martedì 28 maggio 2024

 

L’IMPERO E LA COESIONE DELLA ECCLESIA UNIVERSALIS

 

1 Premessa storiografica

 [una lucida presentazione del problema storiografico é offerta da:

H. von FICHTE­NAU, Il concetto imperiale di Carlomagno : Problemi della civiltà carolin­gia. Settimane di studio del Centro italiano di storia sull'Alto Medioevo, I, Spoleto 1954, 251-298].

 

I fatti del Natale dell' anno 800 rappresentano uno dei punti più dibattuti e più controversi della produzione storiografica. Basti un richiamo estremamente schematico alle posizioni principali.

+           K. HELDMANN, Das Kaisertum Karls des Grossen. Theorien und Wirklichkeit, Weimar 1928: l'impero carolingio sarebbe frutto di una decisione unilaterale ed improvvisa di papa Leone III, che in tale modo mirava ad assicurarsi un sostegno indiscuti­bile sotto il profilo legale contro i suoi avversari interni. L'impero carolin­gio non sarebbe pertanto che una creazione del papato al servizio del papato: l'impero medievale pertanto avrebbe un carattere soprattutto, se non esclusi­vamente, ecclesiastico.  

+           E.E. STENGEL, Kaisertitel und Souveränitättsidee. Studien zur Vorgeschichte des modernen Staatsbegriffs  :  Deutsches Archiv für Erforschung des Mittelalters,  3(1939)      1 – 56: all'origine dell'idea imperiale vi sarebbe non papa Leone, ma Alcuino. Questi avrebbe applicato al potere egemonico carolingio, potere che si estendeva su più nazioni, il termine che in Inghilterra si usava per designare il sovrano, che stava al di sopra degli altri re: secondo Stengel il Bretwalda in Inghil­terra avrebbe goduto ancor prima di Carlo Magno di titolo di imperator. Nel Natale dell'800 non si sarebbe fatto altro che dare il nomen imperatoris al potere egemonico di Carlo: elemento costitutivo di tale imperialità pertan­to non sarebbe la sua funzione ecclesiastica, ma la forza realistico-territo­riale dei Franchi: l'impero carolingio sarebbe soprattutto un fatto germanico. [Questa importazione del concetto imperiale dall'Inghilterra ad opera di Alcuino é stata con validi argomenti ridimensionata da C. ERDMANN, Forschungen zur politischen Ideenwelt des Frühmittelalters, Berlin 1951. Più recentemente é stato dimostrato che i documenti anglosassoni, su cui Stengel ha fondato la sua tesi, sono dei falsi, che attribuiscono al Bretwalda il titolo impe­riale a partire dall'esempio carolingio e non viceversa: R. DRÖGEREIT, Kaiseridee und Kaisertitel bei den Angelsachsen : Zeitschrift der Savigny­-Stiftung für Rechtsgeschichte, Germanistische Abteilung, 69(1952),24-73].

+           H. LÖWE, Von Theoderich dem Grossen bis zu Karl dem Grossen. Das Werden des  Abendlandes im Geschichtsbild des frühen Mittelalters : Deutsches Archiv für  Erforschung des Mittelalters, 9(1952) 353 401: il Löwe concorda con lo Stengel nel considerare il titolo imperiale come rico­noscimento del ruolo egemonico di Carlo. Tuttavia secondo il Löwe alla base di tale riconoscimento non vi sarebbe un influsso di Alcuino, ma piuttosto una tendenza tipica del mondo germanico, della quale si era già avuta un'espressione con Teodorico: la tendenza cioè a interpretare in termini imperiali ogni posizione egemonica. Per il Löve un indizio a favore di questo assunto è dato dal fatto che Carlo Magno fece trasportare da Ravenna ad Aquisgrana la statua equestre di Teoderico.  Anche in questo caso, quindi, l'impero sarebbe soprattutto un fatto germanico.

+           W. OHNSORGE, Das Zweikaiserproblem im früheren Mittelalter. Die Bedeutung des bizantinischen Reiches für die Entwicklung der Staatsidee in Europa, Hildes­heim 1947: si sottolinea l'importanza che l'impero bizantino ebbe nello stimolare, sia come modello sia come rivale, l'affermarsi di una sensibilità imperiale alla corte franca.

+           L. HALPHEN, Charlemagne et l’empire carolingien, Paris 21968, 119-121: si volle sostituire il titolo di imperator a quello di patricius per dare fondamento giuridico ad una operazione, mediante la quale Carlo, senza disporre di un vero diritto, aveva assunto su Roma e sul papato prerogative, che erano tipiche dell’impero bizantino. Alla cerimonia avrebbe fatto seguito una reazione di silenzio, di discrezione e di manovre diplomatiche con l’indispettito potere bizantino miranti a scaricare sul papato la responsabilità della iniziativa. Le fonti, che stanno alla base di questa posizione, sono prevalentemente franche. Quindi il ruolo papale sarebbe stato usato dall’ambiente carolingio in funzione di copertura diplomatica di una iniziativa, che in realtà era stata proprio della corte franca e riproduceva quanto era avvenuto con Pipino: avvalersi del peso religioso e morale del papato per dare il giusto nome al dato di fatto. Il potere imperiale bizantino in Occidente oramai non era più che un nome, mentre il potere regale di Carlo era un dato di fatto indiscutibile: quindi al potere franco oramai spettava il titolo imperiale.

+           H. von FICHTENAU, L’impero carolingio, Bari 1972, 100-109: l’idea dell’incoronazione imperiale di Carlo Magno non poteva essersi formata tra i franchi, perché per loro l’idea di imperium coincideva con l’idea di Herrschaft, quindi era sinonimo di sovranità, di regno. Quindi l’incoronazione di Carlo sarebbe stata una iniziativa non concordata, improvvisata, concertata dal papa con la nobiltà romana con l’intento di porre un atto che affermasse chiaramente il carattere romano-cristiano, non aquisgranense, dell’impero di Carlo. Con disappunto Carlo avrebbe assistito alla sua elevazione imperiale, celebrata marginalizzando quasi del tutto l’apporto della nobiltà franca e ponendo come atto primario l’incoronazione da parte del papa e non l’acclamazione da parte del popolo.

Di fronte a questa pluralità di interpretazioni si deve prima di tutto dire che essa dipende da un diverso modo di valutare i dati, che ci vengono offerti dalle fonti storiche. Ci si potrebbe allora domandare: quale di queste interpretazioni si rivela più aderente alle fonti?

Credo che si debba rispondere in questi termini: tutte e nessuna! Tutte infatti presentano innegabili aspetti di verità; tutte però incorrono nel limite di assolutizzare tali aspetti di verità. Infatti non solo la produzione storiografica, ma anche le stesse fonti presen­tano una pluralità e difformità di interpretazioni: pertanto ritengo che la “verità" (storica, si intende) non stia nel privilegiare questa o quella fonte, ma stia piuttosto nell'assumere il dato documentario nella sua globalità e com­plessità: si arriverà allora a concludere che nel Natale dell'anno 800 si compì un gesto molto importante, ma non se ne aveva un'idea molto precisa ed univoca.

 

2 – La mentalità imperiale alla corte carolingia

Credo che in ordine alla formazione di tale mentalità sia stato determinante l’enorme sviluppo politico-territoriale del potere carolingio: si sa che Carlo Magno portò avanti con successo la politica espansionistica di Carlo Martello e di Pipino [774: conquista del regno longobardo, che vantava oramai due secoli di sto­ria; decennio successivo: aggregazione dei Sassoni e degli Avari; 787: il ducato longobardo di Benevento viene sottomesso alla sovranità franca; 788: sottomissione del ducato di Baviera al regno franco ].

Ne conseguì prima di tutto che il potere carolingio venne ad acquisire un carat­tere plurinazionale, chiaramente espresso dal titolo, di cui Carlo Magno si servi nei suoi diplomi dopo la campagna militare italiana del 774: Rex Francorum et Langobardorum atque Patricius Romanorum.

In secondo luogo per via del suo carattere plurinazionale il potere carolingio venne ad assumere nel mondo occidentale una posizione del tutto singolare, pre­stigiosa ed egemonica. In questa prospettiva re Carlo pretese che quei regni, che non erano sottomessi alla sua sovranità (i regni della cosiddetta eptarchia anglosassone; il regno delle Asturie sui Pi­renei) riconoscessero il primato franco mediante un atteggiamento di amicizia.

Infine all'intento del mondo franco, soprattutto alla corte franca, prese avvio un processo ideale per comprendere, definire, esprimere il carattere plurinazionale ed egemonico del potere carolingio: il titolo regale andava senz'altro stretto a questa entità, che certo si distingueva dagli altri regni del mondo occiden­tale! Tale processo ideale alla fine del secolo VIII, più precisamente negli anni novanta, assunse un chiaro carattere di imitatio imperii.

Il processo ideale pervenne a ciò grazie all'apporto di varie componenti culturali, che ora vorremmo delineare.

 

a - l'apporto culturale di Alcuino

Non va certo inteso nella linea della tesi di Stengel, definitivamente accan­tonata dalla già citata opera di Drögereit. Ad Alcuino invece si deve attribuire un importante influsso nella formazione della concezione ecclesiastico-religiosa dell'impero.

Intorno agli anni 796 - 797 nella sua edizione del sacramentario gregoriano Alcuino ritenne di dovere trasformare l'espressione "Imperium romanum”, ivi ricorrente, in “Imperium christianum", più adeguata al nuovo contesto politico e storico. L'impero veniva così ad acquisire un'accezione propriamente religiosa, in quanto rappresentava ed esprimeva il popolo dei battezzati, al di là dei particolarismi, che avevano caratterizzato l’imperium Romanum.

Quale ruolo spettasse a Carlo in tale Imperium chrístianum, traspare da una lettera di Alcuino (Alcuini epistolae 174 : MGH Ep. IV, 288).

Il contesto storico in cui tale scritto si colloca é caratterizzato da due fatti:

+         il trono bizantino é occupato da una donna, Irene, che ha fatto deporre ed accecare     suo figlio Costantino VI;

+         papa Leone III a Roma ha subito un attentato ed é accusato di spergiuro ed adulterio.

Nel giugno del 799 così si espresse Alcuino: "Tre persone sono state finora al vertice della gerarchia del mondo: al primo posto il rappresentante della sublimità apostolica, vicario di S. Pietro principe degli apostoli, di cui occupa la sede. Ciò che é avvenuto all'attuale detentore di tale sede, mi é stato fatto conoscere dalla vostra (scrive a Carlo) bontà. In secondo luogo viene il titolare della dignità imperiale, che esercita il potere secolare nella seconda Roma. Dappertutto si é diffusa la notizia del come empiamente il capo di tale impero sia stato deposto, non da stranieri, ma dai suoi parenti e dai suoi concittadini. In terzo luogo viene la dignità regale, che nostro Signore Gesù Cristo vi ha riservato, per­ché voi abbiate a governare il popolo cristiano. Essa supera le altre due dignità, le eclissa in saggezza e le sorpassa. Pertanto é su te solo che si appoggiano le chiese di Cristo, é da te soltanto che si attendono salvezza: da te, vendicatore dei cristiani, guida di coloro che errano, consolatore degli afflitti, sostegno dei buoni."

Come si vede, Alcuino assegnava a Carlo all'interno dell'Imperium christianum un ruolo singolare in relazione alla defensio Ecclesiae; tuttavia Alcuino non pensava tale ruolo in termini di imperialità, né in termini di successione all'impero romano; non assegnava a Carlo il ruolo di imperatore romano al posto del monarca bizantino, ma anzi tendeva a  distinguere la superiorità di Carlo dal­la decadenza del legittimo impero romano.

Si noti che Alcuino non faceva altro che dare una sistemazione ideologica ad una prassi di Carlo, che negli anni precedenti si era comportato già come defensor Eecclesiae non solo all'interno del suo dominio, ma anche in relazione a tutto il popolo cristiano. Nel concilio di Ratisbona del 792 e nel concilio di Francoforte del 794 Carlo aveva fatto giudicare la questione teologica dell'adozianismo [si tratta della relazione dell'uomo Gesù con il Padre espressa in termini di filiazione adottiva ad opera di Elipando, arcivescovo di Toledo ed accolta anche da Felice, vescovo di Urgel, nel territorio franco della marca spagnola. I Franchi vi videro una specie di "neo-nestorianesimo", in quanto giudicarono la questione secondo il diritto germanico, che considerava l'adozione come un legame piuttosto fluido; gli ispano-visigoti invece, secondo la Lex Romana Visigothorum, che si ispirava al diritto imperiale romano, ritenevano che l’adozione creasse un forte vincolo tra adottante ed adottato]. Era una questione che in gran parte interessava la Chiesa di Spagna.

Ancora nello stesso concilio di Francoforte del 794 Carlo aveva fatto condanna­re un'espressione male tradotta del concilio ecumenico Niceno II, che la corte bizantina aveva fatto riunire per annullare il concilio iconoclasta di Hieria e per ripristinare il culto delle immagini. Anche in questo caso Carlo si arrogò il compito di tutelare la fede cattolico-romana in un ambito assai vasto, assai più vasto del suo regno, ecumenico addirittura. Ma siamo così giunti a toccare un altro ele­mento, che pure contribuì a sviluppare il tema della imitatio imperii.

 

b - la relazione ideale con l'impero bizantino

I primi contatti con i Bizantini si ebbero nel 781, in occasione della seconda venuta di Carlo a Roma. A Costantinopoli, Irene, dopo la prematura morte del marito Leone IV ( 8 settembre 780), aveva assunto la reggenza in nome del figlio minorenne Costantino VI. Per acquistare maggiore forza politica all’interno Irene si era decisa a riprendere i contatti con l'Occidente: conclu­sione di tali contatti fu un progetto di matrimonio tra la figlia di Carlo Magno, Rotrude, e Costantino VI. Si rilevi che così un esponente della dina­stia carolingia si apprestava a penetrare nella sfera imperiale: é presumibile che un po' tutta la dinastia carolingia sentì degli stimoli ver­so suggestioni imperiali!

Il progetto di matrimonio, che aveva sanzionato l'intesa tra Irene e Carlo, fu definitivamente abbandonato nei primi mesi del 787, in occasione del nuovo viaggio di Carlo in Italia, che si concluse con la conquista del ducato lon­gobardo di Benevento, su cui anche i Bizantini avanzavano pretese di influenza! Non ci interessa tanto vedere perché si produsse una tale rottura; ci interessa piuttosto considerare le conseguenze di tale rottura. In generale si può dire che la corte carolingia intraprese una politica di chiara contrapposizione all'impero bizantino e ciò si manifestò soprattutto su due fronti:

+ sul fronte dell'ortodossia: Carlo volle contrapporsi a Costantinopoli quale autentico difensore della retta fede. L'occasione fu offerta dalla questione iconoclastica. Leone IV, succedendo al padre Costantino V, aveva dato un carattere più moderato alla lotta iconoclastica. Irene poi nel 780, assumendo la reggenza, aveva deciso di porre fine alla iconoclastia e di riportare in vigore il culto delle immagini sacre. Ora, secondo la mentalità orientale, solo un concilio poteva annullare le decisioni conciliari di Hieria (754). Perciò Irene nel 785 espresse a papa Adriano l'intenzione di celebrare un sinodo ecumenico, invitandolo a mandare dei delegati. Col consenso del papa nel 787 si celebrò il Concilio niceno II. I dibattiti conciliari rivelarono una notevole povertà teologica ed il prevalere di considerazioni miracolistiche; il documento finale invece espresse una teo­logia sobria e sicura: a partire dalla distinzione tra latreia (λατρεία) e proskunesis (προσκύνησις ), si affermò la legittimità del culto di ve­nerazione per le immagini sacre e si condannò come eretica la posizione ico­noclastica (cfr Dz. - Sch. 600 - 603).

     Gli atti del concilio furono poi inviati a Roma, dove se ne fece una tradu­zione errata, che non distingueva adeguatamente tra adorazione e venerazione, ricorrendo indifferentemente al termine "adoratio".

     A questo punto Carlo Magno sferrò il suo attacco al Niceno II, che ai suoi occhi aveva due torti: quello di avere completamente ignorato la Chiesa fran­ca, che non vi era stata invitata nonostante il suo ruolo prestigioso in Oc­cidente e quello di avallare, stando alla errata traduzione latina, l'adorazione delle immagini. L'opposizione franca si espresse dapprima nei Libri Ca­rolini (MGH Conc. II suppl.), che datano del 791 e sono soprat­tutto opera di Teodulfo d'Orléans. I Libri Carolini accettano che si faccia uso di immagini sacre e per tanto condannano le posizioni iconoclastiche; tuttavia - sempre secondo i Li­bri carolini - le immagini, essendo opera di mano umana, non hanno un valore religioso, ma solo didattico-decorativo e quindi si deve condannare anche la venerazione delle immagini, oltre che la adorazione delle immagini.

     Per giustificare la loro opposizione ad un concilio ecumenico, i Libri Carolini si trovarono nella necessità di negare l'ecumenicità del niceno II. Secondo i Franchi tale concilio non doveva essere considerato ecumenico né sotto il profilo quantitativo (per l'esclusione della Chiesa franca, non poteva affermare di avere goduto della partecipazione di tutta la Chiesa) né sotto il profilo qualitativo ( per la mancanza della Chiesa franca non pote­va vantare la presenza delle chiese più significative: i Franchi qui sconvolgevano la prassi tradizionale, che legava l'ecumenici­tà dei concili alla partecipazione della Chiesa di Roma e dei quattro patriarcati d'Oriente: secondo i Franchi la loro Chiesa doveva essere equiparata alle grandi chiese patriarcali).

     Come già dicemmo, l'opposizione al Niceno II si espresse infine nel conci­lio di Francoforte del 794, dove si attenuarono i toni rispetto ai Libri Carolini e si condannò soltanto l'errata espressione della traduzione latina: quanto al problema della venerazione si scelse di non esprimere né una esplicita riprovazione, né una esplicita ammissione.

+ Il secondo fronte su cui la corte carolingia volle contrapporsi all’imperatore bizantino concerne la concezione del potere imperiale. Sempre nei Libri Carolini si vuole presentare re Carlo come il vero re cristiano, il nuovo Davide, che rifiuta ogni superba concezione del suo potere. Perciò si criticano i sovrani bizantini, che si arrogano il titolo di "Divus", di "isapostolo, quando invece "tanta est distantia inter apostolos et im-
peratores, quanta inter sanctos et peccatores"(Libri Carolini IV,20 : MGH Conc. II suppl. 212). Per questa ragione Carlo volle che nella cappella palatina di Aquisgrana il suo trono non fosse collocato ad Oriente, come era usanza presso i Bizantini, perché ad oriente sta Dio, che appunto verrà da Oriente; pertanto il trono di Carlo fu collocato ad Occidente.

  Nel contesto di questa amicizia e contrapposizione nei confronti di Costanti­nopoli vediamo comparire nell'ambiente carolingio alcune usanze bizantine: l'uso del monogramma      


l'uso della bolla metallica per i documenti, la decisione di costruire ad Aquisgrana una residenza stabile, con co­struzioni, che si ispirano agli edifici imperiali bizantini soprattutto italiani (per esempio la Cappella Palatina di Aquisgrana ricalca il modello di S. Vitale di Ravenna, che a sua volta si rifà al Triclinium aureum del palazzo imperiale di Costantinopoli. Anche le monete di re Carlo imitano il ritratto imperiale del solidus aureo di Costantino).

Da tutto ciò traspare una chiara tendenza carolingia a sentirsi un potere politico non inferiore, ma simile al potere imperiale bizantino.

 

c – la relazione con il passato imperiale dell’Occidente

Venutosi a trovare signore di gran parte dell'Occidente, Carlo, sia con il ricupero della cultura classica sia mediante i viaggi frequenti in Italia, stabilì un legame vivo con la storia di tale area territoriale.

E' certo significativo che i Libri carolini, il concilio di Francoforte del 794, Alcuino descrivano il territorio carolingio facendo ricorso non più al­le denominazioni forgiate sul nome dei popoli germanici occupanti, ma ai termini classici, con cui nell'antichità venivano designate le province della parte occidentale dell'impero: Italia, Gallia, Germania. L'idea soggiacente é chiara: l'estensione del potere di Carlo coincide grosso modo con quella che un tempo era la parte occidentale dell'impero e che spesso fu governata da un imperatore. Sulla scia di queste considerazioni si giunse probabilmen­te ad utilizzare in relazione al titolo imperiale quel procedimento logico, con cui nel 751 si era giunti al colpo di Stato e alla elevazione regale di Pipino: colui che aveva potestas sulla parte occidentale dell'impero, colui che dominava le vecchie città imperiali dell'Occidente, non doveva forse pos­sedere anche il nomen imperatoris? Tanto più che l'attuale titolare dell'impero era una donna, che aveva commesso l'orribile delitto di accecare il fi­glio? Sono appunto queste le ragioni che l'autore degli Annales Laureshamenses adduce per giustificare i fatti del Natale 800: " Poiché allora nella parte dei Greci veniva meno il nomen imperatoris, essendovi un impero femmineo, parve bene al papa e a tutti i padri riuniti in concilio e a tutto il mondo cristiano dì dovere chiamare imperatore quel Carlo, re dei Franchi, che deteneva la Roma, dove i Cesari avevano sempre avuto la loro residenza e pure deteneva le altre città imperiali d'Italia, Gallia e Germania...." (Annales Laureshamenses  a. 800/801 : MGH  SS; I,38).

Siamo giunti oramai all'ultimo gradino del processo di imitatio imperii, sviluppatosi alla corte carolingia: la singolare posizione politico-ecclesiasti­ca di Carlo nell'Occidente cristiano viene sempre più intesa in senso augustale. Ce ne offre testimonianza l'epos intitolato "Karolus magnus et Leo papa", che é databile del 799 e fu redatto probabilmente a Paderborn: a Carlo viene attribuito il titolo di Augusto; Aquisgrana viene presentata come la seconda Roma, quasi in questo ruolo fosse subentrata al posto di Costantinopoli (Karolus magnus et Leo papa : MGH  Poet. lat. I, 366-379).

 

 

3 - La mentalità imperiale degli ambienti romani

Si tratta ora di vedere come a Roma sia sviluppata l'idea di elevare Carlo alla funzione imperiale.

Abbiamo visto che sotto papa Adriano a Roma si volle tenere un atteggiamento, che si avvicinava alla indipendenza sovrana: da una parte si evitava il rischio di ridursi al rango di semplice struttura franca, dall'altra si codificava a livello pratico l'estraneità che era venuta a crearsi tra Oriente e Occidente e che non si era ancora pienamente consumata a livello giuridico-politico.

Due fatti nel corso dell'ultimo decennio del secolo VIII contribuirono a creare una nuova relazione politica tra Roma, Franchi e Bizantini.

+ Primo fatto: la situazione romana all'avvento di papa Leone III.

Il 26 dicembre 795, giorno della sepoltura di papa Adriano, divenne papa per elezione unanime Leone III: non apparteneva all'aristocrazia romana ed era sempre stato una figura di secondo piano (addetto al vestiarium papae; poi cardinale presbitero di s Susanna). Molto presto il gruppo, che aveva col­laborato strettamente con Adriano I, si pose in netta opposizione, poiché il nuovo papa mostrava di volere emarginarlo dall'amministrazione. Il gruppo d'opposizione era costituito da parecchi esponenti dell'aristocrazia e da parenti del papa defunto: infatti lo capeggiava un certo Pasquale, nipote di Adriano I. La delicatezza della situazione interna spinse Leone III a rivedere la poli­tica della quasi sovranità ed indipendenza pontificia, che finiva con il la­sciarlo in balia dell'opposizione. Quindi il nuovo papa si decise ad inter­pretare  una politica di più netta dipendenza dal re franco: non appena eletto, Leone III non solo fece pervenire a Carlo il decreto di elezione, cosa che Adriano I non aveva fatto, ma pure gli inviò le chiavi della confessio sancti Petri, il vessillo di Roma e la richiesta di missi, che raccogliessero il giuramento di fedeltà dei Romani. In una parola, Leone III riconobbe a Carlo un potere politico su Roma. Ciò ebbe ulteriore dimostrazione nel fatto che Leone smise di datare i suoi documenti secondo gli anni del suo pontificato, per introdurvi gli anni di governo di Carlo in Italia.

L'opposizione dapprima lanciò contro Leone III le pesanti accuse di spergiu­ro ed adulterio e poi passò alle vie di fatto. Durante la processione delle rogazioni del 25 aprile 799 un gruppo di cospiratori si buttò sul papa, ten­tò di accecarlo e mutilarlo della lingua, nell'intento di renderlo inabile all'ufficio papale, quindi lo trascinò nel monastero di s. Silvestro, dove di fronte all'altare si procedette probabilmente alla svestizione e alla deposizione di Leone III, che poi fu rinchiuso nel monastero di s. Erasmo.

Il pronto intervento del duca franco di Spoleto e del missus regio Wirundo da una parte impedì che i facinorosi passassero alla elezione di un nuovo pa­pa, dall’altra. consentì a papa Leone di fuggire da Roma e stabilirsi a Spo­leto.

Re Carlo, informato dell'accaduto, invitò il papa a Paderborn per discutere insieme la situazione. L'incontro avvenne alla fine di luglio: papa Leone fu ricevuto con tutti gli onori, che si addicono ad un papa ancora in carica. Il papa invocò un intervento di Carlo contro i cospiratori; quasi contempora­neamente l’opposizione fece pervenire a Carlo una accusa contro il papa, con la relativa richiesta di procedimento giudiziario: e così Carlo si trovò ad essere arbitro della situazione. E' legittimo ritenere che a Paderborn si sia già prospettata la necessità, o almeno l'opportunità, di un'elevazione imperiale di Carlo, data la natura degli interventi richiesti.

Da una parte si trattava di un intervento giudiziario, che riguardava la per­sona del papa: un'azione di Carlo, quale patricius Romanorum, sarebbe stata di dubbia legittimità per due ragioni: un'azione giudiziaria in Roma del pa­tricius Romanorum, Carlo, era giuridicamente discutibile, in quanto in Roma il potere giudiziario dipendeva ancora per sé dall'imperatore bizantino e veniva esercitato dal prefetto della città; in secondo luogo un'azione giudi­ziaria nei confronti del papa, condotta dal patricius Romanorum, era senz'al­tro inaccettabile, poiché coloro che non accettavano il principio affermato dalle pseudo-decretali di papa Simmaco (501 c.) "Papa a nemine iudicatur", ritenevano senz'altro che un papa dovesse essere giudicato se non da un concilio, per lo meno da un imperatore. Pertanto chi richiedeva a Carlo un intervento giudiziario sul papa in Roma, doveva necessariamente attribuire a Carlo un ruolo di tipo imperiale e non di semplice patricius!

Dall'altra parte si trattava di un intervento giudiziario contro coloro, che avevano cospirato contro il papa, commettendo il crimine di lesa maestà. Ora anche sotto questo profilo solo il potere imperiale avrebbe potuto agire in maniera giuridicamente ineccepibile, perché il diritto imperiale romano riservava siffatto caso criminale all'imperatore! Pertanto anche papa Leone, in­vocando l'intervento di Carlo contro i suoi nemici, attribuiva a Carlo un compito da imperatore, più che da patrizio!

Si può dunque concludere che il fatto che la questione concernente papa Leone sia stata sollevata davanti a Carlo e non davanti alla corte bizantina, é di per sé significativo dell'orientamento generale romano.

+ Secondo fatto: gli avvenimenti di Costantinopoli.

Abbiamo visto che Roma fino al pontificato di papa Adriano dall'esperienza del disinteresse bizantino non aveva tratto la decisione di una rottura politica, ma aveva soltanto derivato una pratica indipendenza. Nel Natale dell'800, con l'incoronazione imperiale di Carlo, si espresse un atteggiamento politico diverso: si affermò la rottura politica con Costantinopoli e la sottomissio­ne ad un nuovo potere sovrano. Quindi ci domandiamo: che cosa nel frattempo può avere determinato una tale svolta? La risposta ci pare chiara: i fatti che si sono verificati nel 797 a Costantinopoli. Il potere imperiale era giunto nelle mani di una donna e ciò rappresentava una inaudita novità giuridica, cui guardare con esecrazione: il pensiero medievale riteneva che si dovesse sempre e soltanto restaurare il diritto antico ed eterno e quindi considera­va tutte le novità giuridiche come opera dell'anticristo. Il potere imperia­le inoltre era detenuto da una donna, che si era macchiata dell'orribile de­litto di abbacinamento del figlio, mostrando di essere priva di bona voluntas e quindi di esercitare un inaccettabile potere tirannico. In tale frangente a Roma deve essersi sviluppata la convinzione secondo cui il titolo imperiale si sarebbe reso vacante e quindi bisognasse attribuirlo a Carlo, quale persona più idonea a portarlo. Una traccia di questa mentalità si riscontra in due mosaici fatti preparare da papa Leone proprio intorno agli anni 798-799.

Il primo di questi mosaici fu collocato nel Triclinium (sala di rappresentanza) del palazzo lateranense: nell'abside era stato rappresentato il Cristo nell'at­to di inviare gli apostoli; sul lato sinistro appariva un Cristo in trono nello atto di consegnare il pallio a Pietro, inginocchiato alla sua destra, ed il la­baro a Costantino, inginocchiato alla sua sinistra; sul lato destro invece era Pietro a consegnare il pallio a papa Leone ed il vessillo a re Carlo: sotto quest'ultima scena era stata apposta la didascalia: "Beate Petre donas vitam Leoni papae et Bictoriam Carulo Regi donas". Si noti che come papa Leone è collocato in parallelismo con Pietro, così re Carlo corrisponde a Costantino, imperatore cristiano: con ciò si voleva esprimere l'idea secondo cui la difesa della chiesa romana, del papa e della città di Roma era passata dai successori di Costantino in Oriente al re dei franchi in Occidente: re Carlo sarebbe subentrato al posto di Costanti­no.

Il secondo mosaico era stato collocato nell'abside della chiesa di s. Susanna, di cui papa Leone era stato titolare da cardinale. Vi era raffigurato Cristo al centro di una teoria di santi; tra i santi comparivano papa Leone e re Carlo: si noti che questi non compariva quale fondatore o restauratore della chiesa, nelle sue mani infatti non recava il modellino dell'edificio, ma una spada. Evidentemente si voleva affermare che Carlo svolgeva nell'Ecclesia il grande ufficio di difensore di quel papa, che gli stava accanto.

Ci pare dunque di potere ritenere che a Paderborn i fatti ed i problemi giuridici ad essi connessi abbiano stimolato sia la mentalità imperiale franca sia la mentalità imperiale romana a determinarsi nel senso di una elevazione imperiale di Carlo, da celebrarsi in un prossimo futuro.

Si potrebbe obiettare: perché mai re Carlo ha atteso più di un anno prima di rea­lizzare tale progetto? Risponderei: Carlo non poteva accetta­re di compiere un gesto così importante in un contesto carico di gravi sospetti morali: Carlo per esempio non poteva accettare che a incoronarlo fosse un papa Leone, sospettato di spergiuro ed adulterio: doveva prima chiarirne l'innocenza! O ancora, Carlo non poteva accettare di essere acclamato imperatore da una nobiltà romana, nel cui seno si trovavano i cospiratori del 799! Dunque era ve­nuto a crearsi un circolo vizioso: da una parte la situazione esigeva la creazio­ne di un nuovo imperatore, dall'altra la creazione del nuovo imperatore era impe­dita dalla situazione concreta.

Perciò la conclusione dei colloqui di Paderborn fu che papa Leone dovesse essere scortato a Roma: qui fu accolto come un trionfatore (29 novembre 799). Col papa però erano venuti a Roma dei missi regii con l'incarico di svolgere un'inchiesta sui fatti del 799 (Si noti che l'inchiesta, dal momento che apparteneva alla fase istruttoria del procedimen­to giudiziario,  non era compiuta dall'autorità giudiziaria, ma dalla autorità amministrativa: quale patricius Romanorum Carlo godeva di poteri amministrativi su Roma e quindi l'inchiesta dei suoi missi appariva piena­mente legale).

L'inchiesta si svolse nel triclinium del palazzo lateranense, dove spiccava il mosaico, che affermava il dovere di Carlo in ordine alla difesa del papa. Furono raggiunti questi risultati:

·            circa i cospiratori: dovette apparire abbastanza pacifica l'imputazione del crimen lesae maiestatis, perché in nessun modo un errore personale del papa avrebbe potuto giustificare l'attentato: perciò Pasquale fu arrestato e depor­tato nel regno franco con alcuni compagni in attesa di giudizio;

·            circa il papa: probabilmente non si raggiunse nessun risultato chiaro in or­dine alle sue responsabilità morali; con ogni probabilità invece si giunse a definire le modalità procedurali: la posizione del papa si sarebbe dovuta giu­dicare in un concilio presieduto da re Carlo.

Dopo questa carrellata sul complesso processo politico e culturale, che ha portato ai fatti del Natale dell'anno 800 ci sia consentita un'ultima osservazione: si rilevi la diversa impostazione della mentalità franca e della mentalità roma­na circa l'elevazione imperiale di Carlo. Per i Franchi propriamente non si trattava di una elevazione imperiale, ma si trattava semplicemente del riconoscimento di un dato di fatto: Carlo, per la forza militare del suo popolo, già possedeva l'autorità, il potere di un imperatore: gli mancavano soltanto il nomen imperiale, la dignitas imperiale: nel Natale dell'800 a Roma quindi Carlo avrebbe ricevuto non il potere imperiale, ma solo il nome, la dignità imperiale!

Per i Romani invece si trattava di una vera e propria elevazione imperiale, di una vera e propria "provisio imperii". Si capisce così come mai le fonti fran­che e le fonti romane divergono nell'interpretare i fatti del Natale 800.

 

 

4 – Gli avvenimenti del Natale dell’anno 800

a) le fonti:

una collezione completa delle fonti concernenti l'incoronazione imperiale di Carlo é offerta da:

H. DANNENBAUER, Die Quellen zur Geschichte der Kaiserkrönung Karls des Grossen, Berlin 1931.

Ci pare di potere distinguere le fonti in due gruppi:

+ quelle praticamente coeve agli avvenimenti: sono tre, per lo più si integrano a vicenda raramente si contraddicono:

-                     Vita Leonis III : Liber Pontificalis, II, ed. L.Duchesne, Paris 1887, 7-8: vi troviamo espresso il punto di vista degli ambienti papali; questa sezione della "Vita Leonis" fu scritta verso l'801;

-                     Annales regni Francorum (MGH SS rer. Germ. 112), a. 800/801: esprimono la mentalità della corte franca; anche in questo caso la narrazione fu scritta poco dopo gli avvenimenti;

-                     Annales Laureshamenses (MGH SS, I, 37-38) a.800/801 (61): questa sezione é opera di un discepolo di Alcuino (Richbodo) e rispecchia la mentalità della nobiltà e dell'episcopato franco; é di singolare valore per gli avvenimenti, che precedono imme­diatamente il 25 dicembre.

+ quelle posteriori e minori: ne ricordiamo una soltanto:

-                     Einhardi vita Karoli Magni: il capitolo 28 (MGH SS rer. Germ. 32), fu scritta non prima dell'830.

       Quest'ultima fonte merita un'attenzione particolare per una notizia estremamente singolare, che riporta. Poco dopo l'incoronazione imperiale Carlo Magno avreb­be dichiarato che se avesse conosciuto le intenzioni di papa Leone III, non si sarebbe presentato in S. Pietro, anche se in quel giorno si celebrava una gran­de solennità. Storici, come Karl Heldmann, si sono fondati anche su questa notizia di Eginardo per sostenere la tesi dell'impero carolingio frutto di una decisione unilaterale e improvvisa di papa Leone. In realtà la critica sto­rica più recente é molto più cauta nell'utilizzazione della suddetta fonte (cfr P. CLASSEN, Karl der Grosse, das Papsttum und Byzanz, 589 - 591).

[Il processo di formazione di una mentalità imperiale, da noi precedentemen­te descritto, già basterebbe a fare cadere l'idea di un Carlo imperatore contro la sua volontà. Quanto poi diremo sulla preparazione e la celebra­zione dell'avvenimento contribuirà a sua volta a mettere in dubbio la violenza, che Carlo avrebbe dovuto inconsapevolmente e contro volontà subire!]

Si fa prima di tutto rilevare che nella sua "Vita Karoli Magni" Eginardo vuole riproporre lo schema letterario delle "Vite dei Cesari" di Svetonio. Sulla scia di tale indicazione si rimanda al fatto che l'accenno al disappunto di Carlo circa l'incoronazione imperiale non si colloca nel contesto della narrazione degli accadimenti storici, ma fa parte del capitolo, in cui si descrivono le virtù mora­li del buon imperatore: come in Svetonio ogni buon imperatore é dotato della virtù della modestia, che si esprime nel disappunto di fronte all'elevazione imperiale, così Carlo - secondo Eginardo - per modestia dovette fare altrettanto.

Con ciò si deve forse concludere che Eginardo ha inventato di sana pianta il ram­marico dì Carlo? Probabilmente no: Carlo dopo la cerimonia dovette esprimere ri­serve e critiche, che, sia chiaro, non riguardavano l'elevazione imperia­le in quanto tale, ma le modalità seguite, che mettevano in gran rilievo il pa­pa ed i Romani e lasciavano completamente in ombra i Franchi, quasi non avesse­ro nulla a che fare con l'imperialità di Carlo. Ancora le riserve e le critiche di Carlo dovettero riguardare le conseguenze di tale gesto, in particolare il deterioramento ulteriore dei rapporti con l'impero bizantino.

 

b) i preliminari

Il 23 novembre 800 Carlo si presentò davanti a Roma: mentre il Liber pontificalis se la cava in maniera sbrigativa, ricordando che a Carlo furono tribu­tati grandi onori, gli Annales regni Francorum ci dicono qualcosa di decisi­vo: papa Leone accolse Carlo non più sui gradini di S. Pietro, come aveva fatto papa Adriano nel 774, ma gli si recò incontro a dodici miglia dalla città, ivi (Mentana) con Carlo fece colazione e poi da solo ritornò a Roma.

Il re franco fece il suo ingresso il giorno successivo, accolto dalle schiere al canto delle laudes. Ancora una volta le particolarità del cerimoniale hanno una certa importanza per scoprire la mentalità papale: a Carlo non fu più riservato il rito di accoglienza del patricius; gli si tributarono gli onori dell'adventus Caesaris.

Una settimana dopo Carlo si mise al lavoro: il primo dicembre riunì in S. Pietro un concilio per affrontare il problema del papa. Al concilio, secondo lo stile franco, presero parte clero e laici di Roma e dei Franchi. L'assise non si trasformò in un procedimento giudiziario, perché, per mancanza di testimoni ed accusatori formali, non si giunse mai a formalizzare una precisa imputazione. Dopo tre settimane la questione fu ac­cantonata nel modo seguente: con atto libero, senza alcuna imposizione giuri­dica, il papa il 23 dicembre dall'ambone della basilica di s. Pietro pronun­ciò un giuramento purificatorio, in cui dichiarò la sua innocenza: " Per giudicare questa causa il clementissimo e serenissimo signore, il re Carlo qui presente, é venuto in questa città con il suo clero e con i suoi grandi. E perciò io, Leone pontefice della S. Chiesa romana, senza essere giudicato e senza esservi costretto da nessuno, ma per un atto di libera e spontanea volontà, mi purifico e mi purgo in vostra presenza, davanti a Dio, che conosce la mia coscienza, davanti ai suoi angeli, davanti a S. Pietro, principe degli Apostoli, nella cui basilica ora ci troviamo, e dichiaro di non avere né perpetrato, né ordinato di perpetrare i fatti criminali e scellerati, che mi vengono addebitati" (Ph. JAFFÉ, Bibliotheca rerum Germanicarum, IV, 378-379).

In questo caso si seguì la prassi franca, che prevedeva nelle questioni contro i grandi il ricorso a questo giuramento, qualora non fosse possibile formalizzare il capo d'imputazione: il giuramento chiudeva la vertenza.

Solo gli Annales Laureshamenses ci fanno sapere di un altro momento prelimina­re: un concilio, con il papa in prima linea, dopo il giuramento di Leone III, avrebbe deciso che      "Carlo, re dei Franchi, doveva essere nominato imperatore... A questa richiesta Carlo ritenne di dovere rispondere positivamente, senza op­porre rifiuti, ma sottomettendosi umilmente a Dio secondo le preghiere del clero e di tutto il popolo cristiano il giorno del Natale di Nostro Signore Gesù Cristo, con la consacrazione di papa Leone; assunse il nome di imperatore." (Annales Laureshamenses a. 800/801 : MGH SS, I, 38). Gli Annales Laureshamenses in questo contesto riportano quelle motivazioni, cui già accennammo (cfr idem, p.50).

 

c) La cerimonia del Natale

Le notizie ci sono offerte da due fonti: il Liber Pontifiralis e gli Annales regni Francorum.

Le fonti ci informano che l’incoronazione imperiale di Carlo fu celebrata in san Pietro. Quindi la cerimonia non avvenne nel corso della messa della notte, che per tradizione si celebrava in S. Maria Maggiore "ad praesepe": era una messa poco partecipata, alla quale presenziavano solo alti dignitari e qualche membro del clero romano; perciò si scelse di situare l’incoronazione nel contesto della messa del giorno di Natale, che era tradizionalmente celebrata in san Pietro e che era molto più frequentata: pertanto non la notte di Natale ma il giorno di Natale avvenne l’incoronazione imperiale. Quando nel corso della Messa, dopo la preghiera davanti alla Confessio sancti Petri, Carlo accennò a levarsi in piedi, il papa gli posò sul capo una corona preziosissima ed a quel punto tutti i romani presenti, plures sanctos invocantes, acclamarono Carlo imperatore; infine il papa compì la proskunesis davanti al nuovo imperatore.

Tentiamo ora di comprendere il cerimoniale nelle sue varie parti e nella sua globalità.

·                     L'INCORONAZIONE. L'uso della corona come simbolo della sovranità probabilmente era estraneo al mondo franco prima di Carlo Magno. La cosa invece era divenuta usuale nel mondo bizantino a partire da Costantino: pertanto é legittimo pensare che nel Natale dell'800 si é fatto ricorso al cerimoniale bizantino. Esso prevedeva due tipi di incoronazione in occasione della elevazione di un nuovo imperatore.

+ L'incoronazione connessa con la elevazione di un Hauptkaiser (imperatore maggiore). Il cerimoniale prevedeva come primo momento l'acclamazione fatta dall'esercito, dal senato e dal popolo nell'ippodromo: questo era l'atto che propriamente costituiva l'imperatore nel suo potere; il secondo mo­mento era rappresentato dalla incoronazione, che a partire dal V secolo veniva celebrata dal patriarca di Costantinopoli: questo atto non aveva il valore giuridico di conferimento ed insediamento in ordine al potere, ma aveva solo il valore mistico di consacrazione di un potere già presen­te a partire dall'acclamazione; faceva seguito infine la proskunesis.

+ L'incoronazione connessa con l'elevazione di un Mitkaiser (imperatore associato, coimperatore). In questo caso non si aveva l'acclamazione all’ippodromo, perché l'atto di elevazione e costitutivo in potere era com­piuto dallo Hauptkaiser, che decideva di associare il figlio (o altri) al potere imperiale. Il primo rito pubblico era dunque l'incoronazione, che si compiva al canto di invocazioni augurali da parte del popolo e si chiudeva con la proskunesis.

·                     L'ACCLAMAZIONE. Secondo il Liber Pontificalis il contenuto della acclama­zione sarebbe stato il seguente: "Karolo piissimo Augusto a Deo coronato magno et pacifico imperatore vita et victoria" (Liber Pontificalis Il, ed. L.Duchesne, Paris 1887, 7).

Sempre il Liber pontificalis ci fa sapere che i Romani - nulla si dice dei Franchi - ripeterono tre volte tale acclamazione "plures sanctos invocantes”. Non c’e dubbio che queste invocazioni dei santi altro non erano che le Laudes regiae franche, che già contenevano un'espressione molto vicina alla acclamazione: "Carolo excellentissimo et a Deo coronato atque magno et pa­cifico regi Francorum et Langobardorum ac patricio Romanorum vita et victoria".

Quale valore giuridico si attribuì alla acclamazione dei Romani? Si noti che per i Franchi le Laudes regiae non avevano mai assunto un valore di atto costitutivo in potere regale: pertanto con ogni probabilità i Franchi presenti alla cerimonia non dovettero annettere a tale acclamazione, situata nel contesto delle Laudes regiae, il senso di elevazione imperiale. Non sorprende allora che gli Annales Regni Francorum abbiano interpretato la cerimonia in questo modo: "abbandonato il titolo di patrizio, fu designato con il nome di imperator e augustus":  quell'acclamazione per i Franchi altro non fu che la prima occasione in cui a Carlo si attribuì il nomen imperiale. La cerimonia in tale modo armonizzava perfettamente con la mentalità impe­riale franca, secondo cui Carlo già possedeva un potere imperiale e gli mancava soltanto il nomen imperatoris.

Secondo la mentalità romana invece l'acclamazione doveva avere un valore costitutivo, in linea con la lex regia di Ulpiano.

Tuttavia si deve rilevare che nel cerimoniale adottato a Roma l'atto giuri­dicamente costitutivo dell'acclamazione non trovò una collocazione autonoma e previa rispetto al rito dell'incoronazione: senz'altro nel rito romano il carattere costitutivo dell'acclamazione divenne meno evidente che nel rito bizantino. Si deve quindi concludere che gli ambienti papali, collocando al primo posto l'incoronazione per mano del pa­pa e collocando al secondo posto l'acclamazione, hanno voluto attribuire al papa più che al popolo romano il potere di costituire l'imperatore nella sua autorità? Risponderei senz'altro di no: si tenga presente che il pre­stigio morale e politico di Leone III in quel momento era troppo precario, perché potesse pretendere ed osare tanto; si tenga presente ancora che secondo la concezione sacramentaria del tempo il ruolo del sacerdote aveva solo un carattere strumentale: vero soggetto agente era Dio; infine si consideri la mentalità espressa dal Liber pontificalis: "et ab omnibus constitutus est imperator Romanorum": negli ambienti pontifici dunque non si giunse a riservare ai papa l'atto costitutivo. Pertanto la collocazione data all'accla­mazione si può spiegare a mio avviso in due modi. Una spiegazione minima­listica: alla base di tale collocazione non c'é una particolare motivazio­ne ideologica, ma semplicemente il fatto che a Costantinopoli da un secolo non si celebravano più elevazioni di Hauptkaiser e pertanto era considerato solo lo schema usato per i Mitkaiser (incoronazione, acclamazio­ne augurale e proskunesis) e questo fu ricopiato dagli ambienti romani.

Una spiegazione più impegnativa: alla base di tale collocazione della acclamazione dopo l’incoronazione papale ci sarebbe l'idea secondo cui non si può più compiere una elevazione imperiale senza la partecipazione del papa: avremmo quindi una mossa innovatrice dell’ambiente papale.

Con l'incoronazione di Carlo Magno dunque si conclude un certo periodo di sviluppo della storia            pontificia: si compie cioè quel processo di separazione dal dominio bizantino, che era iniziato già nel III secolo. Come risultato ne viene che praticamente abbiamo due imperi e due centri ecclesiastici (Costantinopoli esercita in oriente funzioni di tipo primaziale, anche se riconosce Roma come sede del papato).

In Occidente inizia una nuova epoca: la cristianità occidentale ha due capi: il papa e l'imperatore, quindi già comincia a profilarsi quella tensione bipolare, che impegnerà la cristianità medievale fino a Ludovico il Bavaro. Roma, che per un certo tempo aveva cullato sogni di autonomia quasi imperiali (cfr Constitutum Constantini), vede svanire il suo sogno: Carlo diventa sovrano vicino ed attivo del Patrimonium sancti Petri: se ne ebbe subito la dimostrazione allorché Carlo, una volta divenuto imperatore, procedette alla condanna dei cospiratori (la pena di morte, decretata da Carlo, fu poi commutata in esilio su richiesta del papa Leone III). Il papa è soltanto amministratore di un territorio, che con il Natale dell'800 non ha travato indipendenza, ma ha soltanto cambiato sovrano.

Si noti poi che il nuovo impero nasce nell'incertezza: incertezza, come abbiamo visto, circa il valore della cerimonia dell'incoronazione; incertezza circa le dimensioni del nuovo impero: comprende anche l'Oriente? Da una parte la convinzione classica, secondo cui l'impero sarebbe essenzialmente unitario, lo farebbe supporre; dall'altra la situazione concreta depone in senso contrario. Si tratterebbe allora soltanto di un impero occidentale, contrapposto a quello orientale? In questo caso, quale dei due rappresenterebbe la continuazione del vecchio ed unico impero romano?

Sarà con il passare del tempo che l'impero carolingio assumerà contorni più precisi!

 

5 – Gli sviluppi dell’impero carolingio (800-814)

Un primo passo verso la precisazione dell'impero carolingio è segnato dalla “intitulatio", adottata da Carlo Magno a partire dal 29 maggio 801: “Karolus serenissimus augustus a Deo coronatus magnus pacificus imperator Romanum gubernans imperium (non imperator Romanorum), qui et per misericordiam Dei rex Francorum et Langobardorum”.

Si noti che mentre da una parte si parla di " rex Francorum et Langobardorum” dall'altra non si ricorre alla corrispondente espressione "imperator Romanorum", ma si preferisce invece sostituire il genitivo Romanorum" con la circonlocuzione "Romanum gubernans imperium”. Siffatto artificio mostra che Carlo non voleva legare la sua imperialità al solo popolo romano (imperator Romanorum). né voleva collocare i Romani in posizione di priorità rispetto
ai Franchi e Longobardi (non mette prima imperator Romanorum e poi rex Francorum e Langobardorum): Carlo non voleva cioè che si interpretasse tale intitulatio nel modo seguente: Carlo è prima di tutto imperatore, in quanto è sovrano dei Romani, che sono popolo imperiale e poi in secondo luogo Carlo è re dei Franchi e dei Longobardi. Carlo invece volle presentarsi come uno, che era imperatore, in quanto governava sia su quella entità geografico-politica, che era comunemente indicata con l'espressione "imperium Romanum" sia sul popolo dei Franchi e dei Longobardi. In questa prospettiva l’imperialità appare come una dignitas, che sia sotto il profilo cronologico, sia sotto il profilo logico consegue a una potestas augustale già presente. La distinzione tra potestas e dignitas (e nomen) sarà poi un elemento costante ed essenziale nell'impero medievale.

Questa distinzione non deve però portare a sottovalutare il peso politico della dignità imperiale: nell'anno 802 Carlo pretese da tutti i suoi sudditi il giuramento di fedeltà in nomen Caesaris: ciò mostra che la dignitas, il nomen di imperatore, per il loro prestigio morale, dovevano svolgere la funzione di ricondurre ad un unico e comune denominatore le varie entità politiche, che sottostavano a Carlo per diverso titolo potestativo (quale rex, quale patricius…).

Un secondo passo verso una più precisa definizione dell'impero carolingio fu compiuto nel contesto delle relazioni diplomatiche con l’impero costantinopolitano. Nell'anno 802, su iniziativa dell'imperatrice Irene, Costantinopoli ed Aquisgrana divennero teatro di trattative. Anche Niceforo, dopo avere detronizzato Irene (31 ottobre 802), volle continuare a trattare con Carlo. I contatti furono bruscamente interrotti nell’803, quando le due parti vennero a contrasto per la simultanea pretesa di volere esercita­re il loro potere sovrano su Venezia e sulla Dalmazia: negli anni 806-810 si addivenne anche ad azioni militari. Finalmente nell'810 le due parti tornarono ai negoziati, che giunsero a conclusione nell'812, sotto il nuovo imperatore bizantino Michele: i bizantini riconobbero Carlo come imperatore. Ma per capire la mentalità soggiacente, per cogliere l'interpretazione bizantina dell'impero di Carlo, si deve prestare attenzione ad una sfumatura terminologica: Carlo ricevette il semplice titolo di basileus, l'imperatore bizantino invece da allora cominciò ad essere indicato dalla cancelleria bizantina come basileus Romaion: con ciò evidentemente si voleva affermare che vero impero romano era solo quello bizantino. L'impero carolingio invece altro non era che un fatto onorifico, altro non era che un modo per distinguere il regno plurinazionale dei Franchi dagli altri regni d'Occidente. Evidentemente Carlo, poco incline a cogliere le sfumature dei bizantinismi, dette al riconoscimento un valore ben diverso: Carlo si sentiva imperatore d'Occidente così come Michele era imperatore d'Oriente e pertanto al collega bizantino tranquillamente si rivolgeva come a fratello. Ad ogni modo sta il fatto che con il riconoscimento bizantino l'impero carolingio acquistò una base di diritto internazionale.

Nel settembre 813, pochi mesi prima della sua morte, Carlo compì un terzo passo verso una più precisa definizione del suo impero: decise di "creare" co-imperatore e quindi suo successore l'unico figlio legittimo, che gli era rimasto, Ludovico. La cerimonia fu celebrata nella cappella palatina di Aquisgrana: sull'altare era deposta la corona imperiale; Carlo Magno dal trono rivolse al figlio un'allocuzione, in cui venivano esposti i doveri di governo; Ludovico rispose con il giuramento di adempiere con fedeltà i doveri del suo ufficio; infine Carlo Magno stesso passò alla incoronazione del figlio. Si noti che si trattò di una incoronazione laica e franca, che non vide la partecipazione né del papa, né del popolo romano. Venne così respinta ogni tendenza, mirante a fare del papa e del popolo romano dei "creatori di impero". Colui che creava il nuovo imperatore era Carlo; l'atto che conferiva l'impero non era più l'acclamazione, ma l'incoronazione; i grandi del regno franco espressero un consenso, che con ogni probabilità non aveva valore costitutivo. Abbiamo dunque una nuova idea di impero: non un impero romano, ma un impero franco-aquisgranense. Il suo carattere franco si espresse anche nel fatto che si attenne alla concezione patrimoniale-dinastica del potere: è l’impero dei carolingi.

A questo punto possiamo sinteticamente presentare i caratteri, che definiscono l'impero carolingio:

1 - Carlo Magno ha una dignità imperiale che si colloca accanto a quella dell'imperatore d'Oriente;

2 - in Occidente per la sua dignità imperiale, Carlo gode di una precedenza di dignità sugli altri re cristiani esistenti: costoro tuttavia non gli devono nessuna dipendenza di carattere giurisdizionale;

3 - all'interno del dominio carolingio la dignità imperiale deve favorire l’unità politica delle varie componenti etniche e politiche;

4 - in caso di difficoltà, l'imperatore carolingio deve difendere la Chiesa romana ed il patrimonium beati Petri (la defensio Romanae Ecclesiae è componente essenziale della imperialità medievale ed è la ragione del sue ca­rattere sacrale).

Quando nell'814 Carlo Magno muore, tutto sembra oramai regolato: ma i Franchi dovettero presto accorgersi che così non era: la saldezza dell'impero era dipesa dalla persona di Carlo più che dalle strutture politiche, che Carlo aveva creato!

 

6 – Gli sviluppi dell'impero sotto Ludovico il Pio (814 – 840)

Nell’azione di governo di Ludovico il Pio possiamo distinguere due periodi:

a)     primo periodo: dall'anno 814 all’822 circa Ludovico agisce soprattutto sotto l’influenza di s. Benedetto di Aniane, il secondo padre del benedettinismo, che muore nell'821. Si tratta pertanto di un periodo caratterizzato da un forte slancio ideale, che si esprime in una notevole azione, tendente al consolidamento dell'impero in unità, mediante un ricupero ed una riorganizzazione della comune fede cristiana.

       L’atto che più manifesta questa esigenza di consolidamento dell’impero in unità è la “ORDINATIO IMPERII” dell’817 (MGH Capitularia I, n.136, p.270 ss)

· contenuto: il maggiore dei tre figli, il ventiduenne Lotario, viene proclamato e incoronato co-imperatore dal padre Ludovico in Aquisgrana, imitando quanto aveva compiuto Carlo Magno nell’813: Lotario poi dovrà essere l'unico erede dell'imperialità paterna. Gli altri due figli invece sono posti a capo di due regni parziali (Pipino: re di Aquitania; Ludovico il Germanico: re di Baviera), con il dovere di subordinazione alla suprema autorità imperiale del padre prima e di Lotario poi. Si noti che a questo punto l’impero appare come un'entità unitaria, comportante dei distretti autonomi. Infine viene proibita per il futuro una ulteriore divisione tra eventuali eredi.

· significato: é espresso nel preambolo della "Ordinatio”: "impedire che l’amore e la benevolenza verso i figli portino a spezzare con divisioni operate dalla mano dell’uomo quella unità dell’impero, che Dio ha voluto preservare per noi: ché in quel modo grave dolore ne vorrebbe alla santa Chiesa e noi ci meriteremmo l’ira di Colui che è la sola fonte del diritto di tutti i regni". Si noti come alla base di tale “Ordinatio” ci sia il principio teologico dell'unità della Chiesa, che coincide (nella concezione del tempo) con l'impero. Il fratello maggiore Lotario, per il  servizio di tale unità, riceve in esclusiva l'imperialità, che gli conferisce un potere giurisdizionale sugli altri fratelli. Si noti ancora che la decisione fu presa dopo tre giorni di digiuno e di preghiera: con ciò si voleva lasciare a Dio la responsabilità della decisione, che pertanto veniva ad assumere il carattere di decisione ispirata.

Dal fatto che il consolidamento dell'impero in unità si fondava sul principio teologico dell'unità della Chiesa, derivò la preoccupazione di collocare la decisone politica della "Ordinatio" in un contesto di ristrutturazione ecclesiastica: ciò si espresse negli anni che vanno dall’816 all'819, in una serie di assemblee tenute ad Aquisgrana. Nell'assemblea dell’816 furono stilati due documenti: il primo riguardava i canonici delle cattedrali, che furono sottomessi a una certa vita comune e claustrale (Institutio canonicorum: MGH Concilia II, p. 312-421); il secondo riguardava invece le monache (ibid. p. 422-456).

Una seconda assemblea, tenutasi nell’817, emanò un documento riguardante i monaci, che furono sottoposti in blocco alla regola benedettina secondo le consuetudini di s. Benedetto di Aniane (ibid. p. 464-465; anche MGH Capitularia I, nn. 170 e 171, p. 343 ss).

Infine un'altra assemblea, svoltasi nell'818-819, promulgò una serie di testi miranti alla riforma dell'episcopato e, più in generale, del clero secolare (MGH Capitularia I, nn. 137 e 138, p. 273-280).

Ci rimane da vedere quale sia stata la relazione tra i due poli dell'imperium christianum in questo primo periodo del governo di Ludovico il Pio.

Due sono i fatti salienti.

Il successore di Leone III (+ 12 giugno 816), Stefano IV, nell'ottobre di quell’anno volle recarsi in Francia per avervi un incontro con Ludovico. L'incontro si svolse a Rei ms e fu caratterizzato da una cerimonia significativa: il papa volle incoronare Ludovico con una corona, portata da Roma e fatta risalire addirittura a Costantino: certamente tale incoronazione non ebbe nessun valore costitutivo (tale valore infatti era insito nella inco­ronazione di Aquisgrana dell’813): eppure tale incoronazione agli occhi del papa doveva avere un valore particolare, doveva cioè esprimere l’opposizione romana all'impero aquisgranense ed affermare il carattere romano-ecclesiastico dell'impero carolingio.

     Il punto di vista imperiale circa Roma ed il papato fu invece enunciato da Ludovico il Pio nel celebre "Ludovicianum” emesso il 24 gennaio 817 e ricevuto a Roma da un papa nuovo, Pasquale II, dal momento che Stefano IV non aveva retto alle fatiche del viaggio in Francia ed era morto poco dopo il ritorno.

In questo privilegio Ludovico concede libere elezioni del papa: l’elezione deve essere comunicata all’imperatore dopo la consacrazione, pertanto Ludovico non si riservava nessun diritto di approvazione; in secondo luogo si concede al papa libertà di azione nell’amministrazione del patrimonio di san Pietro: l’imperatore si riservava di intervenire  come suprema istanza di appello nel caso di oppressione dei cittadini da parte dell'amministrazione pontificia (MGH Capitularia I, n. 172, p. 352-355) .

 

b) secondo periodo: dall’822 all’840 (morte di Ludovico il Pio): in questo periodo inizia il processo di disgregazione dell'impero carolingio, sottoposto all'assalto da parte di diverse tendenze particolaristiche. Venuto meno Benedetto di Aniane, Ludovico il Pio si trovò condizionato dalle pressioni di alcuni gruppi. Un primo gruppo era costituito dall’entourage di Lotario e difendeva accanitamente la "Ordinatio" dell'817. Un secondo gruppo faceva capo alla seconda moglie di Ludovico il Pio, la bellissima ma assai intrigante Giuditta, che invece mirava ad una revisione della "Ordinatio imperii", in quanto tale provvedimento non concedeva nulla a Carlo (che poi sarà detto il CaIvo), il figlio che aveva avuto da Ludovico il Pio nell’823, quindi dopo l’Ordinatio.

In un primo momento ebbe la meglio il gruppo di Lotario, che riuscì a spingere Ludovico verso una politica di impronta unitaria secondo lo spirito della "Ordinatio imperii": espressione di ciò fu la "Constitutio Romana” del novembre 824, in cui la relazione papato-impero fu modificata rispetto al "Ludovicianum” per rendere più rigorosa l'unità dell'impero.

·  Invece di un'amministrazione pontificia, sottoposta all'istanza suprema e straordinaria dell'imperatore nei soli casi di oppressione, la Constitutio Romana prevedeva una ordinaria commissione di vigilanza, residente a Roma e composta da un rappresentante imperiale e da un rappresentante papale;

·  quanto all'elezione del papa, la Constitutio Romana non si accontentava più di una comunicazione all'imperatore a consacrazione già avvenuta, ma stabiliva che l'eletto prima della consacrazione dovesse prestare pubblicamente, di fronte al delegato imperiale, un giuramento di fedeltà all'imperatore (MGH Capitularia I, n. 161, p. 323-324).

A partire dell’829 invece la politica di Ludovico il Pio fu nettamente influenzata dal gruppo di Giuditta e pertanto assunse un orientamento decisamente ostile alla "Ordinatio imperii" e a Lotario, per favorire il piccolo Carlo. Poiché le concessioni a Carlo venivano fatte a danno degli altri tre fratelli, si costituì una coalizione tra Lotario, Pipino e Lu­dovico il Germanico contro il padre. Ludovico il Pio, dopo d'avere domato una prima ribellione nell’830, nell'833 invece si trovò perdente e costretto a una umiliante deposizione: Giuditta e Carlo furono senz'altro accantonati. Ma a questo punto la coalizione dei tre fratelli si spezzò: Pipino e Ludovico il Germanico, per raggiungere una indipendenza sovrana nei loro rispettivi  territori, cominciarono ad avversare il potere di Lotario.

Il primo marzo 834 Lotario fu costretto alla fuga e Ludovico il Pio ritornò sul trono imperiale: pero oramai non era che un imperatore debole, a capo di un impero notevolmente dilacerato.

Gli ultimi anni di Ludovico il Pio furono occupati soprattutto dal problema della successione e della spartizione territoriale tra i figli: la questione trovò soluzione nell'839.

·   Pipino morì prima dell'intesa e i suoi figli rimasero senza eredità;

·   Ludovico il Germanico, allora in lotta con il padre, ricevette soltanto la Baviera;

·   la parte restante fu divisa in due parti uguali tra Carlo il Calvo e Lotario; Carlo ottenne le terre ad ovest del Rodano, della Saona e del­la Mosa più le contee di Lione, Ginevra, Toul e Provenza; Lotario ottenne le terre ad est.

La divisione divenne effettiva alla morte di Ludovico il Pio ( 22 giugno 840).

 

7 - Gli sviluppi dell’impero carolingio dall’840 al 924

Alla morte di Ludovico il Pio Lotario assunse il titolo imperiale e si accinse ad interpretarlo secondo gli orientamenti della "Ordinatio imperii", cioè come supremazia giurisdizionale sui regni dei fratelli. La cosa suscitò im­mediata razione da parte di Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo, che si allearono e nell’841 infersero al fratello una pesante sconfitta militare.

Le trattative successive portarono al fondamentale trattato di Verdun dell’agosto 843. Questo trattato stabili la spartizione dell'impero in tre parti uguali quanto a dimensione e quanto a carattere politico: Carlo il Calvo ebbe le terre occidentali dell'area francese; Ludovico il Germanico quelle orientali dell'area germanica; Lotario le terre interne, dalla Frisia alla Campania, comprendenti Aquisgrana e Roma, le due città imperiali. A questo punto anche per Lotario l'imperialità é ridotta solo a priorità onorifica: l'idea del primato giurisdizionale in funzione dell'unità é completamente accantonata!

Si noti pertanto che con la spartizione dell'impero in tre entità politiche indipendenti, l'impero cessa di essere un'unità realistico-territoriale sottoposta all'unico potere giurisdizionale dell'imperatore. L'unità dello impero ora sopravvive solo a livello ideale-ecclesiastico, come societas, che trova          suo unico criterio di unità nella comune fede cattolico-romana, di cui l’imperatore continua ad apparire come l’autorevole defensor. Ma è chiaro che questa rilettura ideale-ecclesiastica dell'impero finisce col dare al papato un ruolo di primo piano all'interno di tale entità.

Questa osservazione ci consente di capire quanto avvenne nell'850. Lotario si trovò a sua volta a dovere dividere il suo territorio (la Francia media) tra tre figli: al maggiore Ludovico II toccarono il regno d'Italia e la corona imperiale; al secondogenito Lotario II toccarono le terre più settentrionali dalla Frisia al Giura (Lotharii regnum da cui Lotaringia); al terzogenito Carlo toccarono le terre dal Giura alla costa Azzurra, correntemente dette regno di Provenza. Si noti che la base realistico territoriale del nuovo imperatore Ludovico II si riduce all' Italia Longobarda e non comprende Aquisgrana: l'impero cessa di essere franco aquisgranense.

Che cosa fa sì che il re di quel ristretto lembo di terra, che è l'Italia Longobarda, si imponga sugli altri re, che territorialmente non gli sono inferiori? Che significato assume in tale situazione il titolo imperiale? La risposta é data da Lotario stesso nell'850, quando, volendo elevare Ludovico Il al ruolo di co-imperatore, non compì l’usuale incoronazione aquisgranense, ma mandò il figlio a Roma, perché ricevesse l’incoronazione dal papa Leone IV. Così il titolo imperiale veniva a connettersi strettamente con il carattere ideale-ecclesistico dell'impero, assumendo il significato di dovere-diritto esclusivo in ordine alla defensio Romanae Ecclesiae, diritto­-dovere legato con la situazione di re d'Italia. Oramai ciò che distingue l’imperatore dagli altri re carolingi é la sua prerogativa esclusiva di defensio Ecclesiae.

In questa prospettiva il papato venne ad acquisire in ordine all’impero un diritto, che non gli sarà più negato per tutto il Medio Evo: il diritto esclusivo di consacrare-incoronare l'imperatore, defensor Ecclesiae. L'anno 850 pertanto segnò la vittoria del carattere ecclesiastico dell'impero: distrutta la base realistico-territorlale, la dignitas imperiale doveva appoggiarsi sul papato e sulla Chiesa romana, se voleva conservare un certo splendore universalistico. Questo dato di fatto é riconosciuto dallo stesso Ludovico lI in una lettera indirizzata all'imperatore bizantino Basilio I, lettera redatta dagli ambienti pontifici e precisamente dal celebre bibliotecario Anastasio. Vi si legge: “I principi franchi, che prima possedevano il titolo di re, hanno conseguito poi quello di imperatore a partire dal momento in cui hanno ricevuto a questo proposito dal papa l'unzione con l'olio santo... Gli stessi suoi zii Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico poi riconoscono la dignità imperiale a lui, Ludovico II, non già in ragione dell'età… ma in seguito all'unzione dell'olio santo, conferita dal romano pontefice” (MGH Epistolae VII, p. 385-394).

Nel contesto della pluralità di pretese alla corona imperiale, conseguente alla pluralità dei regni carolingi, il papato, quale coronator-consecrator esclusivo, venne anche ad acquistare la possibilità di influire sulla scelta di colui, che doveva essere incoronato. Infatti Giovanni VIII giunse ad affermare che "colui che deve essere incoronato, deve prima venire chiamato e scelto dal papa" (MGH Epistolae VII, n. 163, p. 133).

Non sorprende quindi se nell'875, alla morte di Ludovico II, che non lasciava eredi, la volontà di Giovanni VIII fu determinante in ordine alla elevazione imperiale di Carlo il Calvo (+877). Di nuovo, alla morte di Carlo il Calvo, Giovanni VIII si comportò da principale dispensatore della corona imperiale e nell’881 incoronò Carlo il Grosso, figlio di Ludovico il Germanico.

Nell'888, con la morte di Carlo il Grosso, il titolo imperiale cessò di essere una prerogativa della legittima dinastia carolingia e fu attribuito a coloro, che disponevano del potere in Italia: si trattò di personalità di esiguo valore ed anche il titolo imperiale divenne sempre più insignificante, al punto che dal 924 non fu più attribuito.

La grandiosa costruzione di Carlo Magno si trovò sottoposta allo stesso processo di disgregazione, che aveva determinato il tracollo della monarchia merovingia, in quanto della monarchia merovingia aveva conservato le caratteristiche: concezione patrimoniale del potere sovrano, conseguente spartizione della base realistico-territoriale del potere, conseguente indebolimento del potere dinastico ed esposizione agli assalti particolaristici.

[Altri fattori contribuirono a determinare il crollo carolingio: a) carattere plurinazionale del dominio carolingio: le notevoli diversità etniche non favorivano certo la coesione; b) la debolezza fisica dei carolingi, spesso stroncati in giovane età da gravi disfunzioni di natura circolatoria; c) gli assalti esterni ad opera di orde barbariche: Musulmani, Normanni, Ungari].

 

8 – Dall’impero carolingio all’impero ottoniano (924-962)

L' aspetto più, macroscopico in questa fase della storia occidentale é rap­presentato dall’accentuarsi del processo di frantumazione particolaristica, avviatosi ufficialmente con il trattato di Verdun.

A dire il vero, sotto Carlo il Grosso, per una fortuita coincidenza, si era ricostituita l’unità del dominio carolingio, infatti, essendo venuti meno gli eredi legittimi sia della linea lotarica, sia della linea di Carlo il Calvo, l' unico superstite della linea di Ludovico il Germanico, Carlo il Grosso appunto, venne a trovarsi a capo di tutto il dominio. Ma alla fine della vita di Carlo il Grosso (deposizione nell’887 e morte nell’888) tutto tornò a sfaldarsi.

Si formarono vari regni, dei quali noi considereremo solo i più importanti.

a) Regno di Francia: il potere fu per lo più nelle mani di un ramo spurio della dinastia carolingia, ma continuamente fu sottoposto al ridimensionamento sotto due profili:

·           da una parte la dinastia carolingia dovette fare i conti con il potente gruppo nel Robertingi, che alla fine  nel 987 con Ugo Capeto sostituì  nel ruolo monarchico la dinastia carolingia;

·           dall'altra parte la dinastia carolingia prima e quella capetingia poi dovettoro sempre fare i conti con la realtà feudale. Dal fatto che sia l’impero in generale sia i singoli regni in particolare erano lacerati da continue lotte interno ed assaliti da ondate di barbari, conseguì uno sviluppo accelerato ed anarcoide del feudalesimo, che pertanto prese una direzione che Carlo Magno non aveva previsto. In un primo momento i detentori di benefici vendettero la loro fedeltà a quello tra gli aspiranti al regno che offriva di più e domandava di meno: ne venne una progressiva vanificazione della dipendenza feudale.

Poi, a mano a mano che la paralisi del governo centrale si aggravava, i singoli detentori di benefici si sostituirono ad esso nei compiti indispensabili di difesa ed amministrazione delle loro terre, governandole con poca o nessuna considerazione degli interessi superiori dal sovrano (alla fine del secolo IX in Francia già si contavano 29 entità politiche distinte; alla fine del X secolo erano salite a 55). Di fronte a queste entità sempre più autonome e sempre meno controllabili la monarchia dovette arrendersi ed accettare di governare, sottoponendosi alla condizione del previo consenso dei signori feudali. Evidentemente la presenza di centri di potere incontrollabili degenerò in una continua azione dei più forti per sottomettere a sé i più deboli: fu l'anarchia! Diverso strutture ecclesiastiche si trovarono coinvolte in questo stato di cose e finirono travolte!

b) Regno d’Italia: alla morte di Carlo il Grosso qui non si impose nessun esponente diretto del ramo carolingio; pertanto il problema del potere in Italia generò lotte continue tra i centri di forza, che si erano creati sul suolo italiano: marca della Toscana, ducato di Spoleto, ducato del Friuli, ducato di Ivrea. Alla lotta talora presero parte anche potenze non italiane,  quali il vicino signore della Provenza ed il vicino signore della Borgogna. Anche qui dunque  fu estrema instabilità politica, fu anarchia!

c) Regno di Germania: anche qui alla morte dì Carlo il Grosso si impose un ramo spurio della dinastia carolingia, prima nella persona di Arnolfo, nipote di Ludovico il Germanico, poi nella persona di Ludovico il Fanciullo, figlio di Arnolfo, che aveva solo 6 anni. Assunse la reggenza Hatto, arcivescovo di Magonza. Anche qui si sviluppò un processo di frazionamento, ma con caratteri diversi rispetto a quanto si è riscontrato in Francia. Nel regno di Germania la franchizzazione non era ancora penetrata in profondità e pertanto la particolarizzazione non si operò in base alle esigenze del sistema feudale, ancora embrionale, ma secondo il criterio dell'appartenenza etnica: si trattò pertanto di una frantumazione di proporzioni assai ridotte e quindi facilmente controllabile da parte di un potere monarchico forte. Praticamente si formarono cinque ducati etnici: il ducato di Baviera, il ducato di Franconia, il ducato di Svevia, il ducato di Sassonia, il ducato di Lotaringia.

Alla morte di Ludovico il Fanciullo (911), rimasto senza eredi legittimi, il potere monarchico passò al duca più forte del momento: il duca Corrado di Franconia. Fu eletto con qualche esitazione dai Franconi, dagli Svevi e dai Sassoni, mentre i Bavari non espressero il loro consenso. Il desiderio era infatti che il sovrano fosse debole il più possibile, così che non potesse contrastare gli interessi particolaristici. Alla morte di Corrado il potere monarchico passò nelle mani di un altro duca, che nel frattempo era divenuto assai potente, il duca Enrico I di Sassonia, padre di Ottone I. La cosa fu decisa da Corrado, che sul suo letto di morte consegnò ad Enrico I di Sassonia le insegne regali: corona, scettro, bastone, spada, mantello di porpora con fermagli d’oro. Ad Enrico I riuscì di imporre il suo potere sovrano sugli altri duchi, riducendoli al ruolo di rappresentanti della monarchia. Venne così a costituirsi una egemonia federale, realizzata sotto la forma del diritto feudale (cfr  H. MITTEIS, Le strutture giuridiche e politiche dell’età feudale, Brescia 1962, 138). Ciò ebbe poi una chiara dimostrazione nel 936, quando Ottone I, il figlio di Enrico I, assumendo il potere regale, ritenne di avere una forza tale da potersi richiamare addirittura a Carlo Magno: infatti si fece incoronare ad Aquisgrana e durante la cerimonia i duchi gli prestarono giuramento di fedeltà.

In questa prospettiva il potere dei duchi divenne una relazione di vassallaggio nei confronti del re tedesco. Stante questa situazione di forza della monarchia, in questa parte dell’Occidente si ebbe la pratica assenza della instabilità politica e della anarchia, riscontrate altrove. Ma questa forza della monarchia tedesca si espresse soltanto in una politica di coesione interna, impostasi attraverso le relazioni vassallatiche, oppure era in grado di irradiarsi anche all'esterno, dando vita a più ampie coesioni in Occidente? La risposta si avrà nell'impero ottoniano!

d) Patrimonio di S. Pietro: il periodo, di cui ci stiamo occupando, è passato alla storia come il secolo oscuro del papato: l'inizio è segnato dall’assassinio di Giovanni VIII, cui fu somministrato del veleno e fu fracassata la testa a martellate (882).

[Coloro che accostano il passato, mossi non tanto da preoccupazioni storiche, ma piuttosto dal gusto di curiosità e del piccante, possono senz'altro rinvenire adeguate informazioni in: LIUTPUANDO DA CREMONA, Antapodosis : MGH III Scriptores III, p. 273-363. Non tutto ciò che vi si afferma è da prendersi come oro colato: Liutprando era così appassionato del morboso e degli intrighi, da forzare con la sua immaginazione la realtà, quando. non era sufficientemente gustosa!].

Una prima cosa che balza all’occhio, considerando il papato del secolo oscuro, è il numero rilevante di papi, che si succedono sulla sede di Pietro: in 73 anni, dall'882 al 955, 24 papi: ciò fa intuire come tale momento sia stato caratterizzato da una grave instabilità.

Un seconde rilievo: occorre tenere presente la tensione all'interno del popolo romano circa la politica italiana: già dicemmo che l'Italia, dopo Carlo il Grosso, divenne terreno di contese tra vari centri di potere: il papato, per via della sua prerogativa in ordine alla concessione del­la corona imperiale, si trovò a dovere prendere posizione o per un partito o per altro. Ne conseguì che in Roma vennero a formarsi due tendenze:

+   quella che voleva privilegiare il vicino e potente duca di Spoleto, in quanto la sua vicinanza poteva così trasformarsi in aiuto contro le incursioni saracene nelle terre meridionali del Patrimonio;

+  quella che invece osteggiava il duca di Spoleto, in quanto questi consolidava il suo dominio a spese del Patrimonio di san Pietro.

In seguito al pontificato di papa Formoso la tensione e la contrapposizione politiche divennero anche tensione e contrapposizione ecclesiali:

+        da una parte i formosiani, anti-spoletani;

+        dall'altra gli anti-formosiani, filo-spoletani.

Papa Formoso (891-896) in un primo momento del suo pontificato parve appoggiare la corrente filo-spoletana, infatti nell’892 conferì la corona imperiale a Lamberto, figlio del duca di Spoleto Guido: Lamberto divenne così co-imperatore con il padre Guido. In seguito però papa Formoso mutò atteggiamento per via della politica espansionista di Lamberto nella zona di Benevento e concesse la corona imperiale al re di Germania, Arnolfo (896).

Di li a poco, alla morte di papa Formoso, il partito filo-spoletano riuscì a prendere il potere nelle sue mani ed impose come papa un suo candidato: Stefano VI. Si giunse così a scrivere una delle pagine più macabre della storia del papato: si volle sottoporre papa Formoso, morto già da nove mesi, ad un processo. Se ne riesumò quindi la salma, la si rivestì degli abiti pontificali, la si fece comparire di fronte ad un concilio, riunito in S. Giovanni in Laterano e se ne condannò la memoria. Si procedette perciò alla svestizione del cadavere (= deposizione), si amputarono due dita della mano destra (=annullamento dei suoi atti pontifici), si buttò la salma prima nella fossa dei forestieri e poi nel Tevere. Questa condanna fu motivata non da accuse di immoralità (papa Formoso era stato persona di notevole integrità morale e di rigore ascetico: sul suo cadavere fu rinvenuto un cilicio), ma piuttosto con accuse di natura giuridica: prima di diventare vescovo di Roma Formoso reggeva la sede episcopale di Porto, e, secondo il diritto canonico del tempo, non era lecito, né legittimo che un vescovo passasse da una sede ad un'altra: ciò era considerato come un divorzio dalla prima sposa ed un adulterio.

Evidentemente il partito dei formosiani non poté sopportare una tale esasperante procedura e con un colpo di mano depose papa Stefano VI, che fu chiuso in carcere, dove fini i suoi giorni strozzato! Gli anni successivi furono sottesi dalla tensione costante tra i due gruppi, finché nel 904 con papa Sergio III prese saldamente il potere il gruppo degli anti-formosiani. In verità si trattò dell'abile manovra di una famiglia romana, che aveva pensato di imporre il proprio potere sfruttando le ten­sioni, che indebolivano il papato. Venne così alla ribalta della storia la famiglia di Teofilatto, affiancato dalla moglie Teodora, una ninfomane, e dalle due degne figlie di tanta madre, Marezia e Teodora junior. Teofilatto si schierò dalla parte di Sergio III per un calcolo politico: Sergio, eletto papa dagli anti-formosiani nell’898, non era riuscito ad imporsi sull'eletto dai rivali e si era dovuto rifugiare presso il duca di Spoleto. Ora Teofilatto aveva capito che, appoggiando Sergio, guadagnava senz'altro l'amicizia del duca di Spoleto, Alberico. Infatti, di lì a poco Alberico divenne sposo della figlia di Teofilatto, Marezia e così il potere politico della famiglia di Teofilatto divenne praticamente indiscutibile per più di mezzo secolo: il papato, dal canto suo, non fu che un docile strumento. Alla morte di Teofilatto Roma fu dominata da Alberico e Marozia. Dal 924 il potere rimase nelle sole mani della vedova Marozia, cui nel 931 riuscì addirittura di imporre come papa Giovanni XI, un figlio, che con ogni probabilità – ma senza l’assoluta certezza - aveva avuto venti anni prima da papa Sergio III. Al figlio papa Marozia impose di limitarsi alle sole funzioni liturgiche.

Nel 935, Alberico, nato da Marozia e Alberico di Spoleto, accantonò la madre ed assunse il controllo della città fino al 954: prossimo alla morte, Alberico strappò ai Romani il giuramento che suo figlio Ottaviano (nome prestigioso) sarebbe stato non solo il prossimo duca ma anche il prossimo papa. Infatti nel 955 il dux Ottaviano divenne papa Giovanni XII all'età di sedici anni. Fu il primo papa che cambiò il nome e fu uno dei papi peggiori, che la storia ricordi: si pensi che la fonte più benevola ci tramanda questa descrizione: “Nell’uso del suo corpo fu tanto indecente ed audace, quanto erano soliti esserlo i pagani. La sua occupazione maggiore fu la caccia, come si addice più ad un uomo selvaggio che all'apostolico. Tutti i suoi pensieri furono dediti alle cose vane: amava stare in compagnia delle donne, detestava invece le assemblee liturgiche, cui erano preferite le chiassose compagnie di giovinastri. Si consumò in una libidine tale, che ci mancano parole sufficienti a descriverla" (BENEDETTO DI S. ANDREA sul monte Soratte, Chronicon: MGH Scriptores III, c.27).

 

9 – L’impero romano-tedesco di Ottone

Le premesse della renovatio imperii, che si è compiuta nel 962, sono fondamentalmente 5:

 I.          la notevole posizione di forza della monarchia in Germania. Già abbiamo visto che con Enrico I ed Ottone I la dinastia Sassone è riuscita ad ottenere la subordinazione vassallatica  dei vari centri di potere, che si erano creati in Germania durante il periodo della decadenza carolingia. Questo fatto ebbe un riflesso anche al di fuori dello stesso regno di Germania;

II.        la monarchia tedesca venne ad assumere un ruolo egemonico all'interno dell'apparato carolingio in decomposizione: regno di Borgogna, regno di Provenza e regno di Francia si lasciarono condizionare dalla superiorità di Ottone;

III.        la monarchia di Germania, attraverso l’inclusione dell'Italia longobarda nella sua base realistico territoriale, venne ad assumere un carattere plurinazionale. Qui dobbiamo soffermarci sugli avvenimenti italiani degli anni 950 - 951. Nel 950 moriva il debole re Lotario, che deteneva in Italia la corona regale e subito ne approfittò il più potente signore italiano del momento, Berengario di Ivrea, per assumere il titolo regale. Presto però Adelaide di Borgogna, vedova di re Lotario, si mise a capo di una corrente di opposizione a Berengario e dal carcere, dove fu rinchiusa, riuscì a fare pervenire a Ottone di Germania un appello di soccorso. Re Ottone nel 951 scese in Lombardia, ridusse all’obbedienza Berengario, sposò Adelaide ed a Pavia cinse la corona di re d’Italia.

IV.          La notevole forza del potere monarchico tedesco, il suo carattere plurinazionale, il suo ruolo egemonico all’interno dall'apparato carolingio fatiscente, si collocavano in un contesto culturale caratterizzato da una forte nostalgia imperiale: fiorivano con insistenza ed abbondanza leggende intorno a Carlo Magno; si parlava dell’impero romano-cristiano come dei biblico quarto impero, che avrebbe dovuto durare fino alla fine del mondo. E noi sappiamo che Ottone stesso era suggestionato da queste idee: nel 936 volle farsi incoronare ad Aquisgrana, volle assidersi sul trono, che già era stato di Carlo Magno. Si capisce allora come nel 951, dopo avere cinto la corona di re d’Italia, Ottone abbia inviato una delegazione a Roma per trattare con il papa in vista di una sua prossima incoronazione imperiale, perché era ancora viva la convinzione secondo cui la corona imperiale poteva essere concessa solo dal papa!  La risposta  di papa Agapito II fu negativa. A ciò il papa era stato spinto da Alberico, il signore di Roma, che certo non ambiva ad avere sopra di sé un sovrano imperiale. Ottone ritenne di non dovere insistere ulteriormente, anche perché lo richiamavano in Germania i continui assalti degli Ungari. Lasciò l'Italia, affidandone la cura a Berengario d’Ivrea, che si era fatto suo vassallo.

V.        Ottone si rivelava sempre più sovrano preoccupato della causa cristiana, della defensio Ecclesiae; era del 955 la sua vittoria decisiva sugli Ungari presso Augsburg, vittoria che lo aveva fatto apparire agli occhi della cristianità occidentale come un liberatore. Pure in quegli anni Ottone dette origine ad un'intensa attività missionaria nei territori limitrofi del suo regno.

In relazione a queste cinque premesse possiamo senz’altro rilevare che il potere di Ottone per molteplici aspetti richiama l’impero di Carlo Magno, anche se non può vantare la stessa estensione territoriale. Ma dall’850 era diventata necessaria la disponibilità del papa all'incoronazione imperiale. Questo passo decisivo fu provocate dallo stesso papa Giovanni XII, figlio di quell'Alberico, che nel 951 si era opposto alla incoronazione imperiale di Ottone. Berengario d'Ivrea, incaricato del governo in Italia, già nel 956 aveva intrapreso una campagna di espansione in Italia, che nel 959 era giunta alla conquista del ducato di Spoleto e di alcune città di frontiera del patrimonio di s. Pietro. Papa Giovanni XII, vedendo minacciato il suo stesso potere in Roma, chiese aiuto ad Ottone, offrendogli come premio la corona imperiale. Ottone colse l'occasione, giurò di proteggere la persona del papa ed i territori del patrimonio di S. Pietro e alla fine dell'estate 961 scese in Italia: impose facilmente il suo potere ed all'inizio del 962 marciò verso Roma, dove il 2 febbraio insieme con Adelaide ricevette la consacrazione e la corona imperiale: nasceva quell’impero tedesco, che sarebbe vissuto fino al 1806.

Ottone volle suggellare I’incoronazione concedendo il "Privilegium Octonianum” (MGH Constitutiones I, n.12, p.23 ss) in data 13 febbraio.

Nei privilegio distinguiamo due parti:

Prima parte: Ottone promette di difendere i possedimenti della Chiesa romana, quanto glielo consentiranno le sue forze. In questo contesto           il privilegio passa a descrivere i territori, che dovrebbero essere inclusi sotto la denominazione “possedimenti della Chiesa romana": praticamente viene descritta un'area territoriale corrispondente a quella tracciata da Quierzy. Come si spiega che Ottone abbia accolto una estensione così mostruosa dei possedimenti della Chiesa romana?

J HALLER, Das Papsttum. Idee und Wirklichkeit, II, Stuttgart, 21952, 208-210; 551-552,  sostiene che Ottone, inesperto dei problemi italiani, sarebbe stato ingannato dall'ambizioso Giovanni XII. La tesi di Haller però pare definitivamente superata de uno studio di Stengel (E.E. STENGEL,  Die Entwichlung des Kaiserprivilegs für die Römische Kirche 817 – 962 : Historische Zeitschrift 134 (1926), 216-241). Lo Stengel  mostra che in questa prima parte il privilegio non fa altro che riprodurre fedelmente analoghi privilegi concessi dagli imperatori carolingi in occasione della loro incoronazione. Il prime stadio sarebbe rappresentato dal Ludovicianum, concesso da Ludovico il Pio dopo l'incoronazione di Reims dell'816: l'ultimo stadio sarebbe rappresentato dal privilegio concesso da Carlo il Calvo. Gli imperatori successivi non avrebbero fatto altro che trascrivere i privilegi carolingi precedenti, quale conclusione rituale dell’incoronazione ricevuta. Ottone non avrebbe fatto altro che riprendere tale usanza: pertanto il privilegio nella sua globalità aveva valore di impegno per la defensio Romanae Ecclesiae; i singoli contenuti - anche la descrizione geografica - sarebbero del tutto irrilevanti, in quanto formulario cristallizzato e rituale con cui doveva essere espresso l’impegno globale.

Seconda parte: anche questa parte era divenuta tradizionale e comprendeva le disposizioni imperiali circa l'amministrazione del patrimonio di S. Pietreo, secondo gli orientamenti espressi dalla “Constitutio Romana" dell'824: in particolare vi si disponeva che il papa, una volta eletto e prima di essere consacrato, doveva prestare giuramento di fedeltà all'imperatore, quale suprema istanza di appello per i casi di oppressione.

Questa seconda parte fu rivista e modificata l’anno successivo in occasione di una ribellione di papa Giovanni XII contro Ottone: l'imperatore, tornato a Roma, fece giurare al popolo romano che in futuro non avrebbe eletto nuovi papi senza conferma o disposizione imperiale. Un sinodo riunito in s. Pietro decise la deposizione di Giovanni XII per omicidio, spergiuro, sacrilegio, simonia e lussuria. Divenne papa un laico, Leone VIII, che in un sol giorno ricevette tutti gli ordini.

Non appena Ottone lasciò Roma, Giovanni XII, forte degli appoggi della dame influenti che avevano goduto dei suoi favori, ritornò e facilmente riuscì a fare accantonare Leone VIII, la cui elezione era discutibile, in quanto il diritto canonico vietava che un laico fosse immediatamente elevato alla dignità episcopale. Giovanni XII però non rimase papa che per pochi mesi: sorpreso, mentre stava vivendo una delle sue solite avventure galanti, fu ucciso dal marito della donna, con cui se la stava spassando. Nel 972 Ottone I ottenne il riconoscimento del suo titolo imperiale da parte della corte bizantina.

Sia Ottone I, che visse fino al 7 maggio 973, sia Ottone Il, che mori a 28 anni nel 983, sia Ottone III, che divenne imperatore a tre anni, fecero valere il loro diritto di intervento nella elezione papale, ma, impegnati per lo più in Germania, non furono in grado di garantire ai loro papi un appoggio continuo: ne conseguì che frequentemente la popolazione romana, capeggiata da Crescenzio, un figlio di Teodora junior, sorella di Marozia, accantonava il papa imperiale e imponeva un suo candidato, con azioni violente.

La situazione romana trovò maggiore stabilità, quando Ottone III, divenuto maggiorenne, assunse nelle sue mani il potere imperiale. Figlio di Ottone II e di Teofane, una principessa bizantina, Ottone III era stato educato a nutrire una grande stima per l'antico impero romano-cristiano, pertanto, a differenza dei suoi due predecessori, volle porre il centro del suo potere in Roma più che in Germania. Ciò consentì ad Ottone III di occuparsi direttamente della questione romana: nel 998 fece decapitare il capo della opposizione romana, Crescenzio Il, nel 999 elevò alla cattedra di Pietro il suo vecchio maestro, il grande dotto Gerberto di Aurillac, che prese il nome di Silvestro II: Ottone, quale nuovo Costantino, con il suo papa Silvestro (il papa di Costan­tino), pensava di rinnovare il grande impero romano-cristiano. Ma da una par­te la sua presenza a Roma non era gradita ai Romani e dall'altra la sua assenza dalla Germania gli alienava le simpatie del popolo tedesco.

Nel 1001 una ribellione del popolo romano, capeggiata sempre dalla famiglia dei Crescenzi, costrinse Ottone III e papa Silvestro II alla fuga: Ottone non ebbe più modo di imporsi poiché improvvisamente il 24 gennaio 1002, a soli 22 anni, fu sorpreso dalla morte.

Vorrei ora soffermarmi un attimo sull’impero romano-tedesco: anche qui tro­viamo la distinzione tra dignitas, nomen e potestas.

La base potestativa dell'imperatore tedesco é praticamente costituita da sua base di potere come re tedesco: infatti la incoronazione imperiale conferisce al re tedesco il diritto di portare il nomen di imperatore, per il resto non gli rimangono che i suoi diritti regali sulla Germania e sulla Italia: nei confronti degli altri re cristiani d'Occidente l’imperatore tedesco non godeva di particolari prerogative giurisdizionali.

Si deve tuttavia rilevare che l’unione del nomen imperatoris con la base realistico-territoriale del re tedesco ebbe due conseguenze di rilievo:

+ il nomen imperateris cessò di essere un fatto irrilevante e tornò ad essere prestigioso;

+ la potestas regale tedesca ammantata della dignità imperiale, in connessione con la consacrazione per mano del papa, venne ad assumere in seno alla cristianità occidentale un posto di primo piano ed un carattere universale: solo a lei, tra le varie potestà regali, competeva la defensio Romanae Ecclesiae.

Quanto al conferimento della corona imperiale: abbiamo visto che lo sfaldarsi della base realistico-territoriale dell'impero carolingio, aveva tolto all'imperatore ogni possibilità di fondare la sua distinzione dagli altri re su ragioni di maggiore estensione e di superiorità giurisdizionale: l’imperatore oramai poteva giustificare il suo titolo singolare con il rimando al suo dovere-diritto di difendere la Chiesa (aspetto ideale-ecclesiastico): dimostrazione di questo dato di fatto si ebbe nella rinuncia alle consacrazioni laiche di Aquisgrana e nella scelta della incoronazione da parte del papa. In tale contesto dunque il papato venne ad acquisire il diritto esclusivo di concedere la corona imperiale.

Con la nascita dell'Impero tedesco il diritto papale a dare la corona imperiale venne affiancato dal diritto dei re tedeschi a ricevere la corona imperiale: la forza indiscutibile dei re tedeschi da Ottone I ad Enrico III fece sì che essi potessero venire a Roma e ricevervi la corona imperiale senza mai incontrare resistenze, senza mai che ci fosse qualcuno che ardisse avanzare la più piccola pretesa di approvazione: la superiorità dei re tedeschi era tale che i papi non potevano pensare di concedere la corona imperiale a qualche altro re cristiano dell’Occidente. Venne così a formarsi uno "ius ad imperium" dei re tedeschi, con notevoli conseguenze. Il carattere ideale-ecclesiastico dell'impero, espresso dalla incoronazione per mano del papa (=uno é imperatore in quanto ha da difendere la Chiesa) venne così a trovarsi in tensione con un nuovo carattere, assai realistico: il carattere tedesco dell'impero (=uno é imperatore in quanto é re del forte regno tedesco). Inoltre, in quanto il re tedesco disponeva di uno "ius ad imperium", anche il popolo tedesco venne ad acquisire il carattere di popolo imperiale (= popolo che fa l'imperatore): l'elezione del re tedesco, fatta dal popolo tedesco attra­verso i principi del regno, creava infatti il futuro imperatore; l'elezione del re tedesco pertanto era già il primo gradino di quel processo di elevazione imperiale, che raggiungeva il suo compimento nella incoronazione per mano del papa.

E’ chiaro che una situazione come questa finiva con il creare nell'ambito tedesco una tendenza a ridimensionare il significato e il valore della incoronazione per mano del papa: essa diventava un gesto rituale, giurisdizionalmente non determinante; un gesto che il papa “doveva” prestare in maniera strumentale all'eletto dai tedeschi, il quale ne aveva "diritto”: dunque il diritto papale di incoronare tendeva a trasformarsi per i tedeschi in un dovere.

E’ tuttavia significativo rilevare che non si giunse mai a mettere in discussione la prerogativa papale: e proprio su questa sua prerogativa di consecrator si fonderà il papato, quando vorrà
lottare contro una interpretazione esclusivamente tedesca, e non anche ecclesiastica,  dell'impero.

 

10 – Riflessione sull’Impero medievale prima della Riforma Gregoriana

Dell’impero medievale, che finora abbiamo presentato sotto il profilo fenomenico-fattuale, vorremmo ora operare una ripresa per così dire teoretica, al fine di coglierne le caratteristiche strutturali.  Quanto diremo dell’impero, con le opportune limitazioni, potrà essere applicato ai vari regni cristiani d’Occidente: in questo periodo infatti l'impero rappresenta l’espressione più alta e più significativa del potere secolare.

A.   L'Alto Medioevo non distingue adeguatamente tra Impero, inteso come realtà politico-terrena e Chiesa, intesa come realtà religioso-soprannaturale, anzi Impero e Chiesa universale giungono a sovrapporsi e praticamente coincidono: non per nulla spesso il termine Ecclesia universalis viene usato come sinonimo di Imperium Christianum.

Come si spiega che l'Alto Medioevo, diversamente da noi moderni, non ricerchi tanto gli elementi specifici, che distinguono la società occidentale, tutta cristiana, dalla Chiesa presente in Occidente, ma piuttosto si limiti a considerare gli elementi di convergenza?

La spiegazione fondamentale sta nel fatto che la cultura altomedioevale non conferisce nessuna consistenza autonoma alla realtà temporale. Per comprendere ciò, occorre accennare alla visione cosmologica del mondo altomedievale. L'Alto Medioevo, dato il carattere compilatorio della sua cultura, non ha elaborato una sua propria visione cosmologica, ma ha semplicemente ripreso la visione cosmologica della classicità, così come gli veniva trasmessa da s. Agostino, da s. Gregorio Magno e da s. Isidoro di Siviglia. Questa visione cosmologica faceva ricorso a due schemi culturali. Il primo schema culturale era di suggestione stoica: concepiva il cosmo come un unico corpo universale, in cui trovava composizione unitaria tutto il reale: in chiave cristiana ciò portava ad una interpretazione cristologica ed ecclesiologica di tutto il reale: Cristo ricapitola in sé tutti e tutto, dando vita ad un unico corpo, l'Ecclesia, di cui Lui è il Capo, quale unico e supremo re e sacerdote.

Il secondo schema era di suggestione platonica: il platonismo, come si sa, cercava di superare il dualismo tra mondo sensibile e mondo intelligibile, interpretando il mondo sensibile come immagine del mondo intelligibile, che nel bene trova unità e fulgore. L’antichità classica e cristiana applicarono a questa visione le schema alto/basso, cielo/terra e pertanto pervennero alla seguente conclusione: tra basso e alto, tra terra e cielo vi è continuità, in quanto tra loro intercorre una relazione simbolica (secondo l'idea antica di simbolo, il sensibile, il terrestre sarebbe la parte del simbolo, che diventa comprensibile solo quando può essere accostata all'altra parte del simbolo). Come si vede la cosmologia espressa dai due schemi presenta due caratteristiche, fra loro strettamente connesse: l’unitarietà e la sacralità. Si capisce allora perché l'Alto Medio Evo non conferisce alla realtà temporale-politica una sue consistenza autonoma, ma la considera unicamente nella sua valenza religiosa e quindi giunge ed includerla nella Chiesa come un suo aspetto.

B.     Dal fatte che la realtà temporale-politica non ha una sua consistenza autonoma , ma é un aspetto della Chiesa, deriva che l’autorità imperiale o regale non è autorità profana, non si trova ad agire su un ambito extra-ecclesiale, ma si trova ad agire all’interno della Chiesa.

C. Dal fatto che la Chiesa assorbe dentro di sé la realtà temporale-politica deriva che la Chiesa altomodievale non é solo una realtà trascendente-soprannaturale, ma é anche città secolare, è anche impero, è anche la società terrena fatta totalmente di cristiani. Pertanto il fine che presiede alla vita di tale chiesa, il conseguimento del Regno di Dio, non può essere pensato soltanto nella prospettiva della vita soprannaturale, ma deve anche essere applicato alla vita temporale-politica: abbiamo pertanto una Chiesa che mira alla realizzazione del regno di Dio non solo in senso escatologico, ma anche in senso temporale. Da ciò deriva che il potere imperiale o regale , in quanto potere intra-ecclesiale, deve agire secondo il fine ecclesiale, deve agire cioè in vista del Regno di Dio: in tal modo si avvicina al potere dei sacerdoti, che pure è potere intra-ecclesiale (ovviamente) e pure agisce secondo la finalità ecclesiale: da qui la consacrazione degli imperatori e dei re, simile a quella dei vescovi; da qui l'uso di espressioni  come "rex et sacerdos ", “episcopus episcoporum", " gratia Dei rex"; da qui l’azione degli imperatori e dei re per la defensio o per l'espansione della Chiesa. Ma dal fatto che la Chiesa altomedievale persegue una finalità non solo soprannaturale, trascendente, ma anche temperale deriva che pure il potere dei sacerdoti, dovendo fare proprio il fine ecclesiale, finisce con l’avvicinarsi al potere dei re e degli imperatori: da qui l’inclusione tranquilla nella realtà feudale, da qui la partecipazione di papa Leone III alla nascita dell’impero medievale, da qui l'azione di Giovanni VIII per la scelta dei nuovi imperatori, Carlo il Calvo e Carlo il Grosso.

D. A questo punto si impone il problema dei due poteri. Come abbiamo visto, non si dà distinzione a livello di ambiti: non si può parlare di un potere sacro, che presiede all’ambito sacrale e di un potere secolare-profano, che presiede all’ambito secolare-profano: non c’è che un unico ambito onnicomprensivo: la Chiesa. Come abbiamo visto, neppure si dà distinzione a livello di finalità: ambedue i poteri agiscono direttamente per la realizzazione del regno ai Dio sia in senso escatologico sia in senso temporale. Neppure si dà distinzione quanto ad origine: sia il potere sacerdotale e sia il potere imperiale o regale hanno la loro fonte in Cristo, re e sacerdote: Lui é il vero dominatore, il principio universale di salvezza, il capo della nuova umanità: e Cristo dirige il suo unico corpo nella persona sacerdotale e nella persona regale: si ricordino i mosaici del triclinium del palazzo lateranense! Da questo fatto deriva che sia il potere sacerdotale, sia il potere regale/imperiale svolgono nella Chiesa una funzione ministeriale: non sono degli assoluti, non possono agire arbitrariamente, tutto il loro valore sta nell'essere riproduzione della volontà di Cristo e perdono valore, quando cessano di essere ministri di Cristo. Per tale via si raggiunge una concezione essenzialmente morale e religiosa del potere regale/imperiale.

Si dà distinzione solo a livello funzionale: al servizio dell'unico fine ecclesiale, potere sacerdotale da una parte e potere regale/imperiale dall’altra si trovano dotati di due ordini di mezzi distinti: il sacerdote si serve della Parola per distogliere dal male, per perdonare i peccati, per spingere verso il bene; il re si serve della spada per piegare i renitenti e per punirli, se ne é il caso: abbiamo qui la ripresa di un tema paolino: "Temi l'autorità, se fai il male, infatti essa non porta invano la spada: é uno strumento di Dio per fare giustizia e per castigare chi opera il male" (Rm 13,4): questo tema paolino nell’Alto Medio Evo trovava una sottolineatura efficace negli scritti di s. Gregorio Magno.

E.   E’ chiaro che i due poteri, in quanto funzionanti all'interno dell'unica Ecclesia universalis, in vista di un medesimo fine, vennero a trovarsi in relazione fra loro. Che tipo di relazione venne a stabilirsi? Fu una collaborazione di due poteri distinti? Oppure si ebbe la subordinazione di un potere all'altro? Per rispondere occorre prima di tutto considerare come di fatto si é posta la relazione tra i due poteri. Nel periodo, da noi considerato, possiamo distinguere tre momenti:

+        primo momento: comprende gli anni di governo di Carlo Magno ed il primo periodo del governo di Ludovico il Pio (cioè fino all’822). Abbiamo un esercizio del potere regale secondo modalità teocratiche: il modello è offerto dall’Antico Testamento [si noti che parlo delle modalità di esercizio e dico che sono teocratiche, ma ancora non giungo ad affermare che a tali modalità si sia pervenuti per una soggiacente mentalità teocratica o per contingenti ragioni storiche o per le due motivazioni insieme. Su ciò diremo più avanti].  Carlo e Ludovico all'interno dell'Ecclesia e in vista dell'unico fine ecclesiale esercitano un vero primato di conduzione, che si spinge anche sul terreno dogmatico (questione adozianista, questione iconoclastica) e sul terreno della costituzione ecclesiastica (partecipazione di Carlo e di Ludovico all'assegnazione degli uffici ecclesiastici, alla creazione di province ecclesiastiche e diocesi; provvedimenti di carattere ecclesiastico presi nei concili di Aquisgrana). Inoltre Carlo e Ludovico si servono di ecclesiastici alla loro corte; inviano ecclesiastici nell’impero come missi regii, affidano incarichi amministrativi e giudiziari a vescovi, legandoli all'apparato carolingio.

Questo primato di conduzione trova anche interessanti affermazioni scritte. Una lettera di Carlo, indirizzata al neo-eletto Leone III, così si esprime:

"A noi, secondo l'aiuto della divina pietà spetta di difendere dappertutto la santa Chiesa: all'esterno, contro le incursioni dei pagani e contro le devastazioni degli infedeli, usando le armi; all'interno favorendo la conoscenza della fede cattolica. A voi, o santissimo padre, spetta di elevare insieme con Mosè le vostre mani a Dio per aiutare i soldati, così che per la vostra intercessione e sotto la guida e per elargizione di Dio il popolo cristiano abbia dappertutto vittoria sopra i nemici del santo nome del Signore..." (MGH Epistolae IV, 137-138).

Il papa sembra ridotto al ruolo rituale della preghiera e Carlo invece sembrerebbe detenere il governo effettivo della Chiesa.

Il sacerdote Cathulfo, verso il 775, scriveva a Carlo Magno:

“Ricordati sempre che tu fai le veci di Dio Padre… Il vescovo invece é al secondo posto, fa soltanto le veci di Cristo” (MGH Epostolae IV, 503).

Si ricordi infine la lettera di Alcuino circa lo stato di decadimento in cui si trovano le due grandi autorità del mondo (papato e impero bizantino) circa il ruolo singolare, che in tale frangente é riservato a Carlo.

+ secondo momento: rappresentato dal periodo della decadenza carolingia, periodo che si apre con la seconda fase del governo di Ludovico il Pio. In questo secondo momento si assiste ad un'ascesa del potere sacerdotale ad un primato di conduzione: abbiamo certe iniziative, per esempio del papa, dove si riscontrano modalità di esercizio di carattere ierecratico [anche in questo caso vale l’osservazione precedente circa il carattere teocratico]. Papa Niccolò I (858-867) a Lotario II, figlio dell'imperatore Lotario, impose di attenersi alle disposizioni pontificie nella questione del suo divorzio e lo costrinse a rinunciare alla nuova sposa. Giovanni VIII (872-882) giunse addirittura a comportarsi come principale dispensatore dell'impero.

+            terzo momento: siamo all'impero ottoniano. Gli imperatori tedeschi spengono praticamente il papato: impongono i loro candidati, depongono i papi eletti dall'opposizione romana. Nella politica di feudalizzazione condotta dai sovrani tedeschi sono coinvolti non solo i duchi ma anche e soprattutto i vescovi e gli abati, che insieme con l'ufficio ecclesiastico ricevono dal re ampi benefici: l'attribuzione di benefici agli ecclesiastici ebbe un notevole sviluppo in quanto in tale modo il re poteva arginare la tendenza dei vassalli laici a trasformare il feudo in un fatto ereditario: gli ecclesiastici, per via del celibato, non potevano certo avanzare pretese ereditarie!

Questi i fatti: si tratta ora di tentarne una valutazione!

Si deve forse ritenere che ci troviamo di fronte a due ideologie monistiche: da una parte l'ideologia ierocratica del papato, dall'altra l'ideologia teocratica dei sovrani? Il primato di conduzione esercitato dagli imperatori va forse inteso come volontà di subordinare il potere sacerdotale a quello regale? E viceversa, il primato di conduzione esercitato dal potere sacerdotale nel secondo periodo, va forse inteso come volontà di subordinare il potere regale a quello sacerdotale? Riterrei di no.

La distinzione delle due funzioni è sempre rimasta chiara. Alla base di quelli, che ci appaiono come sconfinamenti, non dobbiamo collocare un'ideologia monistica, ma semplicemente la necessità storica: dovendo i due poteri agire all'interno dell'unica Chiesa ed in vista del medesimo fine, in circostanze particolari si sentirono in dovere di supplire alle debolezze e alle carenze dell'altro potere. Di fatto a prevalere fu soprattutto il potere regale: ma tale prevalenza si fondava sulla "forza" della base realistico-territoriale, che veniva usata a servizio della Ecclesia.

Del resto in quel tempo di barbarie e di incerto inizio di un nuovo assetto socio-politico solo il pugno di ferro poteva dominare la situazione. L’attimo di prevalenza del potere sacerdotale coincide con la frantumazione della base realistico-territoriale del potere regale e con la fase dell’anarchia particolaristica.

Pertanto non si può parlare di una teocrazia regale vera e propria: il sacerdozio non divenne mai "instrumentum regni", ma, accanto al regno, fu una funziono dell'unica Ecclesia, sia pure secondo un ruolo meno rilevante. D’altra parte non ha senso considerare la dedizione del regno al fine della Ecclesia come una ierocrazia: il regno non venne asservito al sacerdozio, ma, insieme con il sacerdozio si trovò ad essere funzione, che agiva in ordine ad un fine, che accomunava potere sacerdotale e potere regaIe in un ruolo ministeriale: il servizio dell’Ecclesia.

Dunque si dovrebbe tacciare di semplicismo ogni interpretazione radicalmente monistica.