregorio VII pronunciò nei confronti di Enrico una nuova scomunica, in secondo luogo gli interdisse il regno, in terzo luogo proibì ai cristiani di prestar­gli obbedienza, sciogliendoli giuramento di fedeltà, in quarto luogo riconobbe come re Rodolfo: dunque Gregorio VII con­ferì alla sua sentenza di deposizione un carattere irrevocabile.

 

h. L'ultima fase della vita di Gregcrio VII

Lo  scontro divenne oramai acre.

Da parte degli enriciani si maturò la decisione di deporre Gregorio VII e di contrapporgli un nuovo pana. Ciò si compì definitivamente nel concilio di Bressanone del 25 giugno 1080; Gregorio VII venne deposto come indegno, eretico, illegittimo (per muovergli questa accusa si fabbricò la versione imperiale del decreto per l'elezione papale del 1059, dove - come dicemmo - si assegnava all'imperatore un ruolo di primo piano insieme con i cardinali e dove si misconoscevano le prerogative dei cardi­nali-vescovi) e poi si passò all'elezione del papa Clemente III, Guiberto di Ravenna.

Nell'ottobre, con la morte in battaglia di re Rodolfo, Gregorio VII subì un ulteriore colpo; il nuovo eletto, Ermanno di Lus­semburgo, si dimostrò figura insignificante. Il partito degli antienríciani entrò in una fase di grave crisi, che consentì ad Enrico IV di abbandonare la Germania, e di scendere in Italia per intronizzare in Roma il suo papa Clemente III.

Per ben tre anni consecutivi, Enrico IV sferrò vari attacchi per prendere Roma nelle sue mani: l’impresa gli riuscì finalmente il 21 marzo 1084. Il  24 marzo 1084, domenica delle palme, si procedet­te alla intronizzazione di papa Clemente III; il 31 marzo,
giorno di Pasqua, si compì la solenne incoronazione di Enrico.

Gregorio VII, che per tre anni aveva guidato la resistenza ro­mana, non aveva abbandonato Roma ma si era arroccato nel Castel s. Angelo. In suo aiuto il 21 maggio intervenne un esercito nor­manno, guidato da Roberto il Guiscardo: le truppe imperiali se la batterono in fuga, i Normanni liberarono Gregorio VII e si misero a saccheggiare la città, incendiando interi quartieri e malmenando la popolazione.

A questo punto i Romani trasformarono il loro attaccamento a Gregorio VII in odio aperto, in quanto cominciarono ad addebitargli i misfatti del Normanni. Il papa si trovò così costretto a lasciare la città, mettendosi al  seguito dei Normanni. Fissò la sede del suo esilio a Salerno, dove fu colto dalla morte di lì a qualche mese: era il 25 maggio 1085.

Il biografo di Gregorio VII, Paolo di Bernried, pone sulla bocca del papa morente la seguente espressione: “Ho amato la giustizia ed ho detestato l’iniquità, perciò muoio in esilio”.

Si discute sull’autenticità di questa espressione, comunque sia, essa compendia magnificamente l'esistenza di questo grandissimo papa del Medioevo: morì come uno sconfitto ma lasciò dietro di sé un'eredità ideale ed aprì una via, che porteranno il papato a toccare nella società medievale vette insperate.

 

7 – La crisi romana

 

Il periodo di tempo che intercorre tra il 1085 ed il 1088, tra la morte di Gregorio VII e l’elezione di Urbano II, viene spesso presentato dalla storiografie come il periodo della crisi romana.

I primi sintomi di questa crisi si erano manifestati durante gli ultimi anni del  pontificato di Gregorio VII: nel corso dell'assedio triennale di Roma sia tra i cardinali sia tra il popolo romano cominciò a serpeggiare un certo malumore nei confronti della dura intransigenza di Gregorio VII: mentre il papa teneva di fronte ad Enrico IV l’atteggiamento del sacerdote, che
assolve solo davanti a segni di pentimento e penitenza, di­versi esponenti dell'ambiente romano cominciarono a ritenere che fosse più opportuno non radicalizzare il contrasto e accettare un compromesso. Ad esempio nel 1082 l'abate di Montecassino, il cardinale Desiderio, raggiunse di sua iniziativa un compromesso con Enrico IV: questi si sarebbe fatto incoronare imperatore non da Clemente III ma da Gregorio VII, mentre Gregorio VII dal canto suo di fronte a tale gesto di buona volontà avrebbe rinunciato a contrastare Enrico IV. Ma di tutta risposta l'abate di Montecassino ebbe da Gregorio VII una minaccia di scomunica!

Nei primi mesi del 1084 il dissenso nei confronti dell'intransigenza di Gregorio  VII divenne più clamoroso: tredici cardinali-pre­sbiteri passarono dalla parte di Clemente III.

Alla morte di Gregorio VII la crisi divenne manifesta e grave: il papa sul letto di morte aveva indicato una terna, in cui scegliere il suo successore: Anselmo da Baggio, vescovo di Lucca e nipote di Alessandro II, Oddone cardinale-vescovo di Ostia e Ugo, arci­vescovo di Lione. Tuttavia non solo nessuno di questi tre ot­tenne di essere eletto, ma addirittura si lasciò vacante la sede per mesi e mesi. Ciò si spiega col fatto che la politica di Gregorio VII non trovava più totale adesione ed i gregoriani con­vinti non erano più in grado di tenere in mano la situazione. Sui cardinali romani durante questo periodo, vengono esercitati due tipi di pressione.

Pressione di carattere morale: durante questi mesi di incertez­za abbiamo la produzione di alcuni scritti, di ispirazione anti­gregoriana, miranti ad affermare la tesi secondo cui Gregorio VII non sarebbe più stato il papa legittimo, al suo posto sarebbe stato legittimamente eletto Clemente III, pertanto non si doveva fare altro che riconoscere Clemente III (questa linea era sostenuta da  BENZONE D’ALBA, Liber ad Heinricum : MGH SS XI, 591-681; dal cardinale prete BENNONE, Gesta romanae aecclesiae (sic!) contra Hildebandum : MGH Lib. de lite II, 366-373  e da GUIDO, vescovo di Ferrara, De schismate Hil                                                                                 debrandi : MGH Lib. de lite I, 529-567).

Pressione di carattere politico: ad esercitare questa pressione non è Enrico IV, che in questo momento trova difficoltà consisten­ti in Germania, perché Lorena, Sassonia, Baviera, danno chiari segni di insubordinazione, mentre tra i vescovi tedeschi incomincia a formarsi un partito gregoriano organizzato intorno alla prestigiosa figura di Gebardo, vescovo di Costanza. La pressione è eserci­tata invece dal principe normanno Giordano di Capua, passato dalla parte di Enrico IV. Giordano di Capua infatti costringe i cardinali-vescovi ad uscire dall’incertezza e ad eleggere come papa il cardinale Desiderio, abate di Montecassino, suo amico personale, fautore di tendenze concilianti (24 maggio 1086). L’abate Desiderio, abate di Montecassino, aveva assi­curato al suo monastero uno splendore ineguagliabile sotto il profilo culturale ed artistico: fece costruire una splendida biblioteca, una sala Capitolare, un dormitorio per i monaci, un palazzo per l'abate ed una chiesa, che per grandezza e bellezza doveva superare le chiese romane. Però negli ultimi anni Desiderio aveva dimostrato di anteporre agli interessi di riforma la tranquil­lità del suo monastero, pagata magari con un atteggiamento eccessivamente conciliante nei confronti dei Normanni e di Enrico IV stes­so (si ricordi l'intesa del 1082).

Queste considerazioni dovevano rendere la figura di Desiderio sgradita ai gregoriani intransigenti: la loro avversione nei confronti del nuovo papa era poi accresciuta dal fatto che la sua elezione, dovuta com'era alle pressioni di Giordano di Capua, tradiva aperta­mente lo spirito gregoriano, avverso ad ogni ingerenza laica nelle elezioni ecclesiastiche. A rendere complicata la posizione del nuo­vo papa interveniva anche il fatto che gran parte dei Romani era passata dalle parte di Clemente III.

Di fronte a queste difficoltà il debole Desiderio si perse d'animo e, prima di ricevere la consa­crazione, se ne fuggì a Montecassino, rifiutandosi di accettare l'elezione papale.

Finalmente il 21 marzo 1087, in un sinodo tenuto a Capua, non sen­za pressione da parte di Giordano di Capua, Desiderio accettò di fare il papa ed assunse il nome di Vittore III, con chiaro rimando all'ultimo papa tedesco: Vittore II.

Il pontificato effettivo di Vittore III durò solo quattro mesi, per cui non ebbe modo di svolgere un'efficace azione di riforma e di riorganizzazione del vecchio partito gregoriano (16 settembre 1087: morte di Vittore III).

 

8 – Urbano II

 

A. L'elezione

Vittore III, prima di morire, aveva segnalato come suo eventuale successore quell'Oddone, cardinale-vescovo di Ostia, che aveva già goduto - ma invano - della designazione di Gregorio VII. Tuttavia per ben sei mesi non si poté procedere all'elezione, poiché la si­tuazione a Roma era arroventata dai contrasti tra Gregoriani e Cle­mentini. Alla fine i Gregoriani decisero di fare ricorso a quel tipo di elezione d'emergenza, che il decreto del 1059 aveva previsto per i casi in cui la situazione romana non avesse garantito una procedura canonica. I cardinali-vescovi si riunirono a Terracina con i rappresentanti degli altri cardinali, del clero e del popolo ro­mano e il 12 marzo 1088 elessero ed intronizzarono Oddone, che as­sunse il nome di Urbano II.

Nato in Francia, Oddone aveva compiuto i suoi studi presso la scuo­la della cattedrale di Reims, dove ebbe come maestro qual san Bru­no, che dette avvio all'esperienza certosina. A Reims Oddone rice­vette gli ordini maggiori, divenendo canonico della cattedrale ed arcidiacono. Verso 1l 1070 abbracciò la vita monastica a Cluny, do­ve rimase fino al 1078, quando fu chiamato a Roma da Gregorio VII, che lo consacrò cardinale-vescovo di Ostia.

Nel pontificato di Urbano II possiamo distinguere due periodi.

B. Primo periodo del pontificato di  Urbano II:

Comprende gli anni che vanno dal 1088 al 1093: in cima alle preoc­cupazioni del papa sta l'esigenza di ridare forza al partito gre­goriano, duramente provato dalla crisi degli anni precedenti. In ordine a questa esigenza Urbano II ritenne di poter agire in due direzioni:

Prima direzione: indebolire la forza politica del partito enriciano. In questa prospettiva va intesa l'opera di Urbano II per favorire un matrimonio piuttosto impossibile: la 46nne Matilde di Toscana, rimasta vedova del lorenese Goffredo il Gobbo (con cui però non aveva mai stabilito veri e propri rapporti di convivenza), avrebbe dovuto sposare il 17nne Guelfo V, figlio di quel Guelfo IV, duca di Baviera, che in Germania guidava la lotta contro Enrico IV: legando il casato di Guelfo con la Toscana, Urbano II sperava di costitui­re un vincolo più saldo tra opposizione tedesca e opposizione italiana.

Enrico IV, per impedire questo progetto, decise di scendere in Italia e piegare ogni opposizione, a partire dalla contessa Matilde. Nel 1092 le truppe imperiali, dopo un predominio biennale, furono pesantemente sconfitte nei pressi di Canossa dai soldati di Matilde e dovettero ritirarsi sull'altra sponda del Po. Ma anche qui Enrico IV non ebbe vita facile, in quanto Milano, Lodi, Cremona e Piacenza costituirono insieme una lega antimperiale. Le disavven­ture italiane dell'imperatore ebbero un riflesso negativo in Ger­mania, dove Corrado, figlio di Enrico IV, con il beneplacito di Urba­no II, si mise alla testa di una ribellione contro il padre, che ri­mase praticamente isolato: nel 1096 Enrico IV si trovò costretto a riconciliarsi con Guelfo IV, che abbandonò il progetto di matrimo­nio tra suo figlio e Matilde.

Seconda direzione: togliere consensi al partito di Clemente III. Man mano che Enrico IV perdeva terreno sul piano politico-militare, l'antipapa si trovava sempre più abbandonato a se stesso; il suo avversario invece godeva dell'appoggio diretto dei Normanni dell' Italia meridionale, del riconoscimento francese, spagnolo, boemo, dell'amicizia del partito antienriciano, che allora stava vivendo un momento particolarmente fortunato (quanto al regno anglonorman­no, finché visse Guglielmo il Conquistatore, appoggiò la linea gre­goriana; nel 1087, alla morte di Guglielmo il Conquistatore, il re­gno fu diviso: il re di Normandia, Roberto, appoggiò Urbano Il; il re di Inghilterra, Guglielmo II il Rosso, assunse un atteggiamento di neutralità, fino al 1083 circa, quando passò dalla parte di Urbano II). Questa situazione determinò un certo scompiglio tra i Clemen­tini, che cominciarono a volgere lo sguardo verso Urbano II; que­sti, dal canto suo, per non fare apparire troppo dura la via del ritorno, volle assumere un atteggiamento di grande moderazione evitando le forme di intransigenza, che potevano essersi afferma­te durante gli ultimi anni di Gregorio VII. Infatti, se nel conci­lio di Melfi del 1089 furono affermate le tradizionali idee grego­riane di lotta contro la simonia, il nicolaismo e le investiture, nella prassi successiva si tenne invece una linea di notevole duttilità, in cui si preferiva affermare la potestas papale come potere di perdono e di dispensa, piuttosto che come potere di condanna. Una prova di ciò si ebbe a Milano: il 25 maggio 1085 aveva visto non solo la morte di Gregorio VII a Salerno, ma anche la morte dell'arcivescovo imperiale Tedaldo ad Arona. Enrico IV nel 1087 aveva affidato l'arcidiocesi milanese ad Anselmo di Rho, che, contro le disposizioni di Gregorio       VII, si era sottoposto all'investitura per mano imperiale. L'anno successivo Anselmo di Rho, volendo rientrare nella comunione romana, invocò il perdono del papa gregoriano: Urbano II non solo riaccolse Anselmo, ma addirittura gli lasciò la sede di Mila­no e gli conferì il pallio arcivescovile.

C. Secondo periodo del pontificato di Urbano II (1094-1099):

Nel corso del 1093 Urbano II poteva ritenere di avere suf­ficientemente consolidato la posizione del partito grego­riano e quindi di potere intraprendere con decisione l'opera di riforma ecclesiastica. Infatti verso la fine del 1094 iniziò un viaggio, che lo impegnò per due anni, por­tandolo nell'Italia settentrionale e in Francia. Di tale viaggio ricordiamo due assemblee conciliari.

La prima si tenne a Piacenza nel marzo 1095 ed affrontò soprattutto il problema della validità o no delle ordin­azioni compiute dagli scismatici del partito clementino. A questo sinodo intervenne anche una delegazione invia­ta dall'imperatore bizantino Alessio I Comneno per “sollecitare con insistenza, dal papa e da tutti i fedeli di Cristo aiuto per la difesa della santa Chiesa'': ritorna­va così alla ribalta la questione musulmana, che di lì a poco portò al progetto della prima crociata.

La seconda assemblea conciliare si tenne a Clermont a par­tire dal 13 novembre 1095. (MANSI 20, col. 815ss; HEFELE-­LECLERCQ, Histoire des Conciles, V/1, p. 399ss). Dapprima Urbano II affermò il primato universale della Chiesa romana, regolando alcune questioni riguardanti le strutture ecclesiastiche di Francia. Poi passò ai decreti di riforma: ripeté le usuali condanne della simonia, del nicolaismo, rimise a fuoco la questione delle investiture, andando oltre lo stesso Gregorio VII: non si limitò infatti a proibire che si ricevessero cariche ecclesiasti­che dalle mani dei laici, ma addirittura giunse a vieta­re ai vescovi ed agli ecclesiastici di prestare giuramento vassalatico ad un re o ad un signore locale. A Questo punto la volontà di libertà del clero si spingeva fino ad un totale distacco dalle strutture feudali. Ma il concilio di Clermont è passato alla storia soprattutto perché vide l'indizione della prima crociata.

 

 D. La prima crociata

Prima di tutto alcune indicazioni bibliografiche essenziali.

C. ERDMANN, Die Entstehung des Kreuzzugsgedanken, Stuttgart 1935 (ristampata a Darmstadt 1974): opera fondamentale sull'origine dell'idea di crociata.

P. ALPHANDERY- A. DUPRONT, La chrétienté et l'idée de croisade, Paris 1954 (La cristianità e l'idea di crociata, Bologna 1974): atten­zione al significato subcoscienziale del fatto crociato, secondo i metodi della storia comparata delle religioni, dell'etnologia e della psicologia.

H.E. MAYER, Geschichte der Kreuzzüge, Stuttgart 1965 (Ottima sintesi della storia delle crociate).

ST. RUNCIMAN, Storia delle crociate, 2 volumi,Torino 1976 (è la migliore storia delle crociate disponibile in lingua italiana; l'autore è un eccellente cultore di storia bizantina e pertanto talora incorre nel limite di assumere una prospettiva ecces­sivamente favorevole al mondo orientale).

H.E. MAYER, Bibliographie zur Geschichte der Kreuzzüge, Hannover 1960 (fondamentale rassegna bibliografica)

 

I - Nozione di crociata

Col Mayer riteniamo che si possa. parlare propriamente di Crociata solo quando si verifica la simultanea presenza di diversi fatto­ri:

-  deve trattarsi di una guerra;

-  deve avere come meta la terra santa o almeno il santo Sepolcro;

-  deve essere proclamata dal papa;

-  coloro che aderiscono devono avere prestato un voto di parteci­pazione    (simboleggiato da una croce di stoffa, cucita sulla spal­la destra della sopravveste);

-  la partecipazione viene ratificata dal papa mediante la conces­sione dell'indulgenza e di alcuni privilegi temporali.

Si deve pertanto dire che una crociata di questo genere ha avuto la sua prima manifestazione con il proclama di Clermont del 1095. A tale conclusione si giunse però dopo un cammino secolare, carat­terizzato da varie iniziative, che possono essere considerate co­me precorritrici.

II - Lo sviluppo dell’idea di crociata

Cerchiamo ora di delineare sinteticamente il cammino. Il punto di partenza si colloca alla fine del secolo X e agli inizi del secolo XI: il contesto storico è caratterizzato da una situazione di notevole debolezza del potere regale (soprattutto in Fran­cia e in Italia) e quindi da uno stato di costante tensione, pro­vocato dallo scontro tra le varie forze particolaristiche per as­sicurarsi un peso sempre maggiore. A subire gravemente questo or­dine di cose erano soprattutto i deboli (poveri, orfani, vedove), le Chiese ed il clero (che non poteva ricorrere alle armi), la piccola nobiltà terriera (facilmente sopraffatta dalle prepoten­ze della grande nobiltà). Poiché non si poteva sperare che il de­bole potere regale potesse garantire, come era suo dovere, la giu­stizia e la pace, l'altro potere, quello sacerdotale, si sentì impegnato a svolgere un ruolo di supplenza. Prima di tutto dovet­te convincersi che l'ordine e la giustizia non potevano essere garantite con la sola “parola” (giuramenti per la pace di Dio e la tregua di Dio, censure ecclesiastiche): in certi casi era necessario il ricorso alle armi. In questa prospettiva il potere sacerdotale maturò un nuovo atteggiamento nei confronti della guer­ra: abbandonò la tradizionale indifferenza e cominciò ad interve­nire nella sfera propriamente bellica, promuovendo due iniziative: i cavalieri cristiani e la guerra santa.

Con i cavalieri cristiani il potere sacerdotale assicurò ai progetti di pace e di giustizia il potenziale militare necessario: a diversi esponenti della piccola nobiltà terriera, spodestati dai fondi terrieri, non era rimasta che un’unica risorsa: la professione militare: ecco allora che la Chiesa, impegnandoli come cavalieri cristiani al servizio dei deboli, delle vedove degli orfani, delle Chiese e del clero, li indirizzò verso un ideale, che li distoglieva dalla possibilità di diventare mercenari a servizio del particolarismo anarcoide. Si formarono così all'interno della cristianità gruppi armati che, quand'era necessario, mettevano la loro spada al servizio delle iniziative di giustizia e di pace promosse dai vescovi. Queste azioni armate, condotte al servizio del potere sacerdotale e per finalità morali, assunsero il carat­tere di guerre sante e ciò era chiaramente affermato dal fatto che i sacerdoti guidavano le truppe, innalzando il vessillo della propria chiesa.

Un passo ulteriore verso l'idea. di crociata fu compiuto sotto il pontificato di Leone IX nel 1053: questo papa, come vedemmo, decise di muovere guerra contro i Normanni, che nell'Italia meridiona­le ledevano la giustizia e la pace. Venne così a stabilirsi una stretta relazione tra papato e guerra santa, relazione ricca conseguenze.

Un nuovo progresso si ebbe nel contesto della riconquista della Spagna e della Sicilia: per la prima volta l'idea di guerra santa fu applicata nei confronti dei musulmani, che si trovavano a do­minare  su terre e su popolazioni legate al cristianesimo. Fu in questa circostanza che per la prima volta il papato annesse alla guerra santa l'indulgenza plenaria.

Anche Gregorio VII recò un suo apporto specifico alla formazione dell'idea di crociata: con il suo progetto orientale per la prima volta indirizzò verso l'oriente il progetto di una guerra santa. Si noti però che il traguardo non era rappresentato dai luoghi san­ti, ma dalle terre dell'Asia minore, infestate dagli Arabi, e tut­to ciò era pensato secondo una prospettiva di avvicinamento e di riconciliazione con la Chiesa bizantina.

Urbano II compì l'ultimo passo: a partire dalle sollecitazioni di Alessio I Comneno, non solo si rivolse verso l'Oriente, ma preci­sò meglio l'obiettivo: non più Costantinopoli soltanto, ma anche i luoghi santi. Qui sulle suggestioni della guerra santa e del ca­valiere cristiano venne evidentemente a sovrapporsi l'idea della peregrinatio a Gerusalemme, che comportava la remissione di ogni pena temporale, connessa con peccati pubblici. Ma si noti l'evolu­zione: prima d'ora la peregrinatio a Gerusalemme, avendo un carat­tere penitenziale, non poteva comportare l'uso delle armi; ora in­vece Urbano II, suggerendo la crociata indulgenziata verso Gerusa­lemme, introduce l'idea della peregrinatio armata.

 

III – Il problema della liceità delle crociate (nel secolo XI)

Di fronte a questo massiccio ricorso alla guerra da parte dei cristiani in generale e da parte del potere spirituale in particolare si sollevò ben presto il problema della liceità:
liceità della guerra in quanto tale per dei cristiani; liceità del ricorso alle armi da parte dell'autorità spirituale. Nella “COLLECTIO CANONUM” di Anselmo di Lucca, nipote di Alessandro Il e intimo collaboratore di Gregorio VII, ai libri 12 e 13, tro­viamo la giustificazione più significativa, quella che si imporrà, divenendo sentenza comune. In generale si deve rilevare che Ansel­mo procede per via di autorità: giustifica cioè il ricorso alle armi semplicemente fondandosi sul fatto che grandi autori cristiani furono di tale avviso.

L'autorità addotta da Anselmo è soprattutto Agostino, che può essere considerato l'iniziatore dell'etica militare in Occidente. Da Agostino prima di tutto Anselmo assume l'idea della guerra giu­sta: l'uso delle armi è considerato giusto, quando è dettato dalla necessità di difendere la pace o di restaurare l'ordine di giusti­zia leso. Entro questi limiti anche per un cristiano è lecito fare ricorso alla guerra.

Anselmo trova pure in Agostino la giustificazione del ricorso alle armi da parte del sacerdozio. Nel corso dello scisma donatista il vescovo di Ippona si era trovato d fronte ad un dilemma: o salvare l'unità della Chiesa, ricorrendo anche alla forza o rispet­tare la libertà della fede, astenendosi dalle forme di coercizione materiale. In un primo momento Agostino scelse di rispettare la libertà nel credere e pertanto nell'opera di tutela dell'unità ecclesiale si servì soltanto delle dispute letterarie. Ma col pas­sare del tempo si avvide che la causa dell'unità non faceva pro­gressi e perciò si decise a chiedere l'intervento armato dell'impe­ratore contro i donatisti. Il vescovo di Ippona motivò tale scelta  con Lc 14,23 (“Exi in vias et sepes et compelle intrare, ut impleatur domus mea”).

Anselmo, fondandosi su questo precedente agostiniano, giunge ad affermare che i sacerdoti hanno la facoltà di fare ricorso per giu­sta causa alle armi: tali armi non devono essere brandite direttamente dalle mani dei sacerdoti, ma invece devono essere usate dai laici su richiesta del potere sacerdotale.

Per questa via Anselmo si spinge oltre le concezioni altomedieva­li: nell'alto medioevo al potere sacerdotale si riconosceva il possesso di due tipi di potestas coactiva:

-        la potestas coactiva spiritualis in misura piena (scomuniche, censure ecclesiastiche, interdetti; ecc.)

-        la potestas coactiva materialis in misura ridotta, solo nei gradi inferiori (digiuni, incarcerazione di ecclesiastici e monaci, penitenze corporali...). La potestas coactiva materialis in senso pieno, fino ai gradi supremi, era posseduta invece dal potere re­gale, che godeva del diritto alla effusio sanguinis (diritto cioè di pronunciare la sentenza di morte e di far giustiziare i crimi­nali) e del diritto alla vis armata (diritto di condurre le guerre).

Ora noi abbiamo visto che Anselmo di Lucca, riconoscendo al potere sacerdotale il diritto di ricorrere alla vis armata, ha allargato la potestas coactiva materialis del potere sacerdotale, spingendo­la fino ad includere uno dei gradi superiori: la Chiesa invece non rivendicherà mai per sé il diritto alla effusio sanguinis, per il quale preferirà sempre dipendere dal cosiddetto braccio secolare. Il problema sarà da noi ripreso in seguito nel corso della tratta­zione concernente la relazione tra i due poteri.

 

IV - Proclamazione e realizzazione della prima crociata

Facciamo prima di tutto alcuni rilievi sui contenuti della pro­clamazione.

Già dicemmo che Urbano II a Piacenza ricevette da parte di Alessio Comneno una richiesta di aiuto militare: ebbene, il 27 novembre 1095 a Clermont, indicendo la prima crociata, Urbano II fece qual­cosa che non corrispondeva affatto alle attese dell'imperatore bizantino: il papa invitava i cavalieri dell'Occidente a portarsi in Oriente per liberare quelle terre dalla presenza araba, ma non si trattava più soltanto delle terre dell'impero: l'atten­zione si rivolgeva in particolare verso i luoghi santi, che stava­no oltre i confini imperiali. Ancora si noti che Alessio I avreb­be ricevuto non un gruppo di cavalieri mercenari, che si mettevano al suo servizio, ma un esercito con una propria organizzazione ed una propria finalità, che solo in parte consisteva nel recare aiu­to all'imperatore bizantino.

Urbano II il 27 novembre 1095 pensava poi ad una crociata, che vedesse la partecipazione di un gruppo ristretto di cavalieri del sud della Francia, capeggiati da Raimondo di Saint-Gilles, conte di Tolosa e guidati spiritualmente da Ademaro, vescovo di Le Puy, che era appena tornato da un pellegrinaggio a Gerusalemme. Con questi due personaggi il papa intendeva controllare la spedizione crociata, affermandovi la sua autorità suprema.

Sempre in linea con l'affermazione della suprema autorità del papa, Urbano II elaborò una specie di diritto dei crociati: ai crociati veniva esteso il regime di pace di Dio, cioè la Chiesa si impegna­va a proteggere i beni dei crociati; ai crociati poi veniva garan­tita l'esenzione dai tributi per tutto il periodo di assenza; in­fine veniva loro assicurata una moratoria circa il pagamento dei debiti.

Si rilevi infine che la crociata in quanto tale affermò l'autorità singolare del papa in Occidente: infatti senza intervento dei vari re d'Occidente, ma solo per iniziativa papale, venne a formarsi un esercito sovrannazionale, che si metteva a disposizione delle esigenze della cristianità occidentale, facendo riferimento alla autorità suprema del papa. Il fenomeno va inteso come conseguenza del fatto che la suprema autorità spirituale del papa in quel mo­mento venne a trovarsi inserita in una cristianità occidentale, dove mancava un potere regale, che potesse imporsi come guida dell’opera di difesa ed espansione della Chiesa: l'imperatore, che in ordine a ciò aveva un titolo singolare, era allora scomunicato e indebolito (si ricordi la ribellione di Corrado); il re di Francia dal canto suo non disponeva di titoli per guidare un esercito sovranazionale e per di più era in stato di scomunica; il re di In­ghilterra Guglielmo il Rosso oltre a non disporre di un carattere sovranazionale era in quegli inni in tensione con Anselmo, arci­vescovo di Canterbury. Questa situazione portò a consentire che il potere spirituale svolgesse azione di supplenza nella conduzione concreta dalla defensio Ecclesiae.

Ma veniamo alle conseguenze della proclamazione. Si deve subito dire che la risposta fu superiore ad ogni attesa: l'idea della peregrinatio a Gerusalemme ebbe soprav­vento sull'idea della guerra santa condotta dai cavalieri cristia­ni e pertanto la crociata da impresa destinata ai soli cavalieri divenne movimento popolare. Presto si trovò una divisa: la croce di panno cucita sulla spalla destra della sopravveste; venne pure coniato un motto: “Deus le volt”; pure si giunse ad elaborare un nuovo rito di benedizione: al bastone e alla bisaccia, insegne tradizionali del pellegrino, si aggiunse il conferimento della spa­da.

Come si spiega questa partecipazione massiccia alla crociata? Non va trascurato il contesto sociale. Parlando del cavaliere cristia­no, dicemmo che a tale proposta aderirono parecchi esponenti del­la piccola nobiltà terriera: venne così a formarsi un corpo numericamente rilevante, che poteva facilmente degenerare in azioni di violenza, se non si trovava modo di impegnarlo. Inoltre l'av­ventura in Oriente, per il suo fascino religioso e per le prospet­tive di bottino che comportava, poteva essere un mezzo utile per dirottare verso altre mete quello spirito bellicoso, che travaglia­va la vita dell'Occidente. Si deve pure ricordare che l'Occidente nel corso del secolo XI stava vivendo un momento di incremento demografico, che, esigendo un'opera di espansione economica per sopperire all'accresciuto fabbisogno della società, imponeva il superamento della struttura economica autarchica. Si venne così ad una logica di mercato: si capì che occorreva cercare altrove, quan­to la produzione locale non era più in grado di garantire alla po­polazione accresciuta. Ma ciò era possibile solo a due condizioni: prima condizione: era necessario che non si producesse più solo per rispondere ai bisogni locali, ma si producesse anche per fare commercio; seconda condizione: per avere capacità di acquistare altrove, ciò che mancava in loco, si doveva fare in modo che la produzione locale non venisse tutta consumata, ma offrisse anche il materiale per lo scambio commerciale. E qui il sistema non poteva consistere nel risparmio, data la notevole incolmabile spro­porzione tra le esigenze necessarie dei consumatori e le esigue possibilità che la produzione locale offriva; per avere una qualche capacità d'acquisto non c’erano che due possibilità: prima possibilità: intensificare la produzione, introducendo la specializzazione dei mestieri, che era anche un modo per garantire l'occupazione delle nuove braccia; seconda possibilità: introdurre nell'economia occidentale nuove ricchezze acquisite altrove, in Oriente, con una azione di espansione militare, che tra l'altro favoriva l'emigrazio­ne delle masse dalle sature terre d'Occidente. E' certamente possibile ritenere  che queste istanze sociali contribuirono a interpretare l'ansia religiosa, che pervadeva  quel momento (si ricordino i fenomeni di riforma monastica, cano­nicale laicale) in termini di peregrinatio-crociata verso Gerusalemme.

Col Mayer però riteniamo che la ragione fondamentale di tale ade­sione massiccia sia di natura religiosa e sia rappresentata preci­samente dalla predicazione dell'indulgenza plenaria: solo questo fatto spiega infatti come mai quelle esigenze sociali si siano espresse in termini di crociata. Con ciò non intendiamo dire che la questione dell'indulgenza plenaria fu il pretesto per conse­guire mete di natura economico-sociale: noi riteniamo che in or­dine al fenomeno globale della prima crociata, l'indulgenza plenaria fu il primo e fondamentale elemento propulsore, anche se non è da sottovalutare la simultanea presenza degli elementi socio­economici, in quanto, come diremo, essi contribuirono a rendere viva l'adesione ad un'indulgenza plenaria, conseguita attraverso una peregrinatio armata in Oriente.

Per capire il ruolo singolare giocato sulle masse dalla predicazio­ne dell'indulgenza plenaria, si deve tenere presente l'evoluzione, che su questa questione si produsse nella fase successiva al proclama di Clermont. Urbano II, quando indisse la crociata, aveva pensa­to all'indulgenza plenaria come a una forma di "redemptio” (= commutazione della penitenza) della penitenza pubblica comminata dal­la Chiesa per certi peccati particolarmente gravi: sotto questo profilo la prospettiva di un'indulgenza avrebbe dovuto interessare solo un gruppo ristretto di cristiani e pertanto la crociata non avrebbe dovuto assumere il carattere di movimento popolare. Ma molti predicatori, per iniziativa spontanea, spinsero il discorso dell'indulgenza più oltre: alcuni presentavano la crociata co­me un'indulgenza plenaria che rimetteva non solo la penitenza pubblica fissata dall'autorità canonica, ma addirittura ogni pena di peccato sia temporale sia spirituale; altri addirittura giunsero a parlare di remissione degli stessi peccati (tali confusioni sono spiegate dal fatto che ancora mancava una riflessione teologica sull'indulgenza).

Questa predicazione conferì al movimento crociato un carattere popolare ed eminentemente religioso, ma insieme comportò due limiti: in primo luogo, mettendo in ombra l'aspetto di guerra santa ad opera di cavalieri cristiani, favorì in certi settori l'improvvisazione e la dabbenaggine a livello mi­litare; in secondo luogo, spingendo il fenomeno crociato verso dimensioni di massa, vanificò la possibilità di un controllo da parte della Sede Apostolica.

Dimostrazione di ciò si ebbe nel movimento crociato popolare, che si formò intorno a Pietro d'Aamiens, eremita, che si fece predi­catore itinerante di crociata nella Francia centrale e nel nord-ovest francese. Agli strati più bassi della popolazione, dove do­minava una notevole miseria economica, che rendeva assai vivo il desiderio di una vita migliore, Pietro l'eremita propose la con­quista della Terra promessa, interpretando secondo una prospetti­va terrena la tensione escatologica verso la Gerusalemme celeste. In siffatta proposta i contadini ravvisarono una giustificazione morale, che consentiva loro di svincolarsi dal legame, che li stringeva alla loro gleba e pertanto costituirono intorno a Pietro l'eremita un esercito enorme, composto da più di centomila popolani.

Il fanatismo religioso prese facilmente sopravvento e questa massa di crociati si trasformò in un'orda di predoni, che sottopose soprattutto gli Ebrei della Germania a violente persecuzioni. In Bulgaria ed Ungheria la popolazione, benché cristiana, non accet­tò le scorrerie di questi crociati, che furono combattuti e decimati. A Costantinopoli giunse solo un piccolo contingente che per la sua indisciplinatezza fu dall'imperatore Alessio I dirot­tato in Asia Minore. E qui il movimento crociato popolare offri un ultimo saggio della sua imperizia: preso da fanatico furore, non volle stare ad attendere che sopraggiungessero le truppe bizantine e l'esercito dei cavalieri d'Occidente, ma impegnò se stes­so in un folle scontro con i Turchi presso la città di Nicea e finì praticamente annientato.

Anche i cavalieri cristiani superarono le attese di Urbano II, infatti accanto al previsto contingente di cavalieri del Sud della Francia sotto la guida di Raimondo di Saint- Gilles e di Ademaro, vescovo di Le Puy, se ne formarono altri tre:

-       un contingente di cavalieri del re di Francia, capeggiati da Ugo di Vermandois, fratello del re;

-       un contingente di cavalieri del Nord della Francia, della Lore­na e delle Germania, guidati dai fratelli Goffredo da Buglione e Baldovino;

-       un contingente di cavalieri normanni del Sud Italia, sotto il comando di Boemondo di Taranto e del nipote Tancredi;

il tutto per un totale di oltre duecentomila uomini.

Nel corso dell'autunno e dell'inverno 1096 tali contingenti par­tirono alla volta di Costantinopoli, viaggiando via terra e via mare. Nel maggio 1097 si riunirono nei pressi di Costan­tinopoli, dove dall'imperatore Alessio I furono costretti a prestare giuramento feudale (solo Raimondo     di Saint-Gilles si rifiutò).

Iniziò la lotta: l'entusiasmo religioso spinse i crociati a combat­tere con un eroismo straordinario: cosa che non si verificherà nel­le crociate successive, che, a differenza della prima crociata, saranno praticamente fallimentari.

Crociati e Bizantini scelsero come primo teatro delle loro imprese l'Asia Minore. Nel maggio-giu­gno conseguirono una grossa vittoria a Nicea. In seguito Crociati e Bizantini decisero di impegnarsi su due fronti diversi: i Bizan­tini si dedicarono alla conquista delle città costiere, i Crociati invece si dedicarono alla conquista dell'interno.

Il primo luglio 1097 i Crociati si imposero a Dorileo e qualche giorno dopo ottenne­ro un successo ad Eraclea. Si rivolsero poi alla Siria, dove per 7 mesi furono impegnati nell'assedio di Antiochia. In questo periodo dal corpo crociato si staccarono due rami: uno, capeggiato da Tan­credi, che andò ad occupare Adana; l'altro, capeggiato da Baldovino, che conquistò Edessa, di cui Baldovino divenne principe.

Il 5 luglio 1098 Antiochia cadde nelle mani dei crociati, che si rifiutarono di cedere la città ai Bizantini, costituendovi uno stato crociato, affidato a Boemondo.

Raimondo di Saint-Gilles riuscì poi a trascinare l'esercito crociato verso Gerusalemme, che cadde nel­le mani dei crociati il 15 luglio 1099.

Questo episodio non può certo essere ricordato come una pagina glo­riosa della storia cristiana, in quanto vi troviamo registrata una terrificante e del tutto gratuita carneficina di musulmani.

In un primo momento si pensò di conferire il titolo di re di Gerusalemme a Raimondo di Saint-Gilles, ma questi rifiutò l'onore. La scelta allora cadde su Goffredo di Buglione, che però non volle assumere il titolo regale, preferendo l'appellativo di difensore del santo Sepolcro.

Nel 1100 Goffredo morì e gli subentrò il fra­tello, Baldovino, che, senza farsi problemi, assunse il titolo rega­le e consolidò le sue prerogative di governo.

Negli anni successivi i crociati si dedicarono alla conquista si­stematica della Palestina. Il paese fu diviso in quattro territori maggiori: Regno di Gerusalemme, Contea di Tripoli, principato di An­tiochia, contea di Edessa. I quattro territori dovevano formare un'unità politica intorno al regno di Gerusalemme, che però non godeva di chiari diritti giurisdizionali sugli altri stati crociati.

La conservazione e la difesa di questi territori graverà sull'Occi­dente, che per due secoli si troverà impegnato a mandare in Orien­te contingenti di cavalieri: sarà la storia successiva delle cro­ciate.

 

V - Giudizio:

Lo storico per prima cosa deve cercare di comprendere il fenomeno della crociata.

E al fine di una adeguata comprensione occorre prestare attenzione a due elementi.

Primo elemento: la situazione di cristianità: la popolazione dell' Occidente totalmente cristiana: questa fede comune diventa criterio di aggregazione non solo a livello spirituale (ecclesia come comunione spirituale) ma anche a livello sociologico-terreno: cioè i cristiani di Occidente, politicamente divisi in varie entità politiche, ritengono che in ragione della fede comune devono supera­re tale frantumazione e costituire al di sopra dei particolarismi politici un'unità, che miri ad affermare anche a livello temporale i comuni valori di giustizia, di pace e di verità cristiana.

A capo di questa unità sovranazionale di cristiani si colloca il papa, come unica autorità suprema, per una duplice ragione.

Consideriamo prima di tutto la situazione dell'imperatore: nel tempo, di cui ci stiamo occupando, l'imperatore era scomunicato; nell'epoca successiva, a mano a mano che si approfondirà la coscienza degli stati nazionali, l'imperatore apparirà sempre più come il capo di una entità politica particolare (la Germania) e quindi potrà sempre meno ambi­re alla conduzione della Christianitas occidentale.

Consideriamo poi, in secondo luogo, la situazione del papa: con la ri­forma gregoriana è riconosciuto in maniera inequivocabile capo in­contrastato della comunione spirituale dei cristiani, maestro e giu­dice supremo di giustizia e di verità. Ora quale unità sovranazio­nale di cristiani, che vogliono realizzare le istanze di giustizia e di verità cristiana in termini temporali e servendosi dei mezzi temporali di cui dispongono, la Christianitas si trova a dovere fa­re riferimento al papa. Ecco che per questa via la Christianitas giunge a mettere a disposizione del papa i suoi mezzi temporali, anche le sue armi, per realizzare in termini temporali le mete di verità e di giustizia, che il papa addita.

Si noti che quale capo della Christianitas, il papa si trova a disporre di quelle armi, che non potrebbe invece possedere quale ca­po della comunione spirituale , che è la Chiesa.

Si noti anche che il papa dispone di queste armi non perché è ritenuto suprema autorità temporale, ma perché è suprema autorità spiritua­le della Christianitas.

Si noti infine che il ricorso alle armi da parte del papa non dipende in­trinsecamente dalla sua condizione di suprema autorità spirituale, ma dipende da una circostanza storica: la Christianitas, dipende cioè dal fatto che in Occidente c’è una società temporale, che interpreta la propria esistenza temporale, a partire dalla finalità reli­giosa e quindi si mette a dipendere anche su un piano temporale da colui che della finalità religiosa è il maestro autorevole. Quando la società occidentale smetterà di interpretare la propria esisten­za temporale riferendosi alla finalità religiosa, perché preferirà desumere l'ordine naturale come criterio di esistenza temporale, allora il papato, pur continuando a rimanere la suprema autorità spirituale, non sarà più al vertice della società occidentale temporale, (benché questa rimane ancora totalmente cristiana) e quindi non potrà più disporre delle armi dei cristiani.

Secondo elemento: la situazione di Christianitas ci ha fatto capi­re come mai si è giunti ad interpretare in termini temporali le istanze religiose di purificazione, di peregrinatio ai luoghi san­ti, di diffusione del regno di Dio. Ci resta ora da comprendere come mai in quest'opera si è giunti fino ad accettare l'uso della armi. La spiegazione va cercata nel fenomeno della germanizzazione del cristianesimo: la propensione per la guerra, tipica della cultura germanica, ha spinto verso un'interpretazione dell'esistenza cri­stiana anche in termini militari.

Ma lo storico della Chiesa non può limitarsi a comprendere, deve poi spingersi a giudicare se le interpretazioni storiche della fede cristiana si rivelano fedeli o no al vangelo. E' certo che l'Inter­pretazione armata di istanze religiose, come la peregrinatio ai luo­ghi santi, la diffusione del regno di Dio e la purificazione, non può essere in nessun modo giustificata e va senz'altro considerata come un doloroso capitolo delle guerre di religione; si deve schiet­tamente riconoscere che l'intolleranza religiosa, usata nei confron­ti dei pellegrini cristiani da parte dei musulmani, ha avuto come risposta l'intolleranza religiosa dei cristiani.

Cronache cristiane del XII secolo indicano nel fanatismo dei Turchi, che avrebbero ostacolato il pellegrinaggio dei cristiani, il motivo principale della crociata. Questa cosa non corrisponde né alla realtà orientale, poiché i Turchi non ostacolarono in nulla i pellegrinaggi cristiani, né alla realtà occidentale, dato che il pretesto turco non fu invocato, per quanto ne sappiamo, alla fine del secolo XI (J. LE GOFF, Il Basso medioevo, Milano 1967, p. 142).

Non ha senso nep­pure presentare la crociata come un'impresa missionaria sui gene­ris: la costrizione armata non può mai essere considerata un meto­do di evangelizzazione e del resto i crociati preferirono alla con­versione la soppressione dei musulmani.

Il tentativo che talora si è fatto di giustificare le crociate come guerre difensive è del tutto privo di fondamento. Non v'è infatti possibilità alcuna di dimostrare che con siffatte azioni militari si restaurasse un diritto leso, a meno che si accetti che dal fatto che la Palestina è stata la terra del Signore e che i cristiani sono gli eredi della Terra promessa derivi ai cristiani un qualche diritto temporale sulla Palestina. Alcuni allora pensarono in questo modo, ma ciò deve essere senz'altro qualificato come un errore prospettico. Quindi sotto il profilo di un diritto oggettivo le crociate devono essere considerate delle guerre di aggressione. La troppo pacifica acquiescenza alla mentalità bellicosa del germanesimo, propone il problema fondamentale del cristianesimo medioevale: la relazione Chiesa-Mondo. La Chiesa si è trovata così strettamente legata alla società temporale da affievolire il senso della sua propria specificità  soprannaturale, della sua pro­pria tensione escatologica. Da qui la frequente incapacità a svol­gere nella società medioevale una funzione critica  e quindi la facilità a mondanizzare il discorso cristiano e di conseguenza la tentazione di servirsi del soprannaturale, dell’escatologico, del religioso, per compiere una mistificazione del naturale.

La subordinazione delle crociate successive a scopi secolari svi­lupperà una diffidenza salutare nei confronti degli appoggi offerti dalle forze di questo mondo ed allora Francescani e Domeni­cani stabiliranno una nuova relazione con l'Oriente: relazione autenticamente missionaria, connessa con una concezione esclusivamente spirituale della peregrinatio-martirio.

Negativo è pure il bilancio ecumenico: nata come iniziativa di riconciliazione, la crociata finì con il radicalizzare il con­trasto tra Latini e Bizantini: la vicinanza dei due elementi non sfociò in un dialogo, ma diede vita ad una dura sottolineatura delle diversità religiose,  accentuata dal dissapore politico: i Bizantini, che non cessarono mai di avanzare pretese circa il possesso dei territori orientali, considerarono sempre gli inse­diamenti crociati come presenze abusive e usurpatrici.

Talora si presentano le crociate come fenomeno rilevante sotto il profilo culturale, perché avrebbero favorito l'incontro dell' Occidente con la cultura orientale e quindi il ricupero della classicità perduta: il fenomeno non va esagerato, in quanto è dimostrato che l'Occidente fece questo ricupero soprattutto attraver­so i contatti con la Spagna e con l'Italia meridionale bizantina.

Il 29 luglio 1099 a Roma moriva Urbano II, che ancora non sapeva della conquista di Gerusalemme, avvenuta due settimane prima.

 

 

9 – Pasquale II

A.  Elezione e personalità del nuovo papa.

Il 13 agosto 1099 a Roma si procedette all’elezione canonica del cardinale Raineri, che assunse il nome di Pasquale II. Originario della Romagna, era vissuto quasi sempre in monastero. Da qui le sue caratteristiche fondamentali: uomo di indubbia levatura morale, cui però non si associava un'esperienza delle cose di questo mondo. La sua azione di governo perciò fu un po’ sempre soggetta a timidezza ed incertezza. Il rigore morale, non temperato da una duttilità politica, si trasformò spesso in intransigenza: per que­sto vedremo un Pasquale II che di fronte ai contrasti, non si incamminerà per la via dei compromessi conciliativi, ma preferirà fare ricorso alle soluzioni radicali.

Due erano i problemi che il nuovo papa doveva affrontare: lo scisma e la questione delle investiture.

B.   Soluzione dello scisma.

Abbiamo già visto come l'azione politica ed ecclesiastica Urbano II abbia indebolito di molto il vigore del partito di Clemente III. Il crollo si verificò l'8 settembre 1100, quando Cle­mente III morì: il partito clementino era ormai così debole da non poter garantire al successore la possibilità di governare. Tentarono ben due volte di eleggere un papa, ma ambedue le volte gli eletti caddero nelle mani dei seguaci di Pasquale II e furo­no chiusi in monastero. Nel 1105 tentarono ancora una volta, scegliendo come papa Maginulfo, arciprete di Castel Sant’Angelo, che prese il nome di Silvestro IV: pochi giorni dopo dovette fuggire da Roma e pra­ticamente collocarsi ai margini della scena. Perciò nel 1106 pa­pa Pasquale II nel sinodo di Guastalla poté sanare lo scisma, con­cedendo agli ecclesiastici scismatici di rimanere nei loro uffi­cio, se non si erano macchiati di simonia o di altra colpa.

C.   La questione delle investiture.

Dalla storia fin qui tracciata si deve senz’altro rilevare che il decreto contro le investiture del 1075 buttò sul tappeto un pro­blema che occupò il primo piano della scena ecclesiastica per un attimo soltanto: infatti il contrasto che ne scaturì, finì coll’attirare l’attenzione su altri problemi più urgenti: la relazione tra Gregorio VII ed Enrico IV, la questione del regno tedesco, lo scisma di Clemente III.

Così il problema delle investiture da problema pratico di riforma della Chiesa si trasformò piuttosto in un problema teorico.

Un primo tentativo di ripensare il problema della investitura di un ufficio ecclesiastico per mano di un laico fu compiuto da Guido di Ferrara, un vescovo del partito di Ennrico IV. Nel suo trattato “De schismate Hildebrandí'' (già citato), composto poco dopo la morte di Gregorio VII, Guido di Ferrara si era proposto di superare il contrasto radicale, che esisteva tra gregoriani ed enriciani nel modo di concepire l’investitura. Gregoriani ed enriciani erano d'accordo nel concepire          l’ufficio ecclesiastico come un'unità inscindibile di aspetto spirituale e di aspetto temporale. La divergenza si manifestava nel modo di intendere tale  unità. I gregoriani nell’unità assegnavano il valore primario all'ufficio spirituale e consideravano la dimensione temporale come un aspetto secondario e dipendente dall'ufficio spirituale. Si capisce allora perché i gregoriani ritenevano che l'assegnazione di tutto l'ufficio ecclesiastico dovesse spettare all’autorità ecclesiastica e non concedevano nessuna possibilità di intervento laicale. Gli enriciani, invece, nell'unità dell’ufficio ecclesiastico assegnavano il valore primario all'aspetto tempora­le (realismo del diritto germanico) e quindi consideravano l'uf­ficio spirituale come un aspetto secondario e dipendente dall'aspetto temporale. Si capisce allora perché gli enriciani ritenevano che l'assegnazione di tutto l’ufficio ecclesiastico dovesse spettare all'autorità laica: il potere spirituale del sacerdozio secondo gli enriciani interveniva non per assegnare l'ufficio ecclesiastico, ma solo per consacrare colui che già aveva ricevuto l'ufficio dal signore temporale. Guido di Ferrara volle prendere una posizione intermedia: nell'ufficio ecclesiastico ri­tenne di poter distinguere due aspetti: l'aspetto spirituale, consistente nella trasmissione dello Spirito Santo mediante i sacramenti e l'aspetto temporale, consistente nell'amministrazione dei beni ecclesiastici. Per il primo aspetto l'ecclesiastico dovrebbe dipendere dal papa e dal vescovo, per il secondo aspetto invece dipenderebbe dal re, che gli affida i beni ecclesiastici in usufrutto. Si deve riconoscere che questa fu un'intuizione geniale, però Guido di Ferrara, nel passare ad affrontare il problema concreto del come si crea un vescovo, prospetta una soluzione, che privilegia il potere temporale: il re dovrebbe nominare il vescovo, in quanto si dovrebbe scegliere prima l'amministratore dei beni, al prescelto poi il vescovo dovrebbe conferire l’ufficio spirituale. Questa soluzione se da una parte aveva il merito di sottrarre al potere temporale l'assegnazione dell'uf­ficio spirituale, dall'altra aveva il grave limite di subordinare l'ufficio spirituale alle esigenze temporali, di compromettere la libertà dell'elezione canonica, punti sui quali i gregoriani non erano disposti a fare concessioni.

Anche in campo gregoriano si ebbe un tentativo di ripensamento della questione delle investiture ad opera di Ivo di Chartres. Nella sua lettera LX (MGH Lib. de lite 11, 642-647) Ivo espres­se queste idee. L'elevazione di un vescovo non era un fatto che riguardava esclusivamente l'autorità spirituale, in quanto non vi era in gioco solo l'ufficio spirituale, ma anche un cumulo di be­ni temporali, il cui possesso, secondo Agostino, dovrebbe essere di pertinenza del diritto statale. Pertanto nella creazione di un vescovo era giusto che ci fosse un intervento anche dell'auto­rità temporale. Quindi Ivo da una parte, da buon gregoriano, rite­neva che l'elezione canonica dovesse stare al primo posto, dall'al­tra però, superando con la dialettica l'intransigenza gregoriana, riconosceva al re una prerogativa sui beni temporali della Chiesa e quindi il diritto di essere lui a concederli al vescovo canonicamente eletto.

Ivo di Chartres espresse queste tesi durante il pontificato di Urbano II e come risultato immediato ottenne la pubblica sconfes­sione da parte del papa; il tempo però gli riconoscerà il merito di avere indicato la strada, su cui poi maturarono le soluzioni del problema delle investiture.

Le prime soluzioni si raggiunsero durante il pontificato di Pasqua­le II.

Un primo risultato si ottenne in Francia. Qui negli anni preceden­ti si era verificata qualche tensione in occasione di qualche in­vestitura regia, però non si era mai giunti ad un vero e proprio conflitto, anche perché in Francia la feudalità ecclesiastica non rappresentava affatto una struttura portante del potere monarchi­co, non essendo molte le sedi episcopali legate feudalmente al re. Negli ultimi anni del secolo XI, o più probabilmente durante il primo decennio del secolo XII, si venne a creare tra potere spirituale e potere temporale un'intesa, che non fu fissata in un particolare concordato, ma fu soltanto un pratico modus vivendi, soddisfacente per ambedue le parti.

A partire dal principio che l'elevazione di un vescovo interessa­va sia il potere spirituale sia il potere temporale, venne rico­nosciuta ai due poteri la possibilità di intervenirvi: in primo luogo il re doveva dare il consenso a precedere, in secondo luogo si doveva effettuare l'elezione canonica, senza che il re vi inter­venisse o assistesse; in terzo luogo la pratica dell'omaggio feu­dale veniva sostituita da un generico giuramento di fedeltà, in quarto luogo il re doveva procedere alla concessione dei temporalia, senza però ricorrere ad un rito simbolico di investitura: quale autorità, che concedeva i temporalia, il re godeva del diritto di regalia e di spoglio. La concessione dei temporalia poteva avveni­re prima o dopo la consacrazione episcopale; il vescovo, per via dei temporalia, che aveva ricevuto dal re, si trovava impegnato a prestare al sovrano il servitium tradizionale.

In quello stesso periodo il problema delle investiture trovò una soluzione anche in Inghilterra. Qui, finché era rimasto in vita Guglielmo I il Conquistatore, si era praticata I'investitura regia dei vescovi, ma sia Gregorio VII, sia Urbano II non avevano sollevato questioni, in quanto Guglielmo I il Conquistatore era seriamente preoccupato di scegliere persone degne. Nel 1087, alla morte di Guglielmo I il Conquistatore, il regno anglo-normanno venne diviso tra i due figli: Roberto divenne re della. Normandia, Guglielmo II il Rosso invece divenne re d’Inghilterra.

Con questo sovrano in Inghilterra incominciarono i contrasti di natura ecclesiastica.

Il primo contrasto si ebbe in occasione dell'elezione  di Anselmo d'Aosta ad arcivescovo di Canterbury (1093). Anselmo, che veniva dal monastero normanno di Bec, nello scisma tra Urbano II e Clemente III si era schierato dalla parte di Urbano II. Ora, divenendo vescovo di Canterbury, Anselmo venne a trovarsi legato ad un Guglielmo II il Rosso, che invece aveva assunto una posizione neutrale tra i due papi. Nel desiderio di essere vescovo in comunione con Urbano II Anselmo pose al suo re la seguente condizione: avrebbe accettato il pallio arcivescovile solo dal papa gregoriano. In un primo momento Guglielmo II pensò di deporre Anselmo,  ma poi alla fine si  piegò, riconoscendo Urbano II come papa legittimo.

Di lì a poco tra Anselmo e Guglielmo II scoppiò un nuovo conflit­to: Guglielmo II accusò Anselmo di avere inviato pessimi cavalieri in una campagna militare; Anselmo rispose appellandosi al papa: Guglielmo II negò ad Anselmo questo diritto e poi lo condannò all’esilio.

Nel 1100, alla morte di Guglielmo II, prese il potere in Inghilter­ra Enrico I, uomo di alta levatura morale, che subito richiamò in Inghilterra Anselmo. Però si giunse subito ad un nuovo contrasto: Enrico I chiese ad Anselmo l'omaggio feudale, secondo la prassi tradizionale inglese, ma l'arcivescovo si rifiutò di obbedire, ap­pellandosi alle disposizioni di Urbano II. Il contrasto durò però poco tempo e nel 1107 si raggiunse un'intesa, codificata nel con­cordato di Londra.

Quanto all'elezione si stabiliva che doveva compiersi in forma canonica, ma nel palazzo reale e alla presenza del re. Diversa­mente da quanto avvenne in Francia, qui in Inghilterra si manten­ne l'omaggio vassallatico, che doveva sempre precedere la consacra­zione episcopale. Venne invece abolita ogni forma di investitura. Con questo concordato il papato per la prima volta rinunciò ufficialmente alla visione gregoriana, che faceva degli spiritualia e dei temporalia un unum inscindibile e assunse come propria la tesi di Ivo di Chartres.

in Germania si poteva invece difficilmente sperare in una soluzio­ne, finché le due parti rimanevano ferme nelle loro rispettive posizioni radicali. Da un lato occorreva che il partito imperiale rinunciasse alla pretesa di conferire anche l'ufficio spirituale, dall'altro anche il partito riformatore doveva riconoscere che i beni temporali, di cui allora godeva un vescovo imperiale, non erano frutto soltanto dì donazioni di persone private, di offerte, di decime, di diritti di stola, ma erano anche contee, marchesati, ducati, privilegi civili, che senz’altro cadevano nella sfera della giurisdizione regale.

Parve aprirsi uno spiraglio di soluzione addirittura nella prospet­tiva gregoriana radicale nel 1104/5. Enrico V, figlio di Enrico IV (il re Corrado era morto nel 1101), stava progettando una ribellio­ne contro il padre e per assicurarsi l'appoggio degli antienriciani pensò di mostrare un atteggiamento di deferenza nei confronti di Pasquale II. Inviò al papa una lettera, in cui chiedeva consiglio su una questione che gli stava a cuore: da una parte, nel deside­rio di riportare la pace tra il papato e l'impero, sentiva la ne­cessità di togliere il governo al padre e di assumere lui il pote­re; dall'altra però era trattenuto dal dovere morale di rispettare il giuramento di assumere il potere solo per disposizione paterna, giuramento che aveva prestato alcuni anni prima. Pasquale II si schierò subito con decisione dalla parte di Enrico V, dispensando­lo dal giuramento, nella speranza che, una volta divenuto re, si sarebbe impegnato a risolvere la lite pendente.

Enrico V, forte del consenso papale, catturò il padre, lo costrin­se alle dimissioni: all'inizio del 1106 alla dieta di Magonza Enrico V fu eletto re di Germania, alla presenza di un delegato papale (Enrico IV, riconciliato con la Chiesa, moriva pochi mesi dopo: il 7 agosto 1106).

Una volta raggiunto il potere, Enrico V dimenticò tutte le promes­se fatte e riaffermò il suo diritto all'investitura.

Di li a qualche anno parve presentarsi una seconda possibilità di composizione dei contrasti: sia negli ambienti imperiali sia negli ambienti romani si guardava con un certo interesse alle tesi mode­rate affermatesi in Francia ed in Inghilterra, dove si poneva una distinzione tra spiritualia e temporalia. Infatti nel 1111, scen­dendo in Italia per farsi incoronare imperatore, prima di entrare in Roma, a Sutri, Enrico V stipulò un accordo con Pasquale II: il papa riconosceva che parecchi dei temporalia, di cui godevano í vescovi imperiali, appartenevano alla giurisdizione regale, pertanto disponeva che i vescovi imperiali dovessero rinunciare a questi be­ni regali e si limitassero soltanto alle decime, allo offerte, a le donazioni private.

Enrico V a questo punto rinunciava al diritto di investitura. L'accordo di Sutri sarebbe stato reso di dominio pubblico solo durante la cerimonia della consacrazione-incoronazione imperiale e solo allora, dopo l'unanime consenso dei vescovi e dei principi, sarebbe stato ratificato. Perché venne apposta questa ultima clausola? Enrico V prevedeva benissimo che la soluzione radicale, prospettata dall'accordo di Sutri, avrebbe suscitato prima di tutto l'opposizio­ne dei vescovi imperiali, tutt’altro che disposti a lasciare cadere i loro privilegi temporali, in secondo luogo avrebbe provocato la ribellione dei principi laici, che, con il ritorno dei feudi ecclesiastici nelle mani del re, vedevano consolidarsi notevolmente il potere della corona. Ora se l'accordo di Sutri fosse stato pubblicato subito il 9 febbraio, avrebbe suscitato una immediata levata di scudi ed Enrico V si sarebbe trovato nella necessità di revocarlo ed era chiaro che a questo punto sarebbe sfumata ogni possibilità di ricevere la corona imperiale, perché Pasquale II non si sarebbe presentato. Il rinvio della pubblicazione invece assicurava insieme la possibilità di revocare l'accordo e la presenza del papa all'incoronazione: la forza delle armi avrebbe poi costretto il papa a compiere quel gesto che la cassazione dell’intesa di Sutri probabilmente avrebbe compromesso.

Infatti il 12 febbraio, quando all'inizio della cerimonia della incoronazione imperiale Pasquale II fece leggere l'accordo di Sutri, subito si levò nella basilica di S. Pietro un gran tumulto: Enrico V prese atto della cosa, lasciò cadere l'accordo, riaffermò il suo diritto all'investitura e ordinò  al papa di procedere alla incoronazione. Pasquale II oppose un netto rifiuto ed allora con tutti i cardinali fu arrestato e incarcerato.

Per due mesi il papa fu sottoposto ad ogni sorta  di oppressioni morali e fisiche, gli si fece anche credere l'imminenza di un nuovo scisma, chiamando all'accampamento di Enrico V quel Silvestro IV, che nei 1105 era stato eletto dai clementini ed era poi
scomparso dalla scena. L'11 aprile Pasquale Il si arrese, riconobbe ad Enrico V il diritto di investire con anello e pastorale, dopo l'elezione canonica e prima della consacrazione; se un ecclesiastico dopo l’elezione canonica non aveva ricevuto l'investitura, non poteva essere consacrato. Il papa poi promise che in futuro non avrebbe più scomunicato Enrico V per la questione delle investiture.

Tutto ciò fu fissato in un documento sotto forma di privilegio (il privilegio di Mammolo). Il 13 aprile si procedette all’incoronazione imperiale. Ma quella di Enrico V fu una vittoria di Pirro: il partito dei riformatori, che oramai si era notevolmente ingrossato, non poteva accettare che l'imperatore continuasse a concedere l'investitura, ricorrendo alle insegne spirituali del pastorale e dell’anello. Il privilegio di Mammolo cominciò così ad essere qualificato come “pravilegium”, che doveva essere revocato.

A capo di questo movimento di dissenso si pose Guido, arcivescovo di Vienne, che poi, quale Callisto II, porterà a soluzione la questione delle investiture.

Pasquale II nel 1116 si decise a condannare il privilegio di Mammolo ed a ripetere la proibizione delle investiture, minacciando la scomunica.

Il 21 gennaio 1118 Pasquale II morì, lasciando aperto il conflitto con la Germania, ma insieme lasciando dietro di sé un principio, che dopo di lui non potrà più essere disatteso, principio affermato a Sutri: nell’episcopato, così come era esercitato allora in Germania, erano inclusi non solo diritti spirituali, ma anche diritti regali: da qui si dovrà partire, se si vorrà trovare una soluzione, che rispetti i principi, non assumendoli astrattamente, ma facendoli giocare nella realtà storica.

Il 24 gennaio venne eletto il nuovo papa nella persona di Giovanni cancelliere della chiesa romana, che era stato benedettino di Montecassino: assunse il nome di Gelasio II. Il suo breve pontificato fu caratterizzato da una fuga continua, per sfuggire ad Enrico V e alla ostilità della famiglia romana dei Frangipane. Gli venne anche contrapposto un antipapa nella persona dell'arcivescovo di Praga Maurizio, che assunse il nome di Gregorio VIII, che  per la sua inconsistenza fu soprannominato dai Romani “Burdinus”, cioè asinello o piccolo mulo. Gelasio II finì i suoi giorni a Cluny il 29 gennaio 1119.

 

10 - CALLISTO II

a) L'elezione

La morte di Gelasio Il in Francia da una parte creava difficoltà in ordine alla nuova elezione, in quanto i cardinali vescovi, cui spettava la tractatio erano dispersi; dall'altra però poteva essere considerata anche una circostanza provvidenziale, in quanto offrì la possibilità di posare gli occhi su un vescovo francese, che mostrò di sapere portare a soluzione la pendente questione delle investiture.

L'elezione del successore di Gelasio II, avvenne per gradi: i due cardinali-vescovi che avevano seguito il papa in Francia, il 2 febbraio 1119 designarono come nuovo papa Guido, arcivescovo di Vienne. Poi fecero ratificare la scelta a Roma, dove il 1 marzo 1119 Guido venne acclamato come papa Callisto lI.

Già si era dimostrato un gregoriano convinto ai tempi di Pasquale II, contra­stando il pravilegium di Mammolo; il fatto però che provenisse da una famiglia dell’alta nobiltà della Borgogna, imparentata con l'imperatore tedesco, con il re di Frarcia, con il re di Inghilterra e con il re di Castiglia, lo rendeva attento ad evitare ogni mossa, che potesse in qualche modo produrre una rottura insanabile.

 

b) verso la soluzione della questione delle investiture in Germania.

Già nel 1119, durante il suo primo anno di pontificato, Callisto II aveva pensato di portare a soluzione la lite delle investiture in un sinodo, che doveva vedere il concorso dl tutto l'Occidente: il sinodo si riunì a Roma negli ultimi giorni di ottobre e per un attimo parve profilarsi le possibilità di una conciliazione, ma poi non se ne fece nulla.

Raggiunta Roma nel giugno 1120, Callisto II poté dedicarsi al superamento dello scisma: ciò si compì nell'aprile del 1121, grazie all'appoggio di un esercito normanno: l'antipapa Gregorio VIII fu catturato e condotto a Roma, dove gli fu riservato un ingresso tutt’altro che trionfale: fu fatto montare su un cammello, ma volgendo la faccia verso la coda e poi fu spedito in monastero.

I contatti con Enrico V ripresero nel 1122 e si giunse a stabilire una trattativa tra una delegazione pontificia composta da tre cardinali (Lamberto, cardinale-vescovo di Ostia, Saxo,  cardinale-prete e Gregorio cardinale-diacono ) ed una dieta imperiale.

Le trattative si tennero a Worms: si aprirono il 3 settembre e si conclusero il 23 settembre 1122 con il concordato di Worms, detto anche Callixtinum. Una rivolta di principi, tra i quali si trovavano in prima fila Lotario di Supplinburgo, nuovo duca di Sassonia (dal 1106) l’arcivescovo Adalberto di Magonza, un tempo cancelliere dell’imperatore ed ora suo nemico, costrinse Enrico V ad accettare quel compromesso con Roma, che il concordato di Worms rappresentava (cfr J. LE GOFF, Il Basso Medioevo, Milano 1967, p. 105).

 

e) il concordato di Worms.

Consta di due documenti: un documento in cui Enrico V fa le sue concessioni a Callisto II, ai suoi successori e alla Chiesa Romana; un secondo documento, in cui Callisto II fa le sue conces­sioni a Enrico V. Il fatto che le concessioni papali siano fatte al solo Enrico V ha suggerito ad alcuni storici l’ipotesi che il concordato di Worms avesse nelle intenzione delle due parti contraenti un vigore limitato alla vita dei due firmatari (D. SCHÄFER, Zur Beurteilung des Wormser Konkordats, Berlin 1905).

Ma giustamente F. Kempf fa notare che Callisto II nel suo documento, come pure Enrico V nel suo, non accordano delle condizioni di favore dipendenti dalla loro volontà, ma reciprocamente riconoscono dei diritti antichi: Enrico V riconosce il carattere primariamente ecclesiastico dell'episcopato, Callisto II riconosce il fondamento regale di molti temporalia legati alla funzione epi­scopale. In questa prospettiva si deve dire che la forma letteraria di privilegio, secondo cui i due documenti furono stilati, non deve essere intesa come codificazione di alcune concessioni di favore, ma come riconoscimento di diritti preesistenti.

Vediamo il contenuto dei duo documenti:

Enrico V: rinuncia all'investitura con pastorale ed anello, promette libertà di elezione e di consacrazione canonica.

Callisto II: concede ad Enrico v che le elezioni canoniche dei vescovi avvengono alla sua presenza; in caso di elezione discorde l'imperatore, insieme con il metropolita e i vescovi comprovinciali, dovrà dare assenso ed aiuto alla parte più degna; l'eletto riceverà dall'imperatore l'investitura dei regalia mediante la consegna di uno scettro e così si impegnerà ad adempiere gli obblighi a cui è       tenuto verso il re secondo il diritto: benché non si usi il termine, qui il papa allude all’omaggio feudale. Per i vescovi della Germania  investitura e omaggio avvengono prima della consacrazione episcopale, mentre per i vescovi dell’Italia e della Borgogna entro sei mesi:   evidentemente ciò dipendeva dalla distanza!

Come si vede il concordato di Worms accoglie la distinzione tra spiritualia e temporalia, quale era stata formulata da Ivo di Chrtres.

In questa prospettiva di distinzione tra una sfera spirituale e una sfera temporale, la sede apostolica ottiene il riconoscimento dell’episcopato come fatto primariamente spirituale e da qui de­riva il diritto ad una libera elezione canonica e la rinuncia da parte dell’autorità  regale alla investitura con pastorale ed anello, insegne spirituali, legate pertanto alla sfera spirituale: ma pure nella prospettiva della distinzione tra le due sfere il potere regale ottiene che la creazione di un nuovo vescovo non sia di pertinenza esclusiva del potere spirituale e che per­tanto si riconoscano i diritti del potere regale sui regalia.

Si noti però che questa distinzione di sfere non viene interpre­tata in termini di separazione come invece era avvenuto nel con­cordato di Sutri: la distinzione viene interpretata in una pro­spettiva di collaborazione, in quanto ambedue le sfere agiscono in ordine ad un fine, che è unico e medesimo: il fine religioso.

Pertanto l’unica persona del vescovo appare come sottoposta a due signori: il papa e il re. Da qui la duplice investitura: con il pastorale e l'anello da una parte e con lo scettro dall’altra. Sotto questo profilo il concordato di Worms appare come un compromesso di buon senso tra le due tesi opposte sul tema delle Investiture.

Da parte imperiale il concordato di Worms venne ratificato nella dieta di Bamberga l'11 novembre 1122. La conferma papale ufficiale invece si ebbe nel marzo 1123 durante il primo concilio Late­ranense, che per noi cattolici è il nono concilio ecumenico, il
primo che si sia tenuto in Occidente.

In questo concilio il papa, una volta dichiarata chiusa la lotta per le investiture, volle riprendere con vigore l'azione di rifor­ma ecclesiastica: da qui le solenne condanna contro la simonia, il nicolaismo, contro le elezioni episcopali non canoniche, con­tro le ingerenze laicali nell' amministrazione dei beni propria­mente ecclesiastici.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PROSPETTO DI SINTESI SULLE INVESTITURE

 

 

 

Inghilterra

Francia

Impero

 

elezione

 

Canonicamente alla presenza del re

 

 

Il re consente che si proceda all’elezione canonica, che avviene senza l’intervento regale

Elezione canonica alla presenza del re e do un suo rappresentante con facoltà di partecipare alla soluzione delle elezioni discordi

 

omaggio

 

Viene mantenuto

 

L’omaggio vassallatico soppresso viene sostituito da una generico giuramento di fedeltà

 

Viene mantenuto, anche se manca un accenno esplicito.

 

investitura

 

Viene abolita

 

La concessione dei regalia viene fatta senza ricorrere alle forme simboliche di una vera e propria investitura

 

Viene mantenuta ma non con pastorale e anello, bensì con scettro

 

ordinazione

 

Si compie dopo l’omaggio

 

 

Prima o dopo il giuramento di fedeltà

 

In Germania: dopo l’investitura:

In Italia e Borgogna: prima, l’investitura deve avvenire entro sei mesi